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La Metis e l’Eroe

L’idea della zona di confine me l’ha ispirata tempo fa Jean Baudrillard.
Lui rispondeva alla domanda al tempo inevitabile su The Matrix sottolineando come  nel fllm i fratelli Wachowski, scegliendo di far vivere i personaggi o nella Matrice, cioè nella digitalizzazione delle cose, o radicalmente al di fuori, a Zion, abbiano di fatto rinunciato a mostrare ciò che accade nella zona di confine tra i due mondi, trascurando così l’aspetto più interessante della questione.
Io ho pensato invece alla zona di confine come a uno spazio di intersezione, come a opportunità che troppo spesso non vediamo, presi come siamo dal bisogno di più rassicuranti categorie come bianco o nero, buono o cattivo, giusto o sbagliato.

La Metis invece m’è tornata in mente grazie a Francois Jullien (Trattato dell’efficacia, Einaudi, 1998; Pensare l’efficacia, Laterza, 2006), al suo racconto dell’Ulisse dalle mille risorse, dell’Ulisse abile, astuto, ingegnoso, polytropos:
“La metis […] “il fiuto”, così come si parla di fiuto negli affari. […]
La metis è […] la capacità di trarre vantaggio dalle circostanze, di vedere come la situazione evolve e sfruttare in essa l’orientamento favorevole. […] Dare prova di metis significa scoprire i fattori “portanti” in seno alla situazione per lasciarsi trasportare da essi”.

Il Surfare come alternativa al Modellare, la capacità di cogliere l’occasione (Kairòs) come alternativa al dominio dei Mezzi e dei Fini: è questa in sostanza la via che Jullien suggerisce di esplorare.

Un’alternativa nella cultura | Lo sconvolgimento del pensiero | Riaprire altri possibili nel proprio spirito | Per essere efficaci: modellizzare | O appoggiarsi sui fattori “portanti”: “surfare” | Domanda: quali sono i limiti di fecondità del modello? | La conduzione della guerra, non essendo modellizzabile, è forse per questo incoerente? | Nelle “Arti della guerra” cinesi: la nozione di potenziale della situazione | Sul coraggio: qualità intrinseca o frutto della situazione? | Valutazione – determinazione | Mezzo – fine | O condizione – conseguenza | Elogio della facilità | Processo: meditare sulla crescita delle piante | Modalità strategiche: l’indiretto e il discreto | Sul versante europeo: azione, eroismo, epopea | Sul versante cinese: il non agire | Azione / trasformazione | Mitologa dell’evento | Si tratta di empirismo? | Anche un contratto è in trasformazione (ma ance l’amicizia è un processo) | Progresso / Processo | Come pensare l’occasione? | Traslazione: efficacia / efficienza |   Obiezioni | La lunga marcia è un’epopea? | Cercare un margine per sopravvivere (anziché sacrificarsi) | Deng ha “trasformato” la Cina | Che cos’è un grande politico?

Filosofia | Saggezza
Attaccarsi a un’idea | Essere senza idea (privilegiata), sensa posizione fissa, senza io particolare, tenere tutte le idee sullo stesso piano
La filosofia è storica | La saggezza è senza storia
Progresso della spiegazione (dimostrazione) | Variazione della formula (la saggezza va rimugnata, “assaporata”)
Generalità | Globalità
Piano d’immanenza (che taglia il caos) | Fondo d’immanenza
Discorso (definizione) | Osservazione (incitamento)
Senso | Evidenza
Nascosto perché oscuro | Nascosto perché evidente
Conoscere | Realizzare (to realize): prendere coscienza di ciò che si vede, di ciò che si sa
Rivelazione | Regolazione
Dire | Non c’è niente da dire
Verità | Congruenza (congruo: perfettamente conveniente a una data situazione)
Categoria dell’Essere del soggetto |Categoria dl processo (corso del mondo, corso della condotta)
Libertà | Spontaneità (sponte sua)
Errore | Parzialità (accecati da un aspetto delle cose, non si vede più l’altro; non si vede che un angolo e non la globalità)
La via conduce alla Verità | La via è la percorribilità (per dove “va”, per dove è “possibile”)

Una filosofia ospitale *

di SALVATORE VECA

* Intervento conclusivo di Salvatore Veca alla presentazione del libro Dell’Incertezza, edito da Feltrinelli, tenuta all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici nel 1997

Che dire giunti a questo punto? Forse due o tre cose di cui sono certo.
La prima è la gratitudine nei confronti di chi ha promosso questa iniziativa, nei confronti di chi l’ha ideata, e l’amicizia e il riconoscimento dell’impegno che c’è stato nel prendere sul serio questo mio libro e nell’interagire.
La seconda cosa di cui sono certo, ne ha parlato Sebastiano prima, è che io presentai qui, nelle “Cinque meditazioni filosofiche”, era l’ottobre del ’91, alcune delle idee da cui è nato questo libro. Esse in realtà sono rimaste tali, forse un po’ complicate dal lavoro di questi sei anni, e sono quindi molto felice, in senso non formale, di essere qui. Al di là del mio amore proustiano per Napoli e del mio legame biografico e personale con questa città, l’Istituto per gli Studi Filosofici e altri grandi istituti di Napoli costituiscono quella cerchia stabile di riconoscimento di cui parlava Maffettone.
Il terzo tipo di cose di cui sono certo è che voi siete persone molto gentili e pazienti, che avete ascoltato interventi molto impegnativi.
Proprio per questo ho il terrore adesso di essere sadico. Non svilupperò quindi repliche in modo analitico rispetto a quello che è stato detto. Cercherò di prendere spunto da alcune delle cose dette per fare un commento, e nel fare questo cercherò di dire che cosa è sembrato a me di fare facendo ciò che poi sta nelle letture che altri danno e che altri ancora daranno di questo tentativo filosofico.

Comincio con l’esplorare l’incertezza. Moretti ha colto alcuni punti che per me sono fondamentali. Uno dei punti fondamentali è esattamente quello della connessione. Questo libro qui, Ocone ha in un certo senso ragione, è “un libro di una vita”. Spero per la verità di farne altri due o tre, ma c’è un punto, una pagina del libro in cui presento le dieci proposizioni connesse, che sono quelle che chiamo i miei punti di riferimento sicuro nell’ambito del vagabondaggio e delle meditazioni.
Questa è un po’ l’idea che ho sempre avuto per un luogo letterario che mi ha sempre affascinato da ragazzino, che è la scena dell’evocazione delle madri nel secondo Faust, in cui Mefistofele, parlando a Faust del luogo delle Madri, il luogo dove queste tessono fili, dice: “Questo è il luogo della Gestalt und ungestaltung”. E con questo spero di non essere più accusato di fare solo cose inglesi o americane !
Io vengo come educazione filosofica dalla filosofia tedesca, dalla fenomenologia di Husserl. In questo senso dico che le mie meditazioni sono antihusserliane, perché sono convinto che il grande divorzio avviene sugli stessi tipi di questioni, non su questioni diverse, quando abbiamo da un lato la risposta di Frege e poi la risposta di Wittgenstein, e dall’altro l’eroico tentativo di Husserl.
In questo senso le mie si chiamano meditazioni in omaggio, per gratitudine filosofica, verso le Cartesianische Meditazionen di Husserl, o le Meditationes Parisiennes di Husserl, e in questo senso sono anticartesiane, così come sono anche antiplatoniche, anche se naturalmente uno che fa filosofia non può che essere grato a Platone se fa filosofia dalle parti che noi chiamiamo occidentali. Se invece è confuciano sarà deferente verso Confucio.

Quando ho pensato questo libro, in realtà ero perseguitato da un’idea che ho da molti anni. Volevo scrivere un libro che ho inseguito per molto tempo, che si chiamasse “Nodi”. E’ un’idea nella quale c’è molta autobiografia, ci sono vari registri di lettura, e, come mi diverte ricordare, molti miei amori: per la filosofia, per le persone, per le donne. Avevo allora una fidanzata che mi portò da Londra “Knots” di Lange, un libro molto divertente. Era buffo che fossi innamorato assieme di lei e dell’idea di scrivere un libro che si chiamasse “Nodi”, un libro che fosse basato sull’idea di trovare dei punti di intersezione, delle matrici sostanzialmente comuni. Si tratta dunque di una mia vecchia mania, in questo senso kantiano trascendentale, come diceva Sebastiano. Quando questa ragazza, una ragazza molto affascinante, mi portò “Nodi” mi dissi: “Fantastico!”. Ero convinto di scrivere subito quel libro e invece, finito quell’amore, finì anche il tentativo di scrivere “Nodi”. Ma è rimasta questa idea delle connessioni.
Moretti ha perfettamente ragione sulla questione. In un certo senso (provo a dirlo così) almeno uno dei punti intorno a cui ruota continuamente la ricerca, i cui esiti sono presentati qui, è una idea molto semplice. Alla quale sono arrivato da più parti. L’intero libro l’ho costruito a partire da più parti. Alcune cose sono artefatte, lo riconosco, ma rientrano nella educazione alla comunicazione. Altre sono profondamente sincere.

Le cose si sono svolte più o meno così. Partivo da un tipo di problema e finivo per trovare una certa fisionomia dell’argomento, una certa forma, nel senso in cui Dalisi parlava di forme. (Gli argomenti hanno delle forme, hanno delle gestalten, hanno certe strutture). Il mio problema originale, era quello che io chiamo “della conversione continua di un mondo non nostro in una realtà condivisa”. Questo vale nella scienza, nell’etica, nella politica, nei linguaggi dell’arte, e vale quindi per quanto attiene ai nostri modi di fare teorie su “ciò che vi è”, sui nostri modi di fare teorie su “ciò che vale”, sui nostri modi di fare e rifare teorie su “chi noi siamo”.
Sono partito da qui per ritrovarmi con domande molto semplici. Uno dei registri fondamentali del libro è quello su “che cosa è importante”, cioè sulle gerarchie di importanza. La mia idea è che l’importanza è connessa, come tutti sanno, basta pensarci su, semplicemente all’esperienza di perdita, reale o virtuale che sia.
Perdi una persona a cui sei stato molto legato, e dopo dici: “Quella persona contava molto per me!”. Se uno fa l’esame della propria vita e dice: “Chi ha contato nella mia vita?”, cos’è che fa? Sottopone a una variazione rispetto alla stabilità, in cui non ci poniamo grossi problemi se una persona è più o meno importante per noi, la torce e a un certo punto, vedendo chi supera la prova, scopre chi è più importante di chi.
Naturalmente nelle nostre vite possiamo variare la metrica. Può darsi che per me a quindici anni, o che per me a cinquant’anni o che per me a settant’anni, ci saranno riattribuzioni di peso e di importanza, così come ci sono persone particolarmente coerenti, non sempre è una virtù, che continuano ad avere la stessa metrica per lunghi tratti di vita.

Ma perché siamo tipi che fanno teorie? La risposta è semplicissima. Facciamo teorie quando qualcosa non funziona, quando abbiamo qualche grattacapo. Il mio argomento non è affatto originale. Basta leggere Platone e Aristotele in proposito. Che cosa vuol dire che qualcosa non funziona? Non banalmente che vi è incertezza (quella c’è sempre), ma che si altera la partizione tra l’ammontare di certezze di cui disponiamo in diverse arene, in diversi ambiti. Prendi certezza, vai a partizione 1, poi fai incertezza partizione 0. Spostandoti tra 0 e 1, vai nei casi medi. Perché sui casi estremi avrai da un lato la perdita e dall’altra il tedio.
Questo libro è strutturato su questa idea elementare.
Spesso facciamo teorie rozze su di noi, quando accade che qualcosa non funzioni o che qualcosa in qualche modo altera la partizione tra quanto è certo per noi su noi e quanto è incerto.
Facendo teorie su che cosa mi sta succedendo, per esempio, è evidente che se è garantita la circostanza della stabilità quanto all’identità, l’identità non è un gran problema. Quando allora è importante saperci chiamare in certi modi e contare su una riserva di riconoscimenti etero e auto stabili in certi modi? Quando c’è minaccia su ciò.

È evidente che la minaccia sull’incertezza nei riconoscimenti non è necessariamente un disvalore. Lo è a certe condizioni. E’ questo il tipo di problema, il punto cui io sono arrivato partendo dalla questione della condivisione.
Sentivo questo problema e, d’altra parte, mi muovevo nell’ambito del tipo di ricerca che è stata la mia più familiare negli ultimi quindici anni. Lavoravo su teorie concernenti ciò che vale, dove ciò che vale non è esclusivamente ciò che eticamente vale, ma è lo spazio in cui la questione non è “che cosa avviene”, ma “che cosa per noi vale”, lo spazio quindi che noi tracciamo quando non siamo più interessati o non siamo solo interessati a descrivere stati del mondo, ma a commentare stati del mondo. I valori entrano nel mondo quando noi siamo impegnati a commentarlo. Parlando dell’auto scassata all’ingresso del museo di Stoccolma, Dalisi ha affermato di avere avuto un’emozione. Ha detto più o meno precisamente “Ho visto un’auto su di una colonna e ciò mi ha dato un’emozione “. Beh, quando dice questo, Dalisi non sta dicendo: “Lì c’è una macchina lunga x, con cilindri y, di colore z, e così via “. Sta commentando l’esservi quell’oggetto nel mondo. Questa è l’esperienza artistica. Un poème dit le monde diceva Baudelaire. Così fa un quadro in forme differenti, e così fa l’oggetto.

Per tornare al mio “problema”, non ero soddisfatto delle soluzioni che da un lato l’utilitarismo, e dall’altro la teoria della giustizia come equità, o il contrattualismo, davano dei criteri di giustificazione degli assetti delle istituzioni fondamentali o della politica, o delle polis. Avevo cercato quindi di lavorare su quell’idea che viene riformulata nel secondo capitolo della seconda meditazione, l’idea dell’utilitarismo negativo, cioè l’idea della minimizzazione della sofferenza socialmente evitabile, e poi di definire di nuovo quella sorta di continuum per il quale a noi può accadere di spostarci dalla condizione in cui siamo pazienti (una società ingiusta è una società che non riduce la sofferenza, per quanto è socialmente possibile, di pazienti morali. È il caso del “deficit del bisogno” per intenderci), ad un altro estremo in cui il deficit non è un deficit che riguarda il nostro essere pazienti, ma il nostro essere agenti, cioè il nostro essere o aspirare ad essere costruttori di noi con altri, con tutto quel che ne consegue.
E allora, tra utilità e diritti, cercavo di uscire dall’impasse.
Lavorando in quell’ambito, a un certo punto mi sono trovato alle prese con la questione di quelle forme di vita in comune entro le quali noi ci trattiamo e ci riconosciamo in cerchie di mutua fiducia.

Ocone ha ragione a dire che nel libro c’è una massima di eticità. C’è infatti, ma non è esplicitata. Perché quando io parlo del fatto che vi siano comunità di condivisione, non intendo necessariamente che siano delle comunità che loderei. Una comunità di condivisione può anche essere la mafia. Ci sono buone e cattive compagnie, ma in quel caso conta il fatto che siano compagnie, non il fatto che siano buone o cattive.
A un certo punto mi sono chiesto così che cosa volesse dire il fatto che il linguaggio per noi non è un optional, il fatto che non essendo degli ego cartesiani disincarnati, nascendo siamo immersi in un sacco di cose che non abbiamo contribuito a fare, tra le quali innanzitutto il linguaggio. La faccenda è tutta qui.
Noi non scegliamo di nascere, e una volta nati ci troviamo (questo è il tema importantissimo della contingenza) in un mondo che può piacerci o meno, ma non abbiamo contribuito a fare. A questo punto mi sono detto che dovevo lavorare al linguaggio.
Sono grato a Sebastiano e a Vincenzo che hanno sottolineato la questione della centralità del linguaggio, perché l’argomento che presento sul linguaggio, è basato sull’idea che la sua importanza dipenda dalla questione dei limiti del linguaggio (e questo di nuovo diventa un argomento a matrice). L’originalità del mio argomento non sta naturalmente in questo, ma nel fatto che connetto tutto questo all’idea di importanza. Questa è la sola cosa originale che c’è nella mia tesi nella prima meditazione.

Mi sono trovato ad affrontare così le questioni attinenti alle nostre transazioni linguistiche, negli intorni non linguistici. Di nuovo i problemi della verità e del significato sono diventati per me un dilemma relativo alle condizioni – o come si dice – ai beni sociali primari senza i quali la comunicazione riuscita è esposta ai rischi del fallimento e dell’insuccesso.
Mi sono allora chiesto: “Ma perché pensare che l’idea di una comunicazione fallita sia un male?”. Non potremmo semplicemente pensare che la cosa non va?
Mi sono chiesto a lungo che cosa volesse dire il fatto che falliscano atti linguistici tra persone (perché atti linguistici tra persone richiedono atti non linguistici, in affari, in politica, in amore, con i figli, con gli scugnizzi, con i nostri studenti, con i colleghi, in bicamerale..), e in che cosa fosse un male il fatto che noi non riusciamo nel perseguire il fine della buona comunicazione (o del “bene comunicare” come io la chiamo).
È un male perché il fallimento annuncia scomuniche, esclusioni, e quindi solitudini involontarie.
Il tema della solitudine involontaria, che è uno dei leit motiv, una delle proposizioni centrali, è venuto per questa via, e mi è sembrato qualcosa che mi permetteva di connettere campi molto diversi.
Immaginate una storia di solitudine cognitiva per quanto attiene alla verità! La verità non avrebbe alcuna importanza per noi se per esempio fossimo tutti parte di un singolo enorme superindividuo. E questo è il grande problema che abbiamo in teodicea. Immaginate le secessioni rispetto alle comunità di condivisione di ciò che vale! Ne abbiamo esempi qui e là nel mondo, in posti anche molto vicini. Immaginate il conflitto delle interpretazioni per quanto attiene agli stili o ai linguaggi dell’arte! E allora immaginate quando Kandinskij fa “Le sacre du printemps” e questi schiodano le poltrone, o quando Schonberg altera la forma canonica! Pensiamo a quella battuta leggendaria di Picasso, quando a chi gli rimproverava la scarsa somiglianza di un ritratto all’originale, risponde: “Che importanza ha? Gli assomiglierà!”. C’è tutto in questa affermazione! C’è l’idea della responsabilità di Picasso nel costruire mondi per uditori di riconoscimento illimitati nella durata, che non coincidono con le preferenze reali e non critiche dei consumatori di quadri di quel momento lì. Questa cosa mi ha permesso di catturare un altro pezzo di teoria. Ma attenzione!. Questa non è una teoria dell’incertezza, come ho sentito dire spesso (non in questa sede fortunatamente!). Se c’è un elemento di sfondo, di nuovo questo è il tentativo di suggerire modi di guardare a noi stessi in un mondo di incessante deformazione. La mia quindi è una tesi sul cambiamento, anche se piuttosto bizzarra (bizzarra perlomeno rispetto alle cose che si usano dire).

L’idea è che noi siamo dei tipi maledettamente conservatori, e che per noi l’incertezza e l’instabilità sono un male, per cui tendiamo a ridurre l’incertezza e a preferire più stabilità piuttosto che meno (tutte cose insomma che generano e corroborano l’identità). Immaginate che fosse soddisfatta la richiesta che i prospetti fossero meno incerti! Nessuno di noi si riconoscerebbe in un mondo che avrebbe il tedio della certezza! Questo è un argomento a cui sono arrivato lavorando per quattro anni su venticinque pagine di Bernard Williams sul tedio dell’immortalità, un testo maledettamente difficile, filosoficamente straordinario, che è il caso Elina Makropulos, l’opera di Janacek.
Noi siamo dei tipi che mirano a ridurre l’incertezza, sotto la condizione naturalmente che l’annuncio di incertezza sia disvalore (questo è evidente!). Ed è razionale e ragionevole per ciascuno di noi ridurre l’incertezza quando essa è minacciosa. Assumiamo di riuscire a farlo e cadiamo sotto il tedio della certezza! Per fortuna, il destino è in qualche modo quello di Sisifo. Cioè la nostra riduzione di gradi di incertezza altera l’ambiente entro cui si è generata incertezza.
Mentre discutevo questa cosa l’anno scorso (avevo quasi finito il libro), mi fu fatta questa domanda: “Ma allora come puoi credere che noi possiamo pensare mondi alternativi. Dove va a finire un pensiero dell’utopia, in senso non negativo del termine?”.
Io parlo di utopia ragionevole proprio nelle ultime battute del libro, prima dell’elogio della filosofia, la cui formulazione è veramente un omaggio a Merleau Ponty, venendo io da Husserl. Che cosa sono allora le utopie? Come noi pensiamo mondi migliori, politicamente migliori o eticamente migliori? Noi costruiamo offerte di mondi vivibili, entro mondi vitali che sono un casino! Nel mondo vitale ci sono leggende metropolitane, teologia, metafisica, un po’ di televisione. C’è tutto. Noi facciamo allora offerte di mondi vivibili in quanto cerchiamo di sottrarre, immunizzare, rispetto all’incertezza, cose che valgano per vite migliori. Quindi offriamo comunità di condivisione. Ma offrendo comunità di condivisione, noi lavoriamo con quello che abbiamo, cioè con i pezzi di realtà che sono l’eredità, le impronte (come la macchina lassù sulla colonna) di ciò che ha corrisposto ad altri equilibri che si sono rotti. In questo senso è un problema di equilibrio e disequilibrio.

Pensate alla formazione delle agenzie di tutela o di definizione di interessi collettivi, come quelli sindacali o unioniste, e alla storia dei movimenti di associazione non politica degli interessi dei salariati in Europa! Quali sono i grandi testi con cui nasce il cartismo, le credenze con cui si organizzava l’azione collettiva? Erano i grandi testi della tradizione religiosa seicentesca. Pensate al mix tra il positivismo e il Gesù dei poveri che caratterizzava la tradizione italiana, con cui si organizzavano le prime forme di azione collettiva a tutela di chi era pesantemente svantaggiato ! C’è un libro straordinario di Valenton Boar che fa un analisi comparata dello sviluppo della socialdemocrazia tedesca, in cui voi vedete qual è la cultura, quali sono le cose per cui la gente crede, che motivano le persone a fare certe cose e non altre. Tutti i processi di modernizzazione allora sono processi che spaccano gli orizzonti stabili. Tutto il problema della sociologia moderna è il problema di come fa una società a stare insieme una volta che vengano meno le legature tradizionali, una volta che vengano meno le assegnazioni di identità stabili per via ascrittiva.
Gino Germani, grande sociologo che ha insegnato all’università di Napoli, ha basato tutta la sua teoria della modernizzazione sullo spostamento del confine tra quanto è ascrittivo e quanto è elettivo. Posso dire allora che anche la mia offerta filosofica è un bricolage con i pezzi di passato con cui cerco di ridurre l’incertezza rispetto alle ragioni per sostenere gli argomenti. Questo è il punto che volevo sottolineare.

Devo due risposte a Sebastiano. Una è sul problema del pragmatismo neotrascendentale. Per dirla con una battuta, la mia prospettiva è una prospettiva fondamentalmente tributaria nei confronti di Quine (in particolare il Quine di Relatività ontologica), con un punto però. La domanda su “come è possibile che”, quella che credo in questo senso sia una domanda trascendentale, io la mantengo. In questo senso tutto il libro è percorso da questa continua domanda: “Come è possibile che?”. I modi con cui rispondiamo sono però (qui me la cavo con una citazione) più simili agli strani muri maestri di Wittgenstein, di cui si può dire che sono sorretti dall’intera casa ( e questo secondo me è il pezzo olistico quiniano), piuttosto che a condizioni immunizzate rispetto a qualsiasi incertezza di tipo kantiano. E ciò dipende da come lavoriamo sulla risposta allo scetticismo.
Personalmente sono dell’idea che il trascendentale che accetto è il trascendentale che risponde scetticamente alla manovra scettica. Questa è la cosa che direi. Queste sono cose poi che solitamente discutiamo nei seminari per filosofi ma sono cose importanti perché sono legate all’idea del mutamento e dell’evoluzione, e quindi anche del mutamento e dell’evoluzione dei criteri che sottraiamo all’incertezza.

Sul problema del liberalismo politico, che ha ripreso anche Corrado Ocone in conclusione, sono invece d’accordo con Maffettone. Perché in fondo egli dice: “Quello che è filosoficamente importante, quell’insieme di cose che valgono, di valori che ciascuno di noi riesce ragionevolmente a sostenere e altri ragionevolmente accettano, deve essere indisponibile rispetto alle scelte di maggioranza”. Se è questa la sua tesi, io sono perfettamente d’accordo. Forse è diversa l’enfasi che le do. Avrete forse già letto il saggio di Sebastiano Maffettone e Ronald Dworkin sui fondamenti del liberalismo edito da Laterza. È un contributo importante che spiega perché Sebastiano dica in sostanza che se c’è qualcosa di filosoficamente rilevante da pensare, non è la procedura, non è l’applicazione ma il nucleo di valori che, se sono sostenuti da ragioni, per ciò stesso ciascuno di noi non accetterebbe o non dovrebbe accettare o si doglierebbe che fossero scippati dalla scelta collettiva.
Sono convinto (è qui il mio punto) che il pezzo certezza – incertezza è di nuovo legato in questo caso a quella che vedo come una tensione tra liberalismo, che intendo come costituzionalismo, e procedura di scelta aggregativa e democratica.

Questo non è un problema solo della Bicamerale. Lo stanno affrontando tutte le società a democrazia pluralistica. Stanno scrivendo la costituzione inglese che, come sapete, non c’è. La Costituzione tedesca è stata sottoposta a forti pressioni. Lo è stata naturalmente per la questione congiunturale degli asylanten, ma ancora adesso è aperta la discussione. In Francia pure ci sono forti pressioni. E naturalmente in tutta quella parte di mondo che il sisma geopolitico dell’89 ha messo in fibrillazione.
Dove si tentano arrangiamenti costituzionali, lì è il costituzionalismo. Mi sembra naturale. Ma attenzione! La mia idea è che la tensione tra liberalismo come costituzionalismo e democrazia come procedura per l’aggregazione delle preferenze individuali in scelte collettive si può nuovamente sintetizzare in questo modo: quanto più immunizzo, rispetto all’incertezza, la cornice costituzionale e istituzionale, tanto più virtuosa sarà l’incertezza democratica; quanto più esposta a incertezze è la cornice, tanto più viziosa sarà l’incertezza democratica. E questo si spiega con la tesi della scarsità politica che abbiamo discusso l’anno scorso in un seminario di filosofia politica. Quando uno percepisce come tirannico lo scippo da parte di maggioranze democratiche, sta facendo l’esperienza che nel secolo scorso, agli albori di regimi così instabili e imperfetti, e tuttavia migliori di tutti gli altri (per riprendere una battuta di Churchill), facevano quelli che esaminavano con occhi attenti le tendenze alle forme della tirannide democratica, alle tirannie politiche e alla tirannie sociali di maggioranza. Tutte cose curiosamente di vecchio sapore liberale che oggi in fondo ci troviamo tra i piedi, non perché come la massima parte degli imbecilli dice: “Siam tutti liberali” (questa è una delle cretinate standard), ma perché il grande ciclo che ha modellato la maggior parte delle società democratiche, pluralistiche, di democrazia costituzionale, ha in qualche modo finito, come in fondo è abbastanza inevitabile, per risolvere, attraverso l’inclusione democratica (cioè attraverso i diritti di cittadinanza, l’estensione del suffragio e l’inclusione ai diversi livelli), il grande problema con cui questi arrangiamenti e questi conflitti si sono stabilizzati in organizzazioni politiche e istituzionali.

Ma quando si risolvono dei problemi se ne aprono di nuovi. E i nuovi dilemmi sono tutti dilemmi che hanno il sapore liberale. Anche la discussione sulla riforma del Welfare, “Quale, perché, sulla base di quali criteri? Sulla base di quali principi?”, è una discussione tipica non solo in Italia (andate a vedere l’Olanda e la Svezia! Ogni paese ha il suo Zonderveg). Qual è il tasso di protezione ritenuto accettabile nei confronti dell’incertezza su classi di rischio significative della vita di un cittadino medio? Questo è il problema del Welfare, se uno vuole ridisegnare lo stato sociale sulla base di principi discutibili, controvertibili, eccetera. Non lo è se uno deve costruire lo stato sociale sulla base del precetto di giustizia distributiva “A ciascuno secondo le sue capacità di minaccia”. Questo riguarda tra l’altro il rapporto tra la forza e la comunicazione di cui parlavano Vincenzo Moretti e Sebastiano Maffettone.

Un’ultima osservazione. Sono stato molto colpito da quello che Ocone ha detto sulle impressioni che il libro gli ha generato. Farò una piccola confessione. Io ho scritto molti libri nella mia vita, e forse, in particolare tra gli anni ’80 e ’90, ne ho scritti troppi. Mia moglie ne è convinta. Ma mia moglie è grandiosa perché non prende molto sul serio la mia attività filosofica, e questa è una cosa straordinaria per me. Del resto, voi potreste prendere sul serio un compagno o un marito che lavora otto ore al giorno scrivendo, e al tempo stesso vivere felici? Non credo.
Ci sono vari modi per reagire. Il divorzio (ma ne ho già fatto uno), oppure non prendere sul serio quello che l’altro fa. Questo dà un buon senso dei limiti e dell’umiltà filosofica a chi ha delle idee di onnipotenza, come a tutti noi accade. Ma senza delirio di onnipotenza perché uno dovrebbe scrivere 420 pagine, cercando di menarsela con Platone, Aristotele, e Quine, che è il più difficile di tutti, almeno per me?

È proprio vero che in questo libro ho cercato, diversamente che in quelli precedenti, di comunicare a un uditorio non già determinato.
Quando ho scritto la “Società giusta”, nell’82, avevo di mira un uditorio determinato. E’ un po’ il discorso che facevamo prima su intellettuali e politica. Avevo davanti delle facce mentre scrivevo il libro. Avevo alcuni dirigenti delle élite dei partiti della sinistra, in particolare del Partito Comunista al quale sono rimasto sempre affezionato. Avevo alcuni (come si usa dire in Italia) intellettuali che erano in qualche modo dei professionisti del maneggio del discorso pubblico, quindi generanti beni di identificazione collettiva e di appartenenza. E dall’altra avevo altri intellettuali con cui interloquivo, ma non primariamente perché come me facevano filosofia o filosofia politica, ma perché avevano un certo ruolo e io avevo una certa aspettativa sul loro ruolo quanto alle vicende della discussione pubblica e della vita politica del paese.
Quando ho scritto “Questioni di giustizia” li avevo ancora in mente. Quando ho scritto “Etica e politica” era chiaro chi avevo in mente. Quando ho scritto “Cittadinanza”, ho scritto quel libro perché finalmente, secondo me, il partito comunista aveva affrontato la sfida dell’innovazione.
Nessuno di noi quando scrive sa poi quanto pesa il fatto che i libri, da coloro per i quali sono stati scritti, siano letti in certi modi. E soprattutto non prevediamo gli effetti non attesi. Semplicemente continuiamo a mettere messaggi nella bottiglia.
Questo libro ho sentito invece di doverlo scrivere non avendo di mira un uditorio determinato, ma pensando che chiunque in qualche modo potesse aver impressioni, percorrendo questa ricerca, fosse benvenuto nella cerchia dell’ospitalità.
È vero, questo è un libro difficile. Infatti a un certo punto non mi ricordavo più niente di come lo avevo fatto, perché era troppo complicato. Ed è anche un libro che io stesso rileggendo, rileggo a vari livelli. Ma il fatto che sia chi in qualche modo fa parte della cerchia della ricerca filosofica, sia chi fa parte di altre cerchie, o anche semplicemente il fatto che persone che trovano una buona cosa esaminare riflessivamente le proprie vite, vi trovino impressioni e connessioni, per me è il massimo che potevo ottenere. Di questo sono felice e vi ringrazio di cuore.