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L’uomo artigiano | Sottolineato e Note a margine

Il vaso di Pandora –  Hannah Arendt e Robert Oppenheimer (11)
Le persone che fabbricano cose di solito non capiscono quello che fanno (11)
Quando vedi qualcosa che tecnicamente è allettante, ti butti e lo fai; sulle conseguenze ci rifletti solo dopo che hai risolto vittoriosamente il problema tecnico. Con la bomba atomica è stato così. (12)
Discorso e azione come caratteristiche dell’essere umani (14)
Homo Faber (perché) e Animal Laborans (come) (15-16)
Animal laborans, Anomia, Operaio alla catena, Oppenheimer (16)
Che cosa ci rivela su noi stessi il procesos di produrre cose materiali? (17)
E’ possibile realizzare una vita materiale più umana, se solo si comprende meglio il processo del fare (17)
Fare le cose per bene perché é così che si fa (17)

Il progetto – L’uomo artigiano; guerrieri e sacerdoti; lo straniero (18)
La maestria designa un impulso mano fondamentale sempre vivo, il desiderio di svolgere bene un lavoro per se stesso (18).
L’intimo nesso tra la mano e la testa (18)
La resistenza e lambiguità possono risultare esperienze istruttive; per lavorare bene, l’artigiano deve imparare da quelle esperienze, anziché combatterle (19).
La motivazione cnta più del talento (20).
Motivazione, talento, organizzazione (20)
Il bravo artigiano usa le sue soluzioni per scoprire nuovi territori; nella sua mente, la soluzione di un problema e l’individuazione di nuovi problemi sono intimamente legati (20).
Il bravo artigiano di Sennett e il bravo democratico di Veca. Nella discussione pubblica siamo artigiani della parola? (20)
Mi sembra più realistico indagare come si possa modificare o regolare il comportamento concreto, piuttosto che esortare a un cambiamento dei cuori (21).
La questione “convenienza” (21).

Le tribolazioni dell’artigiano
Il falegname, la tecnica di laboratorio e il direttore d’orchestra sono tutti artigiani, nel senso che a loro sta a cuore il alvoro ben fatto per se stesso (27).
L’artigiano è la figura rappresentativa di na specifica condizione mana: quella del mettere un impegno personale nelle cose che si fanno (28).

Merit / Merito

Just look at the covers and headlines of the main weeklies and tabloids, at the most popular TV shows, at the mad scramble for even 15 seconds of fame, at quiz contestants trying to guess the number of beans in a jar; or at the day
traders now bereft of the internet ideology. It’s nice being rich. It gives prestige and social recognition. It’s worlds away from the effort of those who have a job or a profession, or write an article or a book, or paint a picture. And it has nothing in common with the demanding life of a businessman. The advantage is that everyone can dream of making it. The truth is that more people are born rich than become it, that the need of many is the dark side of the force of the wealth of few in a world that by definition does not have infinite resources, and that all this is hard to reconcile with the criteria of justice that should inform democratic, open societies in this controversial opening of the third millennium. The truth is also that an apology for wealth does not make any less common “the sensation of being sucked into a vortex in which all realities and values are annulled, exploded, deconstructed and recombined; an underlying uncertainty about what is fundamental,
what is valuable, and even what is real”.
The idea is that we can try to do much more – rewarding merit and reducing, if not actually eliminating, the inequalities that originate in our social organisation. It is a difficult idea, as we have often seen, particularly in Italy. But being aware that “encouraging merit in Italian society is not easy”, and that “in Italy the two essential values of merit, making individuals responsible for their actions and equal opportunities, are replaced by values of uncritical solidarity and weak permissiveness” does not mean giving up the urgent task of affirming the value of merit and fighting for fairer societies in which there is less inequality and more respect, in which education is more important than wealth, and the social recognition of what people know and can do is an essential part of a deep sense of personal selfesteem and of organisations’ sensemaking processes. Societies which reward the pleasure, at every level, of doing things properly because that is how they should be done.
All this suggests at least three further questions, that we might refer to the organisation of talent, to the definition of the educational system, and the search for strategies and actions that concretely guarantee equal opportunities for all in expressing and making the most of their talent throughout their lives.
The crux of the question is here, in my view, the point that will decide the country’s chances of making a radical change and suiting the word to the deed.
One thinks of Guido Dorso, and of the hundred men of steel with strong moral impulses and will, with clear ideas and programmes, who he thought should be entrusted with the Fate of southern Italy; of his praise of the concrete, what has always been lacking in southern intellectuals, with the result that none of the hundred revolutions that they had imagined has ever come to anything.
One thinks of Vincenzo Cuoco, and his idea that a revolution should be “desired and carried out by the whole nation for its need and not just be someone else’s gift”. A revolution that should represent a need and not a gift, because only then do people really choose the terrain of responsibility and involvement, indispensable factors for any change that aspires to be lasting.
One thinks of Dorso and Cuoco because affirming the culture and practice of merit in Italy’s institutions and society really is a revolution, and, as such, will not be a picnic. It will need men of steel, clear ideas and programmes, the responsible involvement of everyone taking part, and policies designed to eliminate any kind of access barrier.

Basta guardare alle cover e ai titoli dei principali settimanali e tabloid. Ai contenuti dei format televisivi di maggiore ascolto. Ai cacciatori di celebrità formato cluster da 15 secondi. Al popolo dei quiz pronto a indovinare il numero di lenticchie contenute in un vasetto. Ai day trading orfani della edeologia di internet. Essere ricchi è bello. Dà prestigio. Riconoscimento sociale. Niente di paragonabile con la fatica di chi ha un lavoro o un impiego, svolge una professione, scrive un articolo o un libro, dipinge un quadro. Niente a che vedere con il mestiere pur sempre impegnativo di imprenditore.
Il vantaggio è che tutti possono sognare di farcela. La verità che si nasce ricchi molto più di quanto lo si diventi. Che il bisogno di molti rappresenta il lato oscuro della forza della ricchezza di pochi in un mondo che per definizione non ha risorse infinite. Che tutto questo si concilia assai poco con i criteri di giustizia che dovrebbero informare società democratiche, aperte, in questo controverso inizio di terzo millennio. Che l’apologia della ricchezza non rende meno diffusa «la sensazione di essere risucchiati da un vortice in cui tutte le realtà e tutti i valori sono annullati, esplosi, decomposti e ricombinati; un’incertezza di fondo riguardo a cosa sia fondamentale, a cosa sia prezioso, persino a cosa sia reale».
L’idea è che si possa provare a fare decisamente di più. Dando valore al merito. Riducendo, se non proprio eliminando, le disuguaglianze che trovano la loro origine nell’organizzazione sociale. Idea difficile, come abbiamo visto a più riprese. In particolar modo nel nostro Paese. Ma essere consapevoli che «far sorgere il merito nella società italiana non è compito facile», che «i due valori essenziali del merito, responsabilizzazione degli individui sulle  proprie azioni e pari opportunità, sono da noi sostituiti da valori di solidarietà acritica e permissività lassista133» non vuol dire rinunciare alla possibilità, al compito, all’urgenza di affermare il valore del merito, di battersi per società più giuste. Società in cui ci siano meno disuguaglianze e dunque più rispetto, nelle quali l’essere colti sia più importante dell’essere ricchi, il riconoscimento sociale di ciò che le persone sanno e sanno fare sia una componente essenziale del senso profondo di autostima delle persone e dei processi di costruzione di senso delle organizzazioni. Società nelle quali si assegna un punteggio elevato al piacere, a ogni livello, di fare le cose per bene perché è così che si fa.
Tutto questo suggerisce almeno tre questioni ulteriori, che potremmo riferire all’organizzazione del talento, alla qualificazione del sistema educativo, all’individuazione delle strategie e delle azioni atte a garantire concretamente
a ciascuno eguali opportunità nell’espressione e nella valorizzazione del proprio talento per tutto l’arco della vita. Sta qui l’aspetto dirimente della questione. Il punto sul quale si gioca buona parte delle possibilità di fare il salto di qualità, di passare dalle parole ai fatti.
Viene da pensare a Guido Dorso. Ai cento uomini d’acciaio animati da forti impulsi morali e da forte proiezione della volontà, con idee e programmi chiari, ai quali egli pensava dovessero essere affidate le sorti del Mezzogiorno d’Italia; al suo elogio della concretezza, quella che è storicamente mancata agli intellettuali meridionali e che ha fatto sì che non una delle cento rivoluzioni che essi avevano fatto nelle loro teste fossero concretamente realizzate.
Viene da pensare a Vincenzo Cuoco. All’idea che una rivoluzione deve essere «desiderata e conseguita dalla nazione intera per suo bisogno e non per solo altrui dono». Una rivoluzione che deve rappresentare un bisogno e non un dono, perché solo in questo caso le persone scelgono consapevolmente il terreno della responsabilità e della partecipazione, fattori indispensabili per ogni cambiamento che aspiri ad avere un carattere duraturo.
Viene da pensare a Dorso e a Cuoco perché affermare la cultura e la pratica del merito nelle istituzioni e nella società italiana è davvero una rivoluzione e, come tale, non sarà un pranzo di gala. Richiederà uomini d’acciaio. Idee e programmi chiari. Partecipazione responsabile dei soggetti coinvolti. Politiche tese a eliminare ogni tipo di barriera all’accesso.

Making sense

The processes of conferring sense allow us to interpret, understand and activate the environments in which people operate and with which they interact.
Chaplin’s “speech to mankind” in The Great Dictator is one of the most marvellous, moving and involving examples of sensemaking of all times.
If is true, as Weick affirm, that sensemaking begins with a sensemaker, as much that the organization that involve oneself in sensemaking processes is, as such, an organization more capables to construct meaning, create knowledge and make decisions.

Every Breath You Take

I Rem cantano Bad day. Il telefono racconta di nuove possibili complicazioni.
Proprio così. Nei discount del dolore niente saldi. Si paga sempre a prezzo intero. Non è prevista ragione. Giustificazione. Senso. Accade. Ci addolora. Ci stravolge. Ci costringe a ridefinire ciò che per noi vale.
Mi appendo alle parole del mio amico R. La situazione della signora S. è seria ma non è compromessa. C’è spazio per la possibilità. Per la speranza.
Gli U2 cantano Beautiful day. Un giovane nero mi viene incontro. Penso che in questa città anche la carità riesce ad essere invadente. Provo fastidio. E’ a quattro – cinque passi da me e già comincio a dirgli che non ho soldi. Lui fa segno che ha fame. Io ripeto che non ho nulla, che non è giornata, che sono nervoso, che non ce la faccio più ad essere infastidito decine di volte al giorno da persone di varie età e di varia umanità che mi chiedono la carità, che non posso essere io a risolvere i problemi di tutti.
Siamo di fronte. La mia faccia e la sua. Mi da la mano. Mi ringrazia.
Procedo oltre. Due – tre passi ancora. Finalmente mi vergogno. Mi giro. Lo chiamo. Gli do 5 euro. Riprendo la mia strada. Penso che poco meno di un terzo del mio budget giornaliero se n’è andato così. E che lui non ha risolto nulla. Mi sono chiesto perché. Mi sono risposto perché la sua faccia mi ha chiamato. Penso che va bene così. Sting canta Every Breath You Take.

Collaborative Management (CM)

Collaborative Management (CM) is a business strategy that aims at networking capacity as an essential component of the competition processes, structurally and humanly, needs a creative synthesis between competition and collaboration, and so rejects the concept of technology without innovation.
The capacity of international collaboration, of coherent national systems, businesses, research institutes, is the crucial factor in competitiveness in this new century.
The winner is the one that gets there first and shows originality of vision and the ability to translate that vision into reality. But the field is so vast that winning is impossible without sharing data, information, points of view and knowledge.
The idea is that in the period of the liquid society, knowledge and the internet, more than ever before competition is not enough to win. People need to collaborate and interact, knowing that many are going to almost reach the finishing post, but, as always, only one is going to win.
A paradigmatic example is Riken’s collaboration with the Encode programme, launched in 2003 by the National Institute of Health (Usa), with the aim of developing new technologies52 for analysing the genome and applying them to 1% of the Dna. When the mapping of the genome was complete, it seemed clear that understanding how it worked was almost impossible: it was like holding a book with a monotonous sequence of 3 billion G, A, C, T53 in a line without knowing where each word begins or ends, and with no idea of the punctuation or the grammar. Identifying the areas that codify by protein meant being able to understand the words. Now we are trying to understand how the words are linked to each other. The next challenge is understanding their logic.
Competition. Since 2001 Riken has been developing its own technology to understand where the mRna  and their promoters are.  Collaboration – such as the Riken technologies that complement those of Encode, and the use by Encode of Riken’s technology for identifying when genes start to be transcribed and the promoters, and understanding how and when the genome acts.
Competition again: the winner is the one who attract the best talents from every part of the world, knowing that to attract the best scientists the living conditions for researchers and the capacity to attract the best young people are important.  Collaboration again. The Riken President’s vision gives very high points to the capacity to reward merit, organise talent, develop the possibilities of collaboration in all its forms, and to do research with institutes and centres of excellence from every part of the world.

Il Collaborative Management (CM) è una strategia di business che punta sulla capacità di networking come componente essenziale dei processi di competizione, che coniuga in maniera creativa competizione e collaborazione, che rifiuta il concetto di tecnologia senza innovazione.
La capacità di collaborazione internazionale dei sistemi paese, delle imprese, delle istituzioni di ricerca, delle imprese è il fattore cruciale di competitività in questo nuovo secolo.
Due le parole chiave: competizione e collaborazione.  Vince chi conquista la priorità, chi raggiunge per primo un determinato risultato, chi dimostra originalità di vedute e abilità di attuazione. Ma per vincere bisogna condividere dati, informazioni, punti di vista, conoscenza.
Paradigmatico l’esempio della collaborazione del Riken con il programma Encode lanciato nel 2003 dal National Institutes of Health (Stati Uniti), con l’obiettivo di sviluppare nuove tecnologie per l’analisi del genoma e applicarle a una parte, l’1 per cento del totale, del Dna. Completata la mappatura del genoma, è apparso evidente che capirne la funzione era pressoché impossibile: era come avere tra le mani un libro con una monotona sequenza di 3 miliardi di G, A, C, T messe in riga senza conoscere né dove comincia né dove finisce ciascuna parola, senza avere idea della punteggiatura, né della grammatica. Individuando le regioni che codificano per proteine è stato possibile comprendere le parole. Oggi si cerca di comprendere come le parole sono correlate tra loro. La prossima sfida è comprendere la loro logica.
Competizione: Riken che dal 2001 sviluppa tecnologie proprie per comprendere dove sono gli mRna e i loro promotori.
Collaborazione: le tecnologie Riken complementari a quelle di Encode. L’utilizzo da parte di Encode della tecnologia ideata dal Riken per identificare l’inizio della trascrizione dei geni, individuare i promotori, capire come e quando il genoma agisce.
Ancora competizione: si vince se si è capaci di attrarre i talenti migliori da ogni parte del mondo. Sapendo che per attrarre gli scienziati migliori sono importanti l’ambiente di ricerca, il living environment, la capacità di attrarre i migliori giovani.
Ancora collaborazione: è decisive la capacità di sviluppare in tutte le sue forme le possibilità di collaborare, di fare ricerca, con istituzioni e centri di eccellenza di ogni parte del mondo.

Pensare l’efficacia | Sottolineato e Note a margine

Francois Jullien, Il saggio è senza idee, Einaudi, 2002, pag. 109, Euro 10.00
Filosofia | Saggezza

Paragrafi
Un’alternativa nella cultura | Lo sconvolgimento del pensiero | Riaprire altri possibili nel proprio spirito | Per essere efficaci: modellizzare | O appoggiarsi sui fattori “portanti”: “surfare” | Domanda: quali sono i limiti di fecondità del modello? | La conduzione della guerra, non essendo modellizzabile, è forse per questo incoerente? | Nelle “Arti della guerra” cinesi: la nozione di potenziale della situazione | Sul coraggio: qualità intrinseca o frutto della situazione? | Valutazione – determinazione | Mezzo – fine | O condizione – conseguenza | Elogio della facilità | Processo: meditare sulla crescita delle piante | Modalità strategiche: l’indiretto e il discreto | Sul versante europeo: azione, eroismo, epopea | Sul versante cinese: il non agire | Azione / trasformazione | Mitologa dell’evento | Si tratta di empirismo? | Anche un contratto è in trasformazione (ma ance l’amicizia è un processo) | Progresso / Processo | Come pensare l’occasione? | Traslazione: efficacia / efficienza |   Obiezioni | La lunga marcia è un’epopea? | Cercare un margine per sopravvivere (anziché sacrificarsi) | Deng ha “trasformato” la Cina | Che cos’è un grande politico?

Filosofia | Saggezza
Attaccarsi a un’idea | Essere senza idea (privilegiata), sensa posizione fissa, senza io particolare, tenere tutte le idee sullo stesso piano
La filosofia è storica | La saggezza è senza storia
Progresso della spiegazione (dimostrazione) | Variazione della formula (la saggezza va rimugnata, “assaporata”)
Generalità | Globalità
Piano d’immanenza (che taglia il caos) | Fondo d’immanenza
Discorso (definizione) | Osservazione (incitamento)
Senso | Evidenza
Nascosto perché oscuro | Nascosto perché evidente
Conoscere | Realizzare (to realize): prendere coscienza di ciò che si vede, di ciò che si sa
Rivelazione | Regolazione
Dire | Non c’è niente da dire
Verità | Congruenza (congruo: perfettamente conveniente a una data situazione)
Categoria dell’Essere del soggetto |Categoria dl processo (corso del mondo, corso della condotta)
Libertà | Spontaneità (sponte sua)
Errore | Parzialità (accecati da un aspetto delle cose, non si vede più l’altro; non si vede che un angolo e non la globalità)
La via conduce alla Verità | La via è la percorribilità (per dove “va”, per dove è “possibile”)

Peter Drucker

From: Vincenzo Moretti, Dizionario del Pensiero Organizzativo, third edition, Ediesse, Rome, 2008

DRUCKER (PETER)

LINK:
APPRENDIMENTO ORGANIZZATIVO – BARNARD – DEMING – DECISIONE – GESTIONE della CONOSCENZA AZIENDALE – LIKERT – MODELLO GIAPPONESE

IDEE
Il profitto è soltanto uno dei tanti fini dell’impresa. Peter Drucker, ideatore del metodo di Direzione per Obiettivi, parte da qui per sostenere che chi dirige un’impresa deve saper guardare all’equilibrio tra vincoli e obiettivi, alla determinazione di priorità e scadenze, alla valutazione del contributo apportato da chi lavora sulla base dei risultati raggiunti (dati gli obiettivi) piuttosto che della fedeltà e del-l’accondiscendenza gerarchica.
Nello schema concettuale di Drucker gli obiettivi devono essere concreti, credibili, verificabili, il più possibile quantificabili; né troppo facili né troppo difficili (altrimenti generano scetticismo, scoraggiamento, ecc.) e comunque raggiungibili in un arco di tempo determinato; definibili, in particolar modo in tutti quei campi in cui il livello di attività e i risultati hanno un’influenza vitale e diretta sulla sopravvivenza e la prosperità dell’organizzazione (posizione occupata sul mercato, innovazioni, risorse finanziarie e fisiche, redditività, operato dei dirigenti e loro formazione, prestazioni e atteggiamenti dei dipendenti, responsabilità pubbliche); fissati non in modo unilaterale dai capi ma nel corso di riunioni atte a individuare le aree strategiche di sviluppo (per ogni area strategica la direzione generale discute collegialmente con i vari responsabili di area i piani di sviluppo d’azione di gruppo e individuali da raggiungere entro certe scadenze, a loro volta i responsabili di area e i loro superiori tengono delle riunioni periodiche di verifica dei risultati raggiunti rispetto a quelli previsti).

Ma cosa vuol dire stabilire un obiettivo?
Nella sostanza, sostiene Drucker, vuol dire attivare un processo che è insieme pratico e conoscitivo, ricco di feed-back e di controlli interni, che può essere articolato in 5 fasi:
1.    tradurre l’insieme dei fenomeni che caratterizzano l’attività aziendale in un numero il più possibile ridotto di proposizioni;
2.    verificare tali proposizioni alla luce dell’esperienza sul campo;
3.    prevedere il comportamento aziendale;
4.    valutare validità e opportunità delle decisioni nel momento in cui sono assunte;
5.    creare le condizioni affinché i manager possano valutare la propria esperienza e i risultati prodotti dal proprio operato.
Affinché ciò sia possibile, è necessario:
1.    costruire una matrice risultati/responsabilità che tenga conto della struttura organizzativa reale (deleghe, processi, risultati attesi);
2.    definire gli obiettivi in funzione del budget e delle competenze;
3.    attribuire obiettivi (di innovazione, di gestione, di integrazione del proprio team ecc.) di tipo qualitativo in funzione della vision aziendale;
4.    definire un sistema incentivante costruito intorno alla determinazione oggettiva del contributo fornito dai diversi ruoli individuati e alla verifica della correlazione fra obiettivi attesi e risultati conseguiti.

In definitiva, secondo DRUCKER, dirigere per obiettivi vuol dire sviluppare le strategie aziendali a partire dalla definizione e dalla qualificazione del comportamento organizzativo di tutti coloro che operano in azienda. Solo potendo contare in ogni momento su dati verificabili e analizzabili si può davvero governare, con la necessaria flessibilità e tempestività, il complesso processo di valorizzazione e di crescita dell’azienda e del capitale intellettuale che in essa opera.

Di estremo interesse anche quanto  afferma Drucker a proposito del processo decisionale in merito alle differenze esistenti tra Occidente e Giappone rispetto a ciò che significa «prendere una decisione». In Occidente – egli sottolinea – l’attenzione è rivolta alla possibilità – necessità di approcciare in maniera sistematica la «risposta alla domanda». In Giappone, invece, l’elemento portante, l’essenza della decisione, è rappresentato dalla definizione della domanda (c’è bisogno di prendere una decisione? che cosa essa riguarda?); nella misura in cui la risposta alla domanda (ciò che per gli occidentali rappresenta la decisione) dipende dalla sua definizione, il processo decisionale è riferibile alla definizione di ciò che effettivamente riguarda la decisione piuttosto che a quale decisione dovrebbe essere presa.

Why. Perchè?

Se negare la politica vuol dire negare la possibilità che una qualunque persona, in quanto aderente a un partito, un’associazione, un sindacato, un’organizzazione, un movimento, o in quanto semplice cittadino, possa partecipare alla costruzione del discorso pubblico, possa cioè giudicare e adottare, in quanto persona titolare di diritti, criteri autonomi per definire ciò che è giusto o ingiusto, buono o cattivo, desiderabile o deplorevole e partecipare alla costruzione di cerchie di comunicazione politica alternative a quelle dominanti.

Se nonostante la globalizzazione, la drastica accelerazione da essa impressa al processo di sgretolamento dello Stato nazionale, la cattiva maestra televisione, il quotidiano tentativo di dissolvere idee, interessi, rappresentanze, vite, in una sorta di grande circo mediatico, è in quanto partecipiamo che possiamo, ancora oggi, ritenerci consapevolmente cittadini.

Se siamo cittadini in quanto persone che, disponendo di opzioni diverse, si confrontano, si battono, scelgono, si assumono responsabilità, elaborano strategie, contribuiscono all’individuazione e alla ricerca autonoma di contenuti e obiettivi politici, si danno forme e strumenti organizzativi per perseguirli in maniera efficace, verificano sul campo idee, progetti, risultati.

Se questo rapporto tra partecipazione ed esercizio della cittadinanza ci accompagna non solo quando sono in campo grandi idee e movimenti, ma in ogni momento della nostra vita pubblica, quando facciamo la fila al seggio per dare il voto al candidato del nostro collegio uninominale, così come quando partecipiamo a una manifestazione per la pace in Medio Oriente, quando interveniamo alla riunione nella scuola elementare dove è iscritto nostro figlio, così come quando firmiamo un esposto al presidente della circoscrizione per ottenere un corrimano che aiuti i più anziani a non scivolare all’uscita della stazione della funicolare.

Se la politica è il principale antidoto che ciascuno di noi ha a disposizione per provare a vivere da cittadino e non da suddito, da titolare di diritti e non da destinatario di favori, da persona politicamente libera e non da servo contento.

Perchè nei confronti della politica aumenta sempre più la disaffezione, lo scoramento, l’incomprensione, il rifiuto, il disprezzo?

About Partecipare

Ci piacerebbe discutere di politica. Delle opportunità che essa rende disponibili per sottrarsi alla dittatura della necessità e aprire la strada alla dimensione della possibilità.
Una politica fatta di passione, senso di responsabilità, lungimiranza (1), che non sia indifferente alla distribuzione della felicità, attenta a ciò che le persone riescono a essere e a fare effettivamente, capace di sostenerle nei loro tentativi di ampliare la gamma delle possibilità tra le quali possono effettivamente scegliere.
Una politica che sappia dare valore ai diritti, non sottovaluti i rischi del condizionamento sociale e dell’adattamento, non riduca la libertà a un semplice vantaggio, sappia stabilire un ordine di priorità nella definizione dei criteri che ci dicono della nostra riuscita reale e della nostra libertà di riuscire.
Racconteremo dunque di donne e di uomini che hanno a cuore un interesse personale o collettivo, un ideale sociale, un progetto di società più felice o anche solo meno ingiusta e intendono operare, per variegate ragioni e motivazioni, con aspettative, tempi e impegno diversi, per vederli realizzati.
Persone che a tale scopo cercano di stabilire connessioni con altri, come loro facenti parte di cerchie, gruppi, comunità, associazioni, sindacati, partiti e, per questa via, tentano di rendere più forti e stabili le reti sociali di cui fanno parte e, con esse, le norme di reciprocità e di fiducia che le sostengono.
Persone che non intendono rinunciare rassegnarsi all’idea della politica come pratica del meno peggio (2), che credono nella possibilità di dare agli altri senza rinunciare ad avere cura e a valorizzare sé stessi (3), che considerano il sapere non solo una delle più significative ricchezze della società contemporanea ma anche una delle opportunità più importanti a nostra disposizione per essere e sentirci liberi e per esercitare la solidarietà con altri esseri, come noi, umani (4).
In questo libro si racconta insomma di persone che in sintonia con i propri convincimenti e, soprattutto, con le proprie azioni, ritengono giusto partecipare da attori alla costruzione del discorso pubblico.
E di persone che invece no. Perché non hanno più né voglia né fiducia per fare domande alla politica. Perché se proprio sono costretti a farlo si limitano a chiedere favori. Perché vivono la politica come una sommatoria indistinta e poltigliosa di ingredienti diversi che più soggetti solo apparentemente alternativi propongono a cittadini sempre meno interessati a investire tempo, impegno, ingegno, in questa direzione. Perché ritengono che la discussione, il confronto con punti di vista diversi dai propri, lo sforzo di comprendere le ragioni degli altri, siano esercizi a volte nobili, più spesso ipocriti, sempre inutili. Perché non credono nella possibilità che le idee, le convinzioni, le azioni di ciascun individuo possano realmente incidere, nell’ambito della sfera pubblica, sullo stato di cose esistenti. Perché sono stufi di sentirsi dire che stanno per diventare tutti ricchi, soprattutto se sono percettori di reddito fisso, o che stanno tutti impoverendo, in particolar modo se fanno parte della schiera dei cosiddetti patrimonializzati. Perché non hanno più voglia di perdere tempo con gli infiniti paroloni dei teorici dell’eccellenza, e aspirano a vedere riconosciuti dal versante sociale, professionale ed economico gli sforzi di chi, come loro, punta sulla crescita di buone competenze intermedie.
Per questa via, proveremo a porci sia domande che riguardano la teoria politica descrittiva, quella che punta, per l’appunto, a descrivere come stanno le cose e non come esse dovrebbero stare alla luce di un qualche criterio, sia domande che chiamano in causa i nostri impegni normativi, i nostri criteri del giudizio politico, la nostra idea di società giusta o desiderabile.
Ci ritroveremo in questo modo a ragionare sulla natura della politica democratica, su quale ruolo o spazio essa continua ad avere nelle nostre vite. E potremo vedere come cambiano, più specificatamente nella parte ricca del mondo, i soggetti della politica democratica, come e perché cittadini e cittadine governati possono agire politicamente, nello spazio pubblico, e in che modo sono in grado di scegliere e valutare i governanti (come sappiamo, il criterio del giudizio del cittadino sulla politica è la sua prima forma di partecipazione, dato che, rinunciando a giudicare, il cittadino si tira fuori dalla vita pubblica).

Comunicare e vivere sono la stessa cosa?

In questo nostro mondo nel quale sembra avverarsi la profezia di Baudrillard (l’inflazione dell’informazione produce la deflazione del senso) è realistico l’ideale astratto del “cittadino informato”, cioè del cittadino che deve essere informato su tutto per poter partecipare con razionalità alla vita pubblica?
O, come suggerisce Michael Schudson, è più utile per il cittadino limitarsi ad essere monitorante (monitorial citizen)? A fare scanning dell’ambiente che lo circonda, in modalità a basso consumo cognitivo, ed essere pronto a diventare attivo solo quando il suo intervento sia rilevante?
E ancora.
Come cambiano al tempo della società della comunicazione i luoghi e i protagonisti dello spazio pubblico?
In che senso la capacità di comunicare condiziona sempre più l’effettiva possibilità di partecipare in maniera attiva alla costruzione del discorso pubblico? E concetti come Informazione / Comunicazione, Condivisione / Partecipazione, Apprendimento – Conoscenza appaiono correlati più che iin ogni altra fase della storia dell’umanità?
Di tutto questo ci piacerebbe discutere su queste pagine. Come sempre senza nessuna prestesa di dire parole risolutive.
Buona partecipazione.

La parola ai giurati

Il film è “La parola ai giurati”. Il regista, geniale, Sidney Lumet. Gli attori, straordinari, Henry Fonda, Lee J. Cobb, Ed Begley, E.G. Marshall, Jack Warden, Martin Balsam, John Fiedler, Jack Klugman.
Perché vi raccontiamo tutto questo?
giurati.jpgPerché i 12 giurati in questione devono prendere una decisione importante. Che può portare un ragazzo alla condanna per parricidio. E dunque alla sedia elettrica. E perché anche di decisioni ci piacerebbe discutere da queste parti. Con un occhio rivolto alle idee (a partire da quelle di Herbert Simon e James March) e l’altro rivolto a ciò che concretamente facciamo ogni qualvolta prendiamo una decisione, da soli o in compagnia, in famiglia, nello sport o sul posto di lavoro. Buona partecipazione.

Meglio diplomati che laureati?

ILunedì 24 settembre alla Feltrinelli Libri e Musica di Piazza dei Martiri, Napoli, è stato presentato il libro “Come ti erudisco il pupo – Rapporto sull’università italiana”, Ediesse editore.
Quella che potete leggere qui di seguito è la mail inviata F. C.:

[…] Mi è dispiaciuto moltissimo andar via e non aver ascoltato le risposte ai tanti quesiti posti dal “pubblico”.
In realtà anche io avrei voluto fare un piccolo intervento ma, anche un pò per timidezza, non mi sono esposto.
Ciò che avrei voluto fare è aprire una piccola parentesi su quelle che sono le conseguenze di questa condizione universitaria sul mondo del lavoro.
Gli effetti malefici di tutto ciò che è stato oggetto di dibattito questa sera, non possono che avere effetti altrettanto negativi nel mondo lavorativo. Infatti mi capita spesso di constatare che nell’azienda per la quale lavoro (una società di ingegneria meccanica, elettronica, informatica, di oltre mille dipendenti, dove la ricerca industriale è pane quotidiano e l’innovazione del prodotto è il core business) è sempre più difficile selezionare neo assunti laureati di primo livello in ingegneria. Pensi che si preferisce esaminare un diplomato a massimo punteggio che un laureato del nuovo ordinamento.
Morale della favola: la percentuale di laureati in azienda che superava il 90% fino al 2002 è oggi del 85% pur rimanendo intatto il numero totale dell’organico.
Preoccupante, molto preoccupante. E ancor più malefico è il doppio torto che si fa alle nuove generazioni che si affacciano in un contesto lavorativo di tipo globale ma con molte carte in meno da potersi giocare causa una inadeguata preparazione rispetto ai colleghi europei.

Che dire?
Che di fronte a fatti e considerazioni di questo tipo si rischia davvero di rimanere senza parole.
Che la riforma che doveva portare la nostra università in Europa e i nostri giovani a trovare più facilmente lavoro pare aver clamorosamente fallito anche da questo versante.
E che, anche con il vostro aiuto, contiamo di sapere se l’azienda di F.C. è un’eccezione o se pure altre aziende considerano i diplomati più “affidabili” dei laureati di primo livello.

Daimon Mediterraneo

C’era una volta la questione meridionale. Che adesso non c’è più. Dissolta più che risolta. Lasciata cadere piuttosto che abbandonata.
Le ragioni? Tante.
Una classe dirigente meridionale che pensa più al proprio destino che a quello della nazione. Una classe dirigente nazionale che non ci crede, non ci pensa e se ci pensa pensa che oggi è il Nord la vera questione da affrontare.
Sta di fatto che la storica questione, che per oltre un secolo e mezzo ha appassionato intellettuali, politici, cittadini, operai, contadini, militanti e non, del Sud e del Nord, giace dimenticata. Senza più avere una dimensione politica. Senza mai aver avuto una dimensione globale.

Ci sono molti modi per raccontare il Mezzogiorno oggi.
Si può essere tentati dall’utopia e inseguire una qualche versione meridionalista del celeberrimo “I have a dream”. Cedere al fascino del viaggio simulato nel “Sud che ci piacerebbe indipendentemente da quello che c’è”. O più semplicemente chiedersi da quali punti di vista e a quali condizioni lo sviluppo della società dell’informazione può rappresentare per il Sud l’occasione per ridurre disuguaglianze e ritardi, per determinare e cogliere opportunità, per favorire la diffusione di modelli, sistemi, produzioni e processi innovativi di sviluppo.

Quattro indicazioni utili per le iniziative meridionaliste prossime venture.

La prima ci ricorda che la storia della solidarietà è bella, travagliata e controversa.
Bella della bellezza propria dei valori importanti. Quelli che infiammano i cuori e segnano le vite. Che permettono di condividere idee, passioni, fatti, significati. Di riconoscere nell’altro uno di noi. Di scoprire e sentire di non essere soli.
Travagliata perché richiede comportamenti coerenti. Responsabili. Consapevoli. Dunque niente affatto scontati.
Controversa perché in quanto tale riesce assai di rado a incidere sui processi reali che attraversano la società. In particolare quando resta confinata nello spazio dei valori, quando non riesce a stabilire connessioni con la rappresentanza e gli interessi.

La seconda ci dice che prendere atto del fatto che la solidarietà da sola non basta, vedere il confine esistente tra ciò che è proprio del dominio della solidarietà e ciò che invece non lo è, tra ciò che essa può fare e ciò che invece no, rappresenta probabilmente la maniera migliore, di certo la più utile, per riconoscere la sua importanza e il suo valore, così come quello delle pratiche individuali e sociali a essa connesse.

La terza ribadisce che per vincere una battaglia non basta che sia giusta. Bisogna che sia sentita propria da chi è impegnato a combatterla.
Qualunque battaglia per essere sentita propria deve tenere insieme la testa e il cuore, gli interessi e i valori.

La quarta ci riporta alla necessità che il Sud sappia contare innanzitutto sulle proprie forze. Sia capace di pensare, in primo luogo dal Sud, il futuro del Sud. E ciò ci riporta a sua volta al ruolo e alla funzione della società civile meridionale, al rapporto e alle differenze tra leader e classe dirigente, al protagonismo dei cittadini meridionali.

A Sud un certo punto si è pensato che il Sud fosse cambiato. Stesse cambiando. In un modo che – anche se non eliminava distanze, squilibri, dualismi, ritardi, e soprattutto non riusciva ad assumere carattere e valore generale, a fare cultura, a determinare svolte – rimaneva comunque per molti aspetti significativo.

La verità è invece che il Sud, nel quale non mancano esperienze e realtà positive, nel suo complesso non riesce a innovare comportamenti, strategie e politiche. E dunque continua a essere artefice, prigioniero e vittima della consistenza e della profondità dei propri problemi “storici”, a rimanere lontano dai livelli di sviluppo e di qualità della vita centrosettentrionali, a non valorizzare adeguatamente il proprio capitale umano e sociale.

Ma se ciò che non funziona è proprio il quadro, l’insieme, il contesto, che fare?
Nella nostra personale agenda, alla voce “cose da fare al più presto”, abbiamo trovato:
1. Favorire a ogni livello (a partire naturalmente dalla scuola), percorsi di educazione alla legalità e al rispetto delle regole.
2. Investire in socialità e formazione.
3. Promuovere lo sviluppo di reti sociali e tecnologiche.
4. Attivare nuovi strumenti di sostegno finanziario con l’obiettivo di favorire e accompagnare lo sviluppo di imprese innovative.
5. Sostenere gli sforzi di coloro, in primo luogo i giovani, che cercano di costruirsi un futuro mettendo su un’attività autonoma o una piccola impresa.
Puntando decisamente sull’intreccio tra innovazione tecnologica, creatività e contenuti.
Attivando percorsi di formazione mirati all’acquisizione di competenze organizzative e di gestione.
Favorendo ipotesi di collaborazione tra imprese, scuole, università, società di promozione e di sviluppo.
Individuando concrete ipotesi di lavoro, veri e propri piani di impresa, che guardino in primo luogo ai temi dello sviluppo sostenibile, dell’accesso alla società dell’informazione, dell’incremento di nuove professionalità, del lavoro a distanza.
6. Valorizzare le vocazioni e le identità meridionali. Evitare di dissipare patrimoni fatti di tradizione, cultura, storia, capacità di fare.
7. Attivare localmente una domanda in grado di sostenere la diffusione delle nuove tecnologie e dei nuovi media.
8. Monitorare le attività locali, raccogliere e diffondere le esperienze più significative, valorizzarne i risultati.

Nel Mezzogiorno non si è mai compiutamente affermata una classe dirigente intermedia in grado di definire e perseguire, dal Sud, percorsi credibili di emancipazione e sviluppo culturale, sociale e politico per il Sud.
Nessuna società cresce e si sviluppa se a “fare” sono solo i “capi”. E se tra i pochi che “fanno” ciascuno continua a fare per conto suo.

Il tema è di quelli ineludibili. Tra i tanti nodi da sciogliere c’è quello che riguarda la connessione tra società e istituzioni, la valorizzazione dei corpi sociali intermedi, delle autonomie funzionali e sociali, dei poteri decentrati, della società civile, che è particolarmente importante.
è su questo terreno che può infatti formarsi una classe dirigente che sappia contribuire alla promozione e allo sviluppo delle risorse culturali, sociali e produttive locali; che sappia cercare innanzitutto in se stessa le energie per risolvere i propri problemi.
Senza semplificazioni. Senza rimanere vittima della suggestione dell’uomo forte. Cercando, con pazienza e lavoro, di rafforzare la struttura democratica della società, di incentivare l’autonomia e la responsabilità, di favorire l’adozione di strategie innovative, di affermare un’idea di mercato fatto di regole, norme che garantiscano la concorrenza, che impediscano lo sfruttamento di posizioni dominanti, che favoriscano la qualità dei prodotti e dei sistemi produttivi.
è su questo terreno più che su ogni altro occorre a nostro avviso sparigliare le carte. Rompere un meccanismo troppo improntato sull’uomo solo al comando. Costruire i ponti e le reti in grado di connettere idee e persone, scelte istituzionali e strategie imprenditoriali, modi di vita e tempi di lavoro. Per fare quel salto di qualità che a partire dalle persone porta a cambiare le regole e il sentire collettivo. Per diffondere, accanto a una nuova cultura dei diritti, un’etica dei doveri e delle responsabilità dei cittadini ancora troppo debole. Per promuovere un nuovo protagonismo della società meridionale.
Formare una classe dirigente significa in fondo anche questo: far crescere a ogni livello la capacità di individuare problemi e trovare soluzioni, la voglia di agire in maniera autonoma e di non rinunciare ad assumersi responsabilità. Pensando con la propria testa. Agendo con le proprie mani.

L’idea che il secolo scorso possa essere simboleggiato dalla scoperta dell’atomo e quello attuale dalla rete, per quanto non susciti in questa fase la stessa euforia da “terra promessa” che a un certo punto ha caratterizzato la diffusione di Internet e lo sviluppo dell’economia digitale, sintetizza in maniera efficace la profondità, la complessità, la novità dei cambiamenti in corso e rappresenta dunque un primo significativo fattore di discontinuità con la fase precedente.
Prendiamo la figura dell’imprenditore. Nel passato più e meno recente il capitano di ventura, il capitalista weberiano, l’imprenditore schumpeteriano, è sostanzialmente un eroe solitario, un self-made man; oggi l’imprenditore ideale è quello che sa pensarsi come un nodo intelligente (molto meglio naturalmente se con tanti soldi a disposizione) di una catena ampia di valore, di un sistema largo di affari e relazioni. E lo stesso processo per molti aspetti condiziona lo sviluppo della società e della politica.
I soldi contano un po’ di meno, le idee e la capacità di collegarsi, di connettersi con le persone, i sistemi e i contesti istituzionali, dal livello locale a quello nazionale e internazionale, contano un pò di più.

Un secondo rilevante fattore di discontinuità può essere individuato nel fatto che l’incertezza non solo cresce, ma per molti versi si istituzionalizza e diventa inquietudine.
L’attentato alle Twin Towers c’è l’ha come sbattuto in faccia, ma in realtà abbiamo cominciato a metabolizzare dosi massicce di incertezza con i tempi dell’innovazione tecnologica, che si accorciano sempre più, con le società “avanzate” che quei cambiamenti tendono sempre più a prendere a modello, con la trasformazione e in qualche caso la dissoluzione delle strutture intermedie, con le difficoltà e la crisi degli Stati nazione e delle Costituzioni nazionali e il contemporaneo ampliamento dei poteri assai meno “comprensibili” delle grandi corporazioni e delle lobbies economiche e finanziarie internazionali.

Il gioco cambia oramai ripetutamente, e con esso le regole, i ruoli e i poteri dei diversi giocatori in campo. Cosicché siamo costretti continuamente a fare i conti con la marcata tendenza alla concentrazione dei poteri in poche mani e la contemporanea necessità di ridefinire gli spazi di effettiva incidenza democratica.

Il terzo elemento di discontinuità si riferisce a un ambito più propriamente economico e ci dice che al tempo dei bit le differenze tra i diversi settori produttivi sono meno importanti, in quanto essi rappresentano l’insieme delle risorse di cui un dato Paese o regione possono disporre.

Nel nuovo contesto, la questione dunque non è più se sviluppare l’industria o i servizi, il turismo o il terziario avanzato, ma come fare in modo che le città interagiscano con i distretti tecnologici, con lo scopo di costruire, in primo luogo attraverso la riorganizzazione e la valorizzazione del sistema scolastico e formativo, l’insieme di cultura, servizi, infrastrutture che determinano la qualità ambientale, indispensabile per vivere meglio e invogliare gli investitori a scegliere un determinato territorio piuttosto che un altro.

Allo stesso tempo, si tratta di capire come rivolgere energie e attenzione alla possibilità di creare lavoro nei segmenti di mercato sociale volti alla soddisfazione della domanda di reintegrazione, di assistenza e di cura delle persone, dato che i servizi alla persona saranno decisivi per impedire che lo sviluppo tecnologico determini fenomeni di disintegrazione sociale, di emarginazione o di vera e propria perdita di identità per fasce sempre più consistenti di cittadini.
Il quarto fattore di discontinuità riguarda l’organizzazione e la struttura dei sistemi produttivi.
L’economia digitale non elimina certo le differenze tra grandi, medie e piccole aziende, né le gerarchie che a esse sono connesse. Eppure, ancora una volta, non si può negare che da un lato è più vasto il sostegno a processi di formazione di imprenditorialità diffusa e dall’altro crescono le possibilità di integrazione e di accesso a risorse critiche di competenza di tipo tecnologico, organizzativo e di comunicazione.
Occorre perciò dire con molta nettezza che se la questione, come pensiamo, riguarda le opportunità, oggi esse sono assai più numerose e significative che nel passato più e meno recente.
Per le ragioni che abbiamo più volte evidenziato. Perché nei cambiamenti di fase le gerarchie precedenti sono obiettivamente meno forti, i lacci un po’ meno stretti, le frontiere un po’ più a portata di mano. Perché in Italia e in Europa le iniziative che, puntando su ricerca e innovazione, sono volte a creare le basi per una maggiore competitività dei sistemi territoriali, che nella nuova fase hanno un’importanza strategica più marcata di quelli aziendali, sono davvero numerose e passano in primo luogo per la capacità di dotarsi di reti di informazione e di comunicazione efficienti. Perché le persone, il patrimonio di conoscenze e di competenze che ciascuna di esse rappresenta, contano sempre di più.

Il fattore umano si impone sempre più come l’elemento principale di differenziazione competitiva. Al di là dell’attuale ciclo negativo di mercato e del conseguente rallentamento – o addirittura inversione – della tendenza di crescita occupazionale, la capacità di reperire, motivare e trattenere personale altamente qualificato può veramente fare la differenza. […] Per anni abbiamo potuto attingere a questa risorsa vitale che non avrebbe altrimenti potuto trovare sbocchi adeguati, trasformando così una tragedia nazionale, quella della disoccupazione intellettuale, in una grande opportunità. […] Ma non è tutto: il livello di condivisione degli obiettivi dell’azienda e la stabilità del personale nel posto di lavoro sono estremamente migliori rispetto ai livelli classici dell’industria statunitense. Viene così evitata la dispersione di conoscenze ed esperienze acquisite, preservando un prezioso patrimonio di know-how aziendale che in altri ambienti verrebbe periodicamente vanificato.

Proviamo per un attimo a immaginare che abbia ragione John Keats. E che per capire a cosa serve il mondo bisogna pensare al mondo come alla “valle del fare anima”.
E proviamo poi a seguire James Hillman. Nella sua idea che recuperando l’anima al mondo si possa ricreare una psicologia politeistica, pagana, polimorfa, meridionale, antindividualistica, mediterranea, che ci riporta alle distinzioni, al mito.
Ad Ares, che irrompe nelle nostre case ogni volta che accendiamo la televisione. Ad Afrodite, che ci parla attraverso la pubblicità e i grandi magazzini. A Ermes, che vive nella comunicazione o nel mercato azionario. A Era, la forza, i legami, i vincoli della famiglia. A Pan, che “riporta la psiche alla sua radice insita nell’istinto naturale, semi-animale, procurando un radicale mutamento di coscienza, un allontanamento totale da dove si era prima”.
Proviamo adesso a chiederci come mai, in questo fantasmagorico mondo chiamato economia digitale, uomini del Sud, stiano lasciando il segno, siano tra i principali protagonisti del sogno digitale non solo italiano, stiano segnando il corso della storia ancora giovane e tuttora tribolante dell’economia dei bit, in modi e forme del tutto inedite.
Nel passato più e meno recente non sono naturalmente mancati donne e uomini meridionali che abbiano saputo conquistare con le proprie idee e le aziende spazi significativi sui mercati mondiali. Ma ciò è avvenuto sempre all’interno di segmenti specifici di mercato. Spesso importanti. A volte prestigiosi (valga per tutti l’esempio della moda). Ma in ogni caso di nicchia.
Ora per la prima volta uomini, idee e imprese del Sud conquistano un ruolo da protagonista non solo sul terreno economico ma anche su quello politico e sociale.
Per una volta insomma l’impresa meridionale fa cultura. Assume un valore di carattere generale, con successi che meritano di essere analizzati ed emulati.

Quelle che, nel momento in cui molte cose si stanno sciogliendo nell’aria, la gran parte delle reti organizzative si regge sulla forza dei legami deboli, e le capacità e le idee delle persone contano di più che nel passato, rendono meno improbabile l’affermazione delle capacità creative, visionarie, degli uomini del Sud, forse maggiormente predisposti a “un radicale mutamento di coscienza, un allontanamento totale da dove si era prima” e dunque più pronti a fare il salto dentro la rivoluzione digitale.

Pan e futuro, dunque.
Potrebbe essere uno slogan per la riscossa. La chiave per cogliere fino in fondo alcune opportunità. Per mettere a valore culture, storie, voglia di fare. Per definire contesti più ricchi dal punto di vista culturale e sociale prima ancora che economico e produttivo. Per non rinunciare ai diritti. Né a un’idea di società giorno dopo giorno un po’ meno ingiusta. Per ripensare le tante storie del Sud dentro una cultura e una storia mitica. Creativa. Flessibile. Capace di dare identità e di cogliere le differenze. Capace di coniugare l’innovazione, le tecnologie, con la memoria. E magari di dare concretezza a una “vecchia” idea di Abramovitz, la teoria del “catching up”21, che in buona sostanza afferma che quando in un Paese (o in una regione) meno sviluppato vengono immesse nuove tecnologie, si ha una crescita media della produttività del lavoro superiore a quella dei Paesi (o delle regioni) leader e di conseguenza si avvia un processo di riduzione degli squilibri, fino alla loro progressiva scomparsa.
Cosa occorre ancora?
La consapevolezza che non vi sono diritti ai quali non corrispondano doveri. E che assolvere i propri doveri è la strada più efficace per garantire meglio i diritti propri e le libertà di ciascuno.
è una consapevolezza che non si vende. Si conquista. Facendo ancora una volta ciascuno i conti con il proprio dáimon. Pensandosi a livello sociale come parte di una rete dinamica di eventi interconnessi in cui nessuno è fondamentale e ciascuno dipende dalla qualità e dalla coerenza delle relazioni con gli altri. L’insieme delle connessioni determina la qualità della struttura dell’intera rete, la sua capacità di assicurare al più ampio numero di persone il più ampio paniere di diritti concretamente esigibili.

È intorno a questi temi che si può provare a vincere la sfida meridionale pour excellence: costruire una classe dirigente meridionale, fare il salto di qualità che a partire dalle persone porta a valorizzare il capitale umano e sociale, a rispettare la cosa pubblica e le regole, a rendere possibili ipotesi e percorsi di sviluppo.

L’idea è che si possa partire da qui per vivere un finale di partita diverso. Per far emergere le storie di successo. Raccontarle. Diffonderle. Moltiplicarle.
Mostrando efficienza. Onestà. Voglia di fare.

Per una questione che non c’è più sono dunque ancora tante le questioni non risolte. Cosicché una parte del nostro Paese continua ad avere livelli di civiltà, vivibilità, sviluppo significativamente più bassi di quelli del Centro-nord.

Rispetto. Citazioni e note a margine dal libro di Richard Sennett

21. IL RISPETTO NON COSTA NIENTE?

30. lo sviluppo di un qualsiasi talento porta con sé un elemento fondamentale di ogni arte e mestiere: fare qualcosa per il solo piacere di farlo bene, ed è questo aspetto della professionalità che garantisce all’individuo un senso profondo di stima di sé.

42. la sensazione di essere risucchiati da un vortice in cui tutte le realtà e tutti i valori sono annullati, esplosi, decomposti e ricombinati; un’incertezza di fondo riguardo a cosa sia fondamentale, a cosa sia prezioso, persino a cosa sia reale. [Marshall Berman, l’esperienza della modernità, Il Mulino, 1999, pag. 154].

43. Pico della Mirandola [Sulla dignità dell’uomo] e l’uomo artefice di sé stesso 43. HILLMAN E DAIMON

44. Riesman era ossessionato dal senso di responsabilità, era mosso da questa sua sensibilità.

47. nessuno può costruirsi un futuro solido odiando il proprio passato.

57. come dice Adam Smith, provare simpatia spesso significa immaginare falsamente come propria la sofferenza di un altro.

65. c’è reciprocità nel termine riconoscimento. Fu il filosofo Fichte il primo ad inserire la parola riconoscimento nel linguaggio giuridico, esplorando come le leggi possano essere strutturate in modo che la costituzione riconosca le esigenze di stranieri e migranti. Rousseau aveva ampliato il dibattito in senso democratico, vedendo nel riconoscimento reciproco un problema di comportamento sociale, così come di diritto. Negli scritti di John Rawls, riconoscimento significa rispetto per le esigenze di chi è diverso da noi; negli scritti di Jurgen Habermas, riconoscimento significa rispetto per coloro che sono portati a dissentire in base ai propri interessi.

68. DIGNITA’ DELLA PERSONA E DIGNITA’ DEL LAVORO

69. esiste un divario enorme tra il volere agire bene nei confronti degli altri e il riuscire a farlo.
69. UNA COSA E’ CONOSCERE LA VIA E UN’ALTRA E’ PERCORRERLA (MATRIX).

73. ci sono tre vie per conquistare rispetto:
attraverso la crescita personale, in particolare sviluppando abilità e competenze;
attraverso la cura di sé;
dando agli altri.

85. ogni essere umano possiede una “motivazione alla riuscita”, la spinta a fare bene qualcosa. [David McClelland].
Nel lavoro come nell’istruzione, il giudizio “tu non hai potenzialità” è devastante come mai potrebbe esserlo un’osservazione del tipo “hai fatto un errore”.

90. la competenza può essere posta al servizio del mestiere, oppure al servizio della padronanza sugli altri.

93. il mestiere, dice Thorstein Veblen, porta l’artigiano al rispetto di sé ma, bisogna aggiungere, non necessariamente al rispetto per gli altri.

95. negare o nascondere l’influenza di coloro grazie ai quali si è cresciuti fa sì che la forza e la capacità di un individuo sembrino qualcosa di totalmente proprio.

101. ci sono una varietà di cose che gli individui possono fare anziché perdere tempo in continui confronti [Howard Gardner, formae mentis: saggio sulla pluralità dell’intelligenza, Feltrinelli, 2000]

104. LA PROFESSIONALITA’ PRODUCE RISPETTO DI SE’

105. INDIPENDENDENZA E CONDIZIONE ADULTA.

111. servitù volontaria: “vorrei comprendere come è possibile che tanti uomini, tanti borghi, tante città, tante nazioni sopportino talvolta un tiranno solo, che non ha forza se non quella che essi gli danno, che ha iil potere di danneggiarli unicamente in quanto essi vogliono sopportarlo, che non potrebbe far loro alcun male se essi non preferissero subirlo invece di contrastarlo …. E’ il popolo che si fa servo, che, potendo scegliere se esser servo o libero, abbandona la libertà e si sottomette al giogo: è il popolo che acconsente al suo male o addirittura lo provoca. [Etiene de La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria, Torino, La Rosa, 1995].

114. CON LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE L’ADULTO RISPETTATO E’ L’ADULTO CHE LAVORA.

115. da Locke in poi l’infanzia si amplia e poi nasce l’adolescenza.

118. l’adulto che ha coscienza del legame ancora esistente con il bambino che fu ha una comprensione più profonda del suo presente. [Freud]

119. la trasgressione produce colpa, l’insufficienza produce vergogna (chi copia un esame si può sentire colpevole, chi non lo passa prova vergogna).

119. “c’è qualcosa di ostile in noi stessi che impedisce all’amore di completarsi e raggiungere la perfezione” [Hegel]. Gerhart Piers parla della vergogna come un senso profondo di incompletezza, anche di fronte a chiare prove di realizzazione o gratificazione; la persona che non riesce a provare questo senso di compiutezza immagina ci sia qualcosa di sbagliato dentro di sé.
Le esperienze concorrenziali dell’economia di mercato alimentano il senso di colpa nei lavoratori adulti; la sconfitta sul mercato provoca la perdita della stima di sé. [Adler]

120. LA DISEGUAGLIIANZA ERODE IL RISPETTO.

121. si prova vergogna quando qualcuno viene reso visibile pur non essendo pronto ad essere visibile.

122. spesso i problemi diventano evidenti solo dopo essersi trasformati in errori. Nel sistema politica come nelle aziende si parla del bisogno solo dopo che sono capitati i guai.

123. autonomia come un processo di conversione della necessità in desiderio [Erik Errikson]; autonomia come capacità di trattare gli altri inn quanto differenti da sé; una forza di carattere basata sulla percezione degli altri; essa cioè istituisce una relazione fra le persone, anziché sancire una differenza che le isola. [Winnicott]

125. autonomia come accettazione della possibilità di non riuscire a capirsi.
Autonomia significa accettare dell’altro quello che tu non capisci, un’eguaglianza opaca. Nel farlo, tratti la realtà della sua autonomia al pari della tua. Naturalmente il rapporto prevede reciprocità.

125. Il popolo deve avere fiducia nei suoi governanti; se ha fiducia, accorda loro una libertà di azione senza sentire bisogno di consultazioni, monitoraggi e supervisioni costanti. Se non godesse di questa autonomia, il governante non potrebbe mai fare una mossa. [Locke]
BERLUSCONI SEGUACE DI LOCKE?

127. c’è bisogno di coesione sociale perché una persona ha sempre bisogno dell’altra per raggiungere un senso di completezza [Emile Durkheim].

132. INSEGNARE A PESCARE E NON REGALLARE IL PESCE.

137. COMPASSIONE E SOLIDARIETA’

141. lo scopo della protezione sociale è di occuparsi del bene dell’assistito, e dovrebbero essere del tutto irrilevanti i sentimenti dell’assistente sociale. Assistere senza compatire è il principio base per qualsiasi tipo di welfare state laico. [Harendt]

146. LA SENSIBILITA’ (SOLIDARIETA’) E’ FEMMINA?
RISPETTARE SENZA AMARE [SOLIDARIETA’ FRA ESTRANEI]

150. la carità implica sottomissione; la pietà produce disuguaglianza.

161. la deistituzionalizzazione del welfare è indice di un più ampio mutamento in corso nella società contemporanea: un attacco alle istituzioni rigide del mondo del lavoro e della vita politica. In un caso come nell’altro, si sta affermando la convinzione che le comunità possano rispondere ai bisogni sociali delle persone meglio delle burocrazie.

161. LO SCRIVANO BARTEBLY.

162. Julien Sorel, protagonista de “Il rosso e il nero”, impara ad adattare velocemente il suo comportamento, le sue espressioni, nonché il vestito, ogni volta che sale un gradino della scala sociale e tuttavia si accorge che si tratta solo di apparenze e dunque soffre di anomia (Durkheim).

164. in uno stato moderno il potere reale, che non si esercita né né nei discorsi parlamentari né nelle enunciazioni dei sovrani, ma nell’uso quotidiano dell’amministrazione, è necessariamente e inevitabilmente nelle mani della burocrazia. Della militare come della civile. [Max Weber]

176. l’autonomia, lo abbiamo visto, non è semplicemente un agire; essa richiede anche una relazione nella quale una parte accetta di non essere in grado di comprendere qualcosa dell’altro. Tale accettazione garantisce l’eguaglianza nella relazione. L’autonomia presuppone connessione ed estraneità, vicinanza e impersonalitàà.

177. CAPIRE DI COSA HANNO BISOGNO GLI UTENTI E ASCOLTARE IL LORO PARERE.

180. ORGANIZZAZIONI PIATTE E CORTE.

181. alla IBM nel 1965 esistevano 23 anelli gerarchici che separavano il vertice dalla base; nel 2000 soltanto 7.

182. nel 1965 gli investitori tradizionali tenevano le azioni in media per 46 mesi; nel 2000 per 8 mesi.

183. WINNER TAKE ALL – CHI VINCE PIGLIA TUTTO.

183. la rivoluzione informatica permette all’unità centrale operativa un colpo d’occhio istantaneo sull’organizzazione nel suo complesso.

184. l’organizzazione flessibile riesce a funzionare come istituzione totale più della piramide burocratica tradizionale.

185. oggi nessuna nuova azienda può essere creata sul principio dell’impiego a vita. L’azienda flessibile è divenuta un modello per il welfare.

185. welfare flat. Welfare piatto. Welfare short. Welfare corto.
185. mentre il prezzo resta il riferimento principale per il mercato dei beni di consumo, il costo da solo non è un indice di qualità in materia di istruzione o sanità.

186. gli utenti del welfare non possono essere considerati dei clienti qualsiasi di un mercato qualsiasi: essi hanno bisogno di consigli disinteressati e in un mercato i venditori o chi offre servizi non sono disinteressati.

187. WELFARE: DA DIRITTO PER TUTTI I CITTADINI A BONUS AUTOFINANZIATI PER I RICCHI E CARITA’ PUNITIVA PER I MENO ABBIENTI.

187. nel mondo degli affari, l’eccesso di domanda rispetto all’offerta aumenta i profitti; nel welfare state, la domanda superiore all’offerta produca miseria.

190. ASSOCIAZIONE E COMUNITA’ GESELLSCHAFT E GEMEINSCHAFT.

193. COFFEE HOUSES – FACCIA A FACCIA – LLOYD’S.

194. NON CONFONDERE AIUTO E AMICIZIA. + ANZIANI E – GIOVANI VOLONTARI.

196. bonding (tessere legami – interno – identità) e bridging (gettare ponti – esterno – pluralità sociale).

198. architettura della simpatia: movimento che va dall’identificazione con persone che si conoscono all’identificazione con sconosciuti.

198. sono molto soddisfatto quando risalgo la strada che ho appena fatto e la vedo pulita, senza i mucchi di spazzatura che la ingombravano.
LO SPAZZINO INTERVENTISTA DI VIVIANI.

200. l’importanza dell’abilità nel lavoro utile separa l’assistenza dalla compassione, impedisce che la pietà sommerga la relazione.

207. il rispetto è un modo di esprimersi. Vale a dire, trattare gli altri con rispetto non è una cosa automatica, anche con la migliore volontà del mondo; portare rispetto significa trovare le parole e i gesti che lo rendano convincente.

209. LA ZIA SORDA DI TALLEYRAND

214. un uomo o un gruppo che riesca a donare collanine di conchiglia obbliga chi le riceve; in futuro costoro dovranno rendere il dono, ribaltando le parti della cerimonia. Nel frattempo, però, ognuna delle parti rimane legata all’altra dal vincolo di reciproca assistenza. Questo scambio trasforma i nemici in amici.
CHI RINGRAZIA ESCE FUORI DALL’OBBLIGO.

215. le relazioni mettono radici solo se lo scambio non è equivalente. Lo scambio asimmetrico socializza [Marcel Mauss]
216. il welfare state deve all’individuo qualcosa di più del semplice ritorno monetario dei contributi versati.
“Il lavoratore ha dato lla sua vita e la sua opera alla collettività e ai suoi datori di lavoro …. Coloro che beneficiano dei suo servizi non possono pensare di assolvere il proprio debito nei suoi confronti semplicemente pagandogli un salario. Lo stato stesso, come rappresentante della collettività, gli deve, come gli devono i suoi datori di lavoro, e anche con il suo concorso, una certa sicurezza nella vita, contro la disoccupazione, lla malattia, la vecchiaia e la morte.”[Marcel Mauss]

216. l’’asimmetria tra lavoro e protezione sociale è il socialismo come lo intendeva Mauss.

217. la reciprocità sta a fondamento del mutuo rispetto. … il donatore restituisce qualcosa alla società.

218. uno scambio economico è una transazione breve; le nuove forme istituzionali di capitalismo sono particolarmente brevi.

219. SCAMBIO CAPITALISTICO: SIMMETRIA E SCARSITA’ DELLA RISORSA TEMPO.

221. esiste una tensione fra rispetto di sé e rispetto reciproco.

222. gli scambi rituali costruiscono il rispetto reciproco; lo scambio porta la gente a esteriorizzare, e ciò è necessario per lo sviluppo di qualità relazionali.

225. la questione è come aprirsi all’esterno mantenendo un solido senso sé.

226. troppa rigidità = troppa fragilità [Lévi-Strauss]

227. l’antropologo chiama bricolage il processo di smontaggio di una cultura in pezzi e il suo allestimento eri il viaggio. Lévi-Strauss chiama “meteci” (métics) coloro che praticano il bricolage, trasformando l’accezione classica del termine greco per indicare gli stranieri nell’idea di gente che può ricordare da dove proviene anche sapendo di non poterci più vivere; questo genere di viaggio egli lo chiama “meticciato” (métissage), un percorso lungo il quale c’è un cambiamento ma non la perdita della memoria. Il viaggiatore, quindi, conserva un certo grado di sicurezza e fiducia in sé mentre fa fronte, e accetta, la diversità e l’incoerenza della nuova situazione.

228. l’importanza del passaggio da una conoscenza tacita a una conoscenza esplicita.
TACITO – ESPLICITO – TACITO COME TESI – ANTITESI – SINTESI

230. il filosofo Michael Polanyi dice che l’ambito del tacito racchiude ciò che sappiamo più che ciò che possiamo dire.
Michail M. Bachtin e il primato del contesto sul testo.
Maurice Merleau-Ponty e la sicurezza ontologica.
Freud sostiene invece che il sapere tacito e la sicurezza ontologica diano un falso senso di sicurezza.

234. LA RESA DI DEWEY E LA RINUNCIA TEMPORANEA AL CONTROLLO DI SE’ E DELL’AMBIENTE CIRCOSTANTE. LASCIARSI ANDARE.
POSARE LO SCUDO.

236. è necessario che cambi qualcosa nel profondo dell’individuo. Rivolgersi verso il mondo esterno significa che il prigioniero riforma anziché essere riformato.
SENNET E RORTY

236. divario fra linguaggio e realtà.
Secondo Daniel Kahneman l’assunzione di rischio ispira depressione e ansia anziché speranza; la gente si concentra su ciò che deve perdere piuttosto che su ciò che può guadagnare; i lavoratori si sentono giocati, non giocatori. Ne risulta quella che Albert Hirschman chiama mentalità di defezione piuttosto che di protesta.

237. IL RISCHIO SENZA POTERE GENERA DEPRESSIONE

238. PRIMA CAMBIAMO POI CE NE ACCORGIAMO

241. per trattarsi con reciproco rispetto le persone dovrebbe fare a pezzi i presupposti taciti e le visioni condivise del mondo.
ROMPERE PER COSTRUIRE

247. fin dall’inizio della sua carriera mio zio fu convinto che il capitalismo, insistendo unicamente sulla condizione materiale e sul prestigio degli individui, non fosse in grado di superare il divario della disuguaglianza.

249. ogni scambio positivo con il nemico rischia di indebolire la coesione di classe.
COSCIENZA DI CLASSE E RAPPORTO PARALIZZANTE FRA SE’ E IL MONDO.

254. la buona volontà unita all’improvvisazione – il jazz sociale – non crea vincoli.

255. i 3 codici moderni del rispetto: realizza te stesso in qualche modo; prenditi cura di te; aiuta gli altri.

255. “il compito di una società civilizzata è di eliminare quelle diseguaglianze che trovano la loro origine non nelle differenze individuali, bensì nell’organizzazione sociale.
SALVATORE VECA E LA SOFFERENZA SOCIALMENTE EVITABILE.

Formarsi è giusto

Formarsi è giusto. Perché in un mondo che cambia a un ritmo sempre più incessante chi sa, e sa fare, ha più possibilità di non ritrovarsi estraniato, emarginato, escluso, dai processi produttivi, sociali, culturali. Perché in una società che, con strabica, talvolta insopportabile, autoreferenzialità, ama definirsi della conoscenza, l’importanza dell’apprendimento per tutto l’arco della vita dovrebbe rappresentare un presupposto ancor prima che un esito. E perché forse, come intuì una bambina un pò di anni fa, la libertà è davvero il diritto di sapere delle cose.

Il tema è qui la formazione continua per i lavoratori. E all’interno della FC i fondi interprofessionali.
Il piano formativo è un inganno?
La domanda è solo apparentemente provocatoria.

Oggi tutti i settori produttivi più dinamici sono in tensione estrema verso mutamenti forti. Cambiano con rapidità Organizzazioni, Attori e Sistemi di Relazioni interne alle grandi imprese. E spesso è il contesto a determinare il modello organizzativo.
A fronte di una siffatta velocità di mutamento la competenza collettiva rischia di indebolirsi se anche il sistema d’interfaccia organizzativa diventa mutevole.

Il nostro lavoro di sperimentazione, in un quadro di collaborazione molto fattiva con le Parti Sociali ha permesso di:

portare alla luce le differenze tra ciò che c’è e ciò che appare;

testare la tenuta metodologica del modello di pianificazione, ma nel contempo di evidenziare la scarsa sostenibilità di un sistema relazionale “radicalmente“ bilaterale;

delineare le peculiarità della situazione italiana, le criticità ad esse collegate, la difficoltà a immaginare transfer meccanici di buone pratiche sperimentate altrove in Europa;

promuovere un percorso sostenibile che può generare apprendimento di sistema, a partire dalla identificazione di attori e competenze;

individuare i possibili attori chiave chiamati a governare i Piani formativi nelle grandi imprese italiane;

delineare gli elementi di un Piano formativo sui quali è possibile che si attivi una relazione partecipata tra le parti sociali e con quali possibili strumenti.

ALCUNE INDICAZIONI EMERSE DALLA RICERCA

Gli attuali modelli di bilateralità formativa aziendale, tranne qualche caso di eccellenza, non contemplano una concertazione diffusa su tutto il Piano Formativo.

C’è una bilateralità macro negli intenti e molto sfumata sul processo.

Emergono con evidenza alcuni momenti concertativi più di altri, con Fasi e Attori abbastanza definiti, ma la Relazione e i Ruoli restano elementi che meritano ulteriori riflessioni e azioni di rinforzo.

Ad oggi l’allineamento degli intenti e degli obiettivi di tutti gli attori chiave, è più facilmente individuabile all’inizio ed alla fine dei Piani formativi, sulle finalità, gli indirizzi e sulle valutazioni finali.
Il processo del Piano è in parte lasciato alle regole del “mercato”; in parte delegato ad un sistema di attori di facilitazione tecnica; in piccola parte legato ad aspetti negoziali (es l’orario).
Sarebbero utili format di orientamento alla relazione bilaterale (es. l’allineamento degli intenti, la condivisione degli indirizzi del PFA); un set di metodologie e strumenti di natura snella, leggera e adattabile, utili alla verifica congiunta in itinere e finale dei Piani.

Da parte sindacale viene segnalata l’esigenza di entrare meglio nei momenti di monitoraggio e verifiche in itinere; nella individuazione della tipologia dei destinatari; nella definizione del quadro del riconoscimento della competenza ex post; azioni di sensibilizzazione e informazione delle RSU affinchè possano entrare di più e meglio nel merito dei piani formativi.

Da parte aziendale viene segnalata l’esigenza di rendere più flessibili le modalità di accesso al finanziamento dei Piani e maggiore snellezza nelle procedure di gestione.

ALCUNE INDICAZIONI PER IL FUTURO

Nella realtà dei fatti, la firma sul Piano non è garanzia di condivisione.

Processi e procedure hanno bisogno di un background culturale e di un sistema di competenze nel quale ciascun Attore fa la propria parte; di tempi di elaborazione e di sedimentazione lunghi e complessi nelle imprese; di costanza e continuità; di valorizzazione delle buone pratiche; di azioni di rafforzamento, di sostegno agli Attori Sociali (informazione diffusa nelle Imprese; formazione mirata al ruolo di agenti di formazione; sensibilizzazione, anche a partire dal contesto territoriale esterno alle imprese; regia dei processi da parte delle OO.SS territoriali nei confronti delle RSU e delle Associazioni datoriali nei confronti delle imprese associate).

La negoziazione, concertazione, condivisione del piano formativo richiede insomma dei ruoli organizzativi e sociali, un processo di costruzione dal basso da animare e preparare con gli stessi attori sul campo, nei contesti aziendali, misurando modalità e strumenti con le parti direttamente coinvolte.

Gli Attori sociali sono chiamati a svolgere un nuovo ruolo di agenti di formazione continua, agenti di apprendimento nei luoghi di lavoro e ciò pone all’ordine del giorno la necessità di ripensare le strategie di relazione e di stare dentro la relazione bilaterale con un ruolo meno difensivo e più propositivo.

Nell’attivazione di processi di bilateralità, di condivisione dal basso, le responsabilità delle scelte restano interne al sistema di relazione tra le Parti Sociali. E se non c’è un inquadramento preliminare di alcune variabili di contesto (clima organizzativo, relazioni sindacali) e una presa d’atto di quali sono gli Attori che entrano in campo nel sistema di relazione che si crea dentro e fuori le aziende (figure di facilitazione della relazione, figure di supporto alla creazione della relaizone di fiducia, le organizzaizoni datoriali, le OOSS territoriali) si fa oggettivamente molta più fatica ad impostare processi reali di bilateralità.

Si può rafforzare il processo di condivisione, lavorando per:
rendere più sistemico e meno contingente il rapporto con la strategia formativa nelle Grandi Imprese;
definire un orizzonte temporale medio lungo per la programmazione al fine di determinare un processo virtuoso (utilizzare gli esiti finali dei Piani e le verifiche di impatto per fare nuove programmazioni);
pensare e definire congiuntamente il fabbisogno formativo.

Per costruire sensibilità alla condivisione serve una “pedagogia” fondata su esperienze e pratiche di terreno che definiscano quando e cosa condividere, gli intenti e gli impatti, gli obiettivi e i risultati, per le imprese e le persone.

Può essere utile prevedere formule leggere di verifica in itinere, gestibili da parte dei non addetti ai lavori;
snellire le procedure di accesso alla formazione continua;
rafforzare le valutazioni e le autovalutazioni sugli esiti, costruendo indicatori di misura legati alla qualità e all’efficacia della formazione finanziata.
individuare sedi settoriali e territoriali per favorire le prassi di bilateralità nelle imprese.

Dichiarazione di intenti.

Incontro

“E correndo l’incontrai lungo le scale / quasi nulla mi sembrò cambiato in lei / la tristezza poi ci avvolse come miele / per il tempo scivolato su noi due”: comincia così “Incontro”, una delle sei meravigliose storie raccontate nell’album “Radici” da Francesco Guccini.

Ma si sarebbe potuto cominciare anche con “vorrei incontrarti fuori i cancelli di una fabbrica / vorrei incontrarti lungo le strade che portano in India / vorrei incontrarti ma non so cosa farei, forse di gioia io di colpo piangerei”, citando in questo caso “Vorrei incontrarti” di Alan Sorrenti che all’inizio della carriera ha pubblicato due album meravigliosi, “Aria” e “Come un vecchio incensiere”, nei quali hanno suonato musicisti come Jean Luc Ponty e Antonietta (Tony) Hilary Marcus, Tony Esposito, David Jackson, stratosferico sassofonista dei Van Der Graaf Generator, un gruppo che chiunque pensa di amare il rock dovrebbe conoscere.

Ma perché vi raccontiamo tutto questo?
Perché vorremmo provare a giocare assieme a voi con alcune parole. Con la speranza che ciò possa offrire qualche spunto al popolo degli studenti che si appresta a fare i conti con sua

Dato che i miei 5 minuti passano veloci passo ai libri per segnalarvi l’incontro con Proust e Kafka che dobbiamo a Franco Rella e al suo Scritture estreme, edito da Feltrinelli: un saggio di estrema bellezza, un viaggio fino al centro della Terra, un coltello fino in fondo al cuore.
Per chi ancora non ama Proust e Kafka. E per chi invece si.

Rimango volentieri sul pianeta libri per accennare all’incontro con noi stessi, il nostro daimon, il codice della nostra anima.
Proprio Il codice dell’anima è il titolo del meraviglioso, sconvolgente, straordinario libro di James Hillman edito da Adelphi.
Un libro assolutamente da leggere e da meditare.
Per comprendere, amare, sopportare meglio chi siamo. Tutto quello che siamo. Con i nostri pregi, pochi. E i nostri difetti. Tanti.
Per comprendere, amare, rispettare, incontrare gli altri. Con le loro teste. Le loro facce. Le loro mani. I loro modi di vivere, pensare, amare, giocare, odiare.

Per finire una saga cinematografica, una citazione e un ricordo che ci proiettano verso quello che a mio avviso è l’aspetto più bello e interessante del tema di oggi, l’incontro con l’altro.

L’incontro con l’altro non è mai semplice, banale, automatico. Richiede sempre un piccolo ma prezioso investimento in disponibilità, la voglia di fare il primo passo, o anche di “levare l’occasione” come usiamo dire noi napoletani.

La saga è quella di X Men, di cui è appena uscito il volume 3 in DVD, che nel modo spettacolare che caratterizza la migliore produzione – tradizione dei fumetti e del cinema, suggerisce, in particolare ai giovanissimi, riflessioni non banali intorno al tema “accettazione delle diversità”.

La citazione è del grande Levinàs: “L’origine dell’esistenza etica è la faccia dell’altro, con la sua richiesta di risposta. L’altro diventa il mio prossimo precisamente attraverso il modo in cui la sua faccia mi chiama”.

Il ricordo si riferisce a una nobile, antica, tradizione napoletana purtroppo ormai quasi completamente dimenticata: il “Sospeso”.
In buona sostanza accadeva che chi entrava in un bar per prendere un caffè, magari insieme a un amico, pagasse un caffé in più, il “sospeso” in questione, a favore di un futuro, spesso sconosciuto, avventore.
Era un gesto di disponibilità, di amicizia, di civiltà in fondo semplice ma assai ricco di significato.

Anche se non sempre ce e accorgiamo il significato è una cosa importante.
È la voglia di non rinunciare a trovare senso e significato che ci permette – nonostante le insopportabili, banali, retoriche, cose che, nel bene e nel male, si dicono di questa città – di continuare ad avere voglia di disponibilità, amicizia, civiltà, di far bene le cose perché è così che si fa.
Senso e significato sono il vero antidoto, le vere briscole che abbiamo a disposizione per combattere l’anomia, il disorientamento che incombe sulle nostre stanze di vita quotidiana.

Potrei dire che sono sempre più numerosi quelli che vivono tutto questo come una sorta di ultimo tentativo.
Preferisco constatare che i miei 5 minuti sono terminati.
Che sono riuscito a tornare laddove avevo cominciato, cioè a Guccini (stanze di vita quotidiana è il titolo, o il titolo del ,titolo come direbbe Alice nel paese delle meraviglie, di un altro suo album).
Che perciò mi fermo e vi dò volentieri la parola.

Il leader è nudo?

Alcune riflessioni bollenti dopo una notte angosciante – esaltante nel corso di un mattino non ancora sereno in un paese sulla lama di un coltello.

1. Se anche in Senato l’Unione ha potuto conquistare, seppure per un soffio, la maggioranza, lo si deve non solo al voto degli italiani all’estero, ma anche al voto degli elettori del Sud.
Diversamente da quello del Centro, dove decenni di buon governo rappresentano, tra alti e bassi, un dato consolidato di riferimento, nel Sud si tratta di un esito niente affatto scontato, perché se è vero che Berlusconi si è particolarmente distinto per la propria incapacità (non volontà) di affrontare seriamente almeno alcuni dei problemi più importanti di questa parte del Paese, è altrettanto vero che da molto tempo la questione meridionale non c’è più. Dissolta più che risolta. Colpevolmente lasciata cadere piuttosto che abbandonata.
Le ragioni? Tante e naturalmente non tutte fuori dal Sud.
Ad esempio la classe dirigente meridionale non si pensa abbastanza in quanto tale e non dimostra una sufficiente capacità di innovazione sul terreno delle cose da fare e delle modalità con le quali farle, come vedremo anche più avanti; le donne e gli uomini del Sud fanno fatica ad assumere fino in fondo i doveri e i diritti della cittadinanza, finiscono troppo spesso col delegare, si comportano troppo spesso come sudditi invece che come cittadini.
Ciò detto, resta il fatto che le responsabilità delle classi dirigenti nazionali sono grandi.
Riuscirà il governo Prodi a ridare una dimensione politica alla questione meridionale e dunque a ridare un’identità al nostro Paese? Sta qui a nostro avviso uno snodo importante per il nostro futuro. Sicuramente più di un ulteriore dibattito su come si dovrà chiamare il nuovo contenitore partito del centro sinistra.
Da queste parti, continuiamo a ritenere che la Cosa sia più importante del Nome della Cosa. Che i contenuti siano più importanti dei contenitori. Che i programmi di governo e la coerenza con la quale si portano avanti siano, per tutti, il vero banco di prova.

2. Abruzzo 53.2; Basilicata 60.4; Calabria 56.8; Campania 49.6; Molise 50.5; Puglia 47.9; Sardegna 50.9; Sicilia 40.5: sono i dati relativi alle percentuali conseguite dall’Unione nelle regioni meridionali.
Spicca, in negativo, il dato della Campania, terz’ultima. (per ragioni diverse, i dati della Puglia e della Sicilia erano in fondo prevedibili: la particolare forza del blocco moderato e le note commistioni in Sicilia, il valore aggiunto portato da Vendola e l’alto tasso di astensionismo nelle recenti elezioni regionali in Puglia, ecc).
In Campania, neanche un anno dopo le elezioni regionali, va male nonostante Bassolino, De Mita, Mancino, ecc. Ci sarà un giudizio degli elettori sulla capacità e sulle modalità di governo a livello regionale? Sui criteri di formazione delle liste? Sui livelli di civiltà e di sicurezza delle nostre vite e delle nostre città? Ci sarà qualche riflessione da fare anche in riferimento alle prossime elezioni al comune di Napoli?

3. Abruzzo 18,4; Basilicata 19,9; Calabria 14,4; Campania 14,1; Puglia 15,6; Sardegna 17,2; Sicilia 11,4: questi sono invece i risultati conseguiti dai DS nel Sud (in Molise è stata presentata la lista dell’Ulivo anche alla Camera).
Qui l’urgenza di affrontare la questione Campania, dopo 15 anni di governo, appare ancora più evidente. Per quanto ci riguarda continuiamo a ritenere che molte mani e molte teste siano meglio di una. Che occorre privilegiare le capacità e le competenze piuttosto che le appartenenze. Che una classe dirigente sia meglio di un leader, per quanto autorevole possa essere.
Si può avviare finalmente una riflessione seria intorno a questo punto?

L’immondizia siamo noi?

L’immagine che vedete qui a fianco è stata scattata sabato 1 aprile 2006 a via Nicotera, a Napoli. E forse merita qualche commento. Così come il titolo di questo post, solo in parte provocatorio.
Naturalmente non è la peggiore immagine possibile di Napoli. Nè segnala il peggiore dei suoi mali. Del resto, in un mondo nel quale ogni ora, tutte le ore di tutti i giorni, muoiono 1200 bambini, la maggior parte per la fame e la sete, senza che neanche facciamo finta di accorgercene, si fa fatica a pensare a qualcosa come al peggio in assoluto. A napoli come in ogni altro posto del mondo.
Ma queste poche righe non si prefiggono di salvare il mondo, ma soltanto di condividere qualche considerazione.
A Napoli ieri la giornata era molto bella. Napoli è bella. La primavera a Napoli è bella. Ma purtroppo a Napoli la vita è sempre più impossibile.
Se c’è qualcuno che sente il bisogno di appiccicare il cartello ritratto nella foto è perché non ne può più di vedere suoi “simili” che portano per strada l’immondizia fuori dalle fasce orarie consentite.
Il fatto è che non sembra esserci rimedio.
Non sono trascorsi 15 minuti che siamo su via Caracciolo. Il mare, il Vesuvio, Capri, un incanto.
Abbandonati sul muretto tre contenitori sporchi di pizza e due bottiglie di birra vuote. A meno di tre o quattro metri c’è un contenitore per i rifiuti. Servirebbe scrivere “l’immondizia come voi sta a tre metri”?
Tra poche settimane si voterà per il rinnovo del consiglio comunale.
Sulle carenze, i limiti, le omissioni di chi governa e di chi si oppone in questa città ci sarebbe davvero tanto da dire. Ma di questo potete leggere sulle cronache de la repubblica, il corriere del mezzogiorno, il mattino, ecc.
Qui la questione è un’altra. Fino a quando saremo immondizia e non cittadini potremo davvero sperare di avere una classe dirigente seria, rigorosa, capace, onesta?

Blog e senso critico

E’ di fine 2005 la notizia di una ricerca condotta all’Università della Tecnologia di Sidney dalla quale risulterebbe che l’utilizzo dei blog aiuta gli studenti a pensare e a scrivere con maggiore senso critico e che attraverso i blog anche gli studenti più ritrosi riescono a manifestare le proprie convinzioni, ad esprimersi e a partecipare attivamente ai vari dibattiti.

Ulteriori notizie sulla ricerca le potete trovare su ABC science online.

Primarie, again

Adesso che l’onda mediatica sulle primarie si è finalmente arrestata, è possibile tornare a parlarne con un pò di calma?
Io spero di sì. E perciò di seguito potrete leggere alcune riflessioni un pò più meditate sull’argomento.

La discussione pubblica, in tema ad esempio di guerra e pace, di fecondazione artificiale, di diritti delle persone, di qualità delle istituzioni che ci governano, di scuola, di immigrazione, di violenza urbana, di ricerca scientifica e tutela dell’embrione, è oggi il principale strumento a nostra disposizione per non finire preda dell’autismo sociale, per sottrarci all’ipnotico e condizionante potere di vecchi e nuovi media, evitare di essere o sentirci cittadini in affitto, come quando siamo coinvolti o chiamati a decidere su questioni assai rilevanti senza avere il modo, il tempo, le conoscenze, per poter definire un autonomo, meditato, argomentato, punto di vista.
Nulla sembra poter sfuggire alla regola, come dimostra il percorso che ha portato alla scelta di svolgere elezioni primarie per definire la leadership dello schieramento di centrosinistra.
Sottolineato che non si tratta in questa sede di mettere in discussione il valore di tale percorso o l’importanza del processo democratico messo in atto (ad altri, con l’ausilio di altri strumenti, toccherà, è toccato, fare la conta, valorizzare, evidenziare, sottostimare, a seconda del punto di vista, dell’interesse, del risultato, l’evento) resta il fatto che coloro che si erano a suo tempo preparati per partecipare alla scelta del candidato leader hanno a un certo punto letto sui giornali o sentito in tv che forse saltava tutto perché i candidati erano due invece che uno (fortunatamente alla fine sono diventati sette); che passata qualche settimana ancora dai giornali e dalle TV si è appreso che i risultati delle regionali (cosa c’entrano?) rendevano superflua la consultazione, dato che la leadership di Prodi (che in realtà non era candidato in nessuna regione) era stata definitivamente legittimata dalla consultazione amministrativa; che passata ancora qualche settimana è rispuntata la possibilità di tornare a votare per le primarie perché la Margherita ha deciso di presentare proprie liste per la quota proporzionale alle elezioni politiche del 2006 (ancora una volta, cosa c’entra?) e proprio le primarie rappresentano la mediazione per evitare la crisi dell’Unione e la scissione tra i seguaci di Prodi e quelli di Rutelli, Marini, De Mita.
Detto che quelle che avete letto tra parentesi sono alcune delle domande che immaginiamo un bel po’ di persone “normali” si saranno poste, resta l’interrogativo finale: se, come del resto è già avvenuto, in quel caso con ottimi risultati, in Puglia, vincesse (avesse vinto) il candidato di Rifondazione Comunista, lo schieramento di centro sinistra avrebbe retto alla prova?
In questo caso la morale della storia è assolutamente evidente: c’è insomma ancora molta strada da fare prima che anche nel nostro Paese la cultura delle regole possa contare su radici solide, robuste.
In Italia c’è sempre un appuntamento decisivo dietro l’angolo, non è mai il momento giusto per discutere fino in fondo, per definire preventivamente regole precise e vincolanti per tutti.
Siamo un paese a scarso senso civico, dove si fa sempre in tempo ad essere accusati di fare il gioco del “nemico”. Dove predominano culture politiche che anche se in maniera e per ragioni diverse, (si doveva salvare il Paese dai comunisti, si doveva salvare il mondo dai capitalisti), hanno tollerato e persino coltivato l’idea che il fine giustifica i mezzi, che le questioni di metodo sono le questioni di chi non ha argomenti, che le regole non sono importanti. Dove i partiti politici fanno molta fatica a rinunciare all’idea di servirsi delle persone piuttosto che essere al loro servizio. Dove persino a livello dei “fabbricanti d’opinione” quasi nessuno ha tempo e voglia di spiegare che per questa via la politica non ha futuro, indipendentemente dal fatto che a vincere siano quelli che ciascuno è portato a considerare come “i buoni” o “i cattivi”.
Detto tutto questo, rimane il bisogno semplicemente più impellente di non rinunciare a giocare la partita. Bisogna farlo però con rigore. Senza dare l’impressione che le regole possano cambiare di volta in volta, a seconda degli interessi di chi le fa.
Costruire una cultura delle regole significa anche questo. Il rispetto delle regole è oggi più che mai la premessa di ogni possibile cambiamento.

L’amore addosso

Sfondo bianco.
Linee nere e rosse che si cercano.
Si intrecciano.
Si fuggono.

Dama di cuori.
L’amore addosso.
Pensieri che sanno di tempesta.
Occhi che dicono di malinconia.

Fuori solamente pioggia.
Mentre il racconto va.
Nel’aria odore di sogno.
Domani poi chissà.

Grazie Miozzi

Roberto Miozzi è il padre di Luca, uno dei tre ragazzi morti (gli altri 2 erano David Donzel e Michael Val) una settimana fa sull’autostrada A 26, svincolo di Genova Voltri, in seguito all’impatto con un tir guidato dal senegalese Bamba Kebe Mamadou.
Grazie a lui e ai genitori degli altri 2 ragazzi per essere riusciti anche solo a pensare, in un momento per loro così atroce, di aiutare la moglie e i 6 figli di Mamadou.
Grazie per aver raccolto 4800 euro, per aver permesso alla moglie e ai figli di Mamadou di dargli l’ultimo saluto.
Grazie per queste parole. “Non abbiamo mai pensato che fosse stata colpa sua. Era un povero extracomunitario che lavorava come gli altri, anzi forse di più degli altri, e in 22 anni non aveva mai avuto incidenti. Purtroppo era alla guida di un tir vecchio, supercarico e malandato”.
Grazie per avere avuto il coraggio e il senso civico di guardare all’ “altro”, come a una persona.
Grazie per non aver ceduto ai luoghi comuni.
Grazie per la loro lezione di civiltà.

Piazza Plebiscito

L’iniziativa è di quelle sicuramente encomiabili: sensibilizzare i cittadini sulla difesa del patrimonio boschivo.
Come è scritto sul pieghevole curato dalla Provincia di Napoli, e distribuito a piene mani ieri sera a Piazza Plebiscito, “se ci sediamo su una sedia, per scrivere qualcosa su un foglio, stiamo usando due oggetti fatti grazie al legno”.
E però …
Distribuire materiale informativo in questo modo serve assai poco a informare, come testimoniano i contenitori dei rifiuti nelle immediate vicinanze della splendida Piazza (dove, detto per inciso, siamo passati due volte nell’arco di una ventina di minuti e due ragazzini ansiosi soltanto di disfarsi del “malloppo” di pieghevoli ricevuto in consegna ce ne hanno rifilato circa una decina (però eravamo in 2:-))).
Forse sarebbe bastato allestire qualche info point – espositore – cartello informativo nella piazza per non sprecare inutilmente tanta carta (a proposito, ma è proprio così difficile decidere di utilizzare, almeno per iniziative di questo tipo, carta riciclata?) e per coinvolgere in un modo sicuramente più efficace i passanti – cittadini (dalla categoria vanno naturalmente esclusi coloro che ritengono troppo oneroso servirsi dei contenitori e buttano per terra di tutto e di più).
La nostra personale morale della “favola”?
L’educazione alla cittadinanza è una cosa seria. Che richiede attenzione, rigore, cura, da parte delle istituzioni. E dei cittadini. In particolare in una città come Napoli.

Mammiferi, anzi virus

Ricordate?
Siamo nel primo episodio della trilogia di Matrix. Morpheus è stato fatto prigioniero. E Smith gli dice della sua teoria secondo la quale gli uomini non sono mammiferi ma virus, perché quando arrivano in un posto distruggono tutte le risorse esistenti per poi spostarsi da un’altra parte e ricominciare da capo.
Chi per almeno un attimo non si è indignato scagli pure la prima pietra (digitale naturalmente).
E se invece provassimo a pensare all’acqua che noi ricchi e fortunati sprechiamo mentre i poveri (molto più numerosi) non ne hanno nemmeno per sopravvivere? E al cibo?
E cosa succederà quando 1 miliardo e mezzo di cinesi lascerà la bicicletta per acquistare l’automobile?
Sto dicendo che in fondo il “cattivo” Smith aveva ragione? Forse.
In ogni caso il tema è più che mai politico. Investe i modi con i quali interagiamo con questo nostro meraviglioso e non inesauribile mondo. E quelli relativi ai diritti delle persone, di tutte le persone, comprese quelle che non per loro colpa si ritrovano a essere svantaggiate.
La discussione è più che mai aperta.

La politica e il divano, again

Innanzitutto grazie a Teresa e a Indicopleustes che hanno deciso di interagire.
E poi la mia opinione come avevo promesso.
Per me la politica è fatta prima di tutto di scelte consapevoli e di voglia di partecipare.
Non amo essere suddito. Non mi piace essere omologato. Preferisco dare valore a creatività e differenze.
Alla gerarchia preferisco la responsabilità. Al leaderismo esasperato la formazione di elité e classi dirigenti.
Per me la politica è tutto questo e molto altro ancora. E’ la possibilità di agire, con altri, per rendere almeno un pò meno ingiusto questo meraviglioso e diseguale mondo nel quale viviamo. E’ la capacità di contare inanziitutto sulla propria testa e sulle proprie mani. E’ la voglia di continuare a uscire di casa quando viene la sera. E l’impegno a costruire occasioni e sedi di discussione. Anche attraverso un blog.
Per adesso è tutto. Ma la discussione resta più che mai aperta.
A presto.

La olitica eil divano, again

Innanzitutto grazie a Teresa e a Indicopleustes che hanno deciso di interagire.
E poi la mia opinione come avevo promesso.
Per me la politica è fatta prima di tutto di scelte consapevoli e di voglia di partecipare.
Non amo essere suddito. Non mi piace essere omologato. Preferisco dare valore a creatività e differenze.
Alla gerarchia preferisco la responsabilità. Al leaderismo esasperato la formazione di elité e classi dirigenti.
Per me la politica è tutto questo e molto altro ancora. E’ la possibilità di agire, con altri, per rendere almeno un pò meno ingiusto questo meraviglioso e diseguale mondo nel quale viviamo. E’ la capacità di contare inanziitutto sulla propria testa e sulle proprie mani. E’ la voglia di continuare a uscire di casa quando viene la sera. E l’impegno a costruire occasioni e sedi di discussione. Anche attraverso un blog.
Per adesso è tutto. Ma la discussione resta più che mai aperta.
A presto.

Campi Flegrei

Ore 10.45.
Un sabato qualunque. Un sabato napoletano. Stazione di Campi Flegrei.
Un solo sportello aperto. La “biglietteria” automatica rotta. 8 persone in fila. La maggior parte deve fare biglietti per i giorni successivi. Cerca, giustamente, le combinazioni di viaggio più comode e convenienti.
I minuti passano. E il nostro treno parte alle 11.00.
Cominciamo a domandarci perché.
Perché non c’è uno sportello dedicato a chi sta per partire?
Perché la “macchinetta” non viene riparata?
Perché a Napoli, oggi come 80 anni fa, “i congegni tecnici sono quasi sempre rotti: soltanto in via eccezionale, e per puro caso, si trova qualcosa di intatto. Se ne ricava a poco a poco l’impressione che tutto venga prodotto già rotto in partenza”?
Ore 10.52.
Allo sportello a fianco si materializza un altro addetto alla biglietteria.
Serafico. Il bicchierino di plastica con il caffè in una mano. Carte varie e chiavi nell’altra.
Si sistema. Annuncia che rispettando l’ordine della fila ci si può accomodare per fare il biglietto.
Due persone in coda schizzano per guadagnare posizioni.
Non passeranno.
Facciamo un blocco che avrebbe fatto felice il nostro vecchio allenatore di basket.
Ore 10.54.
I due ragazzi davanti a noi si girano.
Noi dobbiamo partire il mese prossimo. Faccia pure il suo biglietto.
Ore 10.58.
Siamo sul treno. Stress e adrenalina sono al massimo. Però siamo “riusciti” a fare il nostro biglietto.
Questa è una città senza futuro.