Una selezione dei migliori speech e delle migliori interviste sul lavoro ben fatto. Nel caso vi venisse voglia di leggere il libro lo trovate qui: https://www.amazon.it/dp/B0863S4WTL/
Archivi categoria: #lavorobenfatto
Storie di lavoro ben fatto
AlphaBeta in Bottega: le foto
Sabato 9 Aprile 2022. Presentazione di AlphaBeta in Jepis Bottega.



















Le tovagliette di Michele
Caro Luca, oggi il nostro amico Michele Croccia ha pubblicato una sua foto accompagnata da un breve testo, le puoi vedere in ordine:

Amici, condivido con voi questa piccola gioia. Qualcuno già le ha viste, da qualche giorno stiamo finalmente usando le nuove tovagliette personalizzate, disegnate dentro Jepis Bottega e in collaborazione con Scritte – Manufatti Narrativi, un progetto tutto cilentano. Come sempre ci piace aggiungere un po’ di magia anche qui: questa prima stampa è numerata 001 e saranno edizioni limitate e uniche. La prossima stampa sarà la 002, con altri temi e altri messaggi che gireranno attorno al mondo della Pietra Azzurra. Ci piacerebbe anche ricevere vostri pareri e suggerimenti, sia qui che di persona. Fateci sapere.
#lieviti
Michele come accade spesso ha fatto prima di me, ma la cosa naturalmente mi ha fatto piacere a prescindere, aggiungo di più, mi ha fornito il pretesto per aggiungere una piccola cosa, riguarda i quadratini che puoi vedere a destra, i QR Code, che danno la possibilità di guardare dei piccoli documentari girati da Giuseppe che hanno accompagnato il suo cammino di pizzaiolo contadino e narratore. Quello che voglio sottolineare è che sono contenuti veri, non spot pubblicitari, possono essere visti nell’attesa non solo per curiosità e per diletto ma anche per “rubarsi”, come avrebbe detto tuo nonno, un po’ del mestiere di Michele, che dice tante cose interessanti per comprendere il suo rapporto con il lievito e la pizza.
Un’ultima cosa prima di salutarti, prima della prossima uscita proporrò a Giuseppe e Michele di fare una chiamata, una call to action come dite voi, per chiedere agli amici e ai clienti de La Pietra Azzurra di proporre un video da stampare sulla tovaglietta, ad ogni nuova uscita ne selezioniamo uno e mettiamo il QR Code, ripeto, magari è una scemità, ma magari no, e in ogni caso tocca a loro decidere. Alla prossima.
Michele, Zoff e il lavoro ben fatto
Caro Luca, questa mattina il mio amico Michele Kettmajer mi ha inviato una mail intitolata “Un abbraccio amico mio” con l’estratto di una intervista a Dino Zoff per i suoi 80 anni, questo estratto:
A casa la colazione e il pranzo di un piccolo-grande Dino che doveva diventare «alto e forte». Raccontaci come tua nonna andava giù di uova.
Ero un po’ delicato nel mangiare, non mi piacevano tante cose e non c’era tantissimo una volta nelle dispense di casa. Allora la nonna ha cominciato con le uova e per alcuni anni viaggiavo con due o tre uova al giorno. Energia ce n’era e si consumava tanto. La gioventù dei miei tempi, è brutto parlare dei “miei tempi”, però nei paesi, c’erano spazi e possibilità di gioco. Non esisteva mica la scuola calcio. Si giocava a pallone tra amici, anche per sei ore di fila, da fine scuola fino a cena.
E a casa che dicevano?
Mio padre, da buon friulano diceva sempre «bisogna lavorare bene. Non ha importanza che lavoro fai, l’importante è lavorare bene». Poi non si parlava molto, certe cose erano “scritte” dappertutto, anche se non erano scritte. Per dire che non c’erano scuse su niente. Quando giocavo in Serie A, presi un gol e mio padre mi disse: «Ma come mai quel gol lì?». Io risposi: non mi aspettavo che tirasse. E lui secco: «Ma perché, cosa fai, Il farmacista? Se non te lo aspetti te che fai il portiere…». Aveva ragione, lavorare bene.”
È tutto figlio mio, sono stato contento, e te lo volevo dire.
chi lo ha detto che è una sciagura?
Vado subito al punto, dunque sarò necessariamente schematico, anche perché su questo punto con i pochi amici con i quali ancora parlo di queste cose insisto da almeno due anni: da tempo il Partito Democratico come progetto politico ha esaurito la sua spinta propulsiva, si è dimostrato incapace di interpretare e fare sintesi della domanda e dei bisogni di quel pezzo composito di società che intendeva rappresentare, per intenderci una buona parte di coloro che – come me – si riconoscevano nel progetto e nel programma politico del PCI e una parte – di fatto non altrettanto significativa – di coloro che invece si riconoscevano nella DC, nel PSI e in altri partiti minori.
Come si può scrivere in un post come questo (che non è un saggio) direi che nel corso degli anni, non solo questi ultimi, la difficoltà a «dire qualcosa di sinistra» si è fatta sempre più evidente, complici la perdita di egemonia culturale, i vincoli di bilancio posti dalla Germania e subiti dagli altri paesi, la scarsità di elite e classi dirigenti all’altezza delle sfide sociali, politiche ed economiche poste dalla contemporaneità.
Non è certo un caso che le difficoltà accomunino la sinistra in tutta Europa e più in generale il fronte democratico e progressista nel mondo. Ripetiamolo: nella contemporanietà la sinistra ha da molto tempo una diffusa difficoltà a intercettare le domande che vengono dal «popolo», dalla «gente», sempre meno dai «cittadini» dato che il concetto di cittadinanza presuppone un rapporto con le libertà, i diritti e i doveri sempre meno presupposta negli americani che si riconoscono in Trump o negli europei che si riconoscono in Le Pen, in Grillo e Casaleggio, in Erdogan, in Salvini e compagnia cantante. Non c’è più soltanto, forse neppure prevalentemente, una questione di programmi, c’è una questione di riconoscimento, di identità, di velocità, di delega, di ricerca di donne e uomini forti a prescindere dalla loro capacità di risolvere problemi, insomma di governare. Da questo punto di vista, Roma mi pare un esempio paradigmatico di questo stato di fatto – ma di questo magari ragionamo in un’altra occasione.
Ritornando al punto: dopo la sentenza della Corte Costituzionale e con il nuovo sistema elettorale che da essa è scaturito (e del quale comunque bisognerà tener conto nell’eventuale approvazione di una nuova legge elettorale da parte del Parlamento), conviene presentarsi al voto con due liste, una del PD di Renzi, e un’altra – la chiamo per comodità il PD di Bersani, D’Alema e Altri – che dopo le elezioni, se ci sono le condizioni in termini di voti e di seggi parlamentari, si siede e stipula un patto di alleanza basato su un programma di governo.
Si, quello che penso io è che la somma dei voti che vanno al PD di Renzi con quelli che vanno al PD di Bersani e D’Alema sarà maggiore dei voti che prende il PD se continua la coabitazione forzata di Renzi, Bersani, D’Alema.
A sostegno di questa mia affermazione ricordo innanzitutto che tenere assieme cose diverse non ha mai portato bene alla sinistra dal punto di vista dei voti elettorali.
È stato così dal 1948 con il Fronte Democratico Popolare fino al «i Progressisti» (PDS, PRC, Verdi, Partito Socialista Italiano, Alleanza Democratica, La Rete ed altri) del 1994, dall’apparentamento con Di Pietro del 2008 fino alla recente esperienza con Vendola nel 2013.
In secondo luogo, penso che il PD di Renzi abbia dei suoi elettori, dei suoi tifosi e anche dei suoi ultras, che naturalmetne sono assai lontani dal 40 percento di cui parla l’ex leader ma hanno comunque una loro forte consistenza, come lo stesso risultato del recente referendum dimostra. Lontani dalla demagogia, e fermo restando la sonora e meritata sconfitta dell’ex Presidente del Consiglio, i voti presi dal Si con i problemi che ha il Paese e avendo contro praticamente tutti compresa una parte significativa del suo partito – in particolar modo al Sud – non sono affatto pochi. Penso che sarebbe interessante ragionare seriamente del perché Renzi ha questo seguito, ma non si può fare adesso e soprattutto non si può fare qui.
In terzo luogo, considero molto realistica la possibilità che il PD di Bersani D’Alema e Altri raccolga un risultato elettorale a due cifre. Anche in questo caso le ragioni di questo mio convincimento sono tante, ne cito una sola perché riguarda quelli come me, quelli che che ritroverebbero per questa via le ragioni e le motivazioni per ritornare a votare, cosa che personalmente non faccio da un po’ perché non mi riconosco in questo PD né in piccole formazioni di sinistra – sinistra che almeno un tempo avevano il pregio di proporre cultura, idee, progetti, ma oggi fanno fatica – al di del valore dei singoli – a venir fuori dal triangolo potere, demagogia, burocrazia.
Perché lo voterei? Anche qui mi le risposte sono tante e richiedono un saggio perciò mi limito a una sola: perché penso che nel nuovo scenario – ammesso e non concesso che ci saranno i numeri per governare – la parte di Renzi la farà già lui – credo sia non solo necessariamente ma anche oggettivamente il più bravo in quella parte lì – e dunque il PD che voto io per dare senso alla sua esistenza dovrebbe necessariamente tornare a dare valore e rappresentanza politica al lavoro, alle questioni sociali, alle condizioni di vita delle persone normali, alla domanda di inclusione di chi non per propria colpa e in molteplici contesti si trova in difficoltà. Tempo fa l’ho definito il partito che non c’è. Ecco, io sarei contento se ci fosse, penso di non essere il solo ad avvertirne il bisogno, e quando leggo dichiarazioni come «dopo le elezioni cercheremo di condizionarlo da sinistra» immagino cose così, anche se non le dò per scontate, ma insomma ci spero e nel mio piccolo faccio qualcosa per contrbuire a fare in modo che si vada in questa direzione.
Cio detto, aggiungo – da persona che va verso i 62 anni e a cui non piace la parola rottamazione applicata alle persone e alla politica – che se Bersani e D’Alema se ne stanno non uno, ma due passi indietro è meglio. Non solo e non tanto perché poi a un certo punto il «popolo», la «gente» e anche i «cittadini» se lo ricordano che la riforma delle pensioni non l’ha fatta Renzi ma Fornero, Governo Monti, anche con i voti di Bersani; o che il Presidente della Bicamerale che poteva fare una riforma molto migliore di quella giustamente bocciata di Renzi era D’Alema; o dei problemi che ci sono stati quando quest’ultimo è stato presidente del Consiglio e Cofferati segretario della Cgil. Anche e soprattutto perché penso che da troppo tempo a sinistra manchi un po’ di generosità, una disponibilità a fare politica senza stare necessariamente in prima fila, senza mettere ogni volta la propria prorompente personalità al primo posto, soprattutto quando al primo posto si è già stati più volte.
Cio detto, finisco davvero ricordando mio padre che mi diceva che «quando già i tempi sono difficili non è che ti puoi mettere pure tu a fare il difficile», perciò se nascesse il partito che per comodità ho chiamato qui «PD di Bersani, D’Alema e Altri» io lo voterei, che naturalmente per il futuro dell’umanità non vuol dire niente, ma per me si. Naturalmente non a prescindere, solo fine a prova contraria.
I disegni della Prima C di Modugno, Again
Questi i nuovi disegni della Prima C di Modugno inviati dalla maestra Francesca Di Ciaula. Se volete saperne di più sul lavoro che stanno facendo cliccate qui.
I disegni della Prima C di Modugno
Ecco i disegni e le foto della Prima C di Modugno inviati dalla maestra Francesca Di Ciaula. Se volete saperne di più sul lavoro che stanno facendo cliccate qui.
Lettere dalla Prima E
Le foto relative ai disegni delle bimbe e delle bimbe della Prima E dell’Istituto Comprensivo 83 Porchiano Bordiga di Napoli. Per saperne di più cliccate qui, per leggere l’intera storia il link giusto è invece questo qui.
Stati Generali delle Donne
Caro Blog, la mia amica Isa Maggi mi ha fatto un regalo. Mi ha invitato agli Stati Generali delle Donne, a Roma, per raccontare di #lavorobenfatto e di #lavoronarrato.
Accade domani Venerdì 18 Novembre a Roma. Dalle 9:00 alle 19.00. Alla Associazione della Stampa Estera in Italia, in Via dell’Umiltà 83c, e se vuoi saperne di più puoi visitare la pagina social dell’iniziativa che trovi qui.
Gli Stati Generali delle Donne saranno presenti alla quarta edizione de La notte del lavoro narrato, il 28 Aprile 2017, e insomma l’occasione è di quelle giuste per conoscersi e scambiare un po’ di idee.
Naturalmente ci sto pensando un po’ su, senza preparare cose da leggere che quando posso mi piace di più guardare negli occhi le persone mentre racconto le mie storie, ma anche senza trascurare niente, che per improvvisare bisogna essere preparati, perché altrimenti la parola giusta non è improvvisazione ma approssimazione, e l’approssimazione non ha nulla a che fare con il lavoro ben fatto.
Come dici? No, non ti preoccupare, non ti voglio anticipare la mia breve talk, sto solo facendo mente locale insieme a te, vorrei mettere in fila 3- 4 immagini, che poi le guardo e dico quello che devo dire. Si, dai, facciamo così, solo 4 immagini e 4 link, senza ulteriori commenti, che tanto se ti va di sentire puoi venire anche tu domani agli Stati Generali.
La prima immagine è questa:
Ecco la seconda:
Questa è la terza:
E infine la quarta:
I 4 link sono questi:
Lavorobenfatto
La Notte del Lavoro Narrato
#lavoronarrato2017
Il Manifesto del Lavoro Narrato
Grazie. È tutto. Alla prossima.
vincenzo moretti
moretti55@gmail.com
@moretti Twitter
vmoretti Facebook
Le mille e una #Cip
Spazi e luoghi per la crescita del lavoro giovanile
di Dunia Pepe
Ciao Vincenzo, continuo a seguire i temi trattati nelle tue rubriche e, tra gli altri, quello interessantissimo “Tutto il FabLab Napoli minuto per minuto”. Mi sembra particolarmente significativo seguire la narrazione di questo corso per giovani artigiani digitali con le testimonianze dei partecipanti, di coloro che hanno voluto ed ideato il corso, del tuo sguardo attento, delle persone esterne come la signora Veronica Testa che, nei giorni scorsi, ti ha scritto per raccontarti del suo perspicace figliolo il quale, come regalo per il suo settimo compleanno, ha chiesto proprio una stampante 3D.
Per ciò che riguarda le tematiche legate ai giovani, alle loro possibilità di occupazione, alla rinascita dell’artigianato in formato digitale come nuova possibilità di lavoro mi viene in mente un tema per molti aspetti parallelo e fortemente significativo. Da un lato, come tu stesso racconti nel tuo blog, si incoraggia la promozione del mestiere artigiano presso i giovani con la straordinaria innovazione legata all’utilizzo del digitale, delle stampanti 3D, della robotica. D’altra parte, qualcuno si sta occupando di recuperare degli spazi inutilizzati per la crescita del lavoro giovanile ed anche per la promozione di questi nuovi lavori.
Questo mi sembra, come ti ho detto, un tema significativo e mi viene in mente, in particolare, la figura ed il lavoro di Giovanni Campagnoli. Giovanni Campagnoli, che ho la fortuna di conoscere, si occupa dello sviluppo di politiche giovanili. Grazie ai suoi studi, alle sue ricerche ed al sito http://www.riusiamolitalia.it che cura insieme a Roberto Tognetti, Giovanni si interroga su come i tanti spazi inutilizzati e spesso dimenticati, sparsi nei nostri territori, potrebbero essere riportati a nuova vita soprattutto grazie alla creazione di start up giovanili di portata innovativa.
“Per la prima volta, scrive Giovanni Campagnoli nella Premessa del suo libro pubblicato nel 2014, Riusiamo l’Italia, i territori vivono un fenomeno nuovo, quello di trovarsi ‘pieni di vuoti’: significa cioè che sono diventati molti i luoghi abbandonati quali ex scuole, caserme, fabbriche e capannoni industriali dismessi, cinema chiusi, stazioni, negozi, abitazioni, uffici vuoti, così come gli spazi finiti e mai aperti… Tutti questi luoghi non abitati dalle persone pongono la questione di individuare nuove funzioni d’uso e nuove progettazioni. La sfida è ricercare le condizioni affinché questi spazi tornino ad essere luoghi significativi per la comunità locale, per farne occasioni di sviluppo a partire dai giovani. L’ipotesi è che questi spazi possano essere riempiti di talento, competenze, intelligenze, passioni e che, con anche un po’ di coraggio, questi luoghi diventino dei laboratori di innovazione sociale”. Possono nascere così nuovi spazi aperti non solo ai nuovi lavori, alle nuove sfide, ma anche ad un rinnovato rapporto con i territori che essi stessi contribuiscono a rivitalizzare.
Ispirandosi alla teoria della ‘Coda lunga’, formulata da Chris Anderson nel 2004, Campagnoli spiega come i nuovi lavori legati soprattutto alle dimensione del web segnino il passaggio ‘da un mercato di massa ad una massa di mercati’. Ne consegue che i nuovi lavori di contenuto innovativo finiscano per occupare molte nicchie di mercato anche se a numerosità ridotta, mentre i lavori tradizionali tendono sempre più a concentrarsi in un numero ridotto. Secondo le parole usate dallo stesso Campagnoli, in una situazione difficile come quella attuale “ripartire dalla cultura e dalle nuove generazioni può essere una potente misura ‘anticiclica’, capace di invertire il trend negativo della fase recessiva caratterizzato dalla diffusione di una forte sfiducia proprio nel futuro”. Il riutilizzo dei luoghi abbandonati, l’apertura di nuovi spazi, la creazione di lavori innovativi non solo aprono tante possibilità di lavoro anche se all’interno di piccole nicchie di mercato, ma segnano una rinnovata fiducia per i giovani di rientrare nel mercato del lavoro così come nel ciclo di vita dell’economia e della realtà storico-sociale.
I protagonisti di questa nuova economia dunque sono proprio i giovani. Giovani che promuovono l’economia della conoscenza, collaborano nei co-working e nei FabLab, “creano start up innovative – ci suggerisce lo stesso Campagnoli – di valore sociale e/o culturale, educativo, artistico, o relativo agli ambiti dei servizi al turismo e valorizzazione ambientale, sport, comunicazione e informazione, green economy”.
Nel sito www.riusiamolitalia.it Giovanni Campagnoli raccoglie e racconta diverse buone pratiche già presenti nel territorio italiano. Così, egli racconta, in Puglia, il trinomio giovani, start up e spazi è alla base del successo dell’azione Laboratori Urbani, nell’ambito del Programma Regionale ‘Bollenti Spiriti’. “Si tratta del recupero di 151 ‘vecchi edifici per giovani idee’: immobili dismessi di proprietà dei Comuni pugliesi recuperati per diventare nuovi spazi pubblici per i giovani, spazi dedicati all’arte e allo spettacolo; luoghi di uso sociale e sperimentazione delle nuove tecnologie; servizi per il lavoro, la formazione e l’imprenditorialità giovanile; spazi espositivi, di socializzazione e di ospitalità”.
Infine Vincenzo, ci tengo a farti notare che tra le diverse best practices, presentate nel sito http://www.riusiamolitalia.it/ita/best_practices.asp, compare anche l’esperienza ‘Il Cantiere’ nata a Frattamaggiore nel 2003. In un contesto interessato per lunghi anni da un notevole degrado, ‘Il Cantiere’ offre diversi servizi di grande utilità rivolti soprattutto ai giovani e riguardanti sia le informazioni, l’orientamento per il lavoro e la formazione; sia corsi e laboratori anche di natura innovativa.
Io e il FabLab Napoli minuto per minuto
di Veronica Testa
Buongiorno Prof! Finalmente sono riuscita a leggere con calma tutto il post del FabLab Napoli! Interessantissimo, anche se di progettazione non è che ho capito granché, ma quello è un problema mio, quando si parla di cose troppo tecniche e ci si aggiungono i numeri, il mio cervello reagisce chiudendosi! Prof. ma mica me lo possono realizzare un timbro con la scritta “la cantina 1959”? A mie spese, ovvio! Comunque se si fa un nuovo corso mi prenoto! Ah, volevo anche dirle che mio figlio, che si chiama Riccardo come il suo, da qualche mese insiste che per il suo settimo compleanno vuole a tutti costi una stampante 3D. Quando me l’ha detto io mica sapevo nel dettaglio cos’era questa stampante 3D, certo, per sommi capi si, ma poi me l’ha spiegato lui nei minimi particolari e francamente non so dove l’abbia imparato!
La stampante non gliela comprerò, almeno per ora, ma a questo punto gli farò seguire la storia del fablab, minuto per minuto!
Buona domenica.
FabLab e dintorni
di Dunia Pepe, Ricercatrice Isfol
ciao Vincenzo, il tema su cui state lavorando è di estremo interesse per poter comprendere le nuove possibilità di accesso al mondo del lavoro, da parte della popolazione giovanile, ed i modi in cui tale accesso può avvenire. Ti invio alcune riflessioni, su questo tema, che nascono sia dalla ricerca Isfol su “Innovazione e transizioni verso il lavoro” che dagli attuali dibattiti sul tema dell’occupabilità giovanile e sulla formazione ai nuovi lavori.
L’emergenza del fenomeno dei FabLab o Laboratori di Artigianato Digitale rappresenta un esempio estremamente significativo ed originale di crescita dell’occupazione soprattutto giovanile.
Il primo FabLab nasce nel 2001, all’MIT, come un normale corso universitario. A seguito del suo successo, Neil Gershenfeld apre il laboratorio al di fuori degli orari di università ed al pubblico esterno. La specificità di un FabLab sta nel fatto che alla produzione artigianale tradizionale si aggiunge la portata innovativa legata all’utilizzo delle nuove tecnologie ed al patrimonio di saperi e di competenze della knowledge society. I macchinari a disposizione di un FabLab sono stampanti 3D, frese a controllo numerico (CNC), laser cutter, materie prime di ogni tipo, strumenti di falegnameria, di meccanica e per la lavorazione dei metalli, schede elettroniche e microprocessori come Arduino.
I makers costruiscono oggetti attraverso la manualità, la tecnologia, la collaborazione, il design, la sostenibilità, lo scambio di conoscenze e strumenti con il territorio. Sono organizzati in comunità virtuali e fisiche e, nonostante la crisi degli ultimi anni, sono cresciuti ed hanno creato impresa. I FabLab sono luoghi dove è possibile costruire (quasi) qualsiasi cosa: da un disegno CAD è possibile fabbricare un oggetto, mentre per il passaggio inverso occorre uno scanner 3D che converta forme tridimensionali in dati esportabili anche attraverso Internet.
Nonostante siano laboratori ad alto contenuto tecnologico, i FabLab si basano prima di tutto sulle persone: condividere idee, progetti, prototipi e know-how è il fulcro dei centri di manifattura digitale. La costituzione di un FabLab è regolata da quattro caratteristiche fondamentali: accesso pubblico; sottoscrizione della FabLab Charter; condivisione di software e hardware open source; partecipazione ad un network globale e collaborazione senza confini. Proprio grazie a questi principi i makers mettono in rete i progressi delle loro conoscenze e delle loro pratiche al fine di migliorarle sempre di più in una logica adattiva e evolutiva.
La rete Isfol su “Innovazione, inclusione e transizioni verso il lavoro” presenta in particolare due Laboratori operanti a Roma, Roma Makers e Fab Lab SPQwoRk, volti a favorire e stimolare la cultura della fabbricazione digitale, a diffondere nel tessuto artigianale e imprenditoriale del Lazio i principi dell’innovazione tecnologica.
Il primo FabLab di Roma è stato Roma Makers ed è nato, nel 2013, in un quartiere simbolo della rinascita urbanistica della capitale: La Garbatella. In collaborazione con scuole, università ed istituzioni pubbliche, come il Comune di Roma, l’Associazione è impegnata in numerosi progetti di formazione e supporto indirizzati ai bambini, studenti universitari, tirocinanti, disoccupati in cerca di lavoro e di nuove qualifiche, professionisti, artigiani, imprenditori, comuni cittadini. Grazie ad una tessera annuale qualsiasi persona può partecipare alle attività di Roma Makers utilizzando le macchine su appuntamento, prendendo parte a seminari sulle attrezzature, sui progetti e sui prototipi del FabLab. Nel Marzo 2015, l’Istituto olandese Waag Society ha inaugurato un corso di biologia molecolare presso Roma Makers oltre che nei laboratori di altri paesi europei, del Brasile e degli Stati Uniti. In questo corso, gli studenti utilizzano organismi naturali e non patogeni – cellulosa, alga spirulina, penicillina, fermenti lattici e acido citrico – per costruire macchine che consentano la produzione artigianale di materiali quali carburante, materiali compositi, filamenti per tessile e molte altre molecole bio-attive per profumi, farmaci, inchiostri e pigmenti.
SPQwoRk Factory sorge in un complesso di archeologia industriale del secondo dopo guerra, ex sede del Pastificio Scanzani. Nato nel 2011, a quattro anni dall’apertura, SPQwoRk Factory rappresenta il centro delle attività culturali, innovative, tecnologiche e del design di Roma Tiburtina, sviluppandosi su circa 1.200 mq ed ospitando aree coworking, fablab e wetlab, ed una community di quasi 100 persone tra freelancer e società. SPQwoRk Factory è una realtà dove nascono sinergie, è possibile trovare nuovi stimoli, essere aggiornati sulle tendenze di mercato e sulle nuove tecnologie grazie ai numerosi corsi, eventi a tema, workshop che si organizzano durante tutto l’anno.
SPQwoRk Factory si impone sullo scenario romano come nuova tipologia di centro di lavoro, luogo dove si ha la possibilità di sviluppare progetti, realizzare prototipi avvalendosi di moderne tecnologie quali stampe 3D, taglio laser, solo per citarne alcune, avviare imprese, fondare start up, trovare competenze complementari alla propria. La condivisione degli spazi consente ai giovani imprenditori di ridurre i costi ed incrementare il proprio lavoro grazie alla contaminazione ed alla molteplicità delle risorse disponibili. Il coworking prevede anche un servizio di incubazione delle start up e di aiuto al finanziamento attraverso il crowdfunding.
Una questione cruciale riguarda quali modelli di formazione e di professionalizzazione possono essere adeguati a questi modelli e contesti di lavoro così innovativi come lo sono FabLab, co-working, incubatori ed acceleratori di idee e di imprese, start-up, occupazioni legate alla prototipizzazione ed alla digitalizzazione. Sicuramente, in questi contesti, il percorso della formazione non è lineare ma è al tempo stesso risultato di conoscenze teoriche e di apprendimenti hands-on, di esperienze e di competenze digitali. Nei sistemi caratterizzati da innovazione distribuita e cultura open hanno valore le competenze teoriche ed operative, il connubio tra sapere e manualità, le competenze informali e non-formali, la crescita dell’intelligenza collettiva, le capacità di programmazione e di gestione.
Queste realtà lavorative caratteristiche dell’universo giovanile che prendiamo in considerazione non solo danno vita a nuova conoscenza e formazione, ma stimolano anche la nascita di un nuovo spirito imprenditoriale, forniscono stimoli per la crescita dei territori offrendo spesso la possibilità di riusare spazi inutilizzati creando nuovo valore produttivo ed economico. Molto spesso questi luoghi mettono insieme non solo simbolicamente passato e futuro, sogni e realtà, giovani ed adulti.
Così l’incubatore di start up giovanili Luiss EnLabs situato non casualmente dentro la Stazione Termini. La grande Stazione della Capitale, luogo di incontri, di partenze, di nascita di nuove speranze, è diventata con Luiss EnLabs anche un luogo dove fare ripartire le idee, le speranze ed il lavoro dei giovani. Si pensi ancora a Human Farm che sulla laguna veneta mette insieme il passato contadino con il futuro digitale per lo sviluppo delle start up giovanili.
E’ altresì significativo citare “Le palestre dell’innovazione” attraverso le quali Fondazione Mondo Digitale, in collaborazione con Google, sta formando a Roma diverse migliaia di giovani alle competenze ed all’artigianato digitale. L’obiettivo è dare la possibilità ai ragazzi di acquisire non solo competenze adeguate ai lavori del futuro, ma anche competenze di flessibilità, apertura, responsabilità, competenze adeguate ai rapidi e difficili cambiamenti del vivere sociale nella nostra epoca. Qui, come sostiene il Direttore di FMD Alfonso Molina, i giovani imparano grazie ai rapporti con i docenti, gli altri giovani, gli adulti, la scuola, gli antichi mestieri, il futuro digitale, il territorio.
Bibliografia e sitografia
M. Bezzi (2015), “8 esempi per spiegare come i FabLab reinventano i paradigmi di lavoro e formazione”, Il Sole 24ore, 13 luglio
G. Campagnoli (2015), Riusiamo l’Italia: da spazi vuoti a start up culturali e sociali, Il Sole 24ore, Milano
A. Molina (2015), “Presentazione dei primi sei mesi di attività dell’Officina dei nuovi lavori”, Roma, 6 ottobre
D. Pepe e Casentini P. “Innovazione, inclusione e transizioni verso il lavoro”, Portlet Isfol accessibile al sito
R. Pistagni (2015), “Partire dalla domanda per migliorare l’offerta: la parola ai Makers” in Osservatorio Isfol, n. 1-2/2015, pp. 143-162.
Un nuovo umanesimo
di Francesco Escalona
Caro Vincenzo,
provo a rispondere alle tue provocazioni sulla questione del Lavoro del terzo millennio, trasformandomi in un investigatore.
Non ridere. Un po’ come faceva Sherlock Holmes quando era alla ricerca di un delitto, del movente e del colpevole.
Partiamo dal fatto: è scomparso il Lavoro. Questo è il fatto su cui indagare. Cosa sta accadendo?
Lo cercano tutti, ovunque, ma questo Lavoro non si trova da nessuna parte. Che fine ha fatto questa occupazione fondamentale, sacra, dell’Uomo intorno a cui – forse non ci si riflette abbastanza – i nostri Padri Costituenti addirittura fondarono nel dopoguerra il nostro Stato?
L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul Lavoro, dice l’articolo 1.
Eppure, questo Lavoro, un’intera generazione di trentacinquenni, non l’ha ancora incontrato. Ho chiesto anche in giro: ma sta cambiando qualcosa? Nonostante i proclami del governo, non si trova e non si trova.
Ma com’è che quando io ero piccolo, si finiva di studiare e si andava a lavorare, e adesso non più? Questa non è una domanda importante. E’ una domanda fondamentale. Anche perché se non risolviamo questo caso, non possiamo neanche parlare del meraviglioso concetto di lavoro ben fatto, che finirà per estinguersi in breve tempo.
A me l’intuito dice che ci sono che è stato messo in atto un furto enorme, epocale, di dimensioni spaventose. Un furto di valenza storica ai danni dello Stato, delle persone, sopratutto dei giovani. Vari indizi testimoniano che il reato c’è. Qualcuno, approfittando della confusione del cambio di era, ha rubato il tempo risparmiato, che era di tutti e lo ha fatto proprio, accumulando ricchezze e potere immenso. Le vittime siamo un po’ tutti noi persone normali con i nostri figli.
Il lavoro risparmiato si è tradotto in costi dimezzati, senza nessun risparmio per noi, nessuna redistribuzione, un oceano di risorse materiali e immateriali sottratto alla Comunità, cioè a tutti noi.
Provo a spiegarmi meglio: negli ultimi trenta anni si sono messi in moto alcuni processi che ci hanno scaraventato in una nuova era, ne riassumo quattro: i) la rivoluzione tecnologica, la nascita del web internet; ii) i mezzi di trasporto sempre più veloci e a costi più accessibili che hanno fatto si che il mondo si facesse più piccolo e gli uomini e le merci schizzassero di qua e di la; iii) il ruolo “eversivo” della Donna soprattutto, per ora, nelle società occidentali; ma vedrai cosa accadrà presto anche ad Oriente; iv) l’innalzamento dell’età media di vita, penso che presto a cent’anni, speriamo bene.
Questi e altri fattori derivati stanno introducendo cambiamenti epocali che noi, per la loro velocità e profondità, stentiamo a vedere, a capire e quindi a governare.
Di chi la colpa? Difficile dirlo. Però a me l’altra sera è venuto un pensiero, e mi sono detto che siamo in mano alle «macchine», che sono loro le colpevoli. Bada bene Vincenzo, non penso alle macchine ipotizzate da Asimov in “io Robot”, a umanoidi luccicanti con un Capo dagli occhi lampeggianti e un cervello elettronico elaborante, penso al sistema globale delle “macchine” a cui ormai ci siamo totalmente affidati e di cui non potremo più fare a meno. Pena lo sprofondamento in quel Medioevo prossimo venturo ipotizzato da Giorgio Vacca alla fine del secolo scorso.
Amico mio, noi non ci pensiamo mai, ma le macchine gestiscono già oggi tutta la nostra vita, e lo faranno sempre più, sostituendo in parte o in tutto il lavoro degli umani.
Forse quelli della nostra generazione questa cosa la possiamo capire meglio, perché quando eravamo piccoli noi non esisteva nulla di simile.
In questo preciso momento sto pigiando i tasti di una macchina mentre ascolto della musica prodotta da un’altra macchina, una lavatrice sibila in fondo il programma di strizzaggio e il condizionatore mi assicura la climatizzazione. Le macchine regolano i flussi dell’acqua nelle nostre case, il gas, la luce elettrica, le macchine permettono al frigo di gelare e congelare, di organizzare viaggi, di costruire auto super accessoriate e così via discorrendo mentre nel frattempo i bigliettai sono quasi scomparsi e i milioni di operai che negli anni ‘60 varcavano i cancelli delle fabbriche si sono ridotti drasticamente di numero. Tu dici che il lavoro scompare da una parte e ricompare da un’altra, ma sinceramente io il saldo lo vedo molto negativo. In ogni caso quasi tutto è automatizzato e lo sarà sempre più. Le stesse smart city, che pure sembrano figlie di una filosofia di vita e di sviluppo più condivisibile, sono il segno del dominio delle macchine. O tu pensi che ancora le governiamo noi? Io penso già di no.
I greci costruirono la loro potenza e poi la loro saggezza grazie agli schiavi. E così i romani. Lavorando meno, poterono pensare di più. Per farlo, nel medioevo, gli uomini divennero monaci, uscirono dalle città salirono nei monasteri. Oravano, pensavano, scrivevano e lavoravano.
Noi abbiamo conosciuto il mito della fine del lavoro, della settimana sempre più corta, ci siamo detti «le macchine prenderanno il nostro posto e noi vivremo più liberi e felici», ma il tempo libero promesso si sta trasformando in disoccupazione drammatica per molti e lavoro assillante per altri.
Resta da capire chi, utilizzando le macchine, sta effettuando il più grande furto del nostro tempo risparmiato, ma intanto ti voglio segnalare che in noi umani stiamo progressivamente entrando in risonanza con le macchine, con la loro velocità, con la loro fredda ineluttabilità; cerchiamo disperatamente, miserevolmente, di tenere il loro passo, facendoci dettare i tempi della nostra vita dalla loro velocità. Sì, il cuore batte sempre più veloce, ma non ci riusciamo, però nel frattempo stiamo diventando inumani.
Se credi che stia esagerando pensa alla tua impazienza quando il computer si impalla o quando rallenta la linea; quando un semaforo s’inceppa, o quando l’auto davanti a te non parte, se il bus fa ritardo o la metro salta una corsa. Ci sembra di impazzire, a volte: perché?
Secondo me perché la velocità estrema, inumana, è la caratteristica prima di questa rivoluzione che si sta consumando soprattutto nelle megalopoli. Il nostro mondo sarà molto cambiato dal momento in cui mi hai chiesto questo contributo ad ora che l’ho scritto. Alcuni fatti o notizie, alcune scoperte, sopraggiunte in corso d’opera, potrebbero rendere obsoleto questo stesso ragionamento che perciò, forse, trova senso solo in questo attimo in cui viene pensato e scritto.
Per tenere il passo delle macchine, prendiamo Xanax e Betabloccanti, cocaina e altre droghe (alcuni; io mai!), ma di fatto non c’è speranza.
Le macchine schizzano fulminee, immerse di gigabyte silenziosi, e ogni giorno che passa si prendono un po’ della nostra anima.
Ma torniamo al mandante, al quale prima ho solo accennato. Per me sono le multinazionali finanziarie che ci hanno rubato il tempo risparmiato, quello che era dell’Umanità e andava reinvestito in tempo libero, miglioramento di vita per tutti e felicità.
Non viviamo solo una crisi momentanea in attesa di una fase speriamo non traumatica di redistribuzione della ricchezza, ma assistiamo inermi e inconsapevoli ad un cambiamento totale del nostro rapporto con la vita. E quindi col Lavoro.
Le caratteristiche di quella che definiamo «crisi», che come tutte le crisi dovrebbe avrebbe un inizio e una fine, secondo me vanno lette invece come le caratteristiche della nuova era che bussa furiosamente alle porte. Nulla sarà più come prima. E naturalmente vale anche per il Lavoro e per la nostra vita di tutti i giorni.
Tutto questo si ripercuote naturalmente anche sulle affascinanti questioni a te, a noi, tanto care, che spero affronteremo insieme nel prossimo Simposio: il tuo #lavorobenfatto; il nuovo Umanesimo delle montagne di Arminio; l’Ozio creativo di De Masi; i nostri Simposi; la nuova modalità di vita, il rapporto tra aree interne e le aree centrali. Il diverso tempo. Come il tempo del giorno e della notte. Come la luce del sole e della luna e delle stelle. Sono tutti temi legati a questa questione centrale. Cerchiamo vie di fuga dalle macchine che stanno sottraendo, e sottrarranno sempre più, lavoro agli umani. Il che potrebbe essere anche un bene, a patto che il Tempo risparmiato venga trasformato in felicità.
Per tornare al punto, il furto del millennio lo stanno compiendo i Padroni delle macchine. La cosa nuova è che non sono persone fisiche. Sono entità finanziarie. Siamo noi stessi che attraverso i Fondi comuni costituiamo le parti azionarie della proprietà. Sono processi, Enti, Regolamenti. Entità astratte. I nuovi proprietari sono la Borsa, i flussi economici, le leggi finanziarie a cui spesso sottostanno le leggi degli stessi stati indebitati. Le nostre leggi.
E allora, da un certo punto di vista, un punto di vista importante, siamo noi i nostri carcerieri, noi che abbiamo creato un sistema inumano, da cui è quasi impossibile evadere.
Chi ormai, rinuncerebbe al pc, alla lavatrice, al bus, alla metro?
Siamo schiavi delle macchine. Senza macchine, non riusciremmo più a vivere. E siamo dunque schiavi delle loro caratteristiche. Delle loro leggi. E il Lavoro risente di questa situazione.
Prima, il lavoro bene fatto era evidente a tutti. Esisteva una trasmissione di energia, di Amore, tra l’artigiano e il prodotto del suo lavoro. L’oggetto trasformato. Una trasmissione di energia tra l’agricoltore, la sua terra e i frutti da essa germogliati. Tra l’allevatore e i suoi bovini o equini. Tra il pastore e le sua pecore. Tra il pescatore e la sua barca, strumento di vita.
L’operaio novecentesco non vedeva il frutto del suo lavoro se non in una visione collettiva. Ma il Lavoro ancora era leggibile anche se collettivamente. Nacquero i Falansteri e i Familinsteri. Ricordo ancora la fierezza degli sguardi degli operai dell’Alfa sud all’uscita della nuova auto prodotta a Pomigliano d’Arco. O gli operai della Ferrari di Maranello. O degli operai dell’Olivetti di Ivrea e di Pozzuoli. Lì, al #lavorobenfatto del singolo si sovrapponeva il #lavorobenfatto della collettività.
Ma ora, gli stabilimenti sono quasi completamente nelle mani delle macchine. I pezzi provengono da tutto il mondo. Vengono solo assemblati da macchine. Non ci vuole molto ad assemblare pezzi perfetti. Ma le auto, senza l’imperfezione umana, non avranno più un’anima.
E il tempo risparmiato dov’è finito allora? Nelle casse delle multinazionali anonime. Si, ci saranno alcuni finanzieri con le quote più alte a governare i processi. Ma, le finanziarie vivono con le rimesse di migliaia e migliaia di investitori sparsi nel mondo. Anche tu, forse, Vincenzo, le alimenti coi tuoi risparmi. O le banche che li reinvestono secondo flussi finanziari. Macchine registrano al decimo di secondo i cambiamenti dei flussi finanziari delle borse e intervengono in un tempo inimmaginabile per l’uomo. Macchine guidano ormai gli investimenti e potrebbero trascinarci nel baratro.
Ecco, direi che sono arrivato alla fine del mio ragionamento.
La parola chiave per me è “umanesimo”. Abbiamo bisogno di un nuovo umanesimo per vincere la guerra tra noi e noi stessi, per il governo delle macchine. Per farlo dobbiamo diventare innanzitutto più consapevoli, dobbiamo renderci conto di ciò che sta realmente accadendo. Ad esempio che stiamo perdendo il rapporto diretto e leggibile tra noi e il nostro lavoro, tra noi e il frutto visibile, percepibile del nostro lavoro, quello che ci permette di dire «è un lavoro ben fatto, è il mio lavoro, è la ragione per cui vivo e la mia presenza su questa terra ha senso». Si, direi che stiamo perdendo il rapporto diretto e leggibile tra noi e la vita.
Io penso che dovremo rinunciare a qualcosa per riprendere il governo del tempo e delle macchine. Non sarà facile, ma forse se cominciamo a capire e a trasmettere ciò che sta accadendo, ci riusciamo. Come? Ad esempio uscendo più spesso dalla città, dal tempo frenetico delle macchine. Almeno periodicamente dobbiamo saper attraversare degli stargate e andare a Trevico e ad Aliano, per esempio. Nelle aree vuote, buie e silenziose dell’Italia interna. O nei Simposi, dove il tempo rallenta e le macchine sono escluse in ogni forma (magari useremo le clessidre e dipingeremo con gli sketcher le immagini ricordo). O anche facendo parte delle Case della Paesologia.
Si, direi che dobbiamo uscire dal tempo inumano della macchine, che dobbiamo imparare a usarle e a non farci usare, a non entrare con loro in risonanza, a mantenere le distanze.
La stessa conservazione della filosofia e della pratica del #lavorobenfatto può essere secondo me ripristinata in pieno solo se e quando sarà ripristinato il corretto rapporto tra l’uomo e la macchina, quando come ho detto sapremo governarle, utilizzandole al meglio senza entrare in competizione con la loro velocità, la loro asetticità, la loro perfezione.
Caro Vincenzo, noi siamo lenti, contaminabili e imperfetti. Siamo umani. Siamo iM’perfect.
La bellezza che moltiplica lo sviluppo
scatti di grano
Un po’ di foto dall’edizione 2015 di Camp e Palio del Grano. Qui trovate il racconto della Compagnia del Grano. Questi invece sono i siti ufficiali del Palio e del Camp di grano.
cittadini per sé
Siamo sangue e link. Oggi più che mai è la nostra capacità di connetterci con altri – come noi e diversi da noi -, a definire la qualità delle nostre vite.
Con un omaggio alla distinzione tra classe operaia in sé e per sé operata da Carlo Marx e riformulata da Antonio Gramsci negli anni del carcere, si potrebbe dire che al tempo di internet non basta essere cittadini in sé, ma bisogna essere, sentirsi, diventare, cittadini per sé, possedere cioè una concezione e una consapevolezza alta dei diritti e dei doveri della cittadinanza. Se, come scrive Bauman “un punto possibile di approdo può essere quello di tornare a dare valore all’agorà greca, arrestando la sua privatizzazione e spoliticizzazione e riprendendo il discorso sul bene comune”, un primo passo nella direzione giusta potrebbe essere quello che, con il sostegno delle nostre idee e delle nostre azioni, ci porta, con altri, a riprogettare e ricostruire ponti verso il futuro.
La comunità del #lavorobenfatto, con le sue leggi e le sue speranze, vuole essere un passo in questa direzione.
Come dite? Più facile a dirsi che a farsi? Sono d’accordo. Ma resta il fatto che la scelta di non tirarsi indietro, di rinunciare ad ogni alibi o giustificazione di carattere culturale, economico, sociale, di rispettare sempre e comunque (a prescindere) le regole del #lavorobenfatto, non è solo una questione di sensibilità, di civiltà, di giustizia, è anche – prima di tutto? -, una questione di razionalità, di convenienza, di interesse.
L’interesse di chi sa che in un mondo tanto interdipendente sarà sempre più necessario fare le cose per bene. Sempre. Senza aspettarsi per questo un premio o una ricompensa. Solo perché è così che si fa.
Proprio così: condividere prima di tutto un modo di fare. Vale nei mondi fatti di piccole cose e in quelli fatti di cose grandi. Vale se devi lavare la tazzina del caffè o devi cucinare la pasta e fagioli. Se devi pulire una stanza d’ospedale o una strada. Se devi dirigere una scuola o una fabbrica. Se devi progettare un centro direzionale o rammendare un calzino. Se devi scrivere un articolo o costruire un ponte. Se devi tenere una lezione all’università o guidare il bus.
Si, è prima di tutto una questione di interesse, di responsabilità, di consapevolezza. L’interesse di chi non intende fare a meno dello streben, l’agire e tendere alla meta, che consente a Faust di salvarsi. La responsabilità di chi sa che il ponte costruito male crolla e il bus guidato male finisce fuori strada. La consapevolezza di chi sente che è difficile e però anche facile, perché funziona proprio come nelle città del #lavorobenfatto, ognuno fa bene quello che deve fare e tutti vivono meglio.
talento e organizzazione
L’organizzazione ben fatta è una componente essenziale del #lavorobenfatto.
Ho tentato qualche anno fa di rispondere alle due domande di base in ambito organizzativo – come funziona un’organizzazione?, come potrebbe funzionare meglio? -, con un Dizionario del Pensiero Organizzativo (Ediesse) di cui ho ripubblicato alcune voci rivisitate per l’occasione qui:
Indice generale delle voci e dei riferimenti
Voci da un dizionario
Un background, quattro movimenti, una chiave e una definizione
Serendipity
Decision Making
L’Organizzazione Rete
Le quattro ondate di Miles e Snow
In seguito ho approfondito alcune questioni relative al rapporto tra il talento individuale, la forza dell’organizzazione nella quale il talento opera e le caratteristiche del contesto (l’ambiente) con il quale l’uno e l’altra hanno a che fare.
In estrema sintesi, le tre domande che mi sono posto questa volta sono le seguenti:
Sono i processi attivati dalle persone con le loro idee, il loro talento, il loro lavoro, la qualità e la quantità delle loro relazioni, connessioni, interazioni, a determinare la storia e il carattere, i successi e i fallimenti delle organizzazioni?
O a fare la differenza sono piuttosto la forza e la consistenza delle strutture nelle quali esse vivono, lavorano, studiano, si divertono?
Con quali caratteristiche si presenta la relazione tra persone e strutture negli ambienti contraddistinti da processi di innovazione, forte specializzazione, elevata professionalità?
Che dite, proviamo a rispondere con un confronto a più teste e più mani?
credit hunter
I miei cacciatori di crediti hanno visto la luce in un volume del 2007, Come ti erudisco il pupo – Rapporto sull’università italiana (Ediesse), nato dal rigoroso genio di Salvatore Casillo che pensò bene di coinvolgere nell’impresa anche Sabato Aliberti e me.
Se volete leggere l’intero frame a cui mi riferisco lo trovate qui, ma in buona sostanza la considerazione che mi interessa riprendere è la seguente:
«L’università “riformata” produce cacciatori di crediti. Credit hunter, per l’appunto. Che per definizione non hanno tempo per apprendere. Per approfondire. Per capire. Possono al massimo imparare. Fare l’esame. Resettare. Imparare. Fare l’esame. Resettare.»
Dalla considerazione alla domanda:
Dal 2007 a oggi la situazione secondo voi è migliorata o peggiorata?
A prof. e studenti chiedo di dire la verità, tutta la verità, soltanto la verità.
A genitori e cittadini di dire quello che pensano, tutto quello che pensano, soltanto quello che pensano.
Buona partecipazione.
quelli del lavoro ben fatto
Siamo quelli del #lavorobenfatto. E vogliamo cambiare l’Italia.
Ora, detto così, è poco più che un modo di dire, e invece alla base c’è un’idea alla quale io e un po’ di altre belle persone lavoriamo da almeno 10 anni, e nel tempo l’idea è diventata prima una attività di studio, di ricerca e di narrazione e poi una piccola grande comunità.
Ecco, mi fermo qui, sperando di avervi incuriositi, e che abbiate voglia di saperne un po’ di più, cliccando sui link che trovate di seguito. Benvenuti. E buona partecipazione.
La comunità del #lavorobenfatto
Le tre leggi del #lavorobenfatto
Le città del #lavorobenfatto
Il manifesto del #lavoronarrato
incipit
«Non smetto mai di cercare
passione, impegno e responsabilità,
nella mia vita come in quella degli altri,
e così finisce che ho poco tempo per i rimpianti.»
#lavorobenfatto #index
“A finale” la mia idea è molto semplice, bisogna che tutti assieme costruiamo una nuova epica, un nuovo modo di raccontare noi stessi e il nostro Paese, a partire dal valore del lavoro, dalla passione per il #lavorobenfatto, dalla voglia di fare bene le cose perché è così che si fa. La mia idea non vive e non cresce nel vuoto, vive e cresce in un mondo nel quale siamo impegnati ogni giorno a cercare di ridurre la sofferenza socialmente evitabile, a cercare di assicurare più diritti e opportunità alle donne e agli uomini di ogni età che popolano questa nostra bella Terra, a cercare di rendere migliori – nel senso di più vicini e rispondenti alle esigenze delle persone -, scuole, ospedali e quant’altro. La mia idea non vive e non cresce nell’attesa, nel senso che non aspetta che tutto questo si compia, mi chiede al contrario qui e ora di dare il massimo per fare bene quello che devo fare. Sì, qui e ora, mentre mi batto sul piano sociale per i miei diritti, per i diritti di quelli come me e per i diritti di quelli diversi da me, la mia idea mi dice che se faccio il prof. devo fare bene il prof., e pure se faccio l’infermiere, o l’operaio, o l’architetto, o il maker, o il cuoco, o l’artigiano. E’ per questo che racconto storie di #lavorobenfatto, è un pezzo del mio lavoro e della mia passione e cerco di farlo al meglio che posso. Ora non guardatele adesso, queste storie, pensate a quando saranno mille, diecimila, e per questo leggetele, diffondetele, segnalatemi nuove storie da raccontare, e soprattutto scrivetele, che abbiamo bisogno di dieci, cento, mille Omero per scrivere la nuova epica, per affermare il nuovo approccio, per diffondere la nuova cultura, per cambiare l’Italia. Buona partecipazione.
http://vincenzomoretti.nova100.ilsole24ore.com/2014/08/13/demeo/
http://vincenzomoretti.nova100.ilsole24ore.com/2014/07/31/west4/ http://vincenzomoretti.nova100.ilsole24ore.com/2014/07/28/ruggiero/ http://vincenzomoretti.nova100.ilsole24ore.com/2014/07/23/avagliano/ http://vincenzomoretti.nova100.ilsole24ore.com/2014/07/23/cip/ http://vincenzomoretti.nova100.ilsole24ore.com/2014/07/14/sapio/ http://vincenzomoretti.nova100.ilsole24ore.com/2014/07/10/santagata/ http://vincenzomoretti.nova100.ilsole24ore.com/2014/07/08/collino/ http://vincenzomoretti.nova100.ilsole24ore.com/2014/07/07/leliomorra/ http://vincenzomoretti.nova100.ilsole24ore.com/2014/07/03/bellezza/ http://vincenzomoretti.nova100.ilsole24ore.com/2014/06/30/punzo/ http://vincenzomoretti.nova100.ilsole24ore.com/2014/06/25/non-ce-proporzione/ http://vincenzomoretti.nova100.ilsole24ore.com/2014/06/19/parliamone/ http://vincenzomoretti.nova100.ilsole24ore.com/2014/06/17/cdg2014/ http://vincenzomoretti.nova100.ilsole24ore.com/2014/06/15/bevilacqua/ http://vincenzomoretti.nova100.ilsole24ore.com/2014/06/14/tinganelli/ http://vincenzomoretti.nova100.ilsole24ore.com/2014/06/06/eroi/ http://vincenzomoretti.nova100.ilsole24ore.com/2014/05/29/autonomiaelavoro/ http://vincenzomoretti.nova100.ilsole24ore.com/2014/05/27/confiscatibene/ http://vincenzomoretti.nova100.ilsole24ore.com/2014/05/22/pepicelli/ http://vincenzomoretti.nova100.ilsole24ore.com/2014/05/19/ela/ http://vincenzomoretti.nova100.ilsole24ore.com/2014/05/15/startup/ http://vincenzomoretti.nova100.ilsole24ore.com/2014/05/04/glielmo/ http://vincenzomoretti.nova100.ilsole24ore.com/2014/04/09/carninci/ http://vincenzomoretti.nova100.ilsole24ore.com/2014/04/07/officina/ http://vincenzomoretti.nova100.ilsole24ore.com/2014/03/25/lavorobenfatto/
un’idea semplice
“A finale” la mia idea è molto semplice, bisogna che tutti assieme costruiamo una nuova epica, un nuovo modo di raccontare noi stessi e il nostro Paese, a partire dal valore del lavoro, dalla passione per il #lavorobenfatto, dalla voglia di fare bene le cose perché è così che si fa. La mia idea non vive e non cresce nel vuoto, vive e cresce in un mondo nel quale siamo impegnati ogni giorno a cercare di ridurre la sofferenza socialmente evitabile, a cercare di assicurare più diritti e opportunità alle donne e agli uomini di ogni età che popolano questa nostra bella Terra, a cercare di rendere migliori – nel senso di più vicini e rispondenti alle esigenze delle persone -, scuole, ospedali e quant’altro. La mia idea non vive e non cresce nell’attesa, nel senso che non aspetta che tutto questo si compia, mi chiede al contrario qui e ora di dare il massimo per fare bene quello che devo fare. Sì, qui e ora, mentre mi batto sul piano sociale per i miei diritti, per i diritti di quelli come me e per i diritti di quelli diversi da me, la mia idea mi dice che se faccio il prof. devo fare bene il prof., e pure se faccio l’infermiere, o l’operaio, o l’architetto, o il maker, o il cuoco, o l’artigiano. E’ per questo che racconto storie di #lavorobenfatto, è un pezzo del mio lavoro e della mia passione e cerco di farlo al meglio che posso. Ora non guardatele adesso, queste storie, pensate a quando saranno mille, diecimila, e per questo leggetele, diffondetele, segnalatemi nuove storie da raccontare, e soprattutto scrivetele, che abbiamo bisogno di dieci, cento, mille Omero per scrivere la nuova epica, per affermare il nuovo approccio, per diffondere la nuova cultura, per cambiare l’Italia. Buona partecipazione.
#lavorobenfatto
Sono le cose che più o meno ho raccontato ieri, domenica 8 Giugno, nel corso di Rnext Napoli, la Repubblica degli innovatori, con tanti amici e l’eccellente regia di Riccardo Luna e Giampaolo Colletti.
Lo ripropongo qui senza l’indispensabile assillo dei 5 minuti, come spunto per una riflessione più meditata e collettiva. Le cose che abbiamo in mente di fare assieme sono belle e impegnative, e discutere ci fa solo bene. Buona lettura. E soprattutto non fatemi mancare i vostri commenti.
Ma voi l’avete letto La luna e i falò di Cesare Pavese? Se la risposta è no fatelo, se invece è si sintonizzatevi su Nuto che dice ad Anguilla che “L’ignorante non si conosce mica dal lavoro che fa, ma da come lo fa.”
Ecco, la mia storia di innovazione comincia da qui, dal come fare le cose, dall’urgenza di farle bene, dall’idea che il cambiamento prima ancora che una questione di tecnologia sia una questione di cultura, di approccio, di modo di pensare e di fare il proprio lavoro, qualunque esso sia.
Perché se lo fai bene, qualunque lavoro ha senso.
Sei uno studente che studia e ha la testa al proprio posto, cioè sul collo? Lavoro ben fatto!
Cucini bene la pasta e fagioli? Lavoro ben fatto!
Sei un architetto e hai progettato una soluzione smart per il borgo antico in cui vivi? Lavoro ben fatto!
Fai il postino, la scienziata, il muratore, la maestra, l’ingegnere, la sarta, l’ebanista, il maker, e metti testa, mani e cuore in quello che fai? Lavoro ben fatto!
Per quanto mi riguarda è cominciato che avevo dieci anni grazie a mio padre, operaio elettrico con la licenza di quinta elementare, che mi spiegò la distinzione tra «il lavoro preso di faccia», quello fatto con impegno, rigore, passione, e «il lavoro fatto ‘a meglio ‘a meglio», quello che invece no.
Dite che papà era un tipo strano? E allora non avete letto di Steve Jobs che mentre accarezza le assi della staccionata della casa paterna dice a Walter Isaacson che “suo padre gli aveva inculcato un concetto che gli era rimasto impresso: era importante costruire bene la parte posteriore di armadi e steccati, anche se rimaneva nascosta e nessuna la vedeva. Gli piaceva fare le cose bene. Si premurava di fare bene anche le parti che non erano visibili a nessuno».
Eccolo lì il senso, nella voglia di fare bene le cose a prescindere, nella consapevolezza che alla fine non conta quello che fai, quanti anni hai, di che colore, sesso, lingua, religione sei, quello che conta, quando fai una cosa, è farla come se in quella cosa dovessi essere il numero uno al mondo. Poi puoi arrivare pure penultimo, non importa, la prossima volta andrà meglio, ma questo riguarda il risultato non l’approccio, nell’approccio hai una sola possibilità, cercare di essere il migliore.
E’ per questo che con Alessio Strazzullo, Cinzia Massa, Gennaro Cibelli, Sabato Aliberti, Colomba Punzo e tanta altra bella gente raccontiamo l’Italia dal cuore artigiano, quella che pensa che ciò che va quasi bene non va bene, quella che considera il lavoro non solo un mezzo ma anche un valore.
Ho detto racconto? Si, l’ho detto. E aggiungo che raccontando storie ci prendiamo cura di noi, attiviamo processi di innovazione, incrementiamo il valore sociale delle organizzazioni, delle comunità e delle reti con cui interagiamo.
E’ per questo che raccontiamo l’Italia che pensa lavoro, dunque sono, valgo, merito rispetto, considerazione, quella che con le cose che sa e le cose che fa sposta l’ago della bussola dal riconoscimento sociale della ricchezza al riconoscimento sociale del lavoro, dal valore di ciò che hai al valore di ciò che sai, e sai fare.
La nostra è l’Italia delle persone normali, un’Italia che c’è, esiste, è tanta, è fatta delle donne e degli uomini che mettono sempre una parte di sé in quello che fanno, che provano soddisfazione nel farlo bene, che ogni giorno la propria intelligenza, le proprie capacità e la propria passione creano le condizioni per dare più senso e significato alle proprie vite e dare più futuro al proprio Paese.
Ecco. Adesso che ho detto lavoro e ho detto racconto posso dire anche La notte del lavoro narrato.
E’ accaduto il 30 Aprile scorso, in ogni parte d’Italia, quando persone che spesso neanche si conoscevano e adesso se non si rivedono sono prese da crisi di astinenza si sono incontrate per leggere, narrare, cantare storie di lavoro.
E’ stato, per molti versi lo è ancora, perché per fortuna sembra non finire mai, un successo incredibile. Perché si, il lavoro unisce, perché dove c’è lavoro non c’è solo fatica ma anche intelligenza, dedizione, bellezza.
Stiamo già lavorando alla seconda edizione, l’appuntamento è per il 30 Aprile 2015, Le mille e una notte del lavoro narrato, un titolo che è tutto un programma, o se volete tutta una follia, dato che proporsi di passare dai 100 eventi di quest’anno ai 1001 del 2015 non è da persone sane.
Diciamo che però io sono un pazzo fiducioso, un pazzo che crede nelle idee e nel lavoro, e anche un pazzo fortunato, dato che continuo a incrociare tanti pazzi come me sulla mia strada.
Finisco ricordando Bob Dylan che nel 1964 cantava The Times They Are a- Changin’ per annunciare la rivoluzione che stava arrivando.
50 anni dopo, la nostra rivoluzione si chiama innovazione, comincia dalla testa delle persone, dalla loro cultura, dall’approccio con il quale fanno le cose.
Perché senza la rivoluzione dello spazzino che si mette scuorno, prova vergogna, se non pulisce bene il suo pezzo di strada, non ce la facciamo. E non ce la facciamo senza il vigile urbano e il fabbro, l’impiegato e lo startupper che si mettono scuorno se non fanno bene il loro lavoro.
Non ce la facciamo senza l’imprenditore che investe e innova perché si mette scuorno di chiamare competitività i salari da fame e i diritti calpestati.
Non ce la facciamo senza l’Italia che investe nella bellezza e nell’intelligenza, nella tecnologia e nel futuro perché si mette scuorno di avere più della metà dei suoi giovani senza lavoro, senza casa, senza autonomia, senza opportunità.
Forza, facciamo in modo che dalla nostra bella Napoli arrivi un messaggio forte al Paese, facciamole vibrare di idee, soluzioni ed emozioni queste mura così ricche di storia e di cultura, che ci sentano tutti e tutti comprendano che noi siamo gli innovatori, siamo quelli del lavoro ben fatto, e vogliamo cambiare l’Italia.
#lavorobenfatto a RNext
Sono le cose che più o meno ho raccontato ieri, domenica 8 Giugno, nel corso di Rnext Napoli, la Repubblica degli innovatori, con tanti amici e la regia di Riccardo Luna e Giampaolo Colletti.
Lo ripropongo qui senza l’indispensabile assillo dei 5 minuti, come spunto per una riflessione più meditata e collettiva. Le cose che abbiamo in mente di fare assieme sono belle e impegnative, e discutere ci fa solo bene. Buona lettura. E soprattutto non fatemi mancare i vostri commenti.
Ma voi l’avete letto La luna e i falò di Cesare Pavese? Se la risposta è no fatelo, se invece è si sintonizzatevi su Nuto che dice ad Anguilla che “L’ignorante non si conosce mica dal lavoro che fa, ma da come lo fa.”
Ecco, la mia storia di innovazione comincia da qui, dal come fare le cose, dall’urgenza di farle bene, dall’idea che il cambiamento prima ancora che una questione di tecnologia sia una questione di cultura, di approccio, di modo di pensare e di fare il proprio lavoro, qualunque esso sia.
Perché se lo fai bene, qualunque lavoro ha senso.
Sei uno studente che studia e ha la testa al proprio posto, cioè sul collo? Lavoro ben fatto!
Cucini bene la pasta e fagioli? Lavoro ben fatto!
Sei un architetto e hai progettato una soluzione smart per il borgo antico in cui vivi? Lavoro ben fatto!
Fai il postino, la scienziata, il muratore, la maestra, l’ingegnere, la sarta, l’ebanista, il maker, e metti testa, mani e cuore in quello che fai? Lavoro ben fatto!
Per quanto mi riguarda è cominciato che avevo dieci anni grazie a mio padre, operaio elettrico con la licenza di quinta elementare, che mi spiegò la distinzione tra «il lavoro preso di faccia», quello fatto con impegno, rigore, passione, e «il lavoro fatto ‘a meglio ‘a meglio», quello che invece no.
Dite che papà era un tipo strano? E allora non avete letto di Steve Jobs che mentre accarezza le assi della staccionata della casa paterna dice a Walter Isaacson che “suo padre gli aveva inculcato un concetto che gli era rimasto impresso: era importante costruire bene la parte posteriore di armadi e steccati, anche se rimaneva nascosta e nessuna la vedeva. Gli piaceva fare le cose bene. Si premurava di fare bene anche le parti che non erano visibili a nessuno».
Eccolo lì il senso, nella voglia di fare bene le cose a prescindere, nella consapevolezza che alla fine non conta quello che fai, quanti anni hai, di che colore, sesso, lingua, religione sei, quello che conta, quando fai una cosa, è farla come se in quella cosa dovessi essere il numero uno al mondo. Poi puoi arrivare pure penultimo, non importa, la prossima volta andrà meglio, ma questo riguarda il risultato non l’approccio, nell’approccio hai una sola possibilità, cercare di essere il migliore.
E’ per questo che con Alessio Strazzullo, Cinzia Massa, Gennaro Cibelli, Sabato Aliberti, Colomba Punzo e tanta altra bella gente raccontiamo l’Italia dal cuore artigiano, quella che pensa che ciò che va quasi bene non va bene, quella che considera il lavoro non solo un mezzo ma anche un valore.
Ho detto racconto? Si, l’ho detto. E aggiungo che raccontando storie ci prendiamo cura di noi, attiviamo processi di innovazione, incrementiamo il valore sociale delle organizzazioni, delle comunità e delle reti con cui interagiamo.
E’ per questo che raccontiamo l’Italia che pensa lavoro, dunque sono, valgo, merito rispetto, considerazione, quella che con le cose che sa e le cose che fa sposta l’ago della bussola dal riconoscimento sociale della ricchezza al riconoscimento sociale del lavoro, dal valore di ciò che hai al valore di ciò che sai, e sai fare.
La nostra è l’Italia delle persone normali, un’Italia che c’è, esiste, è tanta, è fatta delle donne e degli uomini che mettono sempre una parte di sé in quello che fanno, che provano soddisfazione nel farlo bene, che ogni giorno la propria intelligenza, le proprie capacità e la propria passione creano le condizioni per dare più senso e significato alle proprie vite e dare più futuro al proprio Paese.
Ecco. Adesso che ho detto lavoro e ho detto racconto posso dire anche La notte del lavoro narrato.
E’ accaduto il 30 Aprile scorso, in ogni parte d’Italia, quando persone che spesso neanche si conoscevano e adesso se non si rivedono sono prese da crisi di astinenza si sono incontrate per leggere, narrare, cantare storie di lavoro.
E’ stato, per molti versi lo è ancora, perché per fortuna sembra non finire mai, un successo incredibile. Perché si, il lavoro unisce, perché dove c’è lavoro non c’è solo fatica ma anche intelligenza, dedizione, bellezza.
Stiamo già lavorando alla seconda edizione, l’appuntamento è per il 30 Aprile 2015, Le mille e una notte del lavoro narrato, un titolo che è tutto un programma, o se volete tutta una follia, dato che proporsi di passare dai 100 eventi di quest’anno ai 1001 del 2015 non è da persone sane.
Diciamo che però io sono un pazzo fiducioso, un pazzo che crede nelle idee e nel lavoro, e anche un pazzo fortunato, dato che continuo a incrociare tanti pazzi come me sulla mia strada.
Finisco ricordando Bob Dylan che nel 1964 cantava The Times They Are a- Changin’ per annunciare la rivoluzione che stava arrivando.
50 anni dopo, la nostra rivoluzione si chiama innovazione, comincia dalla testa delle persone, dalla loro cultura, dall’approccio con il quale fanno le cose.
Perché senza la rivoluzione dello spazzino che si mette scuorno, prova vergogna, se non pulisce bene il suo pezzo di strada, non ce la facciamo. E non ce la facciamo senza il vigile urbano e il fabbro, l’impiegato e lo startupper che si mettono scuorno se non fanno bene il loro lavoro.
Non ce la facciamo senza l’imprenditore che investe e innova perché si mette scuorno di chiamare competitività i salari da fame e i diritti calpestati.
Non ce la facciamo senza l’Italia che investe nella bellezza e nell’intelligenza, nella tecnologia e nel futuro perché si mette scuorno di avere più della metà dei suoi giovani senza lavoro, senza casa, senza autonomia, senza opportunità.
Forza, facciamo in modo che dalla nostra bella Napoli arrivi un messaggio forte al Paese, facciamole vibrare di idee, soluzioni ed emozioni queste mura così ricche di storia e di cultura, che ci sentano tutti e tutti comprendano che noi siamo gli innovatori, siamo quelli del lavoro ben fatto, e vogliamo cambiare l’Italia.