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Nuvole di Omero e innovazione sociale: Societing Reloaded

societing

Vero, è passato un po’ di tempo da quando il mio amico Alex me lo aveva chiesto, ma vi assicuro che ne è valsa la pena. Sì, perché Societing Reloaded. Pubblici produttivi e innovazione sociale (Egea 2013), il volume curato da Adam Arvidsson e Alex Giordano, è straordinariamente ricco di idee, di possibilità, di futuro. Perché mettere assieme tante belle “cape” come quelle di Caterina Bandinelli, Michel Bauwens, Francesca Buttara, Anna Cossetta, Bernard Cova, John Grant, Salvattore Iaconesi, Oriana Persico, Jaromil, Riccardo Maiolini, Massimo Menichelli, Bertram Niessen, Irenangela Smargiassi e Barret Stanboulin non è mica cosa di tutti i giorni. E perché ci troverete il ragionamento più sensato che io sia riuscito a fare fino ad oggi sulle connessioni tra storytelling, cultura e cambiamento sociale. Sì, avete letto bene, l’ho intitolato Cloud storytelling e Societing organization. Non ve lo perdete. Non il mio articolo. Il libro.

Concetta Enakapata Tigano

Vi assicuro che è stata dura, ma alla fine Concetta mi ha dato il permesso di pubblicarlo, anche se non è ancora del tutto finito. Mammà, come sono contento.
A Proposito Adrià, ma non è che ti fischiano le orecchie?

by Concetta Tigano
by Concetta Tigano

I cornetti di Carlos Gonzalez

Il sabato la cosa funziona più o meno così.
Luca alla Feltrinelli Express della Stazione Centrale mette mano alle 7.00 a.m, è il turno per lui più doloroso, quello che lo costringe a svegliarsi alle 5.30 a.m. per uscire di casa intorno alle 6.15 a.m.
Io mi alzo alle tra le 5.00 e le 5.30 anche quando come stamattina avrei dormito un pò di più. Il sabato è l’unico giorno della settimana che anche a quell’ora posso usare internet  ma soprattutto mi piace scendere assieme a lui fino al corso Vittorio Emanuele, roba di tre minuti scarsi, scambiare quattro chiacchiere, arrivare fino al tempio bar dove ogni mattina consumo il sacro rito chiamato cornetto e caffé, e salutarlo, che poi lui di solito continua  a dirmi qualche cosa anche mentre si allontana, cose tipo stasera ci sei?, a che ora torni?, vai da Cinzia o da nonna?, ma a me piacciono comunque un sacco.
Si lo so che anche prima io alle 6 del mattino non è che potevo parlare con nessuno, che almeno ora posso fare casino, spostare sedie, asciugarmi i capelli, tirare lo sciacquone, eppure nella mia attuale, serena, condizione di separato, questa di non avere nessuno con cui parlare la mattina è una delle cose che mi pesa di più. Sì,  direi che una cosa è avere una possibilità e non poterla sfruttare, diciamo la verità, anche per ragioni comprensibili, un’altra cosa è non averla affatto, è come se si vede proprio che sei solo, e non mi piace, anche se poi ci sono anche un sacco ma proprio un sacco di vantaggi.
Torniamo al punto. Mentre io e Luca scendevamo le prime scale,  con me che  aspetto gli ultimi metri per chiedergli se prende qualcosa con me, perchè lo so che mi risponde che  ha già fatto colazione e il caffé lo prende più tardi, ma una volta vi giuro che mi ha fatto l’onore di prenderlo il caffé con me, incontriamo mio nipote Carlos, una volta ve ne ho parlato, quello che aveva fatto gli spot per Enakapata, a proposito, me ne devo ricordare per il nuovo gioco, vabbé magari dopo vi linko la pagina.
Carlos a zio – gli faccio -, stiamo andando al bar, missione cornetto e caffé -, vieni con noi (non è che gli parlo con il plurare maiestatis, è che come vi ho detto la speranza c’è l’ho sempre fino a quando non arriviamo nei pressi del bar).
‘O zi – mi risponde -, sto tornando da lavoro (sì, perché Carlos ha messo da tempo la testa a posto, si è diplomato all’istituto alberghiero e d’estate lavora), non ce la faccio a fare neanche un passo, perché non me lo porti tu il cornetto?
– E che problema c’è -.
– Portamene tre -.
– Va bene -.
– Anzi, sono buoni? -.
– Si -.
-Portamene cinque, uno crema e amarena, uno al cioccolato bianco, uno con la nutella e gli altri due a gusto tuo, ma devono essere tutti diversi-.
Ok. Tu però ricordati di aprirmi la porta sulla veranda così io passo di là e non svegliamo mamma e nonna (si, abitiamo in un presepe).
Quando alle 6.40 a.m. gli ho portato i cornetti l’ho trovato steso sul divano che dormiva.
– Carlé, i cornetti -. Si è alzato, mi ha dato un bacio, mi ha detto grazie, me lo sono abbracciato, gli ho detto guarda che più tardi sei su Enakapata (sì, ormai mi sparo le pose come se fosse un blog di successo) e me ne sono ritornato da queste parti.
Lui lo sa che i miei Luca e Riccardo non li cambio con nessuno. Non c’entra nulla che sono bravi e belli, c’entra che sono i mei figli e funziona così per tutti i genitori. Quello che Carlos  non sa è che certe volte vorrei tanto che i miei figli bravi e belli mi dicessero pà portami 5 cornetti, che insomma fossero un pò esagerati. Dite che con Riccardo ho ancora qualche speranza? Mmhhh, non lo so, comunque settimana prossima passiamo qualche giorno assieme, nel caso vi faccio sapere.

Intelligenza collettiva, nazionale, intermittente

L’estate é ‘na capata. Scusate Enakapata. Quando arriva.

by Matteo Arfanotti
by Matteo Arfanotti

Dite che il post lo potevo intitolare “E la chiamano estate”? Mmmh, troppo presto per essere così pessimisti. “Settembre poi verrà ma senza sole”? Peggio che andar di notte.
No, no, direi che il titolo mi piace, l’estate ancora no, anche se confido sulla possibilità di cancellare presto l’ancora. E poi questo titolo qua mi da l’occasione di ricordarvi che se non avete ancora comprato e letto Enakapata quessto è il momento giusto per farlo. E che se anche lo avete comprato e letto potete sempre comprarlo e regalarlo.
State già tremando al solo pensiero che possa ricominciare ad assillarvi come con Natale Enakapata? Tranquilli. Ho cambiato strategia di marketing, ho adottato il modello “Dicette ‘o pappice vicino ‘a noce  damme ‘o tiempo ca te spertose”. Dite che facevo così anche prima? Ma no, siete voi che siete prevenuti. Se volevo fare come a Natale lanciavo la campagna Enakapata al Mare. Enakapata al Mare. Bello. Dite che quasi quasi ….

Pà, e a te ‘a zanzara quando te pogne

by Matteo Arfanotti
by Matteo Arfanotti

Allora, il fatto è successo domenica pomeriggio, quando ad un certo punto passa Riccardo e mi fa “pà, il mistero è svelato, so perché a te le zanzare non ti pungono”.
Riccà a papà – gli ho risposto- è una vita che vi spiego che finiti i tempi di Zorro quella della zanzara è l’unica  giustizia che mi è rimasta. Non a caso punge a te, a tuo fratello e a tua madre e me no, cerca non dico di vendicarmi, che per quello ci vorrebbero i missili terra aria, ma almeno di riparare a qualche torto. Che poi a voi piaccia dire che non mi punge perché ho il sangue amaro sono fatti vostri.
“No no pà, sei fuori strada, la verità l’ho letta su Topolino”, azz -gli faccio-, allora ritiro tutto, io pensavo l’avessi letto su Nature o su Science, “se se, pazzea tu, pazzea, cà Topolino su queste cose non sbaglia. Ma insomma o vvuò sapé o no cosa ho letto”?”, wé, non ti incazzé, piglia a seggia e assetté, e racconté, “se, mo ti metti pure a recitare la gatta Cenerentola; nun piglio nisciuna seggia, ci vuole un minuto: ho letto che lo stress, sia quello fisico che quello psicologico, produce un’enzima che tiene lontane le zanzare. Pà, e tu si ‘o rre do stress. E a te ‘a zanzara quando te pogne”.
Siamo scoppiati a ridere come dei matti e ridendo ridendo se n’è andato.
Sì, a me a ‘a zanzara quando me pogne. Ho finito di ridere e  ho cominciato a innevorsirmi. Mi rode non essere riuscito a far capire nemmeno ai miei figli che questa storia dello stress non è solo un fatto di scelta, c’è dentro anche tanta necessità.
Il giorno dopo, lunedì. sveglia alle 5.45. Autobus per Fisciano University alle 7.15. Organizzazione di alcune interviste per il libro sul lavoro. Organizzazione e verifiche tecniche per l’intervista con Rifkin il pomeriggio. Chiacchiera con un paio di studenti che sono passati a trovarmi. Articolo per Nòva100 e articolo per Il Mese di Rassegna Sindacale. Una cosa che assomiglia molto lontanamente a un pranzo. Prima chiamata di Maureen per mettere a punto l’intervista. Angelo che si assicura che le tecnologie facciano il loro lavoro. Alle 17.00 l’intervista, alle 17.40 la passo sul Mac e sulla penna da dare a Maureen per la traduzione. Ritorno a Napoli, grazie al passaggio in auto di una simpaticissima collega di Angelo alle 19.30. Mi compro un gelato tutto nocciola solo nocciola da fantasia gelati a piazza Vanvitelli. Telefono a Roma per comunicare che quello che bisognava fare è stato fatto. Arrivo a casa intorno alle 20. Accendo il Mac, controllo la posta, scrivo un paio di mail, arriva Riccardo per vedere assieme perché Live Mocha non gli permette di fare i corsi online gratis. Alle 20.30  scendo con Riccardo a vedere la partita. Alle 23.30 sono a letto. Già, ma a me a zanzara quando me pogne? Devo vedere se riesco a brevettarlo come rimedio antizanzare.

Simona Enakapata Salvatore

by Matteo Arfanotti
by Matteo Arfanotti

Lo so che già ve l’ho detto, ma io sono nato davvero con la camicia. Da domenica ho il titolo del nuovo post, “Pà, e a te ‘a zanzara quando te pogne”, e so anche quello che ci devo scrivere, ma non ho avuto il tempo, la testa e il cuore giusti per farlo. Stasera avevo deciso di farlo, ma  avrei trovato il tempo, forse la testa, ma non il cuore.
Invece accendo il mio Mac e guardate che trovo, la recensione a Enakapata di Simona Salvatore. Giuro che non l’ho letta, sono così felice che l’abbia scritta che devo prima pubblicarla e poi la leggo. Eccola dunque. Buona lettura.

Ciao Vincenzo,
non sono esperta di recensioni, ma questa te l’avevo promessa ed è davvero sentita! (scusa se la metto qui ma sulla bacheca di enakapata, non so perchè, non me la prendeva).
Se non ti dispiace, e sempre che ci riesca, la metto anche in “libri che passione”.

ENAKAPATA, contrazione naponica (napoletana-nipponica) dell’espressione in voga tra i giovani partenopei “è na’ capata” – letteralmente è una testata, vale a dire è qualcosa di straordinario, qualcosa che colpisce – è il diario, resoconto del viaggio da Secondigliano a Tokio presso il centro di ricerca Riken, compiuto da Vincenzo, professore di Sociologia dell’organizzazione presso l’Università di Salerno e da un accompagnatore-assistente speciale, suo figlio Luca, studioso di fisica e di culture orientali, nonché bassista del gruppo napoletano Motor Sound.
L’obiettivo è quello di analizzare, attraverso una serie di incontri ed interviste, l’organizzazione della ricerca scientifica in Giappone. Sullo sfondo della capitale giapponese, da un lato “cervelli” mondiali del calibro di Piero Carninci, lo scienziato leader di Fantom 3, consorzio internazionale di scienza, Ryoji Noyori, presidente del Riken, nonché premio Nobel per la chimica nel 2001, Franco Nori, esperto di nanoscienze, Akira Tonomura, fisico eletto membro della Japan Academy, dall’altro i parenti (“la sacrada famiglia”) e gli amici napoletani (“guest and friends”)con i quali la comunicazione resta sempre accesa grazie ad internet (Skype, mail, chat), ed infine una serie di pittoreschi personaggi della periferia napoletana (“quelli di Secondigliano”), Zia Concetta, Don Peppe detto Testolina, Pippone, Gennaro detto Topolino, evocati qua e là grazie alla serendipity (trovare qualcosa di inaspettato e sorprendente mentre si stava cercando tutt’altro).
Grazie a questo libro, scoperto in via del tutto “serendipytosa” attraverso l’@mico Vincenzo, mi sono piacevolmente imbattuta nella serendipity (quanti incontri serendipitosi facciamo nella nostra vita e non lo sappiamo: un amico, un libro, un nuovo amore…), ho respirato la “shinsetsu”, ossia la tipica ospitalità giapponese (mi ha colpito il fatto che se chiedi per strada un indicazione loro ti ci accompagnano fisicamente…che bello!), ho capito qualcosa in più sul funzionamento della ricerca scientifica, su quanto purtroppo si investa poco nel nostro paese malgrado le preziose risorse umane di cui potremmo disporre, ho conosciuto sapori nuovi della cucina giapponese (la ricetta finale di Luca del “ramen” voglio assolutamente riprovarla), ma soprattutto mi ha intenerito la complicità e l’amore filiale di Luca per il padre Vincenzo.
Già dalle prime pagine, prima scherzosamente lo massacra paragonandolo ad un “cingolato che quando si mette una cosa in testa è pressoché impossibile fermarlo” ma poi precisa che questo cingolato “ha anche la marcia indietro…e quando ha torto non è che te lo fa capire, te lo dice proprio, ti chiede scusa e anche questa non è una cosa da poco …. Da un lato ti dice che bisogna fare le cose bene perché è così che si fa, dall’altro ti spiega che possiamo definirci uomini perché moriamo e perché sbagliamo, che il punto non è il risultato ma quello che facciamo per arrivare al risultato”.
Infine, Luca prova a tracciare un bilancio di quello che resta alla fine del viaggio e così conclude: … “un mese passato con papà che, come il vino, più invecchia più è buono, anche se gli aumentano le ansie”.
Giunta al termine di questa meravigliosa lettura posso semplicemente ribadire che davvero “E’ na’ capata”!

A ‘e gruosse le piaceno ‘e nummarielle

by Matteo Arfanotti
by Matteo Arfanotti

Una parte della citazione che potete leggere sotto l’avevo già pubblicata su Sottolineato Il libro dei libri del mio amico Adriano Parracciani, ieri e oggi dedicato al rapporto tra la testa e le mani, tra il dire e il fare, tra il fare e il pensare. Ho un gran mal di testa, l’umore non è dunque dei migliori, e le cose con cui solitamente mi destreggio mi sembrano oggi particolarmente pesanti e difficili da trattare.
Sulla mia scrivania è ricomparso da qualche giorno ‘O Princepe Piccerillo, è il mistero davvero glorioso delle case dove i libri vanno e vengono, sono sempre di passaggio, l’ho aperto, mi sono ritrovato a pagina 18, mi sono messo a fare copia copiella. Il mal di testa sta sempre là, ma tutto il resto mi è sembrato un pò più leggero.

A ‘e gruosse le piaceno ‘e nummarielle. Quanno vuje lle parlate ‘e n’amico nuovo, nun se ne mportano maje d”e ccose essenziale. Nun v’addimannano maje: “Che voce tene? Qua’ juoche le piace ‘e fa’? Facesse cullezione ‘e palomme?” Ma v’addimannano: “Quant’anne tene? Quanti frate? Quanto pesa? ‘O pate quanto abbusca?” Sulamente accussì penzano d”o conoscere. Si vuje dicite a ‘e gruosse “Aggio vista na bella casarella pittata rosa, cu ‘e ggeranie é ffeneste, e ‘e palomme ncopp’ ‘o titto …” loro nun so’ capace ‘e se l’affiurà. Avita ‘a dicere: “Aggio visto na casa ‘e cientomila lire,” e allora diceno: “Comm’é bella!” […] So’ fatte accussì. Nun v’avite ‘a piglia’ collera. ‘E piccerille hanno ‘a essere accundiscendente cu ‘e gruosse.
Antoine de Saint-Exupéry, ‘O princepe Piccerillo, traduzione in lingua napoletana di Roberto D’Ajello, Franco di mauro Editore, pagina 18.

Thanks

by Matteo Arfanotti
by Matteo Arfanotti

Ieri, nel corso di una chiacchiera via mail con Noa, oggetto la partecipazione di Piazza Enakapata (volete sapere cos’è eh, bisogna aspettare un pochino, ci sono delle regole e come sapete le regole vanno rispettate) a eBookFest, dal 10 al 12 settembre a Fosdinovo, mi sono ritrovato a scrivere che “è l’interazione tra amici e @mici, persone e webpersone, book, ebook e ibook, atomi e bit, che rende la  storia di Enakapata assolutamente originale, ai confini  con l’unico”.
Ogni giorno accadono cose che rendono semplicemente evidente tutto questo. Ieri per esempio è arrivato a casa mia Enakapata di Matteo Arfanotti. Ora coi vi aspettate che io vi dica che è bellissimo, stupendo, meraviglioso. E’ vero,  è proprio così, ma detto così è troppo scontato, finisce che voi non mi credete veramente. Allora vi dico tre cose.
La prima è che quando Luca mi ha detto è bellissimo mi sono tranquillizzato, lui per dire bellissimo deve essere veramente bellissimo, una volta quando era giovane ma giovane davvero di una stupenda ma davvero stupenda ragazza che avevamo incrociato per strada disse “sì, però ha le dita dei piedi troppo tozze” e da allora con lui di belle ragazze non ho voluto parlare più.
La seconda è che quando l’ho visto sono ritornato bambino, mi sembrava di volare,  me song cunsulato, ho pensato sinceramente che tanto affetto nei miei confronti è esagerato, ho pensato no ma io devo fare qualcosa per far capire a Matteo quanto gli voglio bene, ho pensato mo è meglio ca me fermo sinnò me vene ‘na cosa.
La terza è che quando la sera l’ho dovuto lasciare, nel senso che l’ho portato a Peppe per fargli mettere la cornice, mi sono sentito come quando mio fratello Antonio è partito per il militare. Lo sapevo che tornava, ma stavo male lo stesso.
Ecco, adesso penso che ci dovete credere a quello che vi ho detto, perché se non ci credete è un problema vostro, non più mio.
Prima di metterci il punto, voglio dire che il grazie del titolo non è rivolto solo a Matteo, ma anche a Felicia Moscato che il suo bellissimo quadro dedicato a Enakapata lo ha già fatto (e che domani se si presenta si dovrà sudare l’esame come e più di tutti gli altri, è la legge del ring, o almeno quella del mio ring) e a Concetta Tigano che lo sta facendo. E poi voglio dire grazie anche a tutti quelli che hanno recensito il libro, più di cento ormai, e poi a Adriano Parracciani con i suoi Grammi di Storia e le sue Sottolineature, erranti e non, e poi a Daniele Riva che scrive cose bellissime su Il canto delle Sirene, su Nuvole Gialle, su Viaggiatori Immobili, e poi a Viviana, a Carmela, a Deborah, a  Andrea, Santina, a Stefania, a Lucia, a Maria, a Antonio, a Cinzia e a tutte/i quelli senza i quali questo spazio semplicemente non avrebbe ragione di esistere.
Thanks.

Mi consenta, lei allatta a doje zizze

by Matteo Arfanotti
by Matteo Arfanotti

Ieri pomeriggio e stamattina sono riuscito a stare insieme a mamma e Antonio, Gaetano e Nunzia, i miei fratelli. Antonio è arrivato qualche giorno fa da Bologna, l’altro ieri Nunzia ha compiuto gli anni, Gaetano da meno di un mese è tornato a vivere con la sua famiglia nella casa sopra a mamma, Antonio avevo deciso anche di intervistarlo per il nuovo libro che sto scrivendo e dunque l’occasione è stata di quelle giuste per organizzare la rimpatriata. Lo so che detta così sembra una banalità, ma in realtà non lo è. Non solo perché in realtà accade di riuscire a stare tutti assieme non più di 2 quando va bene 3 volte all’anno, ma anche perché più si va avanti con l’età e più si rischia di incontrarsi solo quando accade qualche cosa di negativo.
Stamattina è stato Antonio, mentre parlavamo non ricordo più di che cosa ah, sì, del telefonino (il suo ha una decina di anni e reclama la pensione e Gaetano gli ne ha regalato uno che i suoi figli non usano più) a commentare con un “ah, mò pozz allattà a doje zizze” e a ricordarmi questa espressione che usava papà quando voleva criticare i nostri tentativi di tenere due piedi in una sola scarpa,  di volere tutto e il contrario di tutto, di cercare i vantaggi di una situazione e allo stesso tempo quelli di una situazione contraria, tipo ad esempio quando  si parlava di autonomia e indipendenza dalla famiglia senza porsi il problema di avere un lavoro.
Come sempre quando mi vengono in mente queste cose, prima rido e poi, diciamo così, penso. Questa volta ho pensato che da oggi in poi invece di dire “mi consenta, lei ha un conflitto di interessi” dirò “mi cnsenta, lei allatta a doje zizze”. Sì lo so che lo stesso non si risolve nulla, ma almeno ci scappa un sorriso, da un sorriso una risata, da una risata … com’era la cosa?, ah sì, una risata vi seppellirà. Speriamo.

I know. Lo so. ‘O saccio

by Matteo Arfanotti
by Matteo Arfanotti

“… Per apprendere bisogna in primo luogo capire. Poi studiare. Infine connettere ciò che si è capito e studiato a contesti di vita reale. Il resto è noia. Roba per cacciatori di crediti. Studenti senza qualità.” (ENAKAPATA) … quanto mi piace … io l’ho dedicata a mia nipote che quest’anno ha la maturità!
Questa volta è stata la mia @amica Simona Salvatore a darmi due buone notizie e un’idea.
Partiamo dalle buone notizie. La prima è che sta leggendo il libro, e come sapete  io sono della serie chi trova una lettrice, un lettore, trova un tesoro. La seconda, per la verità non me l’ha data lei, l’ha scoperta il vecchio scugnizzo napoletano che alberga, insieme a tanti altri, in me, è che ha segnalato Enakapata anche sul gruppo Libri che Passione, al quale mi sono naturalmente iscritto.
L’idea è quella di spendere ancora qualche parola su cosa vuol dire studiare e sul perché è importante studiare. L’ultimo dolore l’ho avuto da una studentessa che ha affermato, candida, che lei in 3 giorni prepara gli esami da 3 crediti e in una settimana quelli da 6, “poi qualunque voto lo prendo”, la sua serafica conclusione.
Detto che preparare non è il verbo giusto in casi come questi, impreparare andrebbe già meglio, vorrei evitare però di ridurre tutto a una questione dei ragazzi, perché insieme o forse anche prima c’è una questione istituzioni, dalla scuola elementare all’università, e una questione prof., troppo spesso mal preparati, senza un minimo di amore per il loro lavoro, o anche solo demotivati, umiliati perché sono pagati male e trattati peggio, che è più comprensibile ma produce lo stesso effetto dal versante dei ragazzi.
Io un’opinione me la sono fatta, ma prima di dirvela mi piacerebbe foste voi a raccontare la vostra. Allora, forza, non lasciate tempo al tempo, che gli esami si avvicinano.

Dialogo finito in (finta) disturbata intorno a Enakapata di Lucia Rosas, Carmela Talamo e Viviana Graniero

by Matteo Arfanotti
by Matteo Arfanotti

L’idea me la suggerisce il commento di Cinzia Massa al dipinto di Matteo Arfanotti: “che invidia … Vincenzo sei proprio sicuro che a casa mia non starebbe meglio? 😀 E’ semplicemente FAVOLOSO!”, cosicché scrivo sulla bacheca di  Facebook. “A sentire Deborah Capasso de Angelis, Viviana Graniero e Cinzia Massa a casa loro The Enakapata Picture by Matteo Arfanotti starebbe alla grande. Sono commosso, ma declino l’offerta. Potrei però organizzare una festa sul terrazzo con visita al dipinto. Che ne dite?”.
E’ Lucia Rosas la prima a cliccare su “mi piace”, poi interviene Carmela Talamo, poi Lucia, poi Carmela, poi … ma che ve lo dico a fare, adesso ve lo scrivo. Io lo trovo un pezzo di teatro, voi fate voi.

Carmela Talamo
Questo quadro starebbe bene ovunque ma visto che si appropinqua il mio compleanno magari…

Lucia Rosas
Eccola, mi hai preceduto nella richiesta! 🙂

Carmela Talamo
Si appropinqua anche il tuo compleanno?

Lucia Rosas
Poco più in là … ma se posso prenotare approfitto!

Carmela Talamo
Siamo troppe e tutte sfacciate senza vergogna … povero Enzo il solito maschio in minoranza, hihihi.

Lucia Rosas
Mali estremi, estremi rimedi. Enzo fonda scuola di scrittura sul mare e tutti insieme ammiriamo il quadro.

Carmela Talamo
Lulù, ma sei di luglio anche tu?

Lucia Rosas
NO, ma piace molto pure a me.

Detto che l’idea della scuola di scrittura sul mare mi piace da impazzire ma è purtroppo  irrealizzabile dato che mi mancano due requisiti fondamentali, i soldi e le competenze, aggiungo che magari possiamo aprire un laboratorio teatrale, e non è detto che non …..

Poi è arrivata Viviana Graniero

Viviana Graniero
Uè uè e poi dite che sono sempre io a fare succedere la disturbata… c’ero prima io!!!!

Lucia Rosas
In coda piccola! e stavolta posso dirlo !!!!

Carmela Talamo
Viviana, ma tu non devi dare retta alla tua amica bergamasca? Jamme bell jà

Lucia Rosas
Eeeeeh ?

Carmela Talamo
Jamme bell ja vuol dire è un’esortazione che possiamo tradurre con “forza sù”

Viviana Graniero
Carme’, agg’ pacienz’… ma io mi sono prenotata che era ancora in “costruzione”… per cui: ARIA!!!! hihihihihi

Lucia Rosas
Quindi mentre voi … parlate entro in salotto lo sfilo e come caccia al ladro … adieu.

Carmela Talamo
Sentite facciamola breve io sò la più grande e, quindi, decido io.

Viviana Graniero
A-me-mi chiamano Viviana Bond (e pure un poco bot e cct), statevi attente!

Lucia Rosas
A me strega. le ragazze di enzo non perdonano!

Carmela Talamo
Vabbuò io già l’ho detto prima che stavo scazzata mò come la mettiamo?

Lucia Rosas
Toglitela. anche se abbai ti faccio pernacchia! PRRRR

Viviana Graniero

Carmé e tirititittì!!! hihihi

Carmela Talamo

Che belli cumpagn ca teng (che belle amiche che ho)

E con questo, Enakapata ha anche la sua compagnia teatrale :-).

Padri e figli o carote e carote, questo è il problema

Concetta l’aveva scritto, qualche giorno fa, quando avevo pubblicato il discorso di Piero Calamandrei agli studenti milanesi: “Conservato, stampato e lunedì lo leggo in classe!!!!”. Scritto fatto. Quelle che potete leggere di seguito sono le sue considerazioni post-fatto. Secondo me offrono un sacco di spunti per continuare a discutere. Buona partecipazione.

di Concetta Tigano
Come immaginavo…classi diverse reazioni diverse!
Ho una prima classe con ragazzini svegli e curiosi, dopo aver ascoltato con attenzione la lettura del discorso di Calamaandrei, la prima domanda è stata “noi cosa possiamo fare?”, con quegli occhi che chiedevano consigli , è stato bellissimo sentire questo interesse, poi tutti insieme a parlare tra loro chiedere, voglia di capire, di sapere, insomma un po’ di baccano, ma che bel baccano…..!!! Manco a dirlo è passata tutta l’ora parlando di regole da rispettare in tutti i campi , ma soprattutto da applicare in prima persona : casco , sigarette,rispetto, puntualità …..studio….

Ho anche una seconda, di gente un po’ “scafata” e con ben altri interessi, ragazzi molto più disinteressati , anche loro hanno ascoltato con una certa attenzione ma il commento finale è stato “anche se ci interessiamo…non cambia niente!” senza entusiasmo e disillusi, di già a 16-17 anni….
Ho cercato di coinvolgerli portando il discorso sui problemi della scuola, e lì un po’ si sono svegliati, ed è cominciata una discussione che li ha coinvolti…
Secondo me la differenza la fa un po’ le esperienze che hanno già avuto ed anche la brutta aria di rassegnazione che si respira, si rifugiano nell’ascolto di programmi idioti non seguono un TG , nessuno di loro ne aveva visto uno ieri sera, non cattiva informazione….nessuna informazione!!!!
Ma i genitori, cosi presenti per contestare un 5 al posto di un 6, che fanno???
I figli non sono carote, non crescono da soli!!!!
Ma forse da genitori carote…..figli carote!!!!

Ma se pò arraggiunà accussì?

by Matteo Arfanotti
by Matteo Arfanotti

Non mi ricordo l’anno né, tantomeno, il mese e il giorno in cui fui coinvolto per la prima volta da papà in una discussione sul lavoro, mi ricordo però che qualche mese dopo traslocammo nel quartino di palazzo Limone, di fianco al cinema Arcobaleno, nella traversa di Corso Secondigliano, piano terra. Papà con i propri compagni di lavoro stabiliva rapporti di affetto vero e perciò si dispiaceva sul piano personale quando le cose non giravano come secondo lui dovevano girare. Lui era abituato alle fatiche da impresa privata, ai lavori per la costruzione delle infrastrutture che avrebbero consentito, nei primi anni 50, di portare la corrente elettrica fin su  nei paesini delle montagne abruzzesi e calabresi, cosicché quando passò all’Enel le cose da fare gli sembravano sempre poche. E poi lui era fatto così, per natura e per convinzione, e guai a contraddirlo quando diceva che “a fatica va pigliata ‘e faccia”, nel senso che le cose vanno fatte al meglio, nel più breve tempo possibile, così poi c’è il tempo per fare qualche altra cosa o anche per prendere un caffé, ma con la coscienza tranquilla di chi ha già fatto quello che doveva fare.

Forse è perché con mamma di lavoro non gli piaceva parlare, o forse perché quella cosa lì voleva dirla proprio a me, quella serà mi guardò e mi disse “’e capito, io dico a Sebastiano di finire il lavoro del giorno precedente e quello mi risponde calma Pascà, ’a fatica va fatta a meglio a meglio”. “A meglio a meglio?, e che significa? – gli chiedo -, e lui mi risponde “significa che prima ci prendiamo il caffé, poi magari inquadriamo un pò la situazione, poi facciamo qualche cosa di più semplice e poi alla fine finiamo il lavoro. Può darsi che nel frattempo ci chiamano da qualche altra parte, e qui il lavoro lo viene a finire un’altra squadra”. Ma se pò arraggiunà accussì? fu la finta domanda e la vera, amara, conclusione. Già. Si può ragionare così?

Matteo Enakapata Arfanotti

Enakapata  di Matteo Arfanotti è in dirittura d’arrivo. Posso dire che sono emozionato? Di più, che non sto nella pelle? L’ho detto. Sì, Enakapata è un libro speciale. Naturalmente non nel senso che quello che abbiamo scritto io e Luca è speciale, se anche fosse io sono l’ultima persona che può dirlo. Enakapata è speciale per tutto quello che sta determinando. Gli acrostici, i tautogrammi, i quadri, i racconti, i rapporti digitali che diventano umani, le @micizie che diventano amicizie, la serendipity e tutto il resto. Scorrendo  le immagini, dalla più recente ai bozzetti iniziali, potete seguire l’evoluzione dello splendido lavoro di Matteo. Non so perché ma credo che anche per voi  è difficile stare nella pelle. Proprio come accade a me.

by Matteo Arfanotti
by Matteo Arfanotti

by Matteo Arfanotti
by Matteo Arfanotti

by Matteo Arfanotti
by Matteo Arfanotti

by Matteo Arfanotti
by Matteo Arfanotti

by Matteo Arfanotti
by Matteo Arfanotti

by Matteo Arfanotti
by Matteo Arfanotti
by Matteo Arfanotti

Matteo Enakapata Arfanotti
by Matteo Arfanotti
by Matteo Arfanotti
by Matteo Arfanotti

A Paolo e a Giovanni

Questo lo ha scritto Carmela su Facebook. E le cose che scrive lei mi piacciano un sacco perché non sono mai pre-fabbricate. Tra le tante bellissime meravigliose cose che si diranno e si scriveranno oggi per ricordare Falcone e Borsellino è difficile che qualcuno dica o scriva di plaffoniere. Per me questo fa la differenza, e in ogni caso mi piace. Mentre voi leggete io la vado ad avvisare.

di Carmela Talamo
Lo ricordo come fosse successo poche ore fa. Erano i giorni in cui si traslocava da Secondigliano a Somma Vesuviana, eravamo in macchina, i soliti noti, mio marito mia madre ed io. Si parlava di lampade, plaffoniere. Mamma voleva portarci in un negozio che aveva intravisto durante uno dei tanti tentativi di trovare il percorso più breve dalla vecchia casa alla nuova. L’atmosfera era serena e rilassata. All’improvviso la radio dà notizia dell’attentato. Silenzio. Nessuno aveva il coraggio di parlare. Ricordo che ho cominciato a piangere in silenzio, senza respiro, senza singhiozzi. Rivoli di lacrime mi bagnavano il viso. Era la rabbia ed il dolore ma, ahimè, anche la paura e la consapevolezza che sarebbe successo ancora.
Non ho mai pensato a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino come a degli eroi (eppure lo sono stati). Ho sempre pensato che fossero uomini che non avevano scelta, poichè la loro scelta l’avevano già fatta, ed erano rimasti coerenti ad essa per tutta la vita e a costo della vita stessa.

Una giornata particolare

by Matteo Arfanotti
by Matteo Arfanotti

Auguri Auguri Auguri Auguri Auguri  Auguri Auguri Auguri Auguri Auguri Auguri Auguri Auguri Auguri Auguri Auguri Auguri Auguri Auguri Auguri Auguri Auguri Auguri Auguri Auguri Auguri Auguri Auguri Auguri Auguri Auguri Auguri Auguri Auguri Auguri Auguri Auguri Auguri Auguri Auguri Auguri Auguri Auguri Auguri Auguri a Cinzia per i suoi 45 anni. La regola vorrebbe che io porti il regalo e lei offra il pranzo ma temo che anche questa volta se voglio mangiare devo pagare io, a suo dire lei è prima una signora e poi una festeggiata e le signore che sopportano un maschilista esagerato come me come minimo non pagano. Dite che dovrei spiegarle che non sono un maschilista?, é una parola. Preferisco vivere.

Sarti, Burnich, Facchetti, Bedin, Giarneri, Picchi, Jair, Mazzola, Peirò, Suarez, Corso. Sì, sono diventato tifoso dell’Inter grazie a loro, e a una Coppa vinta 46 anni fa a Madrid con 2 gol di Sandro Mazzola. Sì, poi l’anno dopo a Milano abbiamo fatto il bis contro il Benfica sotto il diluvio con una rete di Jair, ma stasera, ancora al Santiago Bernabeu di Madrid, se, e sottolineo se, con annessi corni, scongiuri , ecc., le cose dovessero andare come dovrebbero andare, potrò finalmente sostituire la mia vecchia formazione con la nuova,  Julio Cesar, Maicon, Lucio, Samuel, Chivu, Zanetti, Cambiasso, Eto´o, Sneijder, Pandev, Milito. Zitti, zitti, non dite niente, perché altrimenti …

Ancora stasera, dalle 22.00 trattabili (causa partita) al Marabù Club, via Toma 5, Napoli, Musica Blues-Rock-Soul anni ’60 – ’70 con Federica Morra,  voce, Alessia di Filippo, voce, Luca Moretti, basso, Andrea di Filippo, chitarra, Peppe Del Vecchio, batteria. Insieme fanno i Motor Sound e vi assicuro che è davvero un piacere ascoltarli (soprattutto se l’Inter …., zitti, zitti, non dite niente, perché altrimenti …).

Il post lo volevo intitolare “ma proprio tutto oggi doveva capitare”, poi non so perché m’è venuto in mente Ettore Scola. Una giornata particolare. Speriamo. Voi intanto zitti, zitti, non dite niente, perché altrimenti ….

Rispetto

Il tema è il rispetto, il senso di sé, la soddisfazione che viene dall’appartenenza al mondo del lavoro, del sapere, del saper fare come alternativa al rispetto, al senso di sé, alla soddisfazione che viene dall’appartenenza alle cosche mafiose, dalla violenza, dalla sopraffazione.

Facciamo che tu debba scriverci un libro. Come lo scriveresti? Quale punto di vista sceglieresti? Che storie racconteresti? Come lo svilupperesti?

Deborah Capasso de Angelis says

by Matteo Arfanotti
by Matteo Arfanotti

Ho letto di emozioni, di sensazioni, di domande, di risposte, di ansia, di paura, di senso d’inadeguatezza, di gioia, di nostalgia, di soddisfazioni, di stupore, di amore, di ricordi, di volti, di luoghi sconosciuti, di luoghi noti, di notti insonni, di cose non dette, di cose non fatte, di cibo buono, di sapori amari, di dolci, cappuccini, letti stretti e corti, di scienza, di lavoro duro, di tecnologia, di scoperte sensazionali, di belle persone, di cervelli sublimi, di un giovane musicista, della sua chitarra, di fiori di ciliegio, di inchini, di treni puntuali, di novità, di risate, di qualche lacrimuccia.
Ho letto di uomini che non saranno mai caporali, di gente fantastica.
Adesso leggo il mondo anche con queste parole e sono più ricca.
Ho letto Enakapata!

Tanti auguri papà

La foto, baffo malandrino, sguardo sorridente, giacca rigorosamente listata a lutto per la morte  dei suoi genitori,  l’ho ritrovata mentre cercavo un notes dove scrivere qualche appunto per domani.  E’ poco più grande di una foto tessera, più o meno delle dimensioni che potete vedere qui a fianco.
Davanti, nel triangolo bianco, questa scritta:
T’amo – impassitamente – sono il tuo quore che sembre ti ama, indimendicabile amore – tesoro felicità eterna. Pasquale. T’amo.
Sul retro, la città, la data e il seguito:
Chiedi – 14 – 2- 952
Dona Cotesta fota alla mia più grande Amore che sempre mi sognio è mi vuol bene fino alla morte! Ed io sono il tuo Amore che ti voglio sempre bene è ti sognia ti penso ti Ama.
Moretti Pasquale
Baci – Baci – Baci – Baci.

Ho cominciato a ridere, poi a piangere, poi ancora a ridere, ma sempre di gioia. Ho pensato a Totò, ad Anna Magnani, ad Amedeo Nazzari. Ho pensato la pubblico, è troppo bella, la foto con la dedica di papà a mamma. Ho pensato no, non si capisce, e poi magari chi la legge ride, e a me mi dispiace. Ho pensato ma sì, è l’amore di un uomo per la sua fidanzata,  che fa che Chieti diventa Chiedi, che gli accenti sembrano buttati dall’alto con l’elicottero, che la grammatica …., magari avviso tutti che non devono ridere. Ho pensato ma no, e che fa che ridono, in fondo hanno ragione, sto ridendo come un pazzo pure io. Ho pensato ma sì, se  papà fosse vivo domenica prossima compirebbe 80 anni, saremmo tutti attorno a lui, a dirgli quanto gli vogliamo bene. Ho pensat ma si, si, tanti auguri papà, vuol dire che domenica ti festeggeremo lo stesso. Magari faremo un brindisi. Ma sì, sì, perché magari.  Faccio proprio così.  Compro lo spumante, riempio i calici e ti ricordo come quella volta su La casa dei diritti:

A mio padre
al suo amore esagerato,
alla sua cura per l’amicizia,
al suo disprezzo per il denaro.

Sì, faccio proprio così.
Tanti auguri papà.

Laozi, Socrate, Zhuangzi

Laozi
Sapere di non sapere è la conoscenza suprema.
Non sapere credendo di sapere è la malattia.
Riconoscere la malattia come malattia,
questo è non essere malato.
Il saggio riconosce la malattia come malattia,
per questo non è malato.

Socrate
So perché so di non sapere

Zhuangzi
La conoscenza degli uomini dei tempi antichi raggiungeva il culmine ultimo. Qual’era il culmine ultimo della conoscenza? Riconoscevano che non esiste altro che il nulla. Quello in verità è il limite ultimo oltre il quale non si può andare. Poi c’erano quelli che ritenevan che le cose esistessero, ma non riconoscevano alcun confine fra di esse. Poi c’erano quelli che ritenevano ci fossero dei confini fra le cose, ma non riconoscevano nulla come giusto o sbagliato. Quando infine apparve la distinzione di giusto e sbagliato, il Dao perse la sua integrità. E quando il Dao perse la sua integrità, apparvero le preferenze personali.

Santina Verta, again

enakapata3Questo incontro”per caso” e “per fortuna” con Vincenzo e Luca Moretti mi conduce a scoprire concetti scientifici “serendipitosi” in un -viaggio- condito di concreta competenza e un pizzico di amarezza per quello che potrebbe essere la ricerca in Italia.. nello stesso tempo mi inebria del colore della nostalgia della meraviglia dei ciliegi in fiore fra templi e perfetta sincronia tecnologica. Mi arriva la percezione di suoni antichi e nuovi e ..gli incontri con persone che scandiscono il rinnovamento con modalità ritmate dal tempo delle regole condivise, danno speranza di futuro. Tutto il viaggio-diario è attraversato da un duetto padre-figlio esilarante e tenerissimo. Potrei mettere come colonna sonora…-ti invito al viaggio, in questo paese che ti somiglia tanto..( Battiato) mentre Pessoa direbbe:-“Un uomo, se possiede la vera sapienza, può godere l’intero spettacolo del mondo seduto su una sedia, senza saper leggere, senza parlare con nessuno, soltanto con l’uso dei sensi e il fatto che l’anima non sappia essere triste”.

Tic tac tic, tac tic tac. E siamo a 100. Grazie a Giovanni

enakapata3Tic, tac, tic, dalla finestrella di Facebook appare il nome Maria Paraggio e la scritta “Buonasera prof., Giovanni ha finito di leggere Enakapata. Se le fa piacere, gliene vuole parlare”.

Tac, tic, tac, “mi fa piacere?, certo che mi fa piacere, mi fa piacere un sacco, e poi Giovanni sarà il 100 lettore che lascia una recensione, un messaggio, un commento, bisognerà fargli un regalo”.

Tic, tac, tic, “buonasera professore sono Giovanni Salomone”.

Tac, tic, tac, “ciao Giovanni, chiamami pure vincenzo,  tanto qui non stiamo all’università”.

Tic, tac, tic, “vabbè, ma sempre professore siete !!!”.

Sorrido, rido, schiatto, tac, tic, tac, “per la verità non sono professore, sono Vincenzo, ma ne riparliamo tra qualche anno. A proposito Giovanni, quanti anni hai?”.

Tic, tac, tic, “13, ma il 1° luglio ne compio 14”.

Tac, tic tac, “allora ti è piaciuto il libro?”.

Tic, tac, tic, “si molto”.

Non avevo finito il tac, tic, tac precedente che già pensavo Vicié, e se glielo chiedi così cosa ti deve dire questo ragazzo?, quando tic, tac, tic, Giovanni aggiunge “anche perchè in fondo andare in Giappone è il mio sogno”.

Tac, tic, tac, “azz, bellissimo, perché è il tuo sogno?”.

Tic, tac, tic, “amo molto la cultura giapponese, leggo i loro fumetti e faccio anche un corso per imparare a disegnare i manga. Poi seguo la maggior parte degli anime giapponesi e quasi tutti i videogiochi li prendo giapponesi. Poi i giapponesi sono educati, gentili, rispettosi delle regole. E di questo ne ho avuto conferma nel vostro libro. E poi mi piace il fatto che sono diversi da noi, che hanno altri interessi che non entrano per niente nella nostra concezione. Mi riferisco, per esempio, al fatto che in Italia il disegno è una passione legata più all’arte vera e propria mentre in Giappone il disegno è comunicazione e divertimento oltre ad essere arte”.

Tac, tic, tac, “come conosci tutte queste cose del Giappone?”.

Tic, tac, tic, “beh, direi che so molto poco e quel poco che so l’ho imparato leggendo”.

Ri-azz, già è arrivato a Socrate?, boh, tac, tic, tac, “leggendo cosa?”.

Tic, tac, tic, “manga, libri in generale (Ichiguchi Keiko è molto brava, descrive in maniera compiuta la loro cultura. Ho imparato molto anche leggendo il vostro libro. A proposito, ma poi vostro figlio lo sta suonando il basso comprato a Tokyo??”.

Tac, tic, tac “si, si”.

Tic, tac, tic, “chissà che bello !!!!, io invece suono la chitarra”.

Tac, tic, tac “sei bravo?”.

Tic, tac, tic, “ho iniziato da poco ma l’insegnante dice che me la cavo”.

Tac, tic, tac “ti piace?”.

Tic, tac, tic “si, tantissimo, anche se il mio obiettivo è suonare la chitarra elettrica”.

Tac, tic, tac “lo credo bene, magari una bella Fender Stratocaster come quella di Eric Clapton”.

Tic, tac, tic, “beh non esageriamo”.

Tac, tic, tac, “esageriamo esageriamo. A proposito di esagerazione, conosci Made in Japan dei Deep Purple?”.

Tic, tac, tic, “no”.

Tac, tic, tac, “la prossima volta che incrocia tua mamma te lo faccio avere. È un disco esagerato. E se non esageri alla tua età quando esageri?”.

Sufficienza della sufficienza [46]

Quando il mondo ha il Dao,
rinuncia ad andare a cavallo
e dei cavalli usa il concime.

Quando il mondo non ha il Dao,
cavalli da guerra vengono allenati nei sobborghi.

Non c’è calamità più grande
del non conoscere la sufficienza.

Non c’è disgrazia più grande
del desiderio di acquisire.

Perciò colui che sa la sufficienza della sufficienza
ha sempre a sufficienza.

from
Lao Tsu
Tao Te Ching
Una guida all’interpretazione del libro fondamentale del taoismo
Traduzione e cura di Augusto Shantena Sabbadini

Primo Maggio 2010

Fino a qualche minuto fa questo post l’avrei intitolato “una storia sbagliata”.
Oggi, Primo maggio 2010, ho lavorato quasi tutta la giornata, ho litigato con un pò di persone a cui voglio molto bene, mi è tornato il mal di pancia di cui davvero non sentivo la mancanza, la Roma ha vinto a Parma.
Ma come vi ho raccontato altre volte sono un tipo molto fortunato e così mi sono venuti in mente Sottolineato, i libri, le citazioni e ho cominciato a pensare  a cosa scrivere.
Ho cominciato con un vecchio detto che sentivo spesso da don Pasquale, mi è sembrato un buon modo per ricordare papà, don Pasquale, e per prendermi in giro, così l’ho scritto, eccolo:
‘A carne fa carne, ‘o vvino fa sang, e ‘a fatica fa jettà ‘o sang.
Poi ho continuato con due citazioni dall’Uomo artigiano di Sennett.
Questa:
Il bravo maestro impartisce spiegazioni soddisfacenti; il grande maestro (quale era Hanna Arendt) turba, trasmette inquietudine, invita a obiezioni.
E questa:
Dunque, secondo Hannah Arendt, noi esseri umani viviamo in due dimensioni. Nell’una, fabbrichiamo cose; in questa condizione siamo amorali, immersi nel compito da eseguire. Ma alberghiamo in noi anche un’altra modalità di vita, più elevata, nella quale cessiamo di produrre e cominciamo a discutere a a giudicare, tutti assieme. Laddove l’animal laborans si fissa sulla domanda: “Come?”, l’homo faber chiede:”Perché?”.
Poi mi sono detto che le due citazioni potevano essere di quelle da discutere su Enakapata. Poi ho cambiata idea. Poi la mitica Lucia Rosas ha scritto una nota, l’ha intitolata Sennett, ha scritto “rubata e … dubbio: chi vive tra reale e web?”.
Dunque eccomi qua. La pancia mi fa male ancora. Ma il titolo del post è Primo Maggio 2010. Grazie a Adriano Parraciani e al suo Sottolineato, grazie a tutti quelli che ci scrivono, grazie a Lucia Rosas, grazie a tutti quelli che decideranno anche questa volta di interagire e a tutti quelli che invece no. La chiamano social networking, a me certe volte mi fa risparmiare i soldi per lo psicologo. Adesso vi lascio. Ho ancora due cose da finire.

Ma sì, pà, si campa anche di soddisfazioni

Me lo dà il permesso di pubblicare questi suoi pensieri su Enakapata?
Sì, lo ammetto, ad un certo punto glielo ho chiesto proprio così. Dite che detto così non si capisce niente? Va bene, allora provo a ricominciare dal principio.
Nella fattispecie il principio è il Serendipity Event del 21 marzo scorso organizzato dalla premiata ditta Bespoke & Enakapata. Tra le tante belle persone che mi sono state presentate da Antonio Gravina quella sera, con molte delle quali  nei giorni seguenti facciamo @micizia su Facebook, c’è Rosa Cennamo, che qualche settimana dopo mette sulla sua bacheca una citazione da Enakapata.
Che mi ha fatto piacere che ve lo dico a fare?, un pò è normale, un pò lo sapete già. Vi dico invece che abbiamo scambiato qualche chiacchiera via Facebook, i miei ringraziamenti, la sua gentilezza e poi basta. Anzi no. Poi ogni tanto frasi dal libro che ritornano sulla sua bacheca. Fino a stamattina. Quando su Facebook mi ha scritto:

E’ bellissimo il suo libro!!!, buongiorno Vincenzo, mi dispiace finirlo, lei mi fa felice tutte le mattine con questo suo diario stimolante. Sono napoletana e mi trovo da qualche anno a Firenze e quando nel libro incontro paragoni con la realtà di Napoli o le sue sensazioni nell’essere lontano da casa può capire l’effetto che scatena in me. E  poi tutte queste storie di personaggi importanti a livello scientifico riescono a portarmi lontano con la mente, verso  un  possibile futuro, grazie di cuore. Non so se ci fa caso, ma ogni tanto pubblico qualche frase del suo libro nel mio stato di Fb; dato che ho avuto il piacere di conoscerla personalmente mi capita, mentre  leggo il suo libro, di  leggerlo quasi come se parlassi dal vivo con lei.

Voi che avreste fatto? Io le ho detto che tutto questo mi fa un sacco di piacere e che aspetto la sua recensione appena ha finito di leggerlo. E poi ho aggiunto: Me lo dà il permesso di pubblicare questi suoi pensieri su Enakapata? Certamente – ha risposto-. Ed eccoci qua.
Ma sì, come ha detto Luca l’altro giorno parlando del suo lavoro, del quale è molto coonteno, ma sì, pà, in fondo si campa anche di soddisfazioni. Decisamente. Adesso però mettiamoci al lavoro.

Questo l’ha detto Concetta Tigano

enakapata3Bello.
Questo libro-diario mi è piaciuto!
Che fare “ricerca” fosse difficile lo sapevo, ma quello che succede in Giappone in questo campo è straordinario, mi sembra un mondo irraggiungibile.
Il racconto di questa avventura, scritto da Vincenzo e Luca, è istruttivo, coinvolgente, interessante, autoironico, a volte piacevolmente “comico”, insomma leggere “Enakapata” è puro piacere.
Conoscere l’autore di un romanzo può spiazzare, te lo immagini tutto diverso, ma conoscere l’autore di un libro autobiografico … aiuta a capire meglio, a me sembrava di sentire proprio la voce … di sentire il racconto … fantastico!!
Il legame che si intuisce tra padre e figlio è la cosa più vera e più tenera di tutto il libro.
Complimenti Vincenzo, sia come autore che come papà!!!!
E’ stata una lettura gradevolissima!!!!

Fare il napoletano stanca

enakapata3Sabato 24 aprile. Ore 6.10 a.m. Esco di casa diretto al bar Luciano per il quotidiano cornetto e caffè. Anche il sabato? Anche il sabato. Anche perché, da quando ho deciso di prendere un solo caffé al giorno, soffro di crisi di astinenza, nonostante abbia avuto cura di ridurre gradualmente la dose (da 6 o 7 caffé al giorno a 3 o 4 prima, da 3 o 4 a 1 poi). Il sabato è diverso perché non devo andare né a Fisciano, né a Roma e dunque sono in versione comoda e lite. Comoda perché non mi faccio la barba neanche se è già lunga di due giorni. Lite perché non ho com me lo zaino con il Mac. Perciò di solito scendo, mangio il cornetto, prendo il caffé, prendo la funicolare centrale, la prima corsa, quella delle 6.30, salgo al Vomero, faccio un giro, ritorno a casa a piedi per via Palizzi e mi metto a lavorare.
Sabato no. Perché alle 6.30 la funicolare era ancora chiusa. Alle 6.32 è sceso dall’autobus l’addetto di turno (che fortuna, ho pensato, e se l’autobus si fosse rotto o fosse passato più tardi?). Alle 6.35 si ferma la funicolare al Corso V.E. ma non apre le porte. A mia precisa richiesta il conducente mi dice che quella è la corsa di prova. Corsa di prova? Ma se è in ritardo rispetto alla prima corsa ufficiale? C’è stato un problema – è la risposta-. La funicolare che sale va, arriva quella che scende e si ferma. Qui ci sono molte persone a bordo. In salita era la corsa di prova e c’era il problema. In discesa no.  A Napoli abbiamo  inventato la funicolare con problema alternato.
Se state pensando “ma perché non dormi il sabato mattina invece di cercare rogne” vi dico subito che io non cerco niente. Che il mio giro per il Vomero me lo sono fatto così come la passeggiata per via Palizzi con vista su Capri, Posillipo, Sorrento. E aggiungo che ho aspettato anche qualche giorno per vedere se mi passava. Non mi è passata. Sarà perché lì con me c’era Ciro, che incrocio ogni  sabato e nell’occasione ho scoperto che lavora per le poste,  che era giustamente nero per il cazziatone che si sarebbe preso dal capo, più obbligo di recuperare alla fine della giornata il tempo perduto, per responsabilità certamente non sue.  Sarà per l’anziana insegnante che doveva arrivare a Casoria e che era preoccupata di arrivare in ritardo. Sarà perché sulla funicolare delle 6.45 c’erano almeno altre 15 persone nella prima delle tre carrozze, quella dove sono salito io, che stavano andando a lavorare e che in vario modo si lamentavano che la prima corsa della funicolare, in particolare al sabato, da tempo non era più puntuale.
È proprio vero. Fare il napoletano stanca. Hai voglia a provare a fare il giapponese. Ci vuole in Giappone. Ma pare proprio che non siamo capaci di meritarcelo.

p.s.
Il titolo me lo ha sparato in faccia un manifesto che annunciava il concerto  di Federico Salvatore al Teatro Delle Palme di Napoli il 29 aprile 2010. Non me lo sono lasciato scappare.

p.p.s.
per favore risparmiatevi la petizione, la protesta e compagnia cantante. Le persone che prendono la funicolare delle 6.30 il sabato per andare a lavorare non hanno tempo per queste cose. Si, sono stanche, hanno poca fiducia e tanta rassegnazione. Ma poi perché se la prima corsa della funicolare è prevista alle 6.30 bisogna fare una petizione perché la prima corsa della funicolare si faccia alle 6.30?

Il Piccolo Principe

Questa storia comincia alle 6.20 a.m. di una mattina di gennaio, o forse di febbraio, no gennaio, ma poi gennaio o febbraio cosa importa? Nel bar ci sono Luciano, il proprietario, alla cassa, la moglie, al banco dei cornetti, il mitico Gabriele, il barista, al proprio posto di combattimento, l’uomo sotto ai 40, anni,  che mangia un cornetto, uno sgabello di quelli alti modello saloon che sovrasta, di più, sommerge,  ancora di più, travasa tra le braccia del ragazzetto di 7 max 8 anni che non lo lascia fino a che non  è davanti al banco  del caffé. Passa la mano sul sedile, ci si arrampica sopra, chiede una cannuccia, beve avidamente il suo cappuccino. Il padre, l’uomo sotto ai 40, ha l’aria di chi ha rinunciato da un pezzo a dirgli di fare le cose con calma.
Sorrido. Il bimbo ha gli occhi belli e svegli, della serie da queste parti o cresci in fretta o cresci in fretta, e la risposta pronta, della serie anche alla mia età non mi faccio passare la mosca sotto il naso.
Sorrido mentre mangio con più lentezza del solito il mio cornetto.  Come sempre sono in anticipo, l’autobus per Fisciano parte alle 7.15 e da qui  alla fermata a piedi ci vogliono al massimo 20 minuti. E poi curioso sono curioso,  però curioso della curiosità buona, perché la curiosità è come il colesterolo, c’è quella buona, quella che ti fa fare domande, ti fa cercare risposte, ti fa capire, imparare, migliorare,  e c’è quella cattiva, quella che ti porta ad essere pettegolo, come si dice, trasiticcio. Aspetto dunque che padre e figlio escano  e chiedo a Gabriele cosa ci fa un ragazzino così piccolo a quell’ora per strada.
“Che ci fa per strada?, e provateci voi a tenerlo a letto, quello la mattina se non esce con il padre fa il pazzo. Le hanno provate tutte, la migliore è questa: la mattina vengono qui, fanno colazione, aprono l’oficina, poi lui alle 8 prende la cartella e se ne va a scuola”. “Tutte le mattine?” “Tutte le mattine.” Mah.
Ci siamo incrociati altre 6-7 volte fino a quando, due settimane fa, ho chiesto al padre se il ragazzino studiava con profitto. “Sì sì, mi ha risposto, è bravissimo, le maestre ne dicono un gran bene, non ci sono proprio problemi”.
Mentre facevo i miei soliti 20 minuti a piedi mi è venuta l’idea, e il giorno dopo ne ho parlato a Gabriele.
Avrei pensato di regalare un libro al ragazzino, “secondo te se lo faccio il padre si offende?”
“Assolutamente no, anzi, è una bravissima persona, un gran lavoratore, non ci sono problemi”.
Nei giorni successivi, durante uno dei miei ricorrenti pellegrinaggi alla Feltrinelli ho comprato Il Piccolo Principe, quello con la copertina di cartone, con i disegni colorati e la carta più bella. A voi lo posso dire, ci tenevo tanto che il libro piacesse al ragazzo.
Ieri finalmente l’ho portato, sono passato apposta prima, l’ho lasciato a Gabriele, che a me queste cose, sarò perché sono grande e grosso, mi imbarazzano in modo incredibile.
Stamattina invece li ho incontrati, ma solo perché loro erano in ritardo. Appena sono entrato Gabriele ha fatto segno al padre che mi ha detto “grazie, prufessò” e prima che riuscissi a impedirglielo ha fatto segno al figlio che prima che il padre gli dicesse qualche cosa mi ha detto grazie, ma non un grazie normale, ma un grazie così bello, con degli occhi così belli, che vi giuro un grazie così tanto bello l’ho sentito poche altre volte nella mia vita. Gli ho detto “per me è stato un grande piacere”. Lui mi ha detto “grazie”. Domani non mi devo scordare. Devo chiedere a Gabriele il ragazzetto come si chiama.

Little big man

Lui si chiama Domenico Rosso. E’ di Buonabitacolo, estrema provincia salernitana. E’ stato il primo studente che si è laureato con me, 5 anni fa, con una tesi su Adriano Olivetti che gli valse 8 punti e una mia appassionata arringa per spiegare ai comprensivi colleghi perché chiedevo un punto in più di quello che era il massimo convenuto. E’ stato anche il primo mio studente di cui sono diventato amico. Il primo che mi ha presentato i genitori e il prete amico del cuore. Il primo che mi ha chiesto consiglio su che fare dopo la laurea. Il primo al quale ho detto “Domé, tuo padre è contadino e Buonabitacolo è in culo al mondo, tu se rimani qua con la tua laurea in scienze della comunicazione hai un futuro assicurato, quello di disoccupato”. Il primo che mi è stato a sentire. Il primo che ha trovato lavoro, a Madrid, dove si occupa di comunicazione e formazione per Greenpeace. Quando torna in Italia facciamo il possibile per vederci, ogni tanto mi manda una foto o un filmato nell’esercizio delle sue funzioni di tutore dell’ordine ambientale, stamane l’ho incrociato su Facebook e gli ho scritto “Domé, hai ancora intenzione di sposarti?, non farlo, stammi a sentire, è una fesseria”,  con lui che mi ha risposto con un yayayaya, che immagino sia una risata, accompagnato da un “Professò, tu duorme, già fatto, mi sono già sposato”, seguito da un link dove ho trovato la foto che vedete in alto.
Lo so che c’ho la commozione facile, ma a momenti mi commuovo davvero. “Domé, qui bisogna parlare serio, passiamo su Skype”. Un paio di tentativi andati a vuoto e poi ci siamo. Mi sono fatto raccontare tutto, del matrimonio civile a Madrid, del matrimonio ufficiale a Rio de Janeiro, (sì, non ve l’ho detto, ma la Rosa che ha sposato Domenico è una brasiliana), della festa italiana che si terrà l’11 agosto a Buonabitacolo. Mi sono fatto mandare tutto l’album di foto in formato pdf, gli ho quasi promesso che l’11 andiamo anche io e Cinzia (ma adesso sono ancora sotto l’effetto dell’emozione, quando mi passa non so cosa accade), mi ha raccontato del commento affettuoso, complice, felice della madre quando si è collegato via Skype da Rio de Janeiro a Buonabitacolo (giuro, succede anche questo): “Domenico, da te mi sarei aspettato tutto, ma che ti sposavi una brasiliana proprio no, sei riuscito a sorprendere anche me”. Poi ci siamo salutati, anzi no. Mi sono ricordato che lui un commento su Enakapata ancora non me lo aveva mandato. “Professò, io ti ho scritto qualche riga ma tu sul blog hai tante cose così belle che volevo pensare a qualcosa di particolare, di originale”. “Domé, più originale di te non ci sta niente al mondo, dunque mandami le righe che hai scritto altrimenti alla prima occasione che ti vedo ti ceco un occhio”.
Con le buone maniere si ottiene tutto, come potete leggere qua sotto. Prima vi posso dire però che, senza offesa per nessuno, almeno per oggi e domani il commento di questo piccolo grande uomo chiamato Domenico è il più bello che io potessi desiderare? L’ho detto. Buona lettura.

Ho letto il libro diversi mesi fa e ho regalato una copia a un amico spagnolo. A lui ho detto che Enakapata svela un tipo di napoletano poco conosciuto all’estero. Per me questo libro ha confermato quello che penso dei partenopei. Il napoletano è lavoratore, sa aprirsi e confrontarsi. Il napoletano è sognatore, grida negli stadi, è scaramantico, è brontolone ma canta all’amore. Divide il suo cibo con te, la sua cultura, i suoi sorrisi e i suoi viaggi.
Grazie per il libro. Aspetto il prossimo
“.

Sottosopra

Certe giornate funzionano proprio così. Molte delle cose che ti eri ripromesso di fare, non riesci a farle. Eppure non te la senti di archiviarle nella cartella giornate storte, perché in compenso ti sono capitate e hai fatto cose che non pensavi di fare.
La parte out della giornata non ve la racconto, tanto quello che non ho fatto oggi lo faccio domani, in settimana, prima o poi.
Per quanto riguarda la sezione accadde per caso segnalo:
il pranzo in compagnia del mio amico Antonio, ancora più piacevole proprio perché non era previsto né il pranzo né la compagnia (le due cose nella mia vita sono quanto mai connesse dato che detesto mangiare da solo);
le ore di lavoro che ho potuto dedicare a un nuovo progetto a cui tengo molto;
il viaggio di ritorno dall’Università con il mio amico Angelo, che mi ha spiegato un sacco di cose sull’alfabeto Morse e poi mi ha inviato questa mail:
Vincenzo, in allegato la tabella del codice Morse base e la tabella delle abbreviazioni più comunemente usate. Ti invio anche un link al quale potrai trovare una specie di ‘traduttore’ che ti consente di scrivere lettere (o intere parole) e sentire il suono delle stesse in CW (in morse):  http://morsecode.scphillips.com/jtranslator.html
Per questo link, inserisci nel parametro della velocità (speed) in basso il valore 15 per poter meglio apprezzare il suono (devi avere java abilitato sul browser per far funzionare l’applicazione). Per adesso 73 da da di di di   di di di da da  …  cordiali (saluti cordiali);
la chiacchiera via Facebook con il mio amico Matteo che mi fa ben sperare  per l’opera sua dedicata a Enakapata;
la sorpresa e l’imbarazzo con il giovane viaggiatore che in funicolare, mentre scendevo dal Vomero al Petraio (cose da 1 minuto e mezzo, di più non avrei potuto reggere) mi  ha chiesto: “Lei è vincenzo moretti?”, come negarlo – gli ho risposto-. Complimenti per il suo libro – mi ha detto-, l’ho letto, è stupendo, lei ha parlato del Giappone in un modo meraviglioso .. -cerco di dirgli che del Giappone ha scritto Luca, ma non riesco a fermarlo -… io sono uno studente dell’orientale di Napoli, il mio sogno è di andare in Giappone e scrivere un libro bello come quello che ha scritto lei”.
Per fortuna si è aperta la porta della funicolare, ho ringraziato, ho fatto un inchino come  nelle mie ore giapponesi e sono uscito.
Per favore non mi dite che il giovanotto ha esagerato con i complimenti perché lo so già, su molte cose perdo i colpi e non me lo nascondo, ma scemunito non lo sono diventato ancora. Almeno per me, il fatto che un giovane esagerato ti dica che sogna di fare una cosa che hai fatto tu rimane comunque sconvolgente. E’ una cosa che fa piacere, che ti fa essere contento.
Ma sì diciamolo, me ne potevo tornare a casa e godermi i miei 15 secondi di celebrità, e invece mi sono messo un’altra volta a trafficare con le mie pentole piene di parole.  Dite che tanto mi piace? vero. Ma ciò non toglie  che una di queste sere mi “ciacco” sul bordo del Mac a furia di prenderlo a capate perché mi ci addormento sopra.
Si, certe giornate funzionano proprio così, sottosopra. Forse è la mia vita che funziona così.  Sottosopra.


Saranno famosi

Un’antica storia racconta che un signore dei tempi andati domandò al proprio medico personale, membro di una famiglia di guaritori, chi di loro fosse il più versato nella propria arte. Il medico, la cui reputazione era tale che il suo nome era diventato sinonimo della scienza medica cinese, rispose:
“Il primogenito vede lo spirito della malattia e lo rimuove prima che prenda forma; perciò il suo nome non varca i confini della casa.
Il secondogenito cura la malattia quando è ancra agli inizi; perciò il suo nome non è conosciuto al di là del vicinato.
Per quanto mi riguarda, pratico l’agopuntura, prescrivo pozioni e massaggio il corpo; così talvolta il mio nome giunge alle orecchie dei potenti”.

from
Thomas Cleary
Introduzione a
Sun Tzu
L’Arte della guerra
Ubaldini Editore

Elogio del viaggio

by Adriano Parracciani

Adesso mi raccomando, non prendetela come una provocazione. Non ho abbandonato l’esigua schiera dei samurai (io e Adriano) nobili e sconfitti, né intendo rinunciare alla possibilità di tornare ancora sulla questione dal mio punto di vista. Diciamo che questo post è una sorta di intermezzo tra “Senza uscire dalla porta” e  “Utilità del vuoto“, oltre che un omaggio alla mia amica Roberta Tallarico che lo ha ispirato.
Allora, la settimana scorsa ho sentito Roberta per fare i complimenti alla sua mamma per il bel compendio di storia della filosofia che avevo avuto il piacere di sfogliare qualche giorno prima in treno.
Ad un certo punto siamo fiiniti a parlare di Enakapata, credo che abbia cominciato lei, ma non potrei giurarlo, quando mi fa: “ti dico la verità Vincenzo, all’inizio il vostro libro lo tenevo in bagno, poi me lo sono portato sul comodino, adesso lo porto con me in borsa; insomma mi ha proprio preso”.
Potrei dirvi che l’ho ringraziata, ma questo era il minimo. Potrei aggiungere che le ho chiesto, quando ha finito, di scrivere qualche rigo di commento – recensione, ma questo lo sapete già. Vi dico invece che il viaggio di Enakapata dal bagno alla borsetta  mi è piaciuto un sacco. Al punto da pensare di adottarlo per dire in maniera un pò più simpatica delle stelline se un libro mi piace.
Allora vediamo, la cosa potrebbe funzionare così:
Scaffale, della serie potevo (potevate) anche fare a meno di comprarlo (di regalarmelo);
Bagno, della serie vediamo questo libro dove vuole arrivare;
Comodino, della serie qualche pagina di un buon libro prima di dormire fa bene alla salute e al sonno;
Borsa, della serie mamma mia com’è bello, devo assolutamente vedere come finisce.
Cosa ne pensate? Lo possiamo proporre a aNobii?
Mentre me lo fate sapere io ringrazio ancora Roberta.

Senza uscire dalla porta [47]

Senza uscire dalla porta di casa
puoi conoscere il mondo,
senza guardare dalla finestra
puoi scorgere il Dao del cielo.
Più si va lontano, meno si conosce.
Per questo il saggio senza viaggiare conosce,
senza vedere nomina, senza agire compie.

from
Lao Tsu
Tao Te Ching
Una guida all’interpretazione del libro fondamentale del taoismo
Traduzione e cura di Augusto Shantena Sabbadini

Dedicato a tutti i viaggiatori.
Per Francesco Caruso, Viviana Graniero e Cinzia Massa è anche un invito alla meditazione dopo tutti gli sfottò di cui sono stato oggetto venerdì sera per la mia “teoria” sull’osservazione dell’albero.

from
La Musa Antonella

Duca Alfonso Maria di Santagata dei Fornari

Immagino che voi tutte/i conosciate il Duca Alfonso Maria di Santagata dei Fornari. Non lo conoscete? E allora guardatevi il video. Anzi no. Il video guardatelo comunque, che è un pezzo di storia del cinema italiano. Fatto? Bene. Il gioco è semplice. Raccontate a chi vi sarebbe piaciuto o vi piacerebbe fare un pernacchio così, e perché.
Una sola raccomandazione: evitiamo ogni riferimento a chi sto pensando io. Perché vige il divieto di propaganda? No, no, che quello lui fa finta che non esiste, impegnato com’è a occupare televisioni e a far spedire in giro sms. E’ che come sapete sono  scaramantico tendente al superstizioso. E spero che il pernacchio glielo  possiamo fare tutti assieme domani sera. Buona domenica. E non dimenticate di mandare le vostre storie. Vere o immaginarie non importa, basta che siano condite con una dose abbondante di ironia.

Il filo rosso di Santina Verta

by Roberto De Pascale

Santina Verta
Caro Vincenzo,
sto trepidando con te e Luca in questo viaggio “serindipindoso”… mi fermo spesso a rileggere per le impreviste e sorprendenti sfaccettature che partendo da un’idea- desiderio, trova la strada dell’attesa/ intesa, condita da ansie e imprevisti che il nuovo impone.
Vivo con voi, ad ogni pagina, una curiosità contagiosa, ricca di emozionanti scoperte dell’evolversi dei contatti, gli attesi disagi, l’estraneità che diventa alleanza, sorrido delle parche colazioni e dei lauti pranzi, attraverso come un segugio le mappe stradali di vie ignote e misteriose… accolgo con batticuore gli intralci e i fortunosi contatti con questa umanità che si dipana come un filo d’Arianna.
Devo scrivere ora, dopo la notte con papà (73), arriverò tardi a scuola, il caffè trabocca, ma l’impeto emotivo deve trovare un freno, ci sono immagini che si sovrappongono come un caleidoscopio con la mia vita. Ti (ri) conosco nella comunanza del percorso originario, abbraccio mentalmente quel ragazzino di Secondigliano che si rispecchia negli occhi del tuo Luca: nell’orgoglio amorevole, tenero e, a volte, schivo, come sa essere chi viene da una consapevolezza vissuta con ardore.
Apprezzo questo non rinnegare da dove veniamo, anzi il rivalorizzarlo è un punto di estrema importanza, rompe quel moto di falsa modernità che ha invasato molti compagni, scambiando il nuovo con cancellazione del passato … chi rinnega se stesso lacera la storia, si nasconde sotto un manto di ipocrito non -senso di appartenenza, forse impedisce la visione d’insieme del dove siamo ora e della perdita inevitabilmente dolorosa!
Ritrovo una forza nel tuo modo di stare in contatto con gli altri che era lo status della vita di sezione, l’antico PCI, mi ha lasciato questo senso della fratellanza che ci faceva sentire potenti- capaci di scalare le difficoltà.
Crescevamo, mentre sognavamo una equità sociale, rendevamo allegre le infinite discussioni, colmandole di speranza!
Mi fermo, per ora… e spero di continuare presto questo dialogo mai interrotto.
Buona giornata a te e alla tua famiglia, Santina

Per gli esseri umani, pensare a cose passate significa muoversi nella dimensione della profondità, mettere radici e acquisire stabilità, in modo tale da non essere travolti da quanto accade-dallo Zeitgeist, dalla storia, o semplicemente dalla tentazione. Il peggior male non è dunque il male radicale, ma il male senza radici.E proprio perché non ha radici, questo male non conosce limiti.proprio per questo, il male può raggiungere vertici impensabili, macchiando il mondo intero
Hannah Arendt, Alcune questioni di filosofia morale

Maria Paraggio

Chissà perché questo post mi ha rimandato ai miei tredici anni, al ginnasio e ha riportato alla memoria giorni e accadimenti.
Nell’anno scolastico 1968-69 frequentavo la quarta ginnasiale. Venivo dalla provincia ed avevo da poco compiuto solo tredici anni ( avevo fatto la primina). A Salerno c’erano due licei: il Liceo Tasso, frequentato dal fior fiore della bella gioventù salernitana, con la sua prestigiosa sede in centro e il Liceo F. De Sanctis che era ubicato in un palazzo di cinque piani. Il mio era il De Sanctis. C’erano, rigorosamente, due ingressi, uno per i maschi ed uno per le femmine. La presidenza, strategicamente, era ubicata al terzo piano.
Quando è iniziato l’anno scolastico, il primo ottobre, portavo ancora i calzettoni (calzini alti di lana) e alcuni compagni addirittura i pantaloni corti (Così si usava). Sembravamo ancora bambini, mentre i ragazzi di città si distinguevano sia per la spigliatezza che per gli abiti alla moda. Pian piano, ci adeguammo a quel nuovo stile di vita, imparando dagli altri e trovando un nostro proprio gusto. Ben presto cominciarono a circolare volantini ciclostilati che parlavano di collettivi, assemblee, cortei, scioperi per ottenere una riforma.
Poi all’ingresso della scuola, sia all’entrata che all’uscita cominciarono a formarsi capannelli di studenti intorno a due o tre leader. Dal Tasso venivano alcuni del movimento studentesco, già vivo, e facevano opera di convincimento tra noi. Si respirava un’aria di tensione tra i diversi gruppi di destra e sinistra. Ormai il movimento si era politicizzato. Ricordo che uno studente del Tasso fu picchiato proprio davanti al nostro liceo.
Le ragazze che, per un certo tempo, si erano tenute lontane, cominciarono ad aggregarsi intorno ai leader che fecero molte conquiste femminili. Il carattere forte, la novità, gli ideali fecero più colpo  della bellezza maschile.
Assemblea era la parola che più passava di bocca in bocca. Ci furono scioperi, cortei di varie scuole che poi si riunivano al Tasso. Si passò all’occupazione, poco prima delle feste di Natale. Ragazzi e ragazze si asserragliarono all’interno dell’Istituto per circa 40 giorni. Per il timore di essere coinvolta negli scontri tra gruppi di estrema destra e sinistra, i miei non vollero che andassi a scuola per tutto il tempo. Le mie compagne mi tennero informata. Ormai si respirava un’aria di libertà, di parità di sessi, di libertà di opinione mai provata.
Tutta l’Italia studentesca era in fermento. Cominciarono ad arrivare i primi risultati. Ci fu concessa l’assemblea di istituto, l’assemblea di classe, la ricreazione. Anzi alcuni istituti ottennero mezz’ora di ricreazione e si poteva uscire e rientrare in classe alla ripresa. Noi del De Sanctis, invece, con un referendum tra alunni, scegliemmo di abolire la ricreazione e optare per un orario ridotto. Uscivamo alle 12:20 per le quattro ore e alla una 1:10 per le cinque.
A livello nazionale si ottenne l’abolizione dell’esame di ammissione dal V ginnasio al I liceo, bella conquista, soprattutto per me che avrei dovuto sostenerlo a breve, e in seguito fu approvato l’esame di stato su due materie orali e due scritte.
La conquista più grande fu però il riconoscimento della parità delle donne nel prendere decisioni importanti in tutti i campi della società, con l’abolizione di tanti tabù che l’avevano accompagnata fino a quel momento.
Dimenticavo di dirvi che in prima fila nei cortei, con megafono e una sciarpa stretta intorno al collo faceva la sua bella figura un famoso e discusso giornalista televisivo.

Tu chiamala se vuoi, serendipity

Oggi a Unisa, finita la lezione, ho incontrato la mitica M.G. per il riesame delle pagine del mio dizionario del pensiero organizzativo che ha già tradotto in inglese. Non ci credete che un mio libro viene tradotto in inglese? Neanche io. Eppure accade. Si lo so che una volta tradotto il libro in inglese bisognerà trovare un editore inglese, ma questo non mi spaventa. Con gli anni sto diventando come Henslowe, l’impresario che in Shakespeare in love, anche nelle situazioni più improbabili dice “si risolve”. Con la differenza che lui, nel film, a chi gli chiede “come?”  risponde “non lo so: è un mistero”, mentre io, nella vita, a chi mi chiede “come?” rispondo “non lo so: per genio e per caso”.
Voi dite “tu chiamala se vuoi serendipity”? Non me la sento. Come ho spiegato proprio oggi ai ragazzi questa faccenda della serendipity – l’idea che l’osservazione, da parte di menti preparate, di un dato anomalo, imprevisto e strategico crei le condizioni per un cambiamento di paradigma -, non va banalizzata. Come ha  ricordato Khun, ad un sacco di gente sono cadute mele e mille altre cose in testa, ma c’è voluto Newton per definire la legge di gravità. Eppure c’è qualcosa di magico nel fatto che M.G. arriva per caso un giorno nella mia stanza, finiamo con il parlare del dizionario, gliene porto una copia insieme alla versione in inglese del mio rapporto di ricerca sul Riken e lei, che ha tradotto Harold Garfinkel, non so se mi spiego, qualche settimana dopo mi propone di tradurlo.
Dite che sono fortunato? Vero. Mia madre mi ricorda ancora adesso che sono nato con la camicia, non ho mai capito bene di cosa si tratta, ma meglio questo che un dito in un occhio.  Dite che tutto questo mi piace un sacco? Verissimo. A patto che conveniamo sul lavoro che c’è da fare per fare in modo che il piacere non si trasformi in incubo: la traduzione è una grande opportunità ergo richiede un significativo impegno per migliorare il volume da tutti i punti di vista, comprese le definizioni, anche perché  sulla versione inglese io non sono più in grado di metterci le mani. Dite che per uno con il mio carattere la cosa non deve essere facile? Questa volta ci avete preso in parte. Perché la professionalità, la competenza e la disponibilità di M.G. mi fanno stare assolutamente tranquillo.
Quello che intendo dire è che  intorno a  concetti come passione, impegno, lavoro, professionalità, competenza, disponibilità, collaborazione si possono cogliere opportunità, crearne di nuove, risolvere problemi. In Giappone come in Italia o in ogni altra parte del mondo. Il fatto è che in Giappone, in Cina, negli Usa e in tante altre parti del mondo questa cultura c’è, in Italia no, e questo spiega perché da noi i cervelli sono costretti a fuggire.
Per quanto mi riguarda, nel mio infinitamente piccolo, indietro non torno. Per me è persino un fatto di libertà. Luca lo sa, ma adesso lo dico anche a voi, sarà il titolo del mio ultimo post, diciamo, come augurio, l’11 settembre del 2055:
Ho fatto sempre quello che volevo. Ho lavorato sempre un sacco per poterlo fare.

Concetta Tigano
Serendipity, fortuna si!
ma sotto sotto tanto impegno e lavoro e studio e cuore e passione e chissà cos’altro!!!
senza tutte queste cose….non credo si arrivi tanto lontano, non credo sia solo il caso, questo è il raccolto di tanta semina…
meritato raccolto….meritatissimo!
questo “tema” è molto interessante….

Adriano Parracciani
Questo tuo dizionario è una iniziativa notevole e lodevole. Lo voglio leggere al più presto perchè il tema l’ho vissuto direttamente. Ho lavorato per tredici anni in una multinazione del software e della consulenza IT che aveva definito un proprio pensiero organizzativo chiamato SCOPE; nei primi tempi erano state create delle figure specifiche chiamate MOC (Man Of Change) con il compito di diffondere, divulgare e rendere operativo SCOPE in tutte le unità locali sparse per il mondo.

Organizzazione e Serendipity: binomio non solo possibile ma forse auspicabile, da agevolare, da incentivare. Perchè? perché la serendipity è innovazione non prevista, come dire, innovazione al quadrato; forse più difficile da capire ma spesso molto più efficiente.
Bene, bravo, bis

P.S.
Potremmo divertirci a creare qualche neologismo sul tema come versione enakapatiana del dizionario 🙂

Fidya

Congratulazioni!
Io ho la 2a EDIZIONE…dovrò rimediare? :)
Nascere con la camicia significa nascere con la placenta ancora intorno al momento del parto…era usanza dire che il nascituro fosse un bambino fortunato! E lei lo è Prof. Ma… dietro ogni fortuna ci sono enormi sacrifici!

Carmela Talamo

Nulla succede a caso, il caso non esiste. Non esiste la fortuna e quindi non esiste la sfortuna. Niente miracoli, solo forza di volontà capace di trasformare il dire in fare e, quindi, facendo, tutto può accadere, tutto diventa possibile. La nostra vita è come un puzzle rovesciato su un tavolo, le cui tessere sono disposte apparentemente a caso. Le guardiamo e ci sembra impossibile dar loro forma, eppure il disegno è già là  dobbiamo solo ricomporlo. Occorre lavoro, impegno, fiducia in noi stessi e nella nostra capacità di fare e pian piano le tessere si incastrano, piano piano troviamo le connessioni giuste e cominciamo ad intravedere il disegnio, a dare un senso a ciò che stiamo creando. Talvolta costruiamo tanti pezzetti isolati che sembrano non interagire fra loro e poi, quasi per magia, compare il pezzo mancante, quello che ti permette di ricomporre il tutto di capire dove ti ha portato tanto lavoro. Non è fortuna, non è un caso era tutto sul tavolo. Nulla è comparso
per incanto il disegno era già stato tracciato. La nostra forza è questa andare avanti , non arrendersi, perseguire sempre  ciò in cui crediamo. Non lasciare che il puzzle resti lì sul tavolo. Una poteziale vita mai compiuta. Semplici riflessioni di una complicata mezza  indu-buddista.

Metti una sera a Bespoke


Di ieri sera mi sono piaciute tante cose, ma naturalmente non ve le dico tutte. Perché? Perché sarebbero troppe e troppo lunghe. Perché ci sono cose che hanno bisogno di tempo e di maturare meglio. E altre che sono fatte di incontri, di occhi, di mani, di intimità.
Diciamo che ve ne dico tre tra quelle mi sono piaciute un sacco.

La prima è Pierpaolo che ancora non so che si chiama Pierpaolo che si presenta con Enakapata e mi presenta la mamma. Io che gli dico “come ti chiami”, lui che mi dice “Pierpaolo”. Io che non faccio in tempo ad aprire il libro e lui che mi dice “per favore  mia madre vuole la dedica con le parole del tuo amico filosofo”. Il filosofo è Salvatore Veca, le parole sono tratte da un suo meraviglioso volume, Dell’Incertezza (Feltrinelli, 1997)  e ci dicono, naturalmente in maniera molto più bella di quanto non riesca a farlo io, che le nostre vite possono dirsi tanto più degne di essere vissute quante più relazioni e connessioni riusciamo a stabilire nel corso di esse. Scrivo, restituisco il libro alla signora, stringo la mano a Pierpaolo, mi resta la gioia sincera che provo ogni volta di fronte ad esperienze, come questa, di comunicazione riuscita.

La seconda è la complicità tra Federica ed Alessia, le due giovani cantanti dei Motor Sound. Che fossero brave io lo sapevo già. Ma non pensavo potessero diventare complici, causa proprio la bravura e la giovane età, due  forze molto potenti per attivare processi di competizione. E invece sì, grazie un poco al coraggio e alla passione di Beppe Del Vecchio,  batterista e guru del gruppo, e  tanto alla loro capacità di vedere, di scoprire, di comprendere, il lato win-win della vita.

La terza è l’entusiasmo, la voglia di confrontarsi e di migliorarsi dei partecipanti al progetto Bespoke  ideato e  diretto da Antonio Gravina. Antonio me ne aveva già parlato. Ma come dice il poeta, di una cosa devi fare esperienza se vuoi comprenderla veramente.
Sono rimasto insomma davvero colpito dalle intersezioni possibili con persone ccosì uguali e così diverse da me.

Viviana Graniero
Splendida serata serendipitosa
Sei serali: svelti saliamo scale, sopraggiungendo speciale salone. Si svolgerà serata straordinaria!
Scrutiamo sguardi stimati, seppur sconosciuti, supposti, sentiti sinora solo su spazi surreali.
Scambiamo sorrisi sinceri, spontanei. Scherziamo. Sentiamo, silenziosamente sedotti, storie su scrittori-scropritori, su “spedizioni” straordinarie, storie semplici scritte sinceramente, senza sovrastrutture.
Si somma sound sensazionale, sottofondo superlativo.
Si susseguono stranissime sensazioni, svariate suggestioni: sicuramente scopriamo senso sostanziale serendipity.
Salutiamo sconsolati, sceglieremmo senzaltro seguitare serata, sfortunatamente siamo senza seicento.
Stranezza : sera seguente siamo ancora soddisfatti, sorrisi stampati senza spiegazione… succede solo sperimentando situazioni singolarmente speciali.

Maria Savarese
Metti una serata a Bespoke…
Metti che arriviamo nella magica galleria Umberto 1 e la prima cosa che incontriamo sono dei ragazzi che giocano a pallone e che sognano di diventare un giorno come Cannavaro.
Se ci è riuscito lui, perché non altri ragazzi napoletani!
Metti che entriamo nell’accademia Bespoke e ad accoglierci c’è il sorriso dolce di Trudy e tante belle persone.
Metti che incontriamo Vincenzo Moretti, un uomo dalla stretta di mano decisa e dallo sguardo familiare.
Metti che inizia a raccontarci delle sue scelte di vita, di quando decide di studiare sociologia, di quando il padre gli chiede cosa avrebbe potuto fare dopo e lui dice: “il disoccupato”. E il padre gli risponde “se ti pace questo tipo di studio, allora fallo!”
Metti che penso ai ragazzi che stavano giocando a pallone e a noi presenti lì, pieni di sogni e di voglia di fare e penso che… se una cosa ci piace, allora possiamo farla!

Fly Fly Away

by Adriano Parracciani

La Musa
Pagina 181, last page: 196. fra poco meno di 15 pagine, il mio viaggio in Giappone sarà finito. Andrò via con la sacralità dei ciliegi in fiore, con una Tokyo brulicante e ordinata, con la tecnologia più avanzata intersecata e fusa a millenni di leggende e storia antica. Questa è la cartolina di Vincenzo e Luca, di un arcipelago di tante culture racchiuse in un unico mondo. Loro, padre e figlio che hanno la capacità nn comune di scambiarsi i ruoli pur rimanendo ciascuno, l’uno figlio, l’altro padre. La tenerezza e la sincronicità che li lega e che li porta ad illustrare al lettore gli aspetti più vividi e salienti di un popolo così lontano da noi. L’ospialità ad esempio, che nn è un fatto assolutamente accidentale, ma un rituale semplice e spontaneo, che si celebra quotidianamente verso tutti, a beneficio dell’animo umano. Un rapporto che fa sentire meno lontani gli autori dalla loro casa, la nostra Nazione, dove quel senso intimo e sociale di “shinsetsu” sta venendo a mancare sempre più. Il rispetto delle regole: di quando un semaforo rosso è ROSSO e basta, e nn si strombazza per passare ad ogni costo o si sgomma sulle strisce pedonali. Il rispetto per l’ambiente nella cura della raccolta differenziata della spazzatura; il cartoccio vuoto della pasticceria, appallottolato e messo in tasca perchè niente viene gettato in strada. Cose che i giapponesi fanno ciascuno per sè, per la propria qualità di vita a vantaggio dell’intera comunità. Che dire ancora di questo diario di bordo? leggendolo ci si ammanta di emozioni e di silenzi rotti dal vento di marzo; una sorta di serendipity per l’appunto, vissuta in prima persona dagli scrittori e trasmessa al lettore sul sottile spessore di una pagina bianco-opalina. Vincenzo e Luca, grazie. Fly fly away…

De Enakapata

by Adriano Parracciani

di Viviana Graniero
“Storie di città invisibili. Di luoghi ritrovati. Di luoghi da ritrovare. Forse da cercare. Magari con l’aiuto della serendipity”. Voglio partire da qui. Perché è anche la mia idea di viaggio, di percorso, di avventura.
Mi sono incamminata lungo le strade di Tokyo, nei centri di ricerca e persino nei grandi store nipponici. L’ho fatto con Vincenzo e Luca. Mi hanno tenuta per mano e portata con loro. Non è solo per la dovizia di particolari, direi piuttosto che è per l’empatia che hanno saputo creare.
Vincenzo avevo già avuto modo di apprezzarlo, per quello che scrive, per quello che pensa, per l’entusiasmo che mette in ogni cosa che fa. Lui ci crede e finisci per crederci anche tu, non puoi farne a meno, è più contagioso del morbillo. Luca è stato la vera sorpresa: ci sono intere pagine del suo diario che avrei potuto scrivere io, solo non così bene. La sua attenzione per ciò che lo circonda, la capacità di osservare e integrarsi anche con le cose più diverse e lontane, senza mai eccessivi giudizi o paure… questo farà di lui un grande narratore. Ha un punto di vista, ma non lo impone, te lo serve poco a poco, come un piatto prelibato e così ti sembra di non essere mai sazio: potresti continuare a mangiare per ore.
Enakapata non è solo un bel libro, sarebbe riduttivo: è una bella scoperta, una piacevole passeggiata al mare, un tuffo fra i ciliegi in fiore e un salto nel vuoto della modernità. E’ il piacere della sorpresa, di quello che potrebbe accadere.
Non mi dilungherò sul fatto, pur importante, che si legge in un soffio, preferisco sottolinearne la leggerezza, nel senso più bello del termine.
C’è un profondo equilibrio pur nelle più estreme delle diversità: tra Napoli e Tokyo, tra ricerca scientifica e viaggio di piacere, tra paure e sfrontatezze, tra le pagine dei due diari, tra padre e figlio… qualcosa mi dice che la frase più giusta sarebbe “c’è un perfetto punto di incontro tra lo Yin e lo Yang”.

Enakapata Spring

Con l’arrivo della primavera Enakapata riprende il suo viaggio. Dite che in fondo non si muove da Napoli? Non sono daccordo. Innanzitutto perché un viaggio è un viaggio, e non dipende dai kilometri che si fanno. E poi perché se qualcuno mi invita  aparlare di Enakapata, Serendipity, Secondigliano, Tokyo, Ricerca, Sensemaking e così via discorrendo io ci vado a prescindere.
Ciò detto, vi ricordo che domenica 21 marzo, dalle 17.00 alle 23.00, presso la  Bespoke Accademy, Galleria Umberto 1° n.50 c’è il Serendipity Event organizzato in occasione del primo anniversario di Enakapata.
Come dice Antonio Gravina? A Napoli.  Cose dell’altro mondo.

Mercoledì 24 Marzo 2010, sempre a Napoli, dalle ore 17.00 alle 18.30 sarà invece la volta dell’Associazione Mogli Medici Italiani che organizza l’incontro Arti e Tradizioni Giapponesi presso la Sala Multimediale del Palazzo del Dipartimento Consiglio Comunale, (Piano IV) in via Verdi 35. Gli pspiti saranno questa volta Kuniko Nishiyama (Dimostrazione di Ikebana – Arte giapponese della disposizione dei fiori recisi),  Io e Luca in quanto autori di Enakapata, Patrizia e Roberto De Pascale (Introduzione alla Scrittura Giapponese).
Noi ve lo abbiamo detto, se ve li perdete poi non date la colpa a noi.

Foto in cerca d’autore. I racconti


Carmela Talamo

E’ vero Musa, la vita è bella, maledettamente, terribilmente, immensamente bella anche se te ne accorgi quando la senti che ti sfugge, anche quando stai per buttarla via come ha fatto “nennella” (ricordate?) è bella anche quando è fatta di poco, anche quando è fatta di niente, perchè ti basta un attimo per capirlo, come questo sole che dopo tanta pioggia comincia a scaldarti il viso e poi più giù fino al cuore e poi più in fondo fino all’anima. E’ bella perchè anche quando stai per compiere l’ultimo passo verso il nulla puoi trovare una mano che ti afferra giusto in tempo per i capelli, perchè quello è il primo giorno della tua nuova vita, perchè anche se nulla è cambiato intorno a te, finalmente qualcosa comincia a cambiare “dentro” di te e poi incontri la big band e ti rendi conto che è valsa la pena arrivare fino a qui anche solo per raccontare e ricordare e, magari, aiutando te stessa, aiuti anche gli altri. Si Musa, la vita è decisamente bella.

Daniele Riva
L’infermiera ha detto che passerà più tardi. Con le pastiglie della buona notte. E dormirò ancora e avrò altri di questi sogni chimici che mi sballottano nello spazio e nel tempo e al mattino mi lasciano uno straccio, un otre vuoto. È quello che vogliono, questa è l’igiene mentale che campeggia a grandi lettere bianche e illuminate sul muro della clinica. È strano come certi eufemismi ci lavino la bocca: sono soltanto dei modi per pulirsi la coscienza e non pensarci. Clinica. Ospedale psichiatrico. Manicomio.

Così mi si incastreranno gli eventi della giornata e le allucinazioni prodotte dai medicinali. Chissà come entrerà Vincenzo in questo sogno. Nel pomeriggio è venuto a trovarmi e mi ha portato in dono il suo libro. Ho cominciato a leggerlo. Probabilmente anche il Giappone scivolerà nel sogno con i suoi giardini di ciliegi in fiore e la perfezione tecnologica. Si miscelerà con le brutte facce di questa televisione che non riesco neanche più a guardare: volti litigiosi, veline seminude, gente che parla e apre la bocca come in un acquario, perché io non li sto più neanche a sentire.

Come la notte scorsa: c’era una donna con una foglia di vite tra i capelli serpentini, una Medusa moderna che sproloquiava in una vecchia sala d’aspetto con le panche di legno e un lattiginoso lampadario al neon. Fuori c’era il tram che mi aspettava ed erano gli Anni Cinquanta, Milano – credo fosse Milano, ma poteva essere Torino o Dresda o Buenos Aires – era una grigia periferia di opifici, ormai finita la guerra si pensava a ricostruire. I cani razziavano tra i rifiuti, un gatto pisolava su un muro di cinta. Ovunque reticolati e ciminiere. E d’improvviso, con un salto di tempo e di spazio, il tram divenne un moderno treno rosso e correva accanto a un lago. Volli scendere in una di queste piccole stazioni, mi inoltrai nel paese, dove splendevano gialli i lampioni tra le case e i campanili. I murales mi attirarono in un atelier, dove una donna bellissima dipingeva. Non era vero nulla, lo so: era l’effetto delle medicine. Ma l’Arte, l’Arte quella era vera. Come era vero quell’ometto curvo e cieco che giocava al go. Mi disse di chiamarsi Jorge Luis Borges, si teneva a un bastone e raccontava qualcosa a proposito di labirinti e biblioteche…

Ecco l’infermiera con le pastiglie in un bicchierino di carta bianco. Me le porge. Le inghiotto con un sorso d’acqua. Addio…

La Musa
Eppure, la vita è bella, come dice lieve Benigni in quella sua canzone. E’ bella? E’ quello che noi siamo, quello che diventiamo, quello che avremmo fatto e nn è stato, quello che adesso è, e va bene così. Perchè indietro nn si torna e avanti si deve procedere, finchè morte nn ci separi da lei. Pensieri melanconici, pensieri inquieti, ricordi struggenti; quello spleenetismo che avviluppa le essenze più sensibili. Nel percorso fino ad oggi, il beneficio dell’età adulta, mi ha dato la chiave di volta: ci vuole resilienza. Quella capacità che volge al positivo ogni esperienza forte, spesso traumatizzante; quell’umanità che ti fa apprezzare la compagnia, ma altrettanto la solitudine, perchè di fronte a qualunque bivio, a qualunque alternativa, a qualsivoglia intoppo, in ogni caso siamo soli con noi stessi, tanto vale accomodarsi l’idea. La vita è questo, una scheggia di luce che finisce nella notte, diceva Celine. Allora ho guardato fuori stamattina: due piccoli di merlo pigolavano festosi nel nido fra i rami di un pruno ingemmati; sulla mia rosa rampicante occhieggiano i primi teneri boccioli; il sole, riverberi di luce fra l’ondulare tenue delle foglie di bamboo. Sì, la vita è bella, come cantava lieve Benigni.

Lucia Rosas
Tutto per una promessa. Che strano nome, ma che cos’è un libro. Un discorso smozzicato come solo una chat sa fare quando ti serve. Alla fine il libro è in mano poi sul comodino in ospedale. Un fidato amico che aspetta il tuo tempo. Sono sola, mi godo il silenzio inframezzato dal campanile, dai passi felpati in corridoio dal sole primaverile alla fine di febbraio. debbo aspettare con calma un altro medico e la sua spiegazione. Nulla di grave, un polipo fuori programma mentre mi chiedo perchè l’endometriosi non si ferma e mi rende impossibile non solo programmare la giornata ma anche camminare. E’ un male sottile, subdolo, un filo di edera che ti scivola dentro dall’utero arriva all’intestino alla schiena si annida senza chiedere permesso. Si siede, dorme e quando è il momento si sveglia scoppia come polvere da sparo brucia e ti vorresti scavare le carni per farlo smettere.
Siamo rimasti soli in camera tutto il giorno prima io in attesa e lui che raccontava che esiste una cosa chiamata serendipity e tu annuisci, ci credi e sorridi in attesa che qualcosa di buono succeda.

Deborah Capasso de Angelis
Carmela ce la farà ancora e ancora e ancora.
E ce la farò io con lei, ancora, ancora e ancora. Me lo ripeto spesso perchè solo in questo modo arrivi al controllo successivo e aspetti i risultati. La settimana più lunga in assoluto e poi vai, da sola, perchè è una cosa solo mia. E’ la mia vita e voglio aprire io la busta. Non è stato così terribile come quello di Carmela, me la sono cavata in tempo di record e senza terapia ma, è vero, sorridi di più, ti arrabbi di meno, elimini tanta gente rubarespiro e fai entrare nel tuo mondo tante persone ossigenanti. Ci sono in tanti intorno a te ma le decisioni devi prenderle tu e certe volte avrei fatto vincere “lui” (non voglio nominarlo, non merita di avere un nome). Ho dovuto rimandare nel giardino dei mai nati il mio bambino per “lui”. Mi ha fatto male ma ora sono qui e ci sto proprio bene!

Lucia Rosas
Scrivo di getto breve spaventata senza curarmi degli errori del suono del cellulare mentre quel quadro perfora le tempie poichè rifiuto quel volto accigliato della prozia matilda. Ho deciso di abbandonare il liceo i sogni di gloria dell’università e l’amata pittura. Via dal calore opprimente di milano verso altri lidi. Lascerò in disordine come tutti i giorni come dovessi tornare sapendo di mentire. Libri abiti sgargianti cd e quanto mi lega al mio bozzolo.  Il biglietto sul bordo del tavolino scivola a terra, un refolo di vento lo ha fatto scivolare: fosse così per i pensieri ma no. Lo zaino leggero è pronto solo un paio di jeans e una felpa la kway e la macchina fotografica; tuffo al cuore album e carboncini debbono essere raccolti. Sbatto la porta quasi inciampo sulle scale saluto furtivo alla portinaia e via correre a testa bassa verso la stazione mentre il cuore in petto scoppia come la voglia di urlare libera.
Il treno per la svizzera è puntuale, ovvio, salgo rosso lucido perfetto lunga serpe verso altri lidi. Curva quasi impenna questo cavallo d’acciaio chiudo gli occhi inebetita e sempre tra il dubbio e la certezza che sia la cosa giusta.

Carmela Talamo
E’ vero, mentre sei chiusa in una camera d’ospedale a combattere contro il cancro, tutto assume una dimensione diversa, cambiano le cose, cambiano le persone, le priorità, i pensieri si susseguono così velocemente che tu stessa fai fatica a stare al passo e, inevitabilmente, ti lasci alle spalle la zavorra che hai raccolto per una vita intera.
Io ero praticamente sigillata in camera, completamente sola ed isolata, chiusa ermeticamete dall’esterno con una porta blindata, sorvegliata perennemente da una telecamera (ho avuto anche io il mio Grande Fratello).
Terapia radiometabolica con iodioradio 131 è così che la chiamano, si pratica dopo che ti hanno asportato la tiroide con il suo bel carcinoma, serve a distruggere qualsiasi residuo di tiroide e, quindi, previene il riformarsi del cancro in qualsiasi frammento d’organo superstite. Devi solo ingerire una pillola e diventi radiottiva per un pò di giorni e resti lontana dal mondo finchè non smaltisci le radiazioni. E allora che fai? Pensi  e pensi e pensi… a tua figlia che si è appena affacciata alla vita, a tua madre che invece la sta lentamente abbandonando perchè un’altro signor cancro ha deciso che se la vuole portare via e, infatti, di lì a poco ci riuscirà, e pensi pensi pensi… che se ne esci viva nulla sarà più come prima, ed infatti non lo è, né peggio né meglio ma molto diverso, niente più fronzoli, persone inutili, niente più idiozie, solo quello che conta veramente, solo quello che mi va, niente più cose da fare perchè si deve ma solo perchè ti va, fanculo tutti quelli che non ti servono, se il cancro ha avuto un senso allora la mia anima deve crescere fino a farmi scoppiare di essenza. E poi passano gli anni e tu ce l’hai fatta (forse), si susseguono i dolori e i lutti devastanti e tu ce l’hai fatta ancora. E forse tutto questo aveva un senso, forse il senso era semplicemente portarmi qui adesso, per il momento mi basta e se domani ci sarà dell’altro io … ce la farò ancora, ancora ancora…

Maria Paraggio
Quel tavolino, il libro, l’acqua mi fanno tornare in mente giorni in cui mi sono trovata a riconsiderare la mia vita e le cose importanti che avevo messo da parte per dare priorità ad altro. Ci sono momenti in cui, come un flash ti passano davanti anni ed anni e ti rendi conto di quante occasioni sprecate, quanto tempo non vissuto in pieno ed allora vorresti anche solo un giorno in più per non guardarti indietro ed avere rimpianti. Questo pensavo nella mia camera d’ospedale, con monitor vari, fili, un tavolino girevole, un libro e una bottiglietta d’acqua a farmi compagnia e a ricordarmi l’infelice condizione in cui mi trovavo. Da quei momenti nacquero i seguenti versi:
“Vorrei ritrovare il sentiero perduto
seguendo le tracce
delle mie ambizioni passate
Camminare con il vento in faccia
senza paura, liberata dai lacci delle aspettative di altri
che decidono per te, che scelgono per te, senza parlare
senza ordinare, senza persuadere,
con la scusa di amare.
Quante volte ho ripercorso a ritroso la mia vita.
molti gli errori, tanti gli eventi assistiti come dal balcone.
Dall’angolo più alto assistere impotente al progressivo e
inevitabile annullamento e tutti intorno indaffarati a riportarti
là dove volevi scappare.
Consapevolezza della propria stoltezza
Amara verità che ancora non ha imparato ad accettare la sconfitta”.
(Penombra mattutina, pag 16)
Invece non ho accettato la sconfitta. La vita mi ha dato un’altra opportunità ed altro tempo. Tante le cose lasciate incompiute ed ora portate a termine e parte del merito va al mio caro Prof. Moretti e alla prof. Massa.

Viviana Graniero
Mettiamo insieme il treno sul fiordo e il biglietto per un’imprecisata destinazione e quella che viene fuori è una storia realmente accaduta. A me, per fortuna!
Uno degli ultimi viaggi io e mio marito (che all’epoca lo era da appena una settimana) lo abbiamo fatto in Scandinavia… lo sognavamo da tanto e abbiamo approfittato delle ferie matrimoniali per organizzare un lungo giro, di circa 16 giorni. Prima tappa: la danimarca. Copenhagen. E poi in giro per la costa danese, con i suoi meravigliosi castelli e tutt’intorno un’aria da favola di Andersen.
Seconda tappa: la Norvegia. E qui comincia la storia.
Dopo due giorni meravigliosi a Bergen, un paradiso tra i fiordi del sud, avevamo tutto prenotato per raggiungere Oslo facendo ancora una gita in nave tra i fiordi e poi un tratto in treno. La mattina della partenza pioveva a dirotto, in pieno stile norvegese. Le valigie e la pioggia hanno rallentato la nostra corsa verso il pulman che avrebbe dovuto portarci al paesino dal quale partiva la nave. Tre minuti di ritardo (e dico 3 davvero), il pulman è già partito, lo abbiamo perso. Per i primi 5 minuti ci prende il panico, tutto già pagato e organizzato e adesso che si fa? Come ho detto il panico dura 5 minuti, in fondo siamo alla stazione qualcosa si farà. E così con il nostro inglese di bassissimo livello cerchiamo di spiegare l’accaduto alla biglietteria, speriamo che ci convertano i biglietti della gita in 2 per un treno diretto ad Oslo. Niente da fare, sono biglietti di un tour operator, alla stazione non possono far niente. decidiamo di comprare due biglietti per una tappa intermedia e di lì cambiare per Oslo. E quella che ci era sembrata una sfortunitissima situazione si trasforma in una delle cose più belle che abbia mai visto e vissuto, che ricorderò per sempre. Prendiamo un treno che passa attraverso il paese delle meraviglie e mentre fuori diluvia (e tutto sommato, pensiamo, che cosa avremmo potuto vedere da una nave con quel tempaccio?) noi siamo incollati ai finestrini, incantati da montagne, cascate, fiumi, mari e laghi… un trenino che sembra quello dell’edenlandia per quanto è lento, ma scopriamo che è fatto apposta per farti ammirare il tratto di ferrovia più bello del mondo. Sfoglio la mia inseparabile guida del National geographic e scopro che quel tratto è segnalato, che è imperdibile se sei in Norvegia perché non lo scorderai mai più. Vero. Assolutamente. Ti sembra di essere in un documentario, ad un passo dalla perfezione assoluta. E’ più di un semplice paesaggio, è un mondo apparte… come in un film, come in un romanzo d’avventura. Ridi o ti commuovi, apparentemente senza motivo, non puoi farne a meno… è intenso. Vorresti che la stazione di destinazione non giungesse mai, è come avere a che fare con il “per sempre”, ci credi. Esiste qualcosa di eterno e tu l’hai visto, anzi, ne sei stato parte.
Alla fine arriviamo ad Oslo con il sorriso stampato sul volto e mille emozioni che restano dentro, nel silenzio trovano la loro espressione migliore. Abbiamo scordato completamente di averci rimesso circa 200 euro e la gita in nave e corriamo in albergo a posare le valigie, pronti per il resto dell’avventura, che si concluderà la settimana seguente a Stoccolma, ma che ancora è vividissima nel nostro ricordo.

Santina Verta
Vedi Napoli e poi muori“. Me lo disse il nonno della signora Rosa, di Maiori, che abitava nel mio vicoletto calabro. Napoli, la prima città vista, ero affascinata da tutto, che ricordo elettrico,  “Marò, quanto mi è piaciuta sta città!”. Era, ohi la memoria … era fine terza media, aspetta che conto; estate ’64.
Un insieme di flash nitidi e offuscati dall’eccitazione di una prima uscita da casa, ospite da estranei … timidissima … un solo vestito fatto fare per l’occasione. Tre giorni di curiosità  e quel timore del detto dell’accoglienza … non capivo la morte abbinata alla bellezza, mi impensieriva.
Sarei tornata a Napoli nel ’74, pretendendo di studiare e fare anche la mamma, ma la precarietà economica, sempre quella dannata, mi bloccò al quinto esame di lettere moderne, ma intanto avevo avuto l’impatto  escludente con Milano, ma ora  è  Napoli e la sua bellezza che si impenna!
Due giorni ospite da Amica, per caso parente,  ‘ncoppa o Vomero, mi permettevano di passare gli esami in università e poi gironzolare per scoprire parti della città.
Riecheggiano le parole di mia madre “Statt’accorta, a Napule rubbano“, ma io ho sempre avuto coraggio! Ma, quella volta, invertii numero di tram e finii a san Martino, poi al Cardarelli e ripensandoci, mi vien da ridere, non osavo entrare in un bar e telefonare all’amica Annalisa, né tantomeno entrare per un caffè, le parole della mamma … ma   le ore passavano, così la fatidica telefonata: “Annalì, mi signu persa” e lei invece di spiegarmi … chiamò tutta la famiglia e ridevano  e ridevano. “Io nu ci puzzu penzà“, ero già sotto casa loro!
Altra cosuccia di cui ridiamo quando ci ritroviamo  è stata la sorpresa  di vedere scritto vicino  al suo palazzo “Parco Aldebaran” io vedevo un solo Albero recintato e dissi: “Ma Annalì, a Napuli  chiamate parco un albero! E lei: “dai moviti, u parco so i case“!

Stefania Bertelli

Io partirei dal biglietto del tram. Perché a casa mia i trasporti pubblici occupano un ruolo importante. Mio marito ne è responsabile presso il comune di Venezia e si nutre e ci nutre costantemente dei suoi problemi. Tutti i nostri viaggi sono caratterizzati da tappe presso stazioni di autobus, gite in tram, percorsi in metropolitana…su e giù per le città. Per non parlare dei parcheggi scambiatori, per i quali mio marito ha un’insana venerazione: se li vede è capace di inchiodare l’auto, per andarli a fotografare. Detto questo, non è per fare la vittima, ma anche in uno di momenti più importanti della nostra vita Franco non ha voluto derogare. Il giorno che ho partorito per la prima volta, molto inesperta, non ho riconosciuto i primi segni delle contrazioni; allora, informata mia zia del mio stato, lei ci ha intimato di muoverci velocemente… e così ci siamo avviati verso l’ospedale. Essendo io impossibilitata ad andarci a piedi, mio marito ha rifiutato il suggerimento della zia di chiamare un’idroambulanza ed ha sentenziato: si va in mezzo pubblico!
La sfortuna ha voluto che fosse la domenica della Regata storica, la prima di settembre, una delle feste popolari cittadine, quando il traffico acqueo si paralizza; morale… ho dovuto attendere pazientemente presso l’imbarcadero dei vaporetti l’arrivo del mezzo, quando mi si son rotte le acque, … quando sono arrivata finalmente in ospedale, medico e infermiere mi hanno guardato con gli occhi fuori dalle orbite e mi hanno catapultata in sala parto.
Vorrei aggiungere, a questo proposito che, in questo periodo, stanno costruendo dei vaporetti proprio a Napoli. Mio marito è venuto a definire i lavori ed è tornato con pastiere, sfogliatelle e dolci vari, che i soci della cooperativa gli hanno suggerito.

Foto in cerca d’autore

L’autore da trovare non è quello della foto, che c’è già, è in realtà un’autrice da queste parti assai nota, Lucia Rosas. La foto, con mio grande piacere, me la sono ritrovata sulla bacheca di Facebook qualche giorno fa. Naturalmente ho ringraziato Lucia con i mezzi che sono disponibili da quelle parti e così, chattando chattando, è venuta fuori l’idea, più sua che mia, di provare a raccontare storie a partire dalla foto.
Lucia si è entusiasmata un bel pò, io ho fatto la parte di quello che butta acqua sul fuoco. Questa faccenda delle storie a volte funziona e a volte no -le ho detto-, comunque possiamo provare. Lei ha detto proviamo, ed eccoci qua.
La parola, anzi il post, passa a noi, gli autori. Se abbiamo voglia di farci trovare, of course.

Lucia Rosas
io non sono nota, io approfitto di una amicizia virtuale che, su una piattaforma vituperata rivela invece un’anima e una possibilità di essere ed esserci in modo vitale. io chatto perchè la mia voce è questa, io sono e vivo qui.
avevo scommesso di resistere alla nostalgia di uno schermo spento, di staccarmi dalla tecnologia armata di sms e un libro. è possibile e, paradossalmente ti fa desiderare di sentire il suono di quelle voci, di incontrare quegli altri che frequenti x il piacere di farlo, quando te la senti, quando hai da dire qualcosa di vero e tuo e dove distanze e credo si possono abbattere. ho sempre creduto ai libri come mondi possibili e che incontri le persone nei momenti + impensabili che ti piombano addosso con il loro vissuto, sono libri parlanti sono occasioni che non puoi perdere sono … il resto delle parole arriva durante dopo arriva. sempre.

Questo ce lo metto io
Con Lucia Rosas abbiamo pensato che un tavolino, due bottiglie d’acqua, un libro, una penna, un telecomando e una busta forse sono un pò poco per costruire una storia. Scrivete gli altri elementi, personaggi, soggetti che vorreste nella storia, mandate foto o disegni (purché fatte da voi o in ogni caso non soggette a diritti d’autore). Arrivati a 20 ci fermiamo e cominciamo a scrivere le storie con tutti o anche solo alcuni degli elementi a disposizione. Pronti? Via!

La Musa
Un gatto e un pc.

Vincenzo Moretti
Il Piacere di Matteo Arfanotti

Laura Marchini
Sedie di legno come quelle di una volta… fogli molti, sparsi sul tavolo, un pò di confusione….
e una luce! non sò se un lampadario oppure una luce da tavolo accesa: perchè la luce è importante, apre una “porta”, un pensiero….

Felicia Moscato

Concetta Tigano




Viviana Graniero

Daniele Riva
Un paio di biglietti del tram o della metro, senza specificare la città…

Santina Verta

Una tavola da Go e alcuni proverbi.
Perdi le tue prime 50 partite più in fretta possibile.
• Usa il Go per farti nuovi amici.
• Non seguire i proverbi.


Giappone.
Il gioco si svolge su una tavola di legno chiamata Goban (ban vuol dire tavola in giapponese) su cui è disegnata una griglia di 19×19 linee ortogonali. I due giocatori usano delle pietre bianche e nere che posizionano nelle intersezioni del Goban. Il nome del gioco vuole dire qualcosa come “pietre che si circondano” ed illustra lo svolgersi del gioco: entrambi i giocatori cercano di fare punti circondando territorio (zone vuote del Goban, ogni interesezione è un punto) e pietre avversarie (quando vengono catturate ognuna è un punto).

Le regole del Go sono poche e semplici: quelle fondamentali sono 3(+1) e le rimanenti servono per chiarire alcune situazioni che possono crearsi raramente.
• Inizia sempre nero, si gioca uno per volta e le pietre una volta collocate sul Goban non si spostano.
• Una pietra, od un gruppo di pietre contigue (lungo le linee, non in diagonale), ha tante libertà quante sono le intersezioni vuote adiacenti ad essa. Quando rimane senza libertà la pietra è catturata e viene rimossa dal gioco lasciando spazi vuoti al suo posto. Nell’mmagine la 1° pietra ha 4 libertà, la 2° ne ha 3, la 3° ne ha due. La 4° pietra ha solo una libertà, è in Atari, e se bianco gioca nella posizione segnata dal quadrato la pietra nera verrà catturata e rimossa.

• Ad ogni suo turno un giocatore può giocare una pietra o, se ritiene di non avere nessuna buona mossa da giocare, passare. Se entrambi i giocatori passano consecutivamente la partita è finita, si contano i punti e si determina il vincitore.
• Segnalo in questo breve riassunto come 4° regola quella del Ko senza approfondirla: possono esistere delle situazioni in cui il gioco potrebbe entrare in stallo ed esistono delle regole per impedire quasi tutti questi casi.

Normalmente il Go viene giocato su un Goban di 19×19 intersezioni, ma si gioca anche in Goban più piccoli come 13×13 o 9×9. Questi Goban ‘minori’ vengono usati per partite veloci, per introdurre i principianti al gioco e ‘tanto per giocare in modo diverso’. Una cosa interessante da notare è che nel Go c’è un sistema di graduatoria ‘naturale’: se due giocatori di differente abilità si incontrano il più capace concede all’altro il nero (che incomincia per primo) e, nel caso, pietre di vantaggio. In questo modo si può sempre giocare una partita equilibrata e divertente, mentre in altri giochi il giocatore più forte vince sempre (o almeno dovrebbe)
Buon gioco!

Paola Bonomi

Maria Paraggio
In provincia di Salerno c’è un paese molto suggestivo, Ottati. E’ una galleria d’arte a cielo aperto. Artisti provenienti da ogni dove hanno realizzato murales bellissimi. Sono circa un centinaio. Percorrere le strade del paese è come visitare una galleria d’arte. Ne sono rimasta affascinata. Sulle pareti di antiche costruzioni si possono ammirare delle vere e proprie opere d’arte.

Carta muta

enakapata3Don Antonio e il tressette erano una cosa sola, ma non era per questo che, quando si poteva, la domenica, prima di pranzo, andavamo a trovarlo. Ci andavamo per il ragù di donna Assunta e  perché a giocare con lui ti divertivi veramente. Perché ti divertivi?
Innanzitutto perché non giocava mai per soldi, neanche una cifra simbolica, che a lui i soldi, sarà perché ne aveva avuti sempre pochi, facevano schifo.  E poi perché se perdeva andava su tutte le furie. La sportività? E che cos’é, una cosa che si mangia? Tu potevi essere pure il campione interplanetario di tressette, se vinceva lui era bravo, se vincevi tu eri fortunato. Nelle cose della vita era un vero galantuomo, di quelli modello “signori si nasce, non si diventa”. A tressette no, era peggio del principe di Macchiavelli.
Naturalmente per lui il tressette era il tressette, quello a due coppie, e le sole varianti ammesse erano il pizzico (due giocatori) e il tressette a chiamare (tre giocatori, quello di mano può chiamare un tre e gioca da solo contro gli altri due o può passare; i due giocatori non di mano possono dichiarare “sola” e giocare contro agli altri due senza chiamare il tre). Il tressette a perdere e il tram (tressette a cinque) per lui semplicemente non esistevano.
Ora voi provate a immaginare il compagno di un soggetto così durante una partita: non era un giocatore, era un martire, perché persino quando vinceva don Antonio ricostruiva a fine partita tutte le giocate sototlinenado gli errori dell’altro e la sua perizia.
Non vi dico che cosa succedeva quando metteva una carta a terra e tu lo guardavi  come a  chiedergli “che dice questa carta”. Lui a risponderti ti rispondeva – Carta muta -, ma alla fine della partita era meglio scomparire. Perché prima ti diceva che in coppia con te non avrebbe giocato più, poi aggiungeva “si nu ciuccio, senza offesa pò ciuccio”,  poi continuava con “‘o tressette è nu juoco serio” e infine ti spiegava che “si io joco ‘o tre, voglia ‘a meglio, pecché o tenga a napulitana, o tengo o 25, o sto cercanno o doje” e continuava così via discorrendo per quanto riguarda il due, l’asso, la figura e la scartina.
Quando finiva? Quando arrivava donna Assunta annunciando il ragù. Il tressette scompariva d’incanto e don Antonio ritornava la pasta d’uomo che conoscevamo. A volte mi chiedo com’è che, con tutte le cose inutili che si vedono in giro, nessuno abbia ancora scritto un libro sul potere taumaturgico della tracchia a ragù. Bisognerà che qualcuno ci pensi.
Buon appetito.

Enakapata secondo Daniele Riva

Considero un privilegio raro essere finito insieme a Luca e a Enakapata su Il canto delle Sirene.
Ringrazio Daniele Riva per l’amicizia, senza la quale sarebbe stato troppo arduo finire  in una compagnia nella quale fanno bella mostra di sé Gozzano, Flaiano e Chopin; per l’impegno nel prendere sul serio questo nostro libro-viaggio-avventura; per la cura nell’interagire.
Il fatto che abbia trovato ragioni e motivazioni per farlo, mi rende felice e di ciò lo ringrazio di cuore.

Nina, ti te ricordi

enakapata3Lo ammetto, non so più da dove cominciare. Ma sì, comincio dall’inizio. Anzi no, dal titolo. Che prima era “Ti ricordi, Michel”, una bellissima canzone di Claudio Lolli, poi è diventato, grazie a Stefania Bertelli, “Nina, ti te ricordi”, parole e musica di Gualtiero Bertelli (perché grazie a Stefania Bertelli ve lo racconterò, forse, a parte).
Nina per me non è solo una canzone bellissima, è una parte della mia vita, quella in cui da studente di sociologia fuori sede, grazie alle 30 mila lire al mese che  mi passava papà (era dura anche nel 74, ci dovevo pagare la mia quota di affitto, mangiare, ecc. per un mese; ho resistito solo 2 anni, ma per quei 2 anni non ho mai chiesto una lira in più) venivo aggregato ogni tanto come “chitarrista acustico” a un gruppo di musica folk che si esibiva alle Feste dell’Unità. E’ stata un’esperienza umanamente straordinaria, che mi ha permesso di conoscere persone e luoghi indimenticabili e di mangiare ogni tanto da “cristiano” invece che alla mensa universitaria, eppure non è di questo che intendo parlarvi.
Adesso voi direte: “ma ci fai capire che vai trovando?” Diciamo che vorrei parlare del ricordo, delle connessioni tra ciò che è stato e ciò che è, di come queste connessioni intervengono sui nostri modi di vivere ciò che per noi è inedito, è inusuale, si  tratti di vestiti, di musica, di tecnologia, di idee.
Faccio un esempio, che io con gli esempi mi spiego meglio.
Quando Luca aveva 13-14 anni, sono stato io a insegnargli i primi accordi sulla chitarra e poi le prime canzoni. De andré, Guccini, Lolli, PFM, Bertelli, De Gregori, Genesis, Pink Floyd. Ci voleva molto poco e lui ci ha messo ancora di meno a diventare più bravo di me, ma ogni tanto ci mettevamo lì, suonavamo assieme e per me era molto bello. Ancora un altro poco, e con me non ha suonato più. Si, faceva una canzone, anche una e un poco, al primo mio errore, si scocciava. Lui aveva ormai i suoi miti e i miei non gli piacevano più. Ogni tanto discussioni, io con “ai miei tempi”, lui con “sei ‘na palla” e il discorso finiva lì. Pi ha un certo punto ho imparato gli accordi di Vasco Rossi, degli U2, dei Queen, e sono accadute due cose: ho scoperto che c’erano altre canzoni bellissime oltre a quelle dei miei tempi, e ho ricominciato ogni tanto a rifare qualche giro con lui, fino a quando non è passato al basso e poi è diventato troppo più bravo di me e non se ne è parlato più.
Potrei aggiungere che adesso lui suona più Led Zeppelin e Deep Purple che Queen  e Metallica, ma questo ci porterebbe fuori strada e poi sono fatti suoi. Quello che voglio dire io è che forse ci sono modi più aperti e inclusivi di vivere i ricordi, modi che non si fermano al “com’era bello”, “com’eravamo più bravi e buoni”, ecc., sia perché forse non è vero, sia perché di certo ai più giovani un rapporto di questo tipo non interessa, sia perché senza i giovani non abbiamo futuro.
Qualche giorno fa avevo scritto una mail a Daniele Riva manifestando un certo imbarazzo per la confidenza  e per l’affetto tra persone che in definitiva non si conoscono, e lui mi ha risposto “Conoscersi così da lontano, nella sua modernità, ha qualcosa di antico: come gli scambi epistolari dell’Ottocento. Il Romanticismo che risorge nell’era di Internet”. Ecco io credo che quello di Daniele sia l’approccio giusto, un approccio che non indugia sul rimpianto, sulla nostalgia, che pure talvolta ci sono, ma parte da lì per pre-disporsi, per accogliere, per cercare di vivere quanto più possibile tutto quanto  di bello c’è da vivere qui ed ora. Ogni qual volta si può perché non sempre si può.
Cosa ne pensate?

Questo lo ha fatto Felicia Moscato

‘A Madonna t’accumpagna

enakapata3Non so se ve l’ho già raccontato, ma credo di no, in ogni caso immaginatevi Secondigliano nella prima metà degli anni 60 con annessa una giornata di pioggia a zeffunne, cosa peraltro facile da immaginare di questi tempi, e poi immaginatevi me e mio fratello Antonio ancora piccoli ma già con i nostri, vogliamo dire nasi pronunciati?, ma sì, diciamo pure nasoni, premuti sul vetro della finestra della cucina a ripetere sei, sette, dieci volte: “Madonna nun fa chiovere, che papà è ghiuto fora, è ghiuto cu’ ‘e scarpe rotte,  a Madonna ‘e Piererotta, rotta ruttella, ‘a Madonna cu’ ‘e scarpuncielli, stella stelluccia, ‘a Madonna cu’ ‘o cappelluccio“. Papà da lì a poco sarebbe tornato a piedi da lavoro, avrebbe fischiettato per avvisarci che era l’ora di uscire sul ballatoio e correre ad abbracciarlo, e noi accompagnavamo così il suo ritorno, con la nosta cantilena propiziatoria inframmezzata da poco convinti “Enzo guarda, Antò guarda, chiove cchiù poco“.
La cena era una festa, non per quello che mangiavamo, che da quel punto di vista c’era assai poco da festeggiare, ma per la porta aperta. Per papà che ad ogni passaggio di un vicino, la nostra era la prima casa sul ballatoio e in quegli anni dal lavoro si tornava più o meno tutti alla stessa ora, gridava “don Gennà, don Antò” e così don discorrendo, “favorite“, ricevendo in cambio l’immancabile “buon appettito a voi e alla famiglia, don Pascà“. E anche, perché no, per mamma, la saggia adorabile contadina nostra, guai a chi ce la tocca ancora oggi, che ripeteva una volta si e un’altra pure “zitto Pascà, cà si chille veneno overamente, nun tenimmo niente“.
Eh sì, funzionava così. Porte aperte a Secondigliano. Sì, è vero, poi sarebbe cambiato, ma dove non sarebbe cambiato? Vabbé, ma io non voglio parlare di questo, ma di questo rapporto con la religiosità della gente semplice che a pensarci aveva un che di speciale.
Ne volete un’altra? Quando papà prime di uscire per andare al lavoro diceva “buon giorno“, dopo che ci aveva baciati uno a uno, moglie e figli, tutti quelli in possesso di parola presenti in casa dovevano rispondere “‘A Madonna t’accumpagna“. Altrimenti lui rimaneva fermo sulla porta, immobile, come una statua. E se passava troppo tempo, poiché lui non aveva tempo da perdere, si incazzava nero.  E se si incazzava nero, poiché a quei tempi le cose procedevano diciamo così con un certo ordine, erano guai seri.
Vabbè, per oggi basta coi ricordi. Anzi no. Perché come in tutte le storie vere anche in questa non manca il lato oscuro, in realtà giocoso, della forza. Volete sapere qual’era la risposta se  “‘A Madonna t’accumpagnalo usavi tra amici?A Madonna t’accumpagna, San Giuseppe te saluta, ogni passo ‘na caruta“. Punto.

Questo lo ha scritto Lucia Rosas

enakapata3Ho sempre creduto ai libri come mondi paralleli e possibili. Crescendo, ad appuntamenti col destino. Stavolta il libro è venuto a cercarmi e alla fine ho ceduto. Ho ritrovato i passi del gioco, i gusti di un amico virtuale, i suoi occhi su un mondo che funziona, delle idee, dei ricordi, delle riflessioni. Letto tutto in un fiato e sottolineato alcuni passi. E rileggerò ancora delle pagine, perchè servono idee emotive.

La cattiva strada

enakapata3Non sempre due indizi fanno una prova ma ieri mattina un’amica, mentre si discuteva delle generazioni più giovani mi ha detto: questi ragazzi si stanno allenando a diventare imbroglioni mentre stasera un’altra mi ha scritto chiedendo cosa rispondere ai giovani che le dicono che gli adulti stanno insegnando loro che bisogna vivere nell’illegalità.
In altri anni non avrei avuto dubbi su ciò che cosa sarebbe giusto dire, oggi si.  Non ho eccessivi dubbi invece su che cosa direi io oggi:
1. che è assolutamente vero che il messaggio di noi adulti, a partire dagli adulti delle classi dirigenti, è che bisogna vivere nell’illegalità (naturalmente tra gli adulti e persino tra le classi dirigenti c’è chi non appartiene a questa schiera, ma in quano aggregati, “adulti” e “classi dirigenti” danno inequivocabilmente questo messaggio);
2. che loro, i giovani, questo messaggio lo devono rifiutare non soltanto per una questione di etica o di giustezza ma anche, soprattutto, per una questione di convenienza, dato che vivere nell’illegalità non è una risposta alle loro esigenze e che a fronte dei pochi che a livello personale ci guadagnano, in quanto “aggregato” i giovani hanno tutto da perdere da questo stato di cose;
3. che ciascuno di noi può fare delle cose concrete per cambiare; se si è studenti, studiando tanto; se si lavora, lavorando col massimo impegno; quando da studenti di legge si diventa avvocati, scegliendo per il proprio studio i più bravi e non i parenti o i raccomandati; all’università, assegnando le  borse di studio ai più meritevoli e così via discorrendo;
4. che ciascuno di noi può fare queste e tante altre cose concrete senza cercare alibi nell’imbroglione della porta affianco; nessuna conquista, piccola o grande che sia, è possibile senza persone disponibili a fare il primo passo, ad assumersi responsabilità, a rischiare di pagare un prezzo in prima persona per lasciare a chi viene dopo un mondo almeno un pò migliore di quello che ha trovato;
5. che l’alternativa alla legalità, al rispetto delle regole, al fare le cose per bene perché è così che si fa c’è, ed è continuare a vivere in un mondo nel quale gli adulti insegnano a vivere nell’illegalità; se per loro va bene, la strada attuale è quella giusta.