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Zio Peppino

[…] Luca prima di salire si è fermato alla reception e arriva con un pò di notizie sulla partenza delle valigie: verranno a prenderle tra le 6 e le 9 p.m.. Andiamo come sempre a pranzo dalle ragazze ma come immaginavo non riesco a rilassarmi. Al ritorno recupero il budge in camera e facciamo un giro tra i ciliegi in fiore del Riken. Alle 4 p.m. siamo di nuovo alla 301. Ci alterniamo al Mac fino alle 8 p.m., quando finalmente gli addetti ritirano le valigie. Ragazze again.

Stavolta trascorriamo un’ora deliziosa. Torta, cappuccino e chiacchere. Con me che quando sono contento non la finirei mai di raccontare storie di famiglia. Luca un po’ si diverte e un po’ fa la faccia modello “pà, questa già l’hai raccontata 1387 volte” quando comincio a parlare di zio Peppino, fratello di mamma, operaio alla Richard e Ginori, naturalmente comunista, grande appassionato di musica lirica, di parole crociate e di Totò. Sia chiaro. Quando dico grande appassionato voglio dire grande appassionato. Nel senso che alla terza nota era in grado di dirti di quale opera si trattava, chi aveva scritto il libretto, in che anno era stata musicata, dove era stata rappresentata la prima volta, quali erano stati gli interpreti maggiori; nel senso che partecipava e non di rado vinceva ai concorsi de La Settimana Enigmistica; nel senso che poteva ripetere pressocché a memoria le scene principali di tutti i film di Totò. Roba da Lascia o Raddoppia, per intenderci.

Lo zio Peppino non si era mai sposato e già questa, in famiglie come la nostra, in anni nei quali “essersi sistemato” equivaleva a dire aver trovato un lavoro e aver messo su una famiglia, era una stranezza. Ma la cosa ancora più strana era che proprio lui, il comunista eccetera eccetera, si era arruolato volontario. Come gli era venuto in mente? Cosa c’entrava lui con la guerra d’Etiopia? Io e i miei fratelli a zio Peppino abbiamo voluto come si dice un bene dell’anima, ma la confidenza per domandargli perché, quella no, non l’abbiamo mai avuta. Così quando zio Peppino approda al Pantheon degli uomini semplici la domanda se ne va con lui. Almeno così ho pensato per circa 20 anni. Fino a che una mia vecchia cugina, non ricordo se in occasione di un battesimo, un matrimonio o un funerale, non dice che le sorelle di casa Picano, 6 in tutto, proprio come quelle della gatta Cenerentola, si sono potute sposare solo grazie a zio Peppino.

In che senso? – le chiedo. Nel senso che i nostri nonni erano talmente poveri che le figlie, nonostante fossero tra le più belle del paese, non avendo nulla che potesse anche lontanamente assomigliare a un corredo o a una dote, non si maritavano. Fu così che zio Peppino partì per l’Africa e con i soldi guadagnati fece il corredo alle 6 sorelle.

Ora non sosterrò che Luca si è commosso, lui che quando gli ho detto che se mi succede qualcosa gli toccherà prendersi cura di me mi ha risposto “già il verbo è sbagliato, quello giusto non è curare, ma terminare”, ma sono certo che la storia gli è piaciuta. In fondo fa lo sprucido per darsi un tono. Anche se in effetti la cosa gli riesce molto bene. […]  
Enakapata
Storie di strada e di scienza da Secondigliano a Tokyo

nunzia31

Recupero a volte etnografico e sempre affettuoso delle foto di famiglia a cura di Nunzia Moretti

Dear Horatio

umberto pastore and me

La foto è di domenica 22 maggio, 36-37 anni dopo l’ultima volta che avevo visto Umberto.
Sì, dear Horatio,  there are more things in heaven and earth than are dreamt of in your philosophy. Prendi Umberto e me, siamo cresciuti assieme, nel senso che abbiamo giocato a pallone assieme, che abbiamo suonato assieme, nel senso che lui suonava e io strimpellavo appresso a lui perché volevo partecipare e magari partecipando partecipando acchiappare qualche ragazza, abbiamo studiato e vissuto assieme per un anno, il primo dell’università a Salerno, ci siamo innamorati assieme e abbiamo cantato e abbiamo sognato e abbiamo fino a che non ha vinto il concorso nelle ferrovie, macchinista, a Verona, a cavallo di una locomotiva, come un eroe gucciniano però senza rabbia, mite, sorridente, affettuoso, buono.
Sì, direi che è incredibile la facilità con la quale una persona come me con i suoi oltre 100 mila chilometri riesce a perdere di vista un amico così per oltre 35 anni. Chissà, forse assieme alla banalità del male c’è anche una banalità dell’amicizia perduta, all’inizio ti dici prima o dopo lo acchiappo, ne sei certo, non è possibile diversamente, e intanto il tempo passa, e poi magari passi per la stazione di Bologna o anche quella di verona e guardi qui e là nei treni pensando chissà, magari sta qui, magari lo abbraccio, magari e intanto il tempo passa, e poi magari decidi di fare una rimpatriata e di rivedere tutti i tuoi amici di secondigliano sparsi per il Nord e poi al’ultimo non ci riesci e intanto il tempo passa, fino a quando un sabato, 21 maggio 2011, non rispondi al telefono e una voce di là ti dice “ciao Vincenzo, non so se ti ricordi di me, sono Umberto Pastore”. Sì, non so se ti ricordi di me, ve l’avevo detto che ui è fatto così, dolce, mite, adesso non fatemelo ripetere. Certo che mi ricordo, e poi l’emozione dell’incontro il giorno dopo, e la foto, e la promessa che alla prima occasione ci rivediamo.
Sì, lo prometto, questa volta non me lo lascio scappare, non ho più venti anni, non posso permettermelo. Comunque state tranquilli, che vi tengo informati.

Mille chilometri al giorno

Adesso non ditemi che “metto ‘o pepe ‘nculo a zoccola”, come diceva Pascalino ‘o Riccio, o se preferite ma spero proprio di no “cospargo il sale sulla ferita”, ma ieri sera è stato l’ultimo pensiero che ho fatto prima del solitario incontro con Morfeo, “Venti chilometri al giorno, Polvere e sole, Andata e ritorno, Venti chilometri al giorno, Per poi sentirti dire che, Non mi vuoi più vedere“, beato lui, venti chilometri al giorno.

Adesso non ditemi che non sapete che lui è Nicola Arigliano che mi incazzo davvero, a meno che non siate nati dopo il 1990 che mi incazzo soltanto ma senza il davvero. Perché beato lui invece me lo potete dire, direi che me lo dovete chiedere perché altrimenti il post finisce qui. Ecco la risposta:
giovedì 26 maggio: trento, festival dell’economia, amartya sen, nobel 1998, lezione su “i confini della libertà economica”, tema del festival;
venerdì 27 maggio: napoli
sabato 28 maggio: napoli, festival dell’economia di trento, il sommerso e l’economia da svelare;
lunedì 30 maggio: roma, fondazione giuseppe di vittorio;
martedì 31 maggio: roma, fondazione giuseppe di vittorio;
mercoledì 1 giugno: varese, presentazione bella napoli;
giovedì 2 giugno: varese, presentazione bella napoli;
venerdì 3 giugno: porto venere, la spezia, presentazione uno, doje, tre e quattro;
sabato 4 giugno: sarzana, la spezia, e finalmente napoli.

Adesso non ditemi che non sapete fare il conto perché non è difficile, circa 6 mila km in 9 giorni, e soprattutto non ditemi che sono tutte cose che mi fa piacere fare perché non mi fa solo piacere, sono  felice di farle, considero un vero privilegio tutto questo, sono grato dal più profondo del cuore a Marilena, Santina, Giancarlo, Michele e tutta l’Ahref Foundation, sono emozionato per sen e per le amiche e gli amici che potrò finalmente rivedere, sono contento delle chiacchiere che faremo la sera con Andrea e Laura con annesso pancione, sono contento anche per le persone che compreranno e leggeranno Bella Napoli, insomma sono nato con la camicia come vi ho detto già altre volte, eppure ciò non toglie nulla al fatto che mi toccherà fare tanti chilometri e come sapete io e i chilometri stiamo scompagni da parecchio tempo anche se alle signore di piazza Enakapata non piace che io lo dica.

Adesso non ditemi che state pensando questo adesso ricomincia che non ci penso proprio, sul punto quello che dovevamo dire lo abbiamo detto, qui in piazza Enakapata e su Uno, doje, tre e quattro, il mio indimenticabile librodiariodivitaediviaggio con Viviana Graniero, Daniele Riva e Carmela Talamo, è soltanto che a me “mi” piace troppo e quindi la citazione galeotta la ricordo qui:
Senza uscire dalla porta di casa puoi conoscere il mondo, senza guardare dalla finestra puoi scorgere il Tao del cielo. Più si va lontano, meno si conosce. Per questo il saggio senza viaggiare conosce, senza vedere nomina, senza agire compie.
Ecco, l’ho fatto, e ho anche sospirato, sì, un ahhhhh lungo lungo lungo, poi però mi sono ricordato della telefonata di Giancarlo e poi del messaggio che mi ha mandato Michele, com’è che mi ha scritto?, sì, una cosa tipo “qui ho messo sotto le cuoche per i canederli in attesa del tuo arrivo”.

Adesso non ditemi “Vicié, senza uscire dalla porta niente canederli”, perché senza uscire dalla porte niente Sen, niente Marilena, niente Giancarlo, niente di niente, cioè tutto. No no, non mandatemi dove state pensando di mandarmi, sto solo scherzando, davvero, di più: ‘o giuro ‘ncoppa all’ossa ‘e zì palluottolo.

Sillabario perugino

Artigiano
Sì, direi che viene quasi normale che con il passare degli anni uno l’artigiano che ha in sé cerchi di tenerselo sempre più stretto, almeno per me funziona così. A volte ho pensato che è perché non so e soprattutto non so fare quasi nulla, altre volte perché sono segno zodiacale Vergine e nei confini di ciò che per me vale amo essere preciso, non darmi scampo, ma questo è, prima mi ci sono abituato, adesso lo coltivo il mio piccolo grande “me” artigiano. Sì, direi che mi piace un sacco mettere qualcosa di me in quello che faccio, mi piace farlo con gioia, mi piace essere contento quando l’ho fatto bene. Dite che in questa Napoli declinante sono destinato a fare la fine di Don Chisciotte? Io dico di no, se “no” è troppo perentorio dico forse, ma aggiungo che a me la fine che fa paura veramente è quella che fa chi si arrende. Scusate ma non mi lego a questa schiera, morrò come Guccini pecora nera.

Assenti
Come a Catania anche a Perugia ho da registrare un assento e una assenta, questa volta però tutti e due giustificati. Trattasi di Irene Preti e di Giovanni Mometto, le due persone con le quali più abbiamo avuto a che fare nella realizzazione della nostra inchiesta sulla scuola abbandonata a Napoli.
Sì, a Perugia mi sono mancati per molte ragioni, la più importante è perché ha funzionato tutto molto bene, ma sì, diciamolo, crepi l’avarizia, è stato un successo e a questo successo loro hanno dato un bel contribuito.
Dite che tutta la <ahref Foundation è stata importante, che dietro le quinte c’è il lavoro di tante altre persone? E io mica lo metto in dubbio, di più, ne sono convinto, soltanto io qui non sto presentando un report sull’attività svolta e non sto neanche facendo la lista della salute modello Tommasino in Natale in Casa Cupiello, sto raccontando di persone, di emozioni e di relazioni, insomma di facce, di occhi, di voci, insomma facciamo così, per questa volta quelle di Irene e Giovanni funzionano come l’aleph, valgono per tutte.

Enrico Pedemonte
Una vita da inviato. Nel suo ultimo libro, Morte e resurrezione dei giornali (Garzanti) racconta il futuro prossimo venturo dell’editoria. Attualmente impegnato nel varo di Il nuovo Paese Sera, la voce di Roma. Leggete qui come se lo immaginano lui ed Enrico Fontana: “Un mensile d’inchiesta, libero e popolare. E un quotidiano on line, continuamente aggiornato e aperto al contributo di associazioni, comitati, cittadini. Da un lato l’approfondimento, la riflessione, lo sguardo attento ai cambiamenti in corso, ai protagonisti della vita sociale, economica e culturale, ai bisogni delle persone e alle risposte delle istituzioni, al ruolo della politica e al funzionamento della pubblica amministrazione. Dall’altro, quartiere per quartiere, tutte le notizie del giorno, gli eventi, gli appuntamenti da non perdere, le informazioni utili per muoversi, divertirsi, fare sport, i blog da seguire, le opinioni da commentare, le iniziative da condividere”.
La sera di venerdì abbiamo potuto chiacchierare un po’ e la mattina del sabato gli ho regalato la copia di Bella Napoli che avevo con me. Spero che lo legga e che almeno un po’ gli piaccia. Punto.

Fausta Slanzi
Giornalista, lavora per la Provincia Autonoma di Trento ed è stata nostra complice per ragioni istituzionali e nostra compagna di chiacchiera, di cena e di viaggio per ragioni di piacere. Il viaggio è stato breve, come a Perugia andare dal centro alla stazione, però lungo abbastanza per raccontarsi delle cose, per conoscersi solo un po’ ma quel poco avverti che ti piace. Sì, quando Cinzia, Alessio and me l’abbiamo salutata ci ha fatto piacere pensare che l’avremmo rivista presto a Napoli.

Freddo
Ebbene sì, ha fatto tanto freddo, direi particolarmente freddo per metà aprile, anche per Perugia. Io ero arrivato attrezzato, se sei segno zodiacale vergine un’occhiata al meteo e alle temperature minime e max gliela dai, magari senza fartene accorgere ma gliela dai. Ma vi assicuro che nella Band c’è chi lo ha sofferto tanto il freddo, nonostante il cuore impavido.

Luca De Biase
Se state pensando che è perché è il presidente che se ne sta qua solo soletto mentre Erla, Giancarlo, Giorgio e Michele stanno assieme da un’altra parte cliccate subito su reset perché siete fuori strada. La verità è che con Luca siamo amici da più o meno 20 anni e sono più o meno 20 anni che sono contento di volergli bene come si vuole bene agli amici veri, quelli che ti mancano uguale se li vedi tre volte in un mese o li vedi una volta sola in tre anni, quelli che va bene così, quelli che nel riassunto delle puntate precedenti c’è sempre un po’ di posto per la parola complicità. Ciò detto, rimane da aggiungere che in questi anni assieme a tante altre abbiamo fatto anche qualche bella cosa assieme. Per esempio nel ’94 abbiamo scritto “Sud e Federalismo”, che per me resta un bel libro, sì, bello, non me ne importa se “ogni scarrafone è bello ‘a mamma soja”, il nostro era, è, bello per il tema, nell’anno di grazia 1994 il federalismo visto da Sud non era cosa di tutti i giorni, e anche per come l’abbiamo raccontato, “modestamente a parte” come avrebbe detto mio padre. E un paio di anni dopo abbiamo messo su, assieme a un altro nostro amico, Rosario Strazzullo, una rivista che la porterò per sempre nel cuore, Austro e Aquilone, dai nomi dei due venti, del Sud e del Nord, che aveva un sottotitolo che era tutto un programma: (tele)comunicazioni tra Napoli e Milano.
Certo che è vero che ha resistito soltanto due anni, 6 numeri, però ci sono passati Pierluigi Bersani, Alberto Bregani, Federico Butera, Carlo Callieri, Antonio Cantaro, Franco Cassano, Anna Cerruti, Sergio Cofferati, Furio Colombo, Bo Dahlbom, Riccardo Dalisi, Biagio De Giovanni, Derrick de Kerckhove, Vincenzo De Luca, Domenico De Masi, Hubert Fexter, Vittorio Foa, Guido Fontanelli, Luigi Frey, Giuseppe Genna, Giuseppe Giulietti, Alberto Leiss, Sebastiano Maffettone, Michele Mezza, Corrado Ocone, Diego Piacentini, Francesco Pinto, Alex Ponti, Andrea Ranieri, Stephan von Stenglin, Umberto Torelli, Bruno Trentin, Salvatore Veca, Alessandro Vezzosi, Federico Ziberna e non sono neanche tutti non so se mi spiego.
E poi con Luca ci siamo acchiappati tra una fatica e l’altra – a proposito, se non avete ancora letto il suo ultimo libro, Cambiare pagina, do it! fatelo! – in tante altre cose che se mi metto a raccontarle tutte questo sillabario perugino diventa un libro e di questi tempi vi assicuro che per quanto mi riguarda non è proprio aria.

Luisa Pronzato
Lei l’abbiamo conosciuta il sabato, a pranzo, dove abbiamo capito che tra le mille cose che fa scrive per La 27esima Ora
. A me aveva detto che si sedeva lì perché voleva parlare con me, invece voleva parlare con Cinzia. Quando ho cercato di scalare di un posto per la serie “provateci voi a mangiare una bistecca con patatine in santa pace con Luisa Pronzato da una parte, Cinzia Massa dall’altra e tu in mezzo” mi ha detto di non fare il maschilista. Quando ho cercato di fare lo scugnizzo dicendole “io non faccio il maschilista, sono maschilista” ha bofonchiato qualcosa tipo “essendo maschio, come poteva essere altrimenti” e ha continuato tranquilla a parlare con Cinzia.
Dite che per questo mi è piaciuta un sacco? Non lo so, l’ho saputo quando ho letto questo
: “Sono, con orgoglio, lo stereotipo della zitella (lascio ad altre i doveri della single). Pasionaria, non rinuncio agli entusiasmi. Fotografo per esercitare occhio e mente e continuare a raccontare. Con le immagini”.

Michele Kettmaier, Erla Mesiti, Giancarlo Sciascia and Giorgio Meletti
Questa voce l’avrei chiamata <ahref Foundation se non fosse che Giorgio non è che lo puoi mettere solo là, e io suoi anni passati al Corriere della Sera?, e quelli di adesso a Il Fatto Quotidiano?, e poi in fondo neanche Michele, Erla e Giancarlo li puoi mettere solo là, e allora diciamo che questa sarebbe la voce “belle cape, belle idee, bella gente”, che poi è l’idea che ci siamo fatti Alessio, Cinzia, Colomba and me di Fondazione Ahref.
Sì, a me Fondazione <Ahref come titolo e Belle cape, belle idee e bella gente come sottotitolo piace molto, definisce un modo di essere e di fare che purtroppo si fa una certa fatica a incontrare nel nostro bel Paese, il modo di essere e di fare di chi lavora con entusiasmo, di chi è attento al dettaglio, di chi insomma ha cura delle cose che pensa e che fa, del modo in cui le fa, delle persone con cui le fa.
Sì, ad Alessio, Cinzia and me tutto questo ci è piaciuto molto, perché noi in fondo eravamo arrivati da poco e invece ci siamo sentiti come se fossimo stati con loro da sempre. È come nella Napoli bella quando qualcuno prende il caffè e ne paga anche un altro, il “sospeso”, per l’avventore sconosciuto che presto o tardi passerà. Con un piccolo gesto si dà senso alla relazione con l’altro e noi a Fondazione Ahref abbiamo trovato senso, connessioni, amicizia, e non è poco, no che non è poco non è poco.

Panini
Panini non nel senso delle figurine, nel senso proprio dei panini, quelli che ha comprato Cinzia appena arrivata a Termini mentre lei e Alessio aspettavano me che arrivassi dalla Fondazione e l’Eurostar che arrivasse sul binario.
Noi eravamo 3, i panini che abbiamo mangiato sono stati 4 ma chi ne ha mangiati 2 non ve lo dico, vi dico invece che faccio sempre così, prima mi arrabbio fino a diventare esagitato quando Cinzia mi dice che per me ne prende 2 della serie “che devo fare con questi panini assurdi che vendono alla stazione prendine 1 che basta e avanza”, poi mangio il mio di panino e poi anche il suo che se lei ne non ne avesse comprati 4 a prescindere sarebbe rimasta senza. Dite che sono impossibile? Vero. Ma solo in parte. Per un altra parte è un gioco, sì, funziona proprio come nella vita.

Piedi
I piedi in questione sono quelli dell’intrepida Erla, sì, proprio lei, Erla Mesiti, che è arrivata in versione estiva nella Perugia dominata dal freddo e dal vento, comprese le scarpe aperte, se ricordo bene delle ballerine, e piedi rigorosamente nudi. Posso dire che ho ammirato non solo la resistenza dell’intrepida fanciulla ma anche il suo amor proprio quando si è rifiutata di indossare i calzini che il prode Giancarlo le aveva offerto per dare ricovero ai suoi piedini gelati? Proprio così, della serie “io quelle calze lì a righe orizzontali non le metto, piuttosto mi tengo il freddo”. Certo che ci vuole coraggio, io nella sua situazione mi sarei messa anche le calze di Pippi calzelunghe, le mutande di lana del nonno quelle no, vabbé diciamo soltanto se ce ne fosse stato davvero bisogno.

Team Moretti
La definizione non è mia, è di Alessio Strazzullo, che forse per dare una soluzione postuma alla mia risposta impacciata a una domanda di Luisa, “come vi chiamate?”, ha scritto a un certo punto sul suo blog
: “noi del Team Moretti un nome ancora non ce l’abbiamo, e al momento preferiamo non pensarci troppo su”.
Confesso che all’inizio quel “un nome ancora non ce l’abbiamo”, con il suo evidente, diciamo pure incombente, riferimento al momento in cui dovremo averlo, mi ha procurato una notevole angoscia, poi per genio e per caso sul display del mio iPod è apparso “Un’ora sola ti vorrei, Mario Musella e Gli Showmen” e il mio daimon made in Secondigliano mi ha suggerito immediatamente “La scuola abbandonata a Napoli, Vincenzo Moretti e i Citizen Reporter”.
Adesso che vi ho fatto capire come sono ridotto posso aggiungere che Cinzia Massa, Colomba Punzo e Alessio Strazzullo sono stati dei compagni di inchiesta semplicemente straordinari e mi fermo qui perché altrimenti la cosa diventa sdolcinata e non va bene, anche perché non si può riposare sugli allori, meglio cercare di migliorarsi sempre, vedere cosa e come si poteva fare meglio, su su, che ci sono ancora un sacco di cose da fare.

Timu
Timu è la piattaforma che Fondazione <Ahref sta approntando per permettere ai cittadini reporter di fare informazione di qualità. Nel frattempo che aspettate potete fare due cose: inserire il vostro indirizzo elettronico per essere contattati non appena la piattaforma sarà disponibile per il pubblico; vedere come procede La scuola abbandonata, la prima grande inchiesta promossa su Timu che affronta per l’appunto il tema della disperisone scolastica nel nostro paese.

La Bella Napoli di Mariagiovanna Ferrante

Io non sono una Napoletana. Nel senso che non sono nata a Napoli. Ma posso affermare con certezza di essere innamorata di questa città, dalla quale mi sento figlia adottiva da un po’di anni a questa parte, grazie alle esperienze-di studio, di lavoro e di svago-che mi hanno permesso e mi permettono di viverla in modo piuttosto intenso, nel bene e nel male. Ho studiato a Napoli, e da studentessa ho iniziato a respirare l’“aria della città”, trattenendomi spesso nella zona del Centro alla scoperta di stradine e piazze.
Il mio stato di insegnante precaria mi ha portato nei licei napoletani, mentre i vari corsi di improvvisazione teatrale e di tango mi hanno permesso di conoscere la Partenope notturna, con il suo frastuono, ma anche con i suoi silenzi, a volte inquietanti.
In questo senso, mi viene in mente un elenco alla maniera di “Vieni via con me”: in esso potrei inserire, tra i motivi per andar via, la camorra, la microcriminalità, la munnezza, il traffico, le auto in doppia fila, il lavoro nero, la disoccupazione.
E se mi limitassi alla pars destruens potrei restare prigioniera dei consolidati clichè che fanno di Napoli una città suicida, priva di voglia di riscatto e vittimista.
Ma poi ho la possibilità di elencare i motivi per restare. E oltre al mare, al sole e ‘o mandulino, ho la certezza che i motivi per restare sono tanti, come ho potuto constatare leggendo un bel libro, che è quello di Vincenzo Moretti. Ho comprato il volume più di un mese fa, in occasione della sua presentazione alla Feltrinelli di Piazza dei Martiri.
Ricordo che pioveva a dirotto e che non potevo aprire l’ombrello a causa del vento: sono arrivata in libreria fradicia di pioggia, ma giusto in tempo per assistere all’incontro con l’autore.
Una bella presentazione, priva di retorica e trasudante entusiasmo, grazie alla quale il libro è giunto tra le mie mani.
Un bel titolo, BellaNapoli: a dirla tutta, la prima cosa che mi è venuta in mente è stata l’associazione con una pizza fumante, con doppia mozzarella di bufala, olio extravergine e basilico…
E in effetti, leggendo il libro, credo di aver vissuto questa avventura sinestetica, perché quello che mi è rimasto, dopo l’ultima pagina, è stato un buon sapore. Un sapore di sincera voglia di vivere e di amare questa città. Soprattutto, di lavorare, e di farlo senza imbrogliare, senza farsi raccomandare e senza prendersela col destino se le cose non vanno per il verso giusto: è quello che fanno dodici persone normalissime, e nel contempo eccezionali nella loro normalità. Che abbiano una laurea in tasca o no, non fa differenza: queste dodici persone raccontano, nella semplice complessità di un racconto di vita, cosa significhi svegliarsi la mattina e andare a insegnare in una scuola di periferia, o inseguire un contratto a termine, o essere costretti a reinventarsi dopo aver svolto per diversi anni sempre le stesse mansioni.
Ecco che mi viene in mente un’altra cosa: la canzone di Caparezza, Eroe. Il tono non è certo quello del cantante pugliese, però ogni volta che sono giunta al termine della lettura di una vita, mi è sembrato di sentire le parole “straordinario tutte le sere”. Forse è anche per questo che ho impiegato più tempo del solito per finire il libro, un po’ come mi è capitato per Uno, doje, tre e quattro: in questo testo, come nel precedente, non si può leggere una sola riga senza riflettere, senza provare un moto dell’anima. Per questo motivo, la mente si scopre piacevolmente stanca alla fine di una tranche de vie dal momento che ha vissuto empaticamente lo stesso percorso della voce narrante, provando le sue stesse emozioni, dalla frustrazione, alla riscoperta di sé e delle proprie capacità, alla soddisfazione di dire a se stessi e agli altri: “Ce l’ho fatta”…
Emma, Angelo, Francesco, Beppe … sono tutti straordinari questi personaggi, che non “sopravvivono al mestiere”, ma lo vivono. E lo amano, perché amano farlo in questa città.
Vincenzo Moretti è riuscito molto bene a trasmettere tutto questo, senza vuote apologie e senza ricorrere a luoghi comuni. Che ami Napoli, non si percepisce semplicemente, si sente. E poiché la ama, incondizionatamente, riesce a trasmettere questa onda emotiva anche a chi legge questa sua “antologia” di esistenze. Non è un caso, poi, che il libro si chiuda con la storia di Beppe, artigiano, musicista, pensatore, che scrive: “Se la guardi in maniera distratta, la foglia oro è solo una metodologia per rivestire un oggetto in oro. Ma se la guardi con gli occhi giusti…è il risultato finale…di un lavoro minuzioso portato avanti fino all’ultimo come deve essere portato avanti, cioè con pazienza, con meticolosità, con maestria e soprattutto, ma sì, adesso dico la parola giusta, con amore”.
Penso che in queste parole ci sia tutto il senso del libro. Vincenzo vuole insegnare, in questo libro, che “forseforse” vale la pena di restare e di darsi da fare. E auguro a questo libro di capitare nelle mani di tante, tantissime persone, e magari anche in quelle dei candidati alle prossime amministrative. Perché Napoli possa essere conosciuta non solo e non più come terra di camorra e di munnezza, ma come città di Persone e di rispetto.

Ciao Pà

Il disegno con il suo faccione sta sempre lì, proprio davanti a me, sulla scrivania. In qualche modo continua a guardarmi, anche se naturalmente in maniera diversa da come ci  “guardava” lui, che anche dopo che abbiamo trovato lavoro e abbiamo messo su famiglia e abbiamo avuto le nostre vite con le nostre gioie e i nostri casini doveva mettere naso e bocca in tutto quello che facevamo, aveva sempre qualche cosa da ridere, aveva sempre un modo, il suo, per fare meglio le cose.
Lui era così, improbabile, prepotente, straordinario. Quando è nato Luca, lo voglio dire anche se mio fratello Antonio si arrabbia, che se avessi avuto la “capa” di adesso l’avrei chiamato Pasquale, lui non appena l’ha visto l’ha preso in braccio raggiante e ha chiesto “perché gli avete messo un nome da femmina?”. Devo avergli detto una cosa tipo “pà, Luco non esiste, Luca è un nome da maschio” e lui come se fosse la cosa più normale del mondo mi ha risposto “ah, ho capito, se era femmina si chiamava Luchessa”.
Sì, lo avevano disegnato così, abbiamo avuto un padre che ci ha amato in maniera esagerata e in questo, in questo caso parlo naturalmente solo per me, resterà per sempre ineguagliabile, proprio non ce la posso proprio fare a superarlo.
Volete sapere una cosa?, a me non “mi” dispiace, se lo merita di non essere superato, lui se avesse potuto studiare sarebbe stato ineguagliabile anche in altri campi e invece lì già con la prima media ce lo siamo lasciato alle spalle.
E adesso sta lì a farmi compagnia, con quel suo faccione appeso alla parete, con quel sorriso che era proprio il suo e che neanche nel ritratto quello finito, con i colori e la cornice e tutto il resto è venuto così bene, con quei suoi occhi buoni che certe volte se non ci fosse il vetro lo riempirei di baci e lo prenderei pure a morsi per la felicità.
No che non accade sempre, solo ogni tanto, accade per i fatti suoi, come ad esempio stamattina che invece di guardarlo soltanto, come succede di solito, l’ho visto, l’ho sentito dentro, gli ho detto mi manchi, mi mancherai sempre “mannaggia ‘a capa toja”, proprio così gli ho detto, poi ciao pà, e poi basta.
Anzi no, dentro di me, sul lato sinistro in alto ho cliccato sul pulsante “mi piace” e mi sono detto adesso lo racconto ai miei amici di piazza Enakapata, credo che gli farà piacere, c’è un sacco di bella gente, ma sì, adesso lo faccio. L’ho fatto e  la giornata si è messa meglio, nonostante la pioggia battente e le tremila cosa che anche oggi ho da fare.
Ciao pà, e non ti preoccupare, che anche se facciamo vite complicate le principali le abbiamo imparate e questo aiuta, aiuta tanto.
Mò non ti arrabbiare, certo che sei stato tu ad insegnarcele, ma non sei stato solo tu, anche mamma, le nostre esperienze, insomma la vita che abbiamo fatto.
Dici che però se non era per te …? Vabbuò, lassa fa ‘a te, ci stai solo tu, e non essere esagerato come al solito, fosse ‘na vota ca dicisse “hai ragione tu”. Vabbuò, vabbuò, a ragione se la pigliano i fessi, e ti pareva che non tenevi pronta la “chiusura”.
Pà, te posso dicere ‘na cosa? Tu si ‘na cosa grande, ti voglio bene, sei stato il padre più meraviglioso del mondo.
Lo so che lo sai che dico sul serio, è la verità, il fatto è che tu sei insopportabile, non ti stai zitto neanche quando qualcuno vuole parlare a tuo favore.
Vabbuò, mo non cominciamo un’altra volta che tengo un mare di cose da fare.
Ciao pà. Ti saluto. E grazie, anche a nome di Antonio, Gaetano e Nunzia.

Anna e Giancarlo

Non dite che non avete visto neanche una volta nella vostra vita Blade Runner altrimenti mi arrabbio. Comunque se non lo avete fatto qui trovate il pezzetto più commovente del film. Sì, proprio quello che ho voglia di ricordare per raccontarvi di una giornata, quella di ieri, che ogni tanto anche noi umani abbiamo la fortuna di vivere.
La giornata prevedeva il viaggio a Caserta, che oramai con questa storia dell’alta velocità e tutto il resto è degrado è quasi peggio che andare a Roma, dove nel primo pomeriggio sono stato impegnato in una iniziativa su Statuto dei Lavoratori e sua attualità a 40 anni dall’Autunno caldo.
Nei giorni precedenti avevo chiamato Sondra, la mia amica del cuore, che riesco a vederla sempre meno di quello che vorrei, per dirle che se era libera sarei potuto arrivare da lei in mattinata e avrei potuto mangiare da lei, e mi ero scritto con Anna, per dirle che finito il dibattito mi avrebbe fatto piacere incontrare da qualche parte lei e Giancarlo per bere un caffé e donarle una copia di Bella Napoli.
Prima che me lo diciate voi me lo dico io “che vita è una vita in cui per incontrare i tuoi amici li devi ‘incastrare’ tra una discussione e l’altra”. Prima che me lo chiediate voi ve lo dico io che è una vita che ha un sacco di controindicazioni ma è la vita che mi sono scelto, quella che mi piace. E poi come vi ho detto tante volte io sono nato con la camicia, sono molto fortunato, cosicché non solo Sondra era libera ma Anna e Giancarlo mi hanno invitato a cena e mi hanno anche detto che i libri degli amici si comprano, che loro l’avevano già fatto, e che ci volevano pure la dedica.
Ve l’ho detto che in realtà la giornata non è che non era cominciata bene ma anzi era cominciata da schifo? No, e allora ve lo dico adesso. È la storia delle controindicazioni. Diciamo che il mio corpo cerca di avvertirmi in molti modi che non riesce più a stare indietro alla mia testa, che il tempo passa anche per me, che dovrei fare una vita più quieta e regolata e aggiungiamo anche che sarei stupido a non ammettere che ha ragione lui. Quello che lui però non vuole capire è che per fare una vita più quieta e regolata io, non potendo permettermi di tagliare alla voce “lavoro lavoro”, dovrei tagliare alla voce “lavoro piacere” e allora che vita sarebbe la mia?. Su aiutatemi, quando lo incontrate diteglielo anche voi che un po’ di ragione ce l’ha anche la mia testa.
Comunque per tornare al punto ieri prima di uscire di casa me la sono vista brutta, ma brutta brutta brutta. Il risultato? Sono arrivato tardi a Caserta, volevo fare una passeggiata con Sondra e non ho potuto farlo, mi è venuta a prendere in auto e ce ne siamo andati a casa.
Da qui la giornata ha preso un’altra piega. Agitato ho continuato ad essere agitato, però abbiamo chiacchierato e riso e chiacchierato e poi lei si è arrabbiata tanto, per fortuna non con me, e poi abbiamo mangiato una meravigliosa pasta e zucca e poi mi ha accompagnato alla Feltrinelli e poi alla Camera di Commercio, sede dell’iniziativa.
Anche la discussione è stata bella e partecipata, non sempre accade, sarà stato il tema, molto attuale, ma di questo vi racconterò un’altra volta da un’altra parte. Poi mi è venuta a prendere Anna e abbiamo raggiunto Giancarlo, ai fornelli, a casa.
Ora io potrei cominciare dalla casa, bellissima, ma non perché ci stanno mobili di famiglia bellissimi, che quelli per esserci ci sono, ma perché è una casa piena piena di senso, di significato, di amore, tra queste due persone straordinarie che stanno assieme da 43 anni.
Oppure potrei cominciare dal menù, sì, perché mi hanno fatto trovare anche un menù, Menù Bella Napoli, così composto:
10 marzo 2011 Spagettata con Vincenzo, Menù: Alici ammollicate; Gamberi e zucchine, Crudo di Pezzogna alla vinaigrette; Linguina di Gragnano a vongola sottile; Mezzi paccheri alla pescatrice; Filetto di orata all’acqua pazza; Treccia di bufala, Frutta barchetta; Profiteroles Chirico; Vini campani. Detto che letto così di seguito è una cosa e visto stampato sul menù, tutto in fila, in corsivo, al centro, è un’altra, aggiungo anche che l’unica cosa che era buona ma non eccezionale era la treccia di bufala, perché vi assicuro che tutto quello che hanno preparato Giancarlo e Anna era allo stesso livello della cena che Akira Tonomura, lo scienziato che ha inventato il microscopio più potente del mondo, ha offerto a Tokyo a Luca, a Franco Nori e a me (per saperne di più leggete Enakapata, il libro e il blog).
E invece comincio, e finisco, da Anna e Giancarlo. Era la seconda volta che ci vedevamo, siamo stati qualche ora assieme eppure mentre in treno me ne tornavo a casa ho rimpianto di non essere rimasto a chiacchierare fino a notte fonda, di non essere restato a casa loro a dormire.
I miei amici di più lunga data se ne meraviglieranno, con il tempo tra le controindicazioni sto sviluppando anche la sindrome di Proust, nel senso che ho bisogno di tornare tra le mura amiche, di ritrovare stanze e mobili disposti “come sai tu”, mi rifiuto di svegliarmi la mattina e di non sapere da che parte scendere per andare in bagno, che insomma anche se continuo a dormire spesso fuori, con la vita che faccio non sarebbe possibile altrimenti, lo faccio sempre più raramente con piacere.
E invece ieri sera l’ho pensato. E ho sorriso. E sono stato felice di pensarlo. Sì, da Anna e Giancarlo mi sono sentito come a casa.
Dite che è perché a un certo punto io e Anna abbiamo scoperto che il suo e il mio papà hanno lavorato tutti e due nella Società Meridionale Elettrica? Che sono stati tutte e due a Cotronei, sulla Sila, il posto dove sono nato? Che hanno conosciuto tutti e due l’ingegnere Massaioli che a voi non dice niente e a noi tante cose? Che forse si sono anche conosciuti? Che è stato molto tenero scoprire negli occhi dell’altra/o quanto avremmo voluto poterglielo domandare?
Io dico che tutto questo e tanto altro è stato bello, di più, straordinario. Ma penso che non c’entra. Come non c’entra il menù e non c’entra la casa. C’entrano Anna e Giancarlo. Sono proprio loro, è il loro modo di esserti amico quello che mi ha fatto sentire a casa mia.
Dite che Anna e Giancarlo sono proprio loro anche nei ricordi, nella casa, nel menù? Ecco, così si, così penso che avete ragione voi, così sono d’accordo. È troppo bello avere amici così. Grazie di cuore.

Network Bella Napoli

Quella quasi tutta la mia vita funziona così, anche se adesso sarebbe troppo lungo spiegarlo qui. Comunque alle 5.30 di stamattina mi sono svegliato con questo tarlo in testa: che fare affinché Bella Napoli arrivi ai napoletani che non si nascondono la gravità e la profondità dei problemi che attanagliano la loro città e che però non ci stanno ad essere rappresentati solo dalla monnezza, che c’è, dalla camorra, che c’è, dalla classe dirigente, che non c’è, e così via discorrendo. Come ho scritto nel libro, non mi interessa affermare che Napoli non è solo camorra, Gomorra o monnezza, lo trovo ovvio, banale, equivoco. Ho voluto invece prospettare una condizione di possibilità, di riscatto, e ho voluto farlo raccontando di napoletani normali che danno valore al lavoro, che sentono la responsabilità di fare le cose per bene, che mettono amore, passione, interesse in quello che fanno. Sì, è questo il messaggio che vorrei fare arrivare ai napoletani e anche agli italiani che non si accontentano dei cliché, neanche quelli modello pizza e mandolino.

Ciò detto debbo però confessare che il tarlo delle 5.30, di per sé, non mi ha portato da nessuna parte. Poi però ho dato 5 copie del libro a Beppe che le metterà in bella vista in bottega e magari qualcuno si incuriosice e ne compra una copia, poi ho incrociato su Facebook Rosa Cennamo ed è nata la storia che ho raccontato qui, finché a un certo punto il tarlo è diventato un’idea: la vendita porta a porta, come si faceva quando ero giovane, la domenica, con l’Unità, che poi era anche un modo per parlare con le persone, per sentire gli umori, per ascoltare le richieste e le critiche ma è meglio che lasciamo perdere altrimenti mi metto a piangere.
Vi state chiedendo insomma cosa ho in mente di fare? Ve lo riassumo per punti, così faccio prima e sono più preciso, perché per me è una cosa seria e importante. Facciamo così, metto prima il cosa vorrei fare, poi il come vorrei farlo e infine il perché, secondo me, dovreste farlo:

Cosa

1. Vorrei creare su tutto il territorio nazionale, nelle grandi così come nelle piccole città una rete di amici che mi aiutino concretamente a far leggere, conoscere, comprare Bella Napoli.

Come
1. Chi è interessato mi fa una richiesta di 3 o 5 copie (in casi eccezionali si può valutare una richiesta di 10 copie, anche per la ragione che potete leggere al punto successivo).
2. Io pago le copie in una Feltrinelli qui a Napoli, e voi le andate a ritirare  nella Feltrinelli più vicina a voi (è un servizio che offrono da tempo; è vero che dal punto di vista economico non ci guadagnate niente ma naturalmente non vi viene chiesto neanche di spendere niente).
3. Voi ritirate le copie, se le vendete mi mandate i soldi (anche in questo caso senza costi per voi, e con un minimo dispendio di tempo) se non le vendete me le restituite (ci incontriamo, vi mando io un corriere, ecc., comunque sarà mia cura torvare la soluzione senza impicciarvi troppo).

Perché
1. Per partecipare a un progetto che vorrei continuasse, generasse ulteriori contenuti e iniziative, producesse nuove idee. Un progetto con al centro le persone e il loro lavoro. L’idea  è in definitiva  quella di partire da Bella Napoli per arrivare a Bella Italia, insomma quella di raccontare l’Italia attraverso il lavoro.

2. Per contribuire a costruire dal basso una rete che poi possiamo tutti utilizzare alla pari per altri progetti e iniziative.

3. Per amicizia e affetto nei miei confronti. Come  Salvatore Veca, “non mi piace l’ospitalità opportunistica o quella sciatta, sbracata. Mi piace l’attenzione. E la cura, discreta, nel ricevere, nella cerchia della philia, ha una sua naturale bellezza”.

Ciò detto, aggiungo alcune altre considerazioni che nella prima edizione di questo post non ho scritto perché mi sembrava un pò scontato:

1. Se la mia proposta esperimento dovesse funzionare, come spero,  sul piano pratico per me questo significherà investire tempo e soldi, due risorse assai scarse e dunque preziose in questa fase della mia vita.  La mia insomma non è una proposta commerciale. A Napoli il libro è stato recensito molto bene e va alla grande, ho ragionevoli motivi di ritenere che nelle prossime settimane la sua visibilità aumenterà di molto anche a livello nazionale in termini di recensioni, presentazioni, presenza nelle librerie e vi assicuro che per un libro delle sue dimensioni va più che bene così.

2. Come ho scritto nel mio libro, penso che “la grandezza, le speranze e le opportunità di una nazione, la nostra più delle altre, sono strettamente legate al rispetto che essa ha, e mostra, per il lavoro e per chi lavora, a ogni livello. Se l’Italia non ha più una visione condivisa del proprio futuro, se è diventato un paese di poche speranze e con scarse opportunità, in primo luogo per le generazioni più giovani, quelle che più delle altre avrebbero invece bisogno di proiettare l’ombra lunga del futuro sul presente, è esattamente perché alle vie del lavoro e della partecipazione ha preferito quelle della ricchezza senza capacità, del comando senza responsabilità, dell’arrivismo senza regole, della notorietà senza merito.
Mio padre lo avrebbe detto a modo suo, con il vocabolario di un operaio che aveva conseguito la licenza di quinta elementare con l’avvento della seconda guerra mondiale, ma state certi che lo avrebbe detto che non ci vuole un arco di scienza per comprendere che se non si ridà valore, dignità e considerazione sociale al lavoro e a chi lavora non si va da nessuna parte”.
Ecco, l’idea che mi sono fatto è che raccontare il lavoro può essere una buona maniera per  contribuire a ridare senso e identità al nostro Paese e per questo, l’ho annunciato nel corso della presentazione a Napoli, sto cercando di trovare le risorse per portare avanti questo progetto.

3. Da solo non ce la faccio, non ce la posso fare. Molte/i di voi hanno delle belle teste, dei bei cuori, dei bei rapporti umani, in minima parte li ho potuti verificare da vicino, per la maggior parte lo capisco dalle belle cose che scrivete sulla piazza di Enakapata. A me questa storia del Network Bella Napoli è sembrato un modo stirngere ancora più rapporti e ancora di più i rapporti, un modo per cominciare un viaggio, per incontrare esperienze, avendo un’occasione concreta senza la quale a volte, preso dalle mille cose che faccio, non riesco a dare la necessaria priorità.

4. Penso di avere l’età giusta per cominciare questo viaggio, non vado di fretta, dare mi piace come ricevere e imparare più di insegnare, ma ho bisogo del vostro aiuto. Naturalmente le cose si possono fare anche in altra maniera (presentazioni, incontri, ecc.) ma il mio istinto mi dice che questa cosa dei libri da vendere crea una selezione, determina un legame. Naturalmente posso sbagliarmi e dunque continuo a restare in ascolto. Come fare per dirmi cosa ne pensate, con la sincerità necessaria, lo sapete.
Grazie a tutte/i voi a prescindere.

Sposarsi non è un verbo di cui l’uomo conosca il significato

di Adriano Parracciani

Sposarsi non è un verbo di cui l’uomo conosca il significato.
Ed è per questo che  vado da molto tempo parlando di una bizzarra idea: quella del matrimonio a tempo.
Si un matrimonio che scade, proprio come l’assicurazione dell’automobile, o un come contratto d’affitto. L’idea è semplice: il matrimonio è un contratto che dura cinque anni, alla scadenza si può rinnovare oppure decade automaticamente, senza bisogno di avvocati, cause, liti, ecc ecc. Si va di cinque in cinque fino al decadimento o alla morte di uno dei contraenti.
Va bene, direte voi, la solita pensata atipica di Adriano, due risatine e finisce là. Ebbene vi stupirete leggendo le righe seguenti.
Un giorno del 2007, mentre sto sfogliando il giornale, mi cade l’occhio su un articolo: “Matrimonio a tempo: 7 anni e via“.
La lettura è incredibilmente eccitante, non solo per la proposta che va esattamente nella direzione della mia idea, ma anche per chi la fa.
Dall’articolo si legge che la tedesca frau Gabriele Pauli, leader bavarese candidata alla presidenza della CSU, il partito più conservatore tra i due partiti cattolici tedeschi, intende proporre la riforma dell’istituto matrimoniale ponendo una validità di sette anni scaduti i quali il matrimonio si annulla, lasciando ai conigui la possibilità di rinnovarlo, risposandosi. Ora, anche se la proposta si è sfortunatamente  arenata, e anche se è della CSU, io dico W frau Pauli.

Post sulla felicità

L’idea stavolta mi è stata data dai post di Rossella Cacace e Grazia Leone.
Le loro parole sul diritto ad essere felici e sulla determinazione necessaria per realizzare tale diritto possono essere il punto di partenza per una nuova, sono convinto bellissima, discussione.
Dite che la lettera sulla felicità l’ha già scritta Epicuro? Infatti, i nostri saranno i post sulla felicità. Forza, donne e uomini di Piazza Enakapata, raccontate la vostra ricerca della felicità, cosa avete fatto e cosa intendete fare affinché, riflettendo sulle vostre vite, possiate cliccare sul pulsante “mi piace”. Non si tratta insomma di dare consigli o, meno che mai, ricette sulla felicità, semplicemente di raccontare se stesse/i e il proprio rapporto con la ricerca della felicità. Naturalmente, nel rapporto con la felicità ci sta anche il fatto di non averla ancora trovata  o di averla persa e non averla ancora ritrovata.
So di poter contare su di voi. Buona partecipazione.

Deborah Capasso de Angelis
In questo periodo della mia vita penso spesso alla felicità. Ma faccio un errore, la lego indissolubilmente ai miei desideri. Sono molte le cose che desidero ed allo stesso tempo non so di preciso se poi mi renderanno felice.
Poi,inevitabilmente, il pensiero corre ai momenti di maggiore esaltazione, di effervescenza, di distacco dal quotidiano e accade una cosa strana….sono ancora felice.
Non è un tuffo nel passato o un vivere di rimpianti, non voglio rivivere quei momenti che sono unici ed irripetibili è semplicemente il comprendere che, secondo me, la felicità non è un istante ma resta dentro te e compensa il non-felice della vita.
Insomma la felicità non si esaurisce, non è vincolata all’attimo in cui essa si prova ma s’insinua nell’anima di chi sa conservarla.

Grazia Leone
Dire ‘sono felice’ non implica uno stato di esaltazione e di euforia permanente,  perderemmo la ragione in breve tempo   se così fosse.
So che scriverò cose scontate  ma la felicità può diventare  uno stato generale se fatto di tantissime piccole cose che messe tutte insieme ci fanno stare bene e  in pace con noi stessi. Guardare un tramonto, camminare a piedi nudi nell’erba, una cena con gli amici, una passeggiata nel bosco, un profumo che ci ricorda un bel momento passato,  fare una torta, il figlio che ci racconta una barzelletta, il grazie di un collega a cui abbiamo dato una mano, anche solo soffermarci su un  singolo pensiero che ci è passato per la mente in un determinato momento, sono infinite le piccole e apparentemente insignificanti cose che riempiono la vita e che fanno da  intermezzo agli affanni quotidiani.
Al di là delle inevitabili avversità che la sorte tiene in serbo per ciascuno, io penso che la felicità sia già dentro di noi, bisogna imparare a riconoscerla e a tirarla fuori, è un  compito arduo e può non bastare una vita intera per riuscirci ma bisogna almeno provarci.
Lo ammetto, oltre che scontato ciò che ho scritto è anche banale… cosa mi resta da dire? Che allora la felicità, quella autentica, è fatta di banalità.
C’è una poesia di Borges che mi piace, non so quanto sia in tema  ma mi fa pensare a tutte le cose che si possono fare prima che sia troppo tardi.

Istanti
Se io potessi vivere nuovamente la mia vita
nella prossima cercherei di commettere più errori.
Non tenterei di essere tanto perfetto, mi rilasserei di più
sarei più stolto di quello che sono stato,
in verità prenderei poche cose sul serio.
Correrei più rischi, viaggerei di più, scalerei più montagne,
contemplerei più tramonti e attraverserei più fiumi,
andrei in posti dove mai sono stato,
avrei più problemi reali e meno problemi immaginari.
Io sono stato una di quelle persone che vivono sensatamente,
producendo ogni minuto della vita.
E’ chiaro che ho avuto momenti di allegria,
ma se tornassi a vivere, cercherei di avere soltanto momenti buoni.
Perché di questo è fatta la vita,
solo di momenti da non perdere.
Io ero una di quelle persone che mai andavano da qualche
parte senza un termometro, una borsa d’acqua calda, un ombrello e un paracadute:
se tornassi a vivere, viaggerei più leggero.
Se io potessi tornare a vivere, comincerei ad andare scalzo
all’inizio della primavera
e continuerei così fino alla fine dell’autunno.
Girerei più volte nella mia strada, contemplerei più aurore
e giocherei di più con i bambini.
Se avessi un’altra volta la vita davanti…
Ma, vedete, ho ottantacinque anni e non ho un’altra possibilità.

Concetta Tigano
Felicità…è una gran bella ed impegnativa parola!!!
L’ho provata tante voltre , ed è sempre un colpo, un’emozione fortissima che ti lascia senza fiato, peccato che non sempre  dura….
Il primo bacio
Il primo amore (non sempre coincidono…:-))
Andare a studiare fuori casa
La laurea
Il primo stipendio
Un alunno che ti dice ” finalmente prof. ho capito!!”
Metter su casa con l’uomo che ami
La nascita dei figli ( la più grande!!)
…….facciamo un salto!!!!che è meglio!!!!!
Essere in grado di farcela
Sapere che l’intervento è riuscito
Emozionarsi ancora…ascoltando una “canzone”
Rivivere momenti che si credevano perduti
e…non ultimo far parte di una super-band come questa!!!!!!

Cinzia Massa

Mentre decido cosa scrivere, ecco una poesia di Totò, giusto per non vedere soltanto il lato bello della questione.

Felicità!
Vurria sapè ched’è chesta parola,
vurria sapè che vvo’ significà.
Sarà gnuranza ‘a mia, mancanza ‘e scola,
ma chi ll’ha ntiso maje annummenà.

Nando Santoro
Lo spunto di Rossella e Grazia (rimbalzato da Enzo e poi giù o su per li rami, fate voi) è assai interessante. E ho pensato subito alla Costituzione americana. Che è l’unica (credo) che mette il perseguimento della felicità fra gli obiettivi del popolo (We the people). Forse per i principi del giusnaturalismo ai quali i Padri costituenti si uniformavano. O per quella ingenuità di fondo che viene sempre riconosciuta come tratto principale degli yankee. O forse perchè a fondare gli Usa fu una miscela di popoli ed etnie scappate dalle persecuzioni politiche e religiose e dalle guerre del Vecchio Continente. O forse perchè la felicità è una delle poche cose concrete – ancorché indefinibili – che l’uomo può perseguire? a tutte queste opzioni, per ora, rispondo con un eloquente ed impegnativo “Boh?”. Ma non è detto che, speculando speculando, non riesca a tirare fuori qualcosa di buono. Hai visto mai…

Santina Verta
La felicità ..attimi estatici di stupore condiviso da un sorriso!
Per cui posso dire che esiste anche incosapevolmente!
Mica mi sorride il monte Rosa che riflette i raggi del primo sole… la carica di sorrisi rende quei momenti abbaglianti e molti visi distratti si lasciano attrarre dalla scia di colori!
Mi sorprendo di quanti granelli di felicità raccolgo nei bagliori che si ripetono con un ritmo frequente, fra albe e tramonti e lune di marmellata fanno un bel bignè!
Se vi trovate a passare..largo ai sorrisi!
E se , per caso, sentite qualcuno che urla…” correte ..salite… di corsa….” è per l’incontenibile contentezza di vedere stagliarsi all’orizzonte  Stromboli, magari fumante! ovviamente nell’altro lato del Rosa!
Oppure saltello in tumultuoso silenzio, quando una timida violetta si affaccia sui muri  intorno casa… attimi di felicità!

Daniele Riva
Ci sono certe mattine di martedì, quando sono a Milano, che mi capita di attraversare il Parco Sempione e uscire dal Castello Sforzesco dalla Porta del Filarete: fuori c’è la grande fontana che eleva al cielo i suoi getti; dietro il sole si leva sui palazzi ottocenteschi di Via Dante, dipingendo riflessi iridescenti sull’acqua. In quel momento io mi sento felice, senza un perché. Immotivata felicità e forse per questo ancora più apprezzata. Per il resto, io non credo alla costituzione americana che mette il diritto alla felicità tra i suoi requisiti fondamentali. Si può provare a essere felici ma niente e nessuno può garantire la felicità. La vita ha i suoi colpi, il destino sa essere crudele. Per questo ho raccontato quella mia “felicità di niente”, per non sembrare un cinico pessimista, cosa che non sono, come possono testimoniare anche i miei nuovi amici napoletani. Se Gesualdo Bufalino scrisse che “la felicità esiste, ne ho sentito parlare”, io posso dire che esiste perché so di averla provata, di provarla, anche se non può essere uno stato continuativo. Dobbiamo soltanto coglierla, quando si presenta, come un bel frutto dorato sull’albero dei giorni…

Antonella Romano

Io non credo che nella vita si possa essere felici in generale.
Si può essere più o meno soddisfatti della propria esistenza ma parlare di felicità secondo me è una questione più complessa.
La felicità per me è questione di attimi.
E’ euforia e gioia assoluta.
E l’unica cosa che possiamo fare è stare bene attenti a non guastare questi momenti e viverli intensamente distaccandoci da qualsiasi problema e preoccupazione.
Uno dei giorni più felici della mia vita fu il 26/02/2009, lo ricordo ancora, tensione mista a eccitazione e poi una sensazione di liberazione assoluta, in due parole, la tanto attesa LAUREA!
Ovviamente di momenti felici, per fortuna ce ne sono stati tanti altri ma, quel giorno lo ricordo soprattutto perché non ero sola, c’erano le persone più importanti della mia vita lì a gioire per un mio traguardo raggiunto. Insomma, un mix perfetto di liberazione/gioa/amore e per questo probabilmente rimarrà sempre un giorno indimenticabile, ma pur sempre una parentesi.
Più che di felicità credo che sia più giusto parlare di “pace”.
La pace non è questione di attimi ma può durare per anni se solo si è in grado di trovare un giusto equilibrio.
Io personalmente l’ho trovata per poco tempo ma è stata un’ottima lezione di vita. Complice un viaggio in Kenya e un modo di dire “pole pole”.
Pole pole vuol dire piano piano.
Sembrerà banale ma credo che sia questa la chiave di un’esistenza serena.
La ricerca di altri ritmi che più si addicono agli esseri umani.
Nessuno ricorda più come si viveva qualche decennio fa. Quando ancora non esisteva il traffico, le auto e i ritmi frenetici ai quali ci siamo, nel corso del tempo, abituati.
Quando è stata l’ultima volta in cui mi sono fermata? Non lo so, non lo ricordo. Corriamo sempre senza avere la minima cognizione di dove andiamo e a questo punto che senso ha vivere dei momenti di felicità se poi non li si ricorda?

Grazia Leone
La felicità non è solo un diritto ma anche e soprattutto un dovere.
Abbiamo il dovere di essere felici anche a costo di scappare. Io sono scappata, già adulta, decisa e con bene in testa cosa volevo. Volevo poter scegliere il mio futuro e dove vivevo prima non era possibile. Sono partita una mattina e per metà viaggio non sono stata in grado di dire una parola ma non ho versato neanche una lacrima. Dopo quasi quattordici ore sono arrivata a Monza, avevo con me solo le valigie con i vestiti e i miei libri, sono entrata nel mio monolocale, ho posato i bagagli e ho mormorato: ecco, ora comincia la mia vera vita.
Quanto è stata dura! Per mesi mi sono sentita sola e disperata, per farmi coraggio mi ripetevo come un mantra ‘ce la faccio sono forte, ce la faccio sono forte’ piangevo di notte o nella doccia, per non farmi vedere da nessuno.
Ci vogliono forza e coraggio per iniziare una nuova vita in un altro posto, bisogna essere disposti a contare solo sulle proprie forze, bisogna imparare ad avere fiducia in se stessi e a fare i conti con la nostalgia. Bisogna anche accettare a priori il fatto che una volta partiti si può non tornare.
Alla fine il mio mantra mi è stato utile, ho trovato quello che cercavo, o meglio, ho realizzato ciò che desideravo, me lo sono guadagnato. Oggi ho quasi paura a dire ‘sono felice’, lo dico sottovoce anche se tutto quello che sono e che ho lo devo unicamente a me stessa e alla mia determinazione.

Rossella Cacace
Ognuno ha la sua storia…ognuno il suo vissuto…ognuno i suoi perchè…
Io sono la Rossy di Tel Aviv, di cui Anto parlava nel suo commento…e sì, me ne sono andata 8 mesi fa. Potrei dire che sono andata via per molte ragioni: perchè stanca del mio Paese e della mia città, per amore, per un sogno…quello che però ho capito in questo periodo di tempo è che non c’è sempre un motivo REALE per il quale andiamo via. Non è solo per il lavoro, per l’amore o per altro. Si va via quando si trova la pace e la serenità altrove. Io sono partita con 500 euro in tasca. Avendo un appoggio certo, ma comunque con 500 euro, in un Paese di cui non conoscevo la lingua, nel quale non avevo un permesso di lavoro che ho ricevuto solo dopo 2 mesi. Eppure, anche nei momenti difficili, io ero felice! Ero felice solo di uscire e camminare in questa città! Ed è questo che ancora oggi, dopo 8 mesi di cui 5 di lavoro, mi stupisce ogni giorno: sono felice di fare tutto! Di prendere l’autobus, di fare la spesa, di sistemare casa MIA!!!Di uscire con i miei nuovi amici qui…E’ questo che conta!! Ricercare e raggiungere la propria felicità che deve essere INDIPENDENTE dal luogo o dal tipo di lavoro o dai soldi!! Non è quindi una norma uguale per tutti!!Non è una regola generale!Si resta se si è felici! Si va via se si è felici di farlo!Ecco perchè odio quando mi si dice che sono scappata! Che l’ho fatto perchè non avevo scelta! Non è vero! Ho fatto la mia scelta!! E la mia scelta è stata di essere felice! Ora sta voi! Fate la VOSTRA scelta!!

 

Chi parte sa da cosa fugge ma non sa che cosa cerca

L’idea me l’ha data Rosanna Pisani, come ho scritto qualche giorno fa una donna straordinariamente importante nella mia vita. Per due anni, dai 18 ai 20, il primo che fa i conti di quanti anni sono passati lo tengo scompagno, io sono stato il suo ragazzo e lei la mia, e sono stati due anni meravigliosi. Lei neanche lo sa, ma quando mi ha lasciato è stata la volta che ho pensato seriamente di morire, anche di voler morire, se chiamate Tonino Parola ve lo può confermare, non so quanti giri di Secondigliano ci siamo fatti con me che dicevo non ce la faccio ad andare avanti e con lui che mi diceva ce la fai, lascia che passi il tempo e ce la fai. Comunque me ne sono andato a Sociologia a Salerno, scelta che poi si è rivelata fondamentale nella mia vita, perché non ce la facevo più a vivere negli stessi posti dove avevo vissuto con lei. Spero che Rosanna non si dispiaccia che io scrivo queste cose, penso che dopo quasi 40 anni si può farlo con dolcezza, emozione, distacco, penso che il racconto non toglie e non aggiunge niente a ciò che è stato.
Insomma come vi ho detto l’ho cercata e ritrovata via Facebook, ci siamo scritti un pò di cose che naturalmente sono cose nostre, e oggi lei ha postato queste righe:
Napoli è la mia città natale, il luogo dove ho vissuto i primi 25 anni della mia vita. Poi ho deciso di andare altrove, a cercare nuove prospettive di vita, e così ho vissuto in diversi luoghi meno o più organizzati, dalla Sicilia alla Lombardia, più precisamente le isole eolie, salina in particolare, che amo molto e riconosco ancora oggi  come la mia casa, e la città di Brescia dove per 15 anni ho vissuto, lavorato e allevato i miei figli.
Dopo tanto tempo, sembra che in qualche modo Napoli mi richiami alle mie origini, cioè a riallacciare  il filo interrotto di  relazioni e connessioni con la sua vita e attraverso le persone che lavorano per la sua rinascita come il caro amico Vincenzo Moretti.  Un invito a partecipare, ed eccomi.

Qual’è l’idea è presto detto: chacchierare di cosa ci spinge ad andarcene e cosa ci spinge a tornare, non la storia dei viaggi dove il ritorno è per così dire nelle cose, la storia delle nostre vite in cerca di luoghi dove vivere e cercare sé stessi.

Niente, direi che possiamo cominciare, tanto la sapete che la frase del titolo è stata rubata a Montaigne da Lello Arena con conseguente figura di m. di Troisi.
Chi comincia per prima/o?

SottolinEliasCanetti

Non gli chiederò perdono. Anche perché non me lo concederebbe. E farebbe bene. Perché Lui è (era solo per la storia, non certo per la cultura) Elias Canetti. Ha vinto il Nobel 40 anni dopo aver scritto il suo romanzo, Auto da fé.  Ha impiegato 30 anni per scrivere Masse e potere. E Lui non starebbe certamente a perdere tempo con queste cose così sfacciatamente attuali.
Però lo facico lo stesso. Metto questo titolo assurdo per sottolineare il legame con Sottolineato di Adrian Parracciani. E metto la citazione che secondo me merita di essere commentata.
La citazione è questa, tratta da La provincia dell’uomo (pag. 207):

Quante volte bisogna dire ciò che si è, prima di diventarlo veramente?

Commentiamo gente, commentiamo.

Un amore per amico

Come si è sviluppata ieri sera la discussione lo potete leggere nel commento qua sotto.
Qui provo a spiegarmi meglio, l’ho “minacciato” e lo faccio, magari è solo una mia fissazione e magari no, però vorrei che evitassimo i luoghi comuni. Chi ne vuole discutere, deve stare sul punto. Il mio punto lo schematizzo così:

1. sono pochi, ci abbiamo messo anni e in alcuni casi decenni, ma oggi ho amici con i quali “non devo mai dire mi dispiace”. Per fare qualche esempio se arrivo tardi a un appuntamento mi dicono “non c’è problema, se sei arrivato adesso vuol dire che non potevi arrivare prima”; se non li sento per settimane, talvolta mesi, una volta anni, non devo spiegare perchè, neanche se e quando li chiamo perché ho bisogno del loro aiuto; quando stiamo assieme posso parlare per ore o posso stare modello “cadavere” che mi sento a mio agio, non “devo” pensare, fare, dimostrare, niente. Ovviamente tutto questo è reciproco, nel senso che funziona così in tutte e due le direzioni, che funziona  così quando stiamo  assieme una giornata, per esempio a Procida, o un mese, per esempio a Sydney.

2. con le donne di cui mi sono innamorato non mi è mai riuscito,  c’è sempre qualcosa, piccola o grande che sia, da chiarire, da giustificare, da approfondire, da fare, da puntualizzare, bisogna sempre stare sul punto, lei si deve sentire sempre la più importante (prima che vi scateniate preciso che la donna che amo “è” sempre la più importante, e di mio senza falsa modestia sono uno a cui piace un sacco farglielo capire, in mille modi) e tutto questo ad un certo punto diventa un peso, che più vado avanti negli anni e più non sopporto.

3. se la vostra risposta al tema è che sono io ad essere sprucido, intollerante, esagerato, insopportabile e così via discorrendo vi dico che io non sono per niente convinto e che  voi vi perdete una possibilità di (ri)pensare in maniera non banale a quanto accade  nei rapporti tra mogli e mariti, fidanzate/i, compagne/i.

4. Amare vuol dire non dovere mai dire mi dispiace è un modo dire che avevo sempre odiato, così come il film Love story. Poi un giorno, a Casperia (Ri), mentre guardavo un albero come non lo avevo mai guardato … ma adesso è meglio che mi fermo che con questa storia dell’albero già sono stato torturato abbastanza :-).

Buona discussione.

Cento di questi giorni come il tuo cuore desidera

Vogliamo cominciare dalla circostanza? Va bene, cominciamo pure da lì, era il 29 dicembre 1962 e al tempo abitavamo a Via Cupa dell’Arco, nella stanza all inclusive con angolo cottura, che vedete come fa chic ma in realtà significa che in quella stanza ci dormivamo papà, mamma, io e Antonio, naturalmente ci mangiavamo, ovviamente mamma ci cucinava, e nell’angolo c’era un micro bagno perché a includere anche quello nell’all sarebbe stato troppo anche per noi. La nostra bella casa ormai la dovreste conoscere, è quella nella quale facemmo la danza con i soldi della liquidazione di papà di cui ho scritto in Enakapata, la stessa nella quale io e Antonio ci precipitavamo sul ballatoio ad abbracciare papà quando tornava dal lavoro, e questo invece ve l’ho raccontato in Uno, doje, tre e quattro, che se non li avete ancora letti non sapete cosa vi siete persi ma fate ancora in tempo a rimediare. Quello che forse non vi ho ancora detto è che la casa suddetta aveva un bel balcone che usavamo nell’ordine per asciugare i panni, per vedere a scrocco, spesso assieme agli amici, le partite del A. S. Secondigliano, che giocava in promozione, e per sparare i tric trac e i biancali a Natale che un anno mi sono fatto anche un poco male ma questo ve lo racconto un’altra volta.

Io e Antonio eravamo amici dei figli del custode del campo e anche dei due scalcinati mastini napoletani che avrebbero dovuto fare da deterrente per i ladri, cosa ci fosse poi da rubare non è che l’ho mai capito, e quel famoso pomeriggio stavamo per l’appunto facendo un’improbabile partita, eravamo in tutto 5 o 6 in quel campo che ci pareva sterminato, quando qualcuno ci venne a chiamare, non ricordo davvero chi, per dire di correre a casa perché era nato il nostro fratellino.
Ora al tempo né io e né Antonio potevamo saperlo, ma il fatto che fosse un fratellino e non una sorellina voleva dire che prima o dopo ne sarebbe arrivato un altro,  che per fortuna dopo arrivò Nunzia perché papà non si sarebbe mica fermato se non fosse arrivata la femminuccia sua, il tutto con grande gioia di mia madre (non so se si coglie l’ironia, ma c’è, mamma se avesse potuto anche solo pensarlo lo avrebbe letteralmente ammazzato a papà per questo fatto, che lei a due già si sarebbe fermata anche se poi naturalmente ‘e figlie so figlie, tutti, e anzi Gaetanuccio è diventato anche il preferito della mamma sua anche se ancora oggi non lo vuole ammettere).

Insomma io me la ricordo ancora l’emozione di vedere il fratellino appena nato, era la mia prima volta dato che quando era nato Antonio non avevo ancora due anni e dunque cosa ti vuoi ricordare. Bellissimo.

A proposito di Gaetano, anche il nome è stato un problema, perché non piaceva a nessuno, né a me né a mamma e forse neanche a papà (di Antonio non so dire, glielo chiederò e vi faccio sapere).
A mamma non piaceva perché lei finita la fase del “refrisco”, io mi chiamo Vincenzo come il nonno paterno, mio fratello Antonio come il nonno materno, avrebbe voluto finalmente scegliere un nome non obbligatorio, che ne so, un nome tipo Marco ad esempio; a me non piaceva per la maledetta mania di associare i nomi ai soprannomi o agli sfottò e al tempo andava per la maggiore “Aitano, scorza ‘e patane, auna ‘e perucchie e s’è mangia cu ‘o ppane (Gaetano, buccia di papata, raccoglie i pidocchi e li mangia col pane)” che capite da soli quanto mi facesse schifo.
Perché allora papà decise (sì, anche questo l’ho già racocntato, ma per i renitenti alla lettura ripeto che da noi non era prevista la discussione, decideva tutto lui) che si dovesse chiamare Gaetano? Perché a un certo punto arrivò la sua nutrice, lui era stato l’ultimo di 17 figli, in gran parte morti prematuramente, e sua madre non avendo più latte l’aveva fatto allattare da una nutrice che noi chiamavano nonna e lui “mammà zezzella” (io lo trovo meraviglioso, e voi?), e si ricordò che un fratello di papà morto giovane si chiamava Gaetano e dunque mio fratello doveva chiamarsi così. E così fu.
Vabbé, poi naturalmente da allora sono successe tante altre cose, ma io un post devo scrivere non un libro che di quelli ce ne stanno già troppi in giro. Vi dirò soltanto che tra alti e bassi come succede in tutti i rapporti veri, perché non basta mica essere fratelli per andare sempre daccordo, non sarebbe neanche tanto bello così, che gusto ci sarebbe, continuiamo a volerci un bene da pazzi e oggi sono veramente felice felice di stare assieme a lui. Punto. Anzi no. Te voglio bene Gaetà. E ti faccio gli auguri come te li avrebbe fatti papà:
Tanti auguri per cento di questi giorni come il tuo cuore desidera.
Adesso è davvero tutto. Ci vediamo tra poco.

L’incantesimo del motore

di Giancarlo Iorio
Questo racconto è ambientato a Morrone del Sannio, nel Molise, in un periodo in cui la meccanizzazione cominciava ad affermarsi in agricoltura, con una certa difficoltà di adattamento, per persone, volenterose, ma del tutto digiune di tecnologia. 

Quando mio nonno aggiustava il trattore indossava un pantalone ampio, di tessuto jeans, con una pettorina mantenuta da due bretelle incrociate sul dorso e sotto una camicia di fustagno a quadroni con le maniche rimboccate.
In casa questo indumento era conosciuto come panzuork.
L’aveva portato dall’America, da Seattle per la precisione, dove era stato a lavorare come minatore.
Succedeva circa trenta giorni prima della stagione della trebbiatura, che, al mattino presto, lo si poteva vedere indaffarato, con indosso il panzuork.
Per mesi il Field Marshal gommato era stato fermo. Aggiustarlo significava semplicemente rimetterlo in moto.
Operazione complessa in un trattore della metà degli anni ‘50. L’accensione prevedeva, una serie di operazioni, tra cui ovviamente il rifornimento di nafta, che veniva prelevata da grandi fusti cilindrici di colore verde chiaro. Erano quelle le prime occasioni in cui vedevo applicata in pratica la proprietà fisica dei vasi comunicanti.
Nonno Carlo infilava nel fusto grande un tubo di gomma, avvicinava l’estremità libera del tubo al recipiente di destinazione del carburante, si chinava e aspirava col fiato la nafta, poi, precipitosamente, infilava il tubo col carburante in uscita nella tanica rettangolare di metallo da 20 litri.
Molto spesso ne assaggiava un po’, suo malgrado, oppure il carburante gli colava sulle scarpe e poi mia madre a tavola si chiedeva: “Da dove viene questa puzza di nafta?”, e si alzava in preda ai conati di vomito.
Il gommato era di un bel colore verde scuro, aveva delle ruote posteriori enormi, dal profilo a spina di pesce molto scolpito.
I soci lo chiamavano “il motore” perché era destinato ad una funzione statica cioè a far girare il meccanismo della trebbiatrice a cui veniva collegato con una lunga cinghia di trasmissione di un tessuto di corda, molto robusto. Ma, quando poteva, Peppino, con la scusa di provarlo, mi portava a fare un giro e lo faceva correre. Una volta andammo addirittura alla stazione di Ripabottoni – Sant’Elia per prelevare un pezzo di ricambio. Undici chilometri ad andare e undici a tornare.
Verso la metà del mese di giugno, i soci, Michelino, Giovanni, zio Pasquale, zio Leonardo con il figlio maggiore Peppino, e nonno, conosciuto da tutti come zì Carluccio, si davano appuntamento alle cinque del mattino.
Il Marshal andava cacciato a spinta dal garage di Pasquale.
La messa in moto doveva avvenire in strada perché c’era più spazio.
Il serbatoio veniva riempito con un paio di taniche da 20 litri, usando un imbuto di lamiera di stagno.
Poi iniziava la procedura vera e propria, durante la quale i soci parlavano solo se era davvero necessario, come si fa in chiesa.
Carluccio estraeva dalla tasca della tuta una cartina assorbente,  che aveva comprato apposta a Campobasso in confezioni da trenta e l’arrotolava come una sigaretta. La cartina era imbevuta di una sostanza pirica che la rendeva simile a una miccia.
Michelino intanto aveva svitato dal motore una chiave a T che terminava con un tubo destinato a ricevere la sigaretta.
Bisognava posizionare con cura la cartina all’estremità del tubo, accenderla, assicurarsi che avesse preso ad ardere e non si era spenta sul nascere, magari per il vento forte o perché inumidita, introdurla nel condotto che portava alla camera di scoppio e avvitare bene la chiave a T.
L’operazione successiva doveva avvenire in rapida sequenza, perché, altrimenti, finita la poca aria a disposizione, la cartina si sarebbe spenta. Infatti subito dopo aver avvitato la chiave nel motore era un muoversi rapido e convulso. Ci si doveva disporre due da una parte e uno dall’altra della massiccia manovella, che avrebbe azionato il volano. I soci già sapevano che l’operazione non si sarebbe conclusa al primo colpo, per cui non apparivano delusi che il primo tentativo produceva al massimo due o tre stu stu stu e una nuvoletta di fumo chiaro.
Si svitava la chiave a T, si toglieva la cartina usata, se ne arrotolava un’altra, si introduceva nel tubo, la si riaccendeva, si riavvitava la chiave e si faceva girare la manovella con uno sforzo sincronizzato da un energico: “Uno, due e tre…ooh”. In genere dopo il quarto tentativo senza risultato zio Pasquale sentenziava: “Coss è uocchie”.
Zio Pasquale credeva molto nel malocchio e lo tirava fuori in ogni circostanza.
La prima volta che, in quella occasione, formulò la sua ipotesi era ancora sorridente, come se stesse scherzando, infatti, gli altri non gli diedero retta, ma dopo il quinto tentativo infruttuoso zio Pasquale ripeté con assoluta convinzione e senza ridere:
” Se n’è maluocchie coss…”.
Così, mentre gli altri preparavano la sesta accensione, andò in casa per prendere quello che lui chiamava il pendolino, che gli serviva per accertare il malocchio.
Se il pendolino, cioè un pezzo di spago con un piccolo peso di metallo ad un’estremità, messo sul motore, si sarebbe messo a girare, allora era malocchio.
Naturalmente puntualmente il pendolino si metteva a girare:
“Facem’u benedice”, propose, rimettendo in tasca l’attrezzatura con la stessa cura che un maestro artigiano avrebbe usato con i ferri del mestiere.
Ma intanto si provava per la settima volta.
“Da chi u vu fa benedice, da Don Daniele?”, lo canzonava Michelino, che in un certo senso voleva dire:
“Tu vorresti andare da Don Daniele, gli vorresti dire che al trattore hanno fatto il malocchio e vorresti che quello subito ti servisse una bella benedizione, ma ti rendi conto?”, solo che Michelino non era così loquace
“U feceme benedice da Ze’ Filomè, i diengh i’ na galline”.
Ze’ Flomè incantava il malocchio. Era una vecchina buona come il pane e nell’aspetto e nei modi, non aveva nulla della fattucchiera. Normalmente, quando veniva chiamata, faceva tre croci col pollice sull’oggetto da liberare o sulla pancia della persona con la colica o sulla fronte del bambino epilettico, poi, molto presa dal ruolo, mormorava delle parole con le mani congiunte e infine si ritirava in silenzio.
Una volta, molti anni dopo, le chiesi: “Ze’ Flomè, ma tu che dici?”
E lei mi rispose in modo amorevole ma fermo:
“Solo cose di Dio, ma nun tu pozz dice, zie seie”.
Mi sono chiesto a lungo il perché del segreto. Che cosa poteva cambiare? Perchè ciò che si considera sacro conserva la sua sacralità e il suo potere solo se viene riservato a pochi iniziati, escludendo i profani?
Mio nonno era molto religioso e, anche se non aveva nulla contro la persona, non avrebbe potuto acconsentire alla pratica, considerata superstiziosa dalla religione.
Invece mio padre quando si trovava davanti alla convulsione di un bambino, dopo aver prescritto una supposta di Brolumin, se vedeva gli sguardi ansiosi e dubbiosi dei familiari, diceva: “Ho capito va bene, chiamate la collega”.
La “collega” era appunto Ze Flomè che con il suo intervento rassicurava gli astanti. Il modo di fare di mio padre non era canzonatorio, ma semplicemente rispettoso della “cultura” del luogo.
Fatto sta che zio Pasquale due o tre anni prima, siccome l’accensione del motore tardava, era andato a consultare zè Flomè.
Pare, ma non lo ammise mai, che concordò che lei sarebbe passata vicino al trattore facendo finta di niente e avrebbe pronunciato le sue giaculatorie.
Pare che al tentativo successivo il motore si accese, confermando così la sua convinzione.
Ma questa volta zio Pasquale non voleva insistere con zè Flomè. Gli altri erano contrari o per fede religiosa, come mio nonno, o per eccesso di concretezza che portava a negare tutto ciò che non si vede, come Michelino e Giovanni o per assoluta passione per la meccanica come zio Leonardo e Peppino.
Zì Carluccio ascoltava il parere di tutti, anche quando per principio non poteva essere d’accordo, mettendo in pratica la regola di Voltaire. Così aveva chiesto a zio Pasquale:
“Pasquà pecchè dice ch’è maluocchie, pur ù trettore mo ze fa u maluocchie?”
E zio Pasquale con una logica stringente aveva risposto:

“A nafta ce l’ì miss, a cartucce cel’ì piccete, a manuelle ce l’ì gerete, sette vote, u trettore nze picce, che pò esse? Sole maluocchie”.
Si erano fatte le sette e mezza e si procedeva all’ottavo tentativo, assistiti da cinque o sei spettatori in circolo tutti con le braccia conserte.
Questo tentativo si concluse con uno stu in più, ma il motore non si accese.
Pasquale si era ormai distolto dall’impegno, con disappunto degli altri soci, convinto com’era che erano entrate in gioco forze esoteriche.
Cercava, guardando intorno, una soluzione al problema, mentre considerava con sufficienza gli sforzi dei compagni.
Vide allora spuntare dalla parte del Colle delle croci, Trese, una donna di circa cinquanta anni, abbastanza alta, dai modi cortesi ma decisi, con due braccia robuste, come quelle di un uomo giovane, i capelli rossi e gli occhi verdi che la facevano assomigliare a un’irlandese. Pasquale sapeva che Trese in più occasioni aveva dimostrato di essere una “magara” ed era considerata da alcuni un’erede, da altri una concorrente di Ze’ Flomè .
Siccome questa figura era praticamente sconosciuta ai soci, almeno come maga, lui decise di avvicinarla sapendo di non destare sospetti e, prima che questa arrivasse nei pressi del trattore, le chiese se poteva fare qualcosa.
Così ze’ Trese, quando fu a dieci metri dal gommato, disse a voce alta:
“Sante Mertine!”,  una specie di generico augurio di riuscita, buono per tutte le imprese. Si usa quando chi arriva trova che si sta impastando il pane o si mettono a bollire le bottiglie di salsa di pomodoro.
I soci quasi automaticamente risposero come dovuto cioè:
“Bommenute”.
Ze Trese si avvicinò un altro poco poi chiese:
“Mo’, mettete n’ moto?”.
Mio nonno si incaricò di rispondere per tutti con buona educazione e pazienza:
“Se Die vo’”.
E Trese:
“Eh! vo’, vo’, mah, Die u benedich”.
Detto ciò la donna se ne andò con un inavvertibile cenno di intesa con Pasquale, che decise a quel punto di partecipare al nono tentativo.
Prima di cominciare tutto il rito per la nona volta zì Carluccio, che era anche presidente dell’Azione Cattolica disse:
“I dico ‘na gloria patri a San Giovanni Bosco”.
Zio Leonardo invece chiese di poter accendere lui la cartuccia. Mise molta cura nell’arrotolarla, si pose al riparo dal vento per accenderla nell’incavo della ruota grande del gommato, la posizionò lentamente nel condotto che potava alla camera di scoppio, avvitò con cura, ma abbastanza rapidamente la chiave, si sputò nelle mani e comandò il giro di manovella. Il volano girò velocemente e, agli stu stu stu iniziali, si unirono anche tre o quattro tump tump tump tump in rapidissima successione e poi tratratra.
I soci guardarono la ciminiera del motore con lo sguardo ansioso e speranzoso, come quello dei fedeli rivolti verso il comignolo della Cappella Sistina in attesa della decisione del conclave. Per un attimo tutto tacque e sembrò fallito anche il nono tentativo, ma subito dopo, con una abbondante emissione di fumo nero e con un botto che assomigliava a un’esplosione, il gommato si accese. Un applauso partì dagli spettatori. I soci trattenevano a stento un sorriso di compiacimento. Peppino salì sul trattore e abbassò l’acceleratore, poi non seppe trattenersi dal farlo partire e percorse trionfante tutta via Cristoforo Colombo.
A quel punto, però, tutti rimasero della loro convinzione.
Nonno Carlo attribuì il merito della riuscita del nono tentativo alla preghiera a San Giovanni Bosco, ch’era il Santo protettore della nostra casa, zio Leonardo, tra l’ilarità degli spettatori, cominciò a saltare dalla gioia e a gettare la coppola a terra come liberato da una forte tensione, convinto che il merito era suo per come aveva acceso la cartina e comandato la manovella, Michelino e Giovanni, agnostici, che non avevano attribuito alla breve visita di Trese nessun significato, dissero rivolti a Pasquale:
“I’ vist, quale maluocchie”.
Zio Pasquale, che si aggirava compiaciuto, con le mani in tasca, intorno al trattore finalmente acceso, li guardò compassionevolmente, scuotendo il capo e, con un sorriso superiore che nessuno colse, mormorò:
“Mah! Che ne volete capire voi. Che ne capite voi dei misteri della vita!”.

Come dovrebbe essere

di Lucia Rosas

by Matteo Arfanotti

Sto passando giorni, per non dire mesi in posta con una persona, iniziamo sempre con una frase, ultimamente con le canzoni, stiamo lavorando ad un puzzle chiamato vita.
Le nostre stanno diventando sincroniche per quanto manteniamo le distanze, città, pensieri, idee politiche, calcio. Non riusciamo a litigare ma a colpi di lama arriviamo a dire quasi tutto.
Ecco quel quasi tutto sta diventando un problema.
Sentire una vita propria a te parallela e della quale non avresti saputo nulla ti lascia sgomenta e ti fa sognare quei possibili futuri di tanti romanzi fantastici.

COINCIDENZA. Dannazione se non riguarda il treno mi mette ansia, non che odi viaggiare anzi, ma quando è fatta da gesti, parole, occasioni, quando diventa sincronica devi pensare e non sempre fa bene.
Per questo quando in bacheca FB mi arriva un tag con la domanda meglio toccare che taggare, meglio amici che @mici io non ho più la certezza di un anno fa.
La maggior parte di noi alla domanda del perché ci si è iscritti risponde mi ha invitato un amico, alcuni per curiosità, quindi si parte da un concreto per lanciarsi verso l’ignoto, il fantomatico web.
Qui parte la cospirazione, cerchi gruppi con i tuoi interessi, posti brani, ti suggeriscono amicizie o leggi una persona su una bacheca e scatta quel desiderio di chiedere l’amicizia.
Con alcune di queste persone si crea un feeling così forte, una specie di ubriacatura che è pari ad una cotta. il desiderio impellente di sapere se è collegata, se passa in chat o lasciare in posta qualcosa che dimostri come sia importante.
Leggendo certa cronaca ti prende il panico: chi c’è davvero oltre lo schermo? sarà chi dice, sarà onesto/a, sarà la foto, e quello che vorrei vedesse CON me, stalking tramite mail: esiste anche questo reato. sigh. io lo sto rischiando. confesso.
Il mio rapporto con fb doveva essere una vetrina per evadere da casa qualche ora non potendo, talvolta camminare.
Gli accordi in casa erano niente dati personali, niente foto precise, niente numero di telefono, niente appuntamenti; siamo adulti ma non dobbiamo essere sconsiderati.
poi si cambia, lentamente, e quando ti prende il famoso raptus del “se potessi ti farei uscire dallo schermo” è finita, bruci di questa voglia e cerchi una soluzione e cambi, giustifichi le regole che infrangi.
Vorrei taggare diventa uno sfiorare, un po come quando non hai il coraggio di uscire mano nella mano, @mici e non sempre indica i gatti e inventi una crittografia dentro un pubblico scritto, una musica segreta che rende forte quel legame.
quindi si passa da accettare un contatto a un condividi a un scrivi a una cartolina a un telefona. succede, non con tutti ma ti fa pensare a cosa stai cercando, a quanto puoi libera da pregiudizi fidarti e decidere vediamoci.
a volte. ci sono persone con le quali non percorri tutto questo iter, che ti danno una sensazione positiva, che le immagini a volte anche nel tono della voce, nella movenza fino a quella battuta che ti condanna: quando beviamo un caffè insieme.
è finita, la curiosità ha deciso per te, il virtuale viene sconfitto.
se racconti a qualcuno cosa hai in mente con terrore ti dice pensaci, come già detto la cronaca non aiuta a fidarsi.
per una serie di motivi alcune di queste persone le ho incontrate una volta e la foga mi ha portato a parlare a raffica, a ubriacarmi di immagini.
quando è arrivato il tag con la domanda è stato un tuffo al cuore, avevo avuto una specie di appuntamento al buio di FB, un mio contatto di posta passava da qua e quindi potevamo varcare il monitor.
alla richiesta ho accettato sorpresa, non è una di quelle persone che per un certo affetto desidero assolutamente incontrare ma, il piacere di parlarsi in certi momenti in cui una spalla valeva una medicina rendeva gradita la richiesta.
Vi dirò solo che quell’ora è stata breve, la compagnia ancora più piacevole e vedere confermato quanto l’istinto mi aveva suggerito (fidati, è una brava persona, è onesto) mi ha quasi spaventato, davvero sono oltre il monitor quando sto bene con alcune persone.
Sono mesi che dico facciamo un raduno enakapata e poi tiro il pacco per motivi ben noti ma, vincenzo panico: se con lui è stato così, con voi come sarà? a parte dedè salvata in corner dai minuti e da piccola iena che mi è stato in braccio tutto il tempo?
Ripenso ancora ad una amica fb, sei mesi fissi di scrittura, sms, matta come una cotta finchè l’ho vista e mi sono tranquillizzata, non era un troll e la porto sempre nel cuore.

Avevo intenzione di scrivere un racconto un po diverso, una cosa seria. un’assonanza con un romanzo scritto davvero che non ho mai letto ma che ho messo in pratica, volevo usare due citazioni colte ma sono già in bacheca, volevo farti aggiungere un brano musicale con un bel suono e il titolo che avrei dato alla storia, volevo fare la stesura a penna come un tempo e ho fatto il contrario.
Domanda: ma quando si sogna non siamo virtuali? e quindi quando siamo qua non sogniamo a occhi aperti trascinando con noi chi vorremmo?
rido davanti allo schermo, quella sera che ti ho incrociato sulla bacheca dell’uomo che mi ha sconvolto la vita (se ho conosciuto certe persone, parlato e imparato un po di pc è tutta colpa sua) e ho accettato il contatto. si allora ti avrei detto certissima meglio taggare e @mici. oggi: sospiro!

Abbassarsi

La ragione per cui i grandi fiumi e il mare
possono regnare sulle cento valli
è che sanno collocarsi al di sotto di esse.
Perciò possono regnare sulle cento valli.
Per questo se  vuoi innalzarti
al di sopra della gente,
devi nelle tue parole collocarti sotto di loro,
se vuoi guidare la gente,
devi nella tua persona collocarti dietro di loro.
Per questo il saggio sta sopra,
ma la gente non ne sente il peso,
sta davanti, ma la gente non ne è gelosa.
Il mondo si compiace
e lo loda e non si stanca di lui.
Siccome non compete,
nel mondo nessuno può competere con lui.

Il giovane Cristopher e il vecchio Cnemone

di Mariagiovanna Ferrante

Sono un’insegnante. Di Latino e Greco. Ecco qua: la vedo, la faccina Messenger che è comparsa sulle vostre teste con tanto di “mamma mia” di accompagnamento.
Però vi assicuro che non sono (ancora) vecchia, non peso cento chili e non ho i baffi.
Appartengo alla generazione masochista dei docenti precari che continuano ad amare ciò che fanno, nonostante la Gelmini e nonostante la stanchezza. Già, perché siamo stanchi. Stanchi di essere l’ultima ruota del carro, stanchi di dover sperare ogni anno di poter lavorare, stanchi di tornare disoccupati alla fine di ogni anno scolastico.
Un altro lavoro? Non mi sono mai vista in modo diverso. Cosa mi permette di andare avanti? Non certo lo stipendio!
Capita che molte volte mi interroghi sul senso dell’insegnamento di discipline come le lingue classiche, ossimoriche nell’era del Santo Web, e di Maria De Filippi, in cui i gioiosi fanciulli occupanti i banchi preferirebbero trovarsi di fronte il buon Peppe Vessicchio (con tutto il rispetto per il conterraneo) o quel bonazzo di Kledi per essere valutati in canto e danza, piuttosto che in un’esposizione su Omero o Callimaco.
Eppure … eppure capita di essere sorpresi.
Quest’anno mi è stata affidata quella che il Dirigente Scolastico ha definito una “classe difficile”: troppo vivaci, troppo rumorosi, sempre a rischio sospensione.
Io, che sono stata anche in un istituto professionale in quel di Frattamaggiore, non mi sono scomposta più di tanto, pur vedendomi costretta a indossare la maschera della prof. severa.
E in effetti sono ragazzi vivaci, ma lo sono anche intellettualmente.
Tutti, anche lui.
Il classico belloccio-ricco-figlio di papà, che ama farsi guardare e che anima la monotona vita scolastica con battute di ogni tipo (non ultima l’osservazione sul deficit visivo di Leopardi, dovuto, a suo avviso, a un eccesso di onanismo).
Il primo compito di greco è stato un disastro (“prof., nutro avversione per la versione”, mi ha detto, consapevole di giocare con gli artifici delle figure retoriche), così come la prima interrogazione.
Io so che E. non è affatto uno stupido, come vorrebbe far credere. Ma lui preferisce fare l’animatore nei villaggi turistici, esibirsi come “buffone di corte”, avere gli occhi puntati su di sé.
E allora lo sfido, sul suo stesso terreno.
“Facciamo una cosa, E. – gli dico una mattina-, la prossima volta che ci vediamo, tu vieni al posto mio e tieni una lezione su Menandro e gli autori di età ellenistica. La gestirai come meglio ti sembrerà.
E. sgrana i suoi occhioni da furbo adolescente e accetta (“a disposizione, prof.”), ma non mi chiede il perché.
Passa una settimana, durante la quale più di una volta tempo che il pargolo non si presenti all’appuntamento.
Appena entro in classe, E. è presente, pronto a tenere banco. I compagni di classe sono pronti ad assistere all’ennesimo show dell’animatore, ma io so che mi posso aspettare qualcosa di buono.
E qualcosa di buono avviene.
E., stranamente serio, mi presenta il percorso che ha deciso di seguire per studiare la Commedia Nuova: la ricerca della felicità.
E inizia ad argomentare in merito alla tematica della mancanza di felicità nell’uomo e della spasmodica ricerca di essa, riflettendo sull’evoluzione dei personaggi del teatro di Menandro e collegandosi con il percorso interiore del protagonista del film di Sean Penn, Into the wild. Lo ricorda nei minimi dettagli, e con padronanza riflette sulle differenze tra il giovane Cristopher (il protagonista del film) e il vecchio Cnemone, intorno al quale ruota la trama del Misantropo dell’autore greco. Per sottolineare, attraverso la citazione di una frase del film, che entrambi giungono a una conclusione simile: “La felicità è reale solo quando condivisa”.
Continua parlando di intrecci e di agnizioni, non trascurando l’apporto della commedia d’intreccio alle nostre soap opera, né i paragoni con il panorama musicale attuale.
Che dire?
Sorrido, e chiedo a E. se ha compreso il motivo della mia richiesta di una sua performance.
“Mah, veramente vorrei che me lo dicesse Lei”.
“Beh, E., volevo dimostrare a me, ma soprattutto a te, che non sei il cretino che ti piace sembrare. E sono convinta che ti sei anche divertito, nell’impostare la lezione così come è venuta fuori”.
“Vero, prof. Mi è piaciuto studiare così. Quasi quasi…mi metto a studiare sul serio.”
So che ci vorrà un bel po’, prima di vedere mantenute le promesse di un liceale che sembra uscito da una mini-serie per la tv. Ma mettere in luce le sue potenzialità è un risultato che incoraggia ad andare avanti nel proprio percorso. Nonostante tutto.

Piazza QuRiosa

E’ stato trovato questo oggetto QuRioso in Piazza Enakapata. Indovina cos’è.


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Aguzza la vista ed indovina l’oggetto QuRioso
Se non hai un lettore di codici QR installato sul tuo cellulare digita direttamente dal browser del tuo telefono www.i-nigma.mobi e scarica l’applicazione.

Elogio della leggerezza

Opera di Matteo Arfanotti
Opera di Matteo Arfanotti

Mi è capitato di accennarne ancora stamattina con la mia @mica Manuela Giani. Lei mi ha spiegato perché non mi aveva mandato un certo articolo, io le ho risposto che non c’era bisogno di un perchè, se non me l’aveva mandato voleva dire che non aveva potuto mandarmelo.
Detto così può sembrare banale, peggio persino delle frasi sui cioccolatini, e invece non lo è affatto, almeno per me, almeno da quando ho imparato che nella vita ci sono quelli a cui devi aggiungere peso e quelli a cui lo devi togliere.
Ora, fin quando nella prima categoria ci sono quelli come mio figlio Riccardo, che è uno splendido quindicenne che pensa, come capita a tanti suoi coetanei, accadeva persino a me alla sua età, di essere un esploratore senza quartiere, faccio volentieri la parte dell’uomo palla che racconta di limiti, di regole, di senso di responsabilità, di autocontrollo. Per tutto il resto, non avendo mastercard, cerco di evitare, nel senso che mi piace sempre meno perdere tempo con persone che si sono fatte grandi senza diventare adulte. Come diceva uno slogan in voga un pò di anni fa, quando posso, che non sempre posso, preferisco vivere, cioè coltivare l’amicizia di persone alle quali so di poter dire, come fece tanti anni con me il mio amico Rosario, di stare tranquille perché se una cosa non l’hanno fatta vuol dire che non la potevano fare.
E’ un pò come la storia di Calvino di togliere peso alle figure umane, ai corpi celesti,  alle città, al linguaggio, nel senso che mi piacerebbe un giorno poter dire che ho passato la mia vita non solo a sbagliare, che quello è inevitabile, ma anche a cercare ogni tanto di toglier peso alle persone. In fondo è la cosa che auguro di più a me stesso e dunque il minimo che possa fare è tentare di fare con gli altri ciò che vorrei che gli altri facessero con me. O no?

Gente di Secondigliano

Ieri sera Carmine Rubino via Skype. Stamattina Salvatore Traino su Facebook. Stasera mio fratello Antonio via telefono. Gente di Secondigliano, come il corto che vuole fare il mio amico regista Francesco Lama, come il libro della mia vita, il mio libro dei libri, quello che dopo non potrò scrivere più, quello che persino il grande Joyce mi si svelerà in sogno per stringermi a mano. Gente di Secondigliano, come Tonino Parola, come Umberto e Gennaro Parola, come Stanislao Nocera, come Pasquale Ruggiero, come Antonio “Bird” Rubino, l’amico dolce e gentile che nel mondo analogico da tempo non è più.
L’idea me l’ha suggerita mio fratello Antonio, quando gli ho detto della mia nostalgia, del rimpianto per il fatto che sono tra un pò 40 anni che non stiamo più tutti assieme.
Mi ha detto decidi una data, che sia sufficientemente lontana, è che quella sia, altrimenti accade come l’ultima volta, decine di telefonate e di mail e poi ci siamo persi di nuovo.
La data l’ho decisa, Venerdì 15 aprile 2011. La città è decisa da sempre, Bologna, quella più facilmente raggiungibile da Brescia, da Verona, da Napoli, oltre che naturalmente dai tre “bolognesi”. Intorno alle undici a Piazza Maggiora.
Chi c’è, c’è.  E chi non c’è ci sarà l’anno successivo. E mica possiamo fare come quando eravamo ragazzini,  della serie “a mamma fa chesto ‘e chello a chi nun vvene”. O si?

Il sonno della ragione genera mostri

Opera di Matteo Arfanotti
Opera di Matteo Arfanotti

Questo post mi è venuto in mente ieri a Roma mentre pranzavo, mangiucchiavo sarebbe più rispondente ma meno chic, con il mio amico Iginio Ariemma, colto e gentile intellettuale torinese, con radici campane da parte di padre, con un passato importante nella politica, segretario della federazione torinese del Pci, a fianco di Occhetto ai tempi della svolta, ideatore e animatore con Pietro Scoppola de “I cittadini per l’Ulivo” e tante altre cose ancora, oggi ideatore, autore e curatore di importanti volumi dedicati a Bruno Trentin e Vittorio Foa.
Si chiacchierava delle difficoltà della politica, delle difficoltà che persino persone come noi hanno a rappresentarsi e a sentirsi rappresentati nell’attuale fase, quando ad un certo punto mi ha detto più o meno “in fondo noi siamo anche fortunati, abbiamo fatto tante cose nella  vita, ne abbiamo ancora qualcuna da fare, abbiamo i nostri orticelli da coltivare; i giovani invece non sanno a che santo votarsi, sono disorientati, fanno fatica a proiettare se stessi nel futuro”. A me da una parte sono venute in mente le chiacchiarate con Salvatore Veca, la sua idea che quando l’ombra del futuro si contrae sul presente abbiamo più difficoltà a rispondere alle domande per noi fondamentali come quelle relative a chi siamo  e a che cosa per noi veramente vale, dall’altra parte mi è venuto in mente Lucius Quinctius Cincinnatus, Cincinnato, e non mi è piaciuta per niente l’idea di restarmene chiuso nel mio orticello.
Si, penso che c’è più che mai bisogno di politica, e di persone che tornano a fare politica, che tornano cioè a impegnarsi con idee e progetti  nell’ambito dello spazio pubblico, che  con la loro soggettività contribuiscono a ridefinire i contenuti e a ridare senso ai luoghi della politica. Lo so che è un processo lungo e difficile. E so anche che in particolare i più giovani non sono abituati, non li abbiamo abituati, a ragionare così. Ma per quanto sia pesante anche solo pensarlo, l’alternativa a un processo con queste caratteristiche è un fatto traumatico,  un evento sconvolgente, un major event, come avrebbe detto Derrida. Ogni volta che è avvenuto, visto con gli occhi della storia, ha determinato cambiamenti epocali, ma visto con gli occhi di chi li ha vissuti, ha prodotto lutti e sofferenze immani.
Il sonno della ragione genera mostri. Nell’arte magari funziona. Nella vita no.

Nun è peccato

Si mme suonne ‘int’ ‘e suonne che faje
Nun è peccato.
E si ‘nzuonno nu vaso mme daje
Nun è peccato.

Sono i primi versi della bellissima canzone napoletana, il titolo è lo stesso del post, cantata da Peppino Di Capri, ma purtroppo a me non è tornata in mente nè per amore né per musica ma per politica.
Dite che non sto bene? In parte è vero, ma non per la ragione che pensate voi. Anche se ormai nessuno se ne ricorda più, esiste una tradizione di pensiero che va da Aristotele a Hannah Arendt che ci ha spiegato perchè la politica è partecipazione, perché è necessario dare ad essa un senso, perché qualunque uomo libero dovrebbe “preoccuparsi” di fare politica.
Dite che è meglio lasciar perdere? E invece no. Ogni tanto anche qui a Piazza Enakapata parlare di politica fa bene alla salute. E questa volta intendo farlo con tre affermazioni volutamente parziali, non sufficientemente motivate, di fatto provocatorie, almeno nel senso che si prefiggono di provocare una discussione.

La prima è questa:
Non è peccato sognare. Sognare che l’Italia sia un paese normale, dove i giovani abbiano un futuro, dove i più bravi emergano, dove il lavoro ad ogni livello sia considerato un valore e chi lavora una persona da rispettare e non uno sfigato, dove l’evasione fiscale sia l’eccezione e non la regola, dove almeno Cesare se non proprio la moglie sia, indipendentemente dallo schieramento al quale appartiene, al di sopra di ogni sospetto.

La seconda è questa:
E’ disonesto immaginare, lasciar intuire, promettere, che tutto questo possa avvenire con le prossime elezioni, indipendentemente da quando si fanno, a marzo 2011 o alla loro scadenza naturale. I guasti che sono stati prodotti sono così profondi che se si comincia adesso ci vogliono 15-20 anni prima di vedere un pò di luce, se per luce intendiamo la possibilità di essere un paese normale come quello ipotizzato al punto uno.

La terza è questa:
L’angoscia che c’è in giro per il Paese ormai si taglia a fette come la nebbia di Totò. Se si comincia a dire non dico tutta la verità ma almeno un pezzetto, ad esempio che siamo un paese a pezzi, che ci aspetta un lavoro impegnativo e di lunga lena, che bisogna  pensare e agire prima di tutto per le generazioni che verranno con tutto quello che questo significa in termini di modelli di sviluppo e di consumo, di  caratteristiche dello stato sociale, di qualità delle strutture educative dagli asili all’università, penso che  sarà meno arduo trovare persone disposte a dare un contributo. Fino a quando la discussione avrà come punto all’ordine del giorno “con chi allearsi per mandare via il puzzone” perché  “mandare via il puzzone è la madre di tutte le priorià” penso che sarà difficile fare qualche passo avanti. E penso anche che finiremo con l’avere un puzzone Presidente della Repubblica.

Buona partecipazione.

Stai con George (Clooney) o con Rosario (Fiorello)?

La notizia che mi ha spinto a scrivere stamane sulla bacheca di Facebook che di George Clooney ammiro la bravura e invidio la bellezza è stata la sua supposta avversità per i Social Network in generale e per Facebook in particolare. Sulla stessa agenzia di stampa ho letto anche che Rosario Fiorello ha dichiarato che di questi tempi non trova molte ragioni per andare in televisione. Fermo restando che magari domani scopriremo che Clooney ha 67 mila amici su Twitter, che Fiorello presenterà Sanremo al posto di Morandi, e che i social nework e la tv si  possono amare o odiare anche assieme, ho pensato che il pretesto per discutere c’è e se non c’è il vantaggio dei blog è che al massimo non ci sono commenti, comunque non ci sono canoni da pagare nè spazi fisici da affittare. Ops, dite che così finisco con l’influenzarvi? Se avessi questa capacità realizzerei il sogno incoffessato della mia vita, quello fare il mago  in televisione, sì, proprio quello che si fa raccontare da te i fatti tuoi e poi te li dice come se ti stesse svelando il terzo segreto di Fatima. Eh sì, per realizzare il mio sogno sarei disposto a fare molti sacrifici. A ricomprare la televisione no, a quello vi ho già detto che non ci penso proprio.  E poi il mago a me non mi serve. Lo vedo nello specchio ogni mattina. Adesso sto cercando di imparare come si fa a scomparire e poi a ricomparire, magari da qualche altra parte, sì, una specie di teletrasporto, ma questo ve lo racconto un’altra volta. Buona partecipazione.

BodyPaintingArfanotti

Dell’occasione e del premio vinto da Matteo Arfanotti ho già scritto su della Leggerezza. Qui vi racconto invece come è andata con Riccardo, il lato impertinente di casa Moretti.
Dunque, io stavo guardando la  foto nella quale Matteo Arfanotti bacia la Ninfa Greta Repetto, quando lui passa per casa mia, sì, perché anche casa mia è una specie di tunnel come i libri di Adriano Parracciani ma di questo vi dico un’altra volta, e mi fa “azz, e chi é” io gli dico “Riccà, questo è Matteo Arfanotti, l’artista che ha dipinto Enakapata, abbiamo le immagini di suoi quadri anche sul prossimo libro”, lui fa “pà, aggio capito, ma a me mò che me ne fotte di Enakapata e di Arfanotti, io sto parlando di lei, della ragazza”. Io, con un vero e proprio atto di eroismo, sono riuscito a soffocare la risata e a dirgli “Riccà, è una modella, questo tipo di arte si chiama Body Painting”, lui, mentre già se ne sta tornando a casa, mi  guarda e mi dice “Azz, e qua se ti pigli un quadro fai un  colpo doppio”. A questo  punto ho cominciato a ridere come un pazzo e gli ho detto “Riccà, si gruosso”. Fine delle trasmissioni. Anzi no. Poichè questo blog è frequentato da un nutrito gruppo di femmin(ist)e malfidate e appiccia fuoco aggiungo che la mia risata era per la battuta e per il fatto che mentre io ero tutto preso dall’arte di Matteo, come si vede che sto invecchiando, Riccardo con i suoi 15 anni scarsi ha saputo distinguere immediatamente tra la principale e la subordinata, la bella ragazza e l’opera d’arte.
Dite che così sono diseducativo? Ma allora voi non li avete mai avuti 15 anni, non avete mai letto Kriminal e Satanik. Eh sì, e così rischiate di fare la fine di Robertino, E che sarà mai,  e mica si vive di solo Kafka. Sigla e titoli di coda.

‘A morte ‘o ssaje ched”e?

… è una livella.
‘Nu rre,’nu maggistrato,’nu grand’ommo,
trasenno stu canciello ha fatt’o punto
c’ha perzo tutto,’a vita e pure ‘o nomme:
tu nu t’hè fatto ancora chistu cunto?
Perciò,stamme a ssenti…nun fa”o restivo,
suppuorteme vicino-che te ‘mporta?
Sti ppagliacciate ‘e ffanno sulo ‘e vive:
nuje simmo serie…appartenimmo à morte!”

La foto di Giancarlo Iorio, la poesia di Totò, di cui potete leggere gli ultimi versi, ma anche T0 e T1, come ci ha spiegato Adriano Parracciani, e poi i libri che abbiamo letto, i film, i quadri e le sculture che abbiamo visto.  Insomma 10, 100, 1000 occasioni per raccontare noi e il nostro rapporto con Lei, la signora in nero, sua inevitabilità la Morte.
Buona partecipazione.

Il perimetro di un sognatore

Ieri ho conosciuto Giancarlo Iorio. Devo dire che a me continua a fare un certo effetto pensare che fino a qualche tempo fa se scrivevo  questa cosa di una qualunque persona voleva dire che prima non sapevo niente di lui, mentre adesso vuol dire soltanto che l’ho visto per la prima volta, perchè in realtà di Giancarlo conoscevo già, come molti di voi, le foto, i racconti, la gentilezza, l’ironia, la profondità, la discrezione. Potenza dei social network, ma questo già ce lo siamo detti e dunque possiamo procedere oltre.
Quello che non potete sapere è che sono andato a trovarlo assieme alla mia amica Sondra Toraldo, che abbiamo trascorso un’ora molto bella, che abbiamo chiacchierato di molte cose e di molti luoghi, che le sue foto viste da vicino sono ancora più meravigliose, che presto avrete modo di vederne qualcuna anche qui a Piazza Enakapata, che come direbbe Confucio e anche Adriano Parracciani, se le persone oltre a taggarle le tocchi e le guardi negli occhi è tutta salute, ma soprattutto che quando ci ha svelato l’incipit del suo prossimo racconto a me e a Sondra ci ha lasciati senza fiato, di più, sconvolti, sì letteralmente meravigliosamente sconvolti, al ritorno non potevamo parlare di altro.
Per ora è tutto, ma soltanto per ora, perché ci siamo ripromessi di incontrarci ancora molto presto. Intanto aspettiamo le sue foto. Il suo racconto no. Nel senso che quando arriverà me lo terrò almeno una settimana soltanto per me. Sì, penso che non lo faccio sapere neanche a Sondra.  Dite che è questo è un pò difficile? E come fate a saperlo? Sondra mica la conoscete? O si?

Uno, doje, tre e quattro

Tutti, ma proprio tutti, vabbé facciamo quasi tutti che l’errore e la dimenticanza sono sempre in agguato, quelli di cui si racconta nel libro scritto da Viviana Graniero, Carmela Talamo, Daniele Riva and me.

I LIBRI E  I BLOG

ASSOLO DI POESIA
Il diario poetico di Daniele Riva: l’emozione che nasce dal ricordo, dall’amore, dal viaggio, dal vivere quotidiano, dal paesaggio osservato dalle finestre di casa.

BELLA NAPOLI
Scritto da Vincenzo Moretti per i tipi della Ediesse, da gennaio 2011 nelle librerie, il volume racconta la Napoli che dà valore al lavoro, alla dignità, al rispetto.

CAOS ORDINATO TV
Un esperimento di Social Tv, un canale streaming sul web a supporto delle attività di social network, con iniziative live e librerie di video on demand.

ENAKAPATA
STORIE DI STRADA E DI SCIENZA DA SECONDIGLIANO A TOKYO
Scritto da Vincenzo e Luca Moretti e pubblicato nel marzo 2009 da Ediesse nella collana Carta Bianca, il libro racconta del viaggio in Giappone dei due autori, padre e figlio, alla scoperta di una delle città più intriganti e di uno degli istituti di ricerca più prestigiosi del mondo.

GRAMMI DI STORIA
La Storia raccontata attraverso le monete, pochi grammi di metallo che da 2.700 anni sono i testimoni oculari dell’umanità. Monete, i primi teleschermi della storia, strumenti di propaganda e di comunicazione globale.

IL CANTO DELLE SIRENE
La poesia è emozione, è parte delle nostre vite, anche se molti non se ne rendono conto. Il canto delle Sirene la divulga, quando si esprime attraverso i versi e quando si cela in un luogo o in una mostra da visitare, in un racconto, in un fatto storico. È la Sirena che Odisseo ascolta cantare legato all’albero maestro.

NUVOLE GIALLE
I racconti de Il Canto delle Sirene

PIAZZA ENAKAPATA
Nato come un blog, con il tempo è diventato la piazza dove amici e @mici di Enakapata si incontrano e discutono. Tutto il resto meglio che lo scopriate visitando il blog.

SOTTOLINEATO
I libri sono una miniera di parole e di conoscenza, raccontano il passato, il presente e il futuro. Sottolineato è il libro dei libri, l’archivio delle frasi più belle, la memoria delle nostre sottolineature, una comunità online a cui si partecipa postando le proprie citazioni preferite, sia liberamente sia su temi specifici.

VIAGGIATORI IMMOBILI
Viaggiare senza muoversi dalla propria scrivania, sulla scia di illustri viaggiatori immobili come Charles Baudelaire e Xavier De Maistre: partendo dalla monete, dalle cartoline, dai francobolli, da un biglietto di parcheggio, è possibile visitare paesi ed epoche con lo spirito del Tao: «Senza uscire dalla porta di casa, puoi conoscere il mondo».

POETI & SCRITTORI
Dante Alighieri, Wystan Hugh Auden, Riccardo Bacchelli, James Ballard, Charles Baudelaire, Pompeo Bettini, Heinrich Böll, Jeorge Luis Borges, Josif Brodskij, Dino Buzzati, Italo Calvino, Andrea Camilleri, Giorgio Caproni, Raffaele Carrieri, Carlos Castaneda, Gregory Corso, Eduardo De Filippo, Xavier De Maistre, Emily Dickinson, Georg Dreyman, Umberto Eco, Ugo Foscolo, Robert Frost, Allen Ginsberg, Natalia Ginzburg, Don Juan, Konstantinos Kavafis, Jack Kerouac, Giacomo Leopardi, Goffredo Mameli, Alessandro Manzoni, Filippo Tommaso Marinetti, William Meredith, Alda Merini, Carlo Michelstaedter, Michel de Montaigne, Eugenio Montale, Pablo Neruda, Alfred North Whitehead, Peter Orlowsky, Aldo Palazzeschi, Pier Paolo Pasolini, Cesare Pavese, Octavio Paz, Georges Perec, Fernando Pessoa, Raymond Queneau, Ghiannis Ristos, Muriel Rukeyser, Umberto Saba, Luis Sepulveda, Ettore Serra, William Shakespeare, Philip Sidney, Isaac Singer, Wislawa Szymborska, Giuseppe Ungaretti, Gerd Wiesler, Oscar Wilde.

SCIENZIATI & SCIENZIATI
Hanna Arendt, Zygmunt Bauman, Piero Carnici, Salvatore Casillo, Luca De Biase, Renato Dulbecco, Antonio Esposito, Riccardo Giacconi, François Jullien, Lao Tse, Leonardo Da Vinci, Rita Levi Montalcini, Michel Maffesoli, Fabio Marchesoni, Robert K. Merton, Franco Nori, Carlo Rubbia, Richard Sennett, Akira Tonomura, Sun Tzu,  Salvatore Veca, Karl E. Weick.

SOTTO LE STELLE DEL SET
Woody Allen, Joan Baez, Josephine Baker, Lucio Battisti, Gualtiero Bertelli, Mike Bongiorno, Achille Campanile, Carmen Consoli, Crosby Stills Nash & Young, Florian Enkel Von Dannersmark, Fabrizio De Andrè, Luciano De Crescenzo, Deep Purple, Francesco De Gregori, Peppino Di Capri, Bob Dylan, Aurelio Fierro, Fiorello, Nunzia Fumo, Genesis, Francesco Guccini, Corrado Guzzanti, Stanley Kubrick, Led Zeppelin, Claudio Lolli, Anna Magnani, Giovanna Marini, Wynton Marsalis, Pino Mauro, Mario Merola, Metallica, Michelangelo, Mogol (Giulio Rapetti), Amedeo Nazzari, Charlie Parker, Premiata Forneria Marconi, Pink Floyd, The Queen, Massimo Ranieri, Vasco Rossi, Totò, Massimo Troisi, Carlo Vanzina, U2, Orson Welles, Lina Wertmuller.

LA STORIA SONO LORO
Niccolò Carlomagno, Confucio, Vincenzo Cuoco, Salvo D’Acquisto, Alberto Da Giussano, Etienne De La Boetiè, Joseph De  Maistre, Guido Dorso, Gaetano Filangieri, Mahatma Gandi, Andrea Genovesi, Ernesto Che Guevara, Georges Ivanovič Gurdjieff, Abramo Lincoln, Niccolò Machiavelli, Isaac Newton, Mario Pagano.

SPECIAL GUEST
Ettore Andenna, Francesco Borrelli, Giuseppe Caminiti, Catherine Camus, David Cameron, Sergio Cofferati, Enrico Deaglio, Emilio Fede, Fabrizio Ferrari, Massimo Gramellini, Emanuel Levinas, Luigi Lombardi Vallauri, Fosco Maraini, John McCain, Indro Montanelli, Barak Obama, Fernanda Pivano, Maria Laura Rodotà, William Turner, Giuseppe Varchetta, Vauro.

EROI IN MUTANDE
José Altafini, Pietro Anastasi, Gianfranco Bedin, Eugenio Bersellini, Roberto Bettega, Tarcisio Burnich, Antonio Cabrini, Fabio Capello, Franco Causio, Bruno Conti, Antonello Cuccureddu, Alessandro Del Piero, Giacinto Facchetti, Paulo Roberto Falcao, Giuseppe Furino, Claudio Gentile, Ciccio Graziani, Aristide Guarnieri, Helmut Haller, Giovanni Invernizzi, Jair da Costa, Diego Armando Maradona, Sandro Mazzola, Hansi Muller, Armando Picchi, Andrea Pirlo, Michel Platinì, Roberto Carlos, Paolo Rossi, Karl Heinz Rummenigge, Giuliano Sarti, Gaetano Scirea, Gigi Simoni, Omar Sivori, Luciano Spinosi, Luisito Suarez, Marco Tardelli, Giovanni Trapattoni, Zico, Dino Zoff.

POLITICA & VECCHI SPAGHETTI
Giulio Andreotti, Silvio Berlusconi, Mario Borghezio, Renzo Bossi, Umberto Bossi, Roberto Maroni, Aldo Moro, Daniele Nava, Roberto Speroni, Luca Zaia.

GRUPPI DI FAMIGLIA IN UN INTERNO
Trisavolo Vincenzo Rinaldi, bisnonno Pasquale Rinaldi, nonna Vincenza Rinaldi Graniero e nonno Gennaro Graniero, nonna Anna Amarante Pacileo e nonno Antonio Pacileo, mamma Angela Pacileo e papà Pasquale Graniero.
Nonna Carmela Pianelli Talamo e nonno Beniamino Talamo, nonna Raffaela Esposito Chirico e nonno Stanislao Chirico, zio Salvatore Tramontano, mamma Vincenza Chirico Talamo e papà Antonio Talamo, Beniamino (Mimmo) Talamo e Stanislao (Slao) Talamo (brothers), Nicodemo (Nico) Federico, Carolina Federico, Sorelle Chirico (zia Maria, zia Concetta (Tittina), zia Filomena, zia Assunta (Assuntina), zia Vincenza (Enzina), zia Maddalena (Alenuccia), zia Carmela (Tittillona) e zia Anna.
Nonna Anita Consonni Villa e nonno Antonio Villa, nonna Rosa Mandelli Riva e nonno Paolo Riva, mamma Elsa Villa Riva e papà Carlo Riva, zio Elio Villa.
Mamma Fiorentina Picano Moretti e papà Pasquale Moretti, zia Concetta Moretti, zia Maria Moretti, zio Peppino Picano, Antonio, Gaetano e Nunzia Moretti (brothers & sister).

QUELLI DI PIAZZA ENAKAPATA
Sabato Aliberti, Dora Amendola, Valeria Atteo, Stefania Bertelli, Paola Bonomi, Deborah Capasso De Angelis, Francesco Caruso, Roberto De Pascale, Maria Maddalena Fea, Guglielmo Festa, Laura Fichera, Giuseppe Giordano, Irene Gonzalez, Valeria Gonzalez, Antonio Gravina, Miyuki Hasegawa, Andrea Lagomarsini, Cinzia Massa, Antonella Mauro, Luca Moretti, Riccardo Moretti, Felicia Moscato, Gerardo Navarra, Bianca Paganelli, Maria Paraggio, Adriano Parracciani, Lucia Rosas, Enzo Scaffidi, Concetta Tigano, Alessandro Trovato, Nidia Vedana, Santina Verta.

AMICI & @MICI
Alessandro Amaroli, Filomena Annunziata, Andrea Sofia Buonasorte, Ivonne Cortinovis, Roberta Cuozzo, Barbara De Stefano, Ludovica Del Bono, Alessandro Di Paola, Gerardo Di Paola, Valeria Di Paola, Mario Esposito, Tommaso Ferrane, Patrizio Gaviraghi, Lella Rosa Maione, Federica Minimmi, Gianni Mininni, Peppe ’a lente, Pippone, Vincenzo Risi, Domenico Rosso, Umberto Saccone, Luigi Santoro, Enzo Scaffidi, Hino Sojo, don Peppe Testolina, Gennaro Topolino, Anna Toraldo, Sondra Toraldo, Romeo Tormento, Fefè Torregrande, Totonno tre palle, Antonio Tubelli.

No no no. Grazie grazie grazie

by Matteo Arfanotti
by Matteo Arfanotti

Mi sono concesso quasi una settimana di tentennamento, il fatto è accaduto sabato scorso, ma poi ho deciso di raccontarvelo, anche se il fatto è di quelli che basta poco per finire nella cartella “tarallucci e vino”, di più, “Napoli, Pulcinella, la pizza e il mandolino”, ancora di più, “chi ha avuto ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato, ha dato, scurammece ‘o passato” insomma proprio quelle cartelle che io non sopporto, di più, le detesto, perché penso che noi napoletani con questa filosofia ci siamo fatti già troppo male, che per noi domani non sarà mai un altro giorno fino a quando non torneremo a indignarci,  a ribellarci, a impegnarci, a cambiare profondamente noi stessi e molti dei nostri modi di fare.
Perché ho deciso di raccontarvelo? Non ve lo dico, tanto leggendo leggendo lo scoprite da soli.

Sabato 24 settembre, scendo come ogni sabato quando vado da Cinzia alla fermata della Cumana del Fusaro. Si chiudono le porte, il segnale è verde, il treno sta per ripartire, quando un vecchietto con un bastone in una mano, un paniere di frutta nell’altra, “si butta” dal lato opposto sui binari e comincia lentamente ad attraversarli.
Il movimento del treno è quasi impercettibile, poi ritorna fermo. Il vecchietto con faticosa lentezza attraversa i due binari e risale sul “nostro” marciapiede. Il macchinista abbassa il finestrino e gli dice “nonno, c’è il sottopassaggio, non dovete attraversare i binari, può essere molto pericoloso, può passare il treno e succede una disgrazia”. Il vecchietto prima non risponde, la testa china, poi sussurra “lo so”, senza alzare gli occhi da terra, poi si ferma, rimane immobile, senza aggiungere né chiedere altro. E’ il macchinista a domandargli “ma voi non dovete prendere il treno?”. Solo a questo punto il vecchietto muove appena la testa mentre il viso gli diventa rosso fuoco. Il macchinista sorride, gli apre le porte, gli dice “Avanti, salite, ma non lo fate più”. “No no no”, “grazie grazie grazie”. Poi le porte si richiudono e il treno riparte.

Certe volte penso che è vero. Napoli è davvero una città particolare.

Non toccate la mia pastiera che vi taglio le mani

La pastiera di Maria
La pastiera di Maria

Antonio Pezzullo

Ieri sera grazie ai miei amici Anna e Gerardo ho conosciuto Antonio. Per molte ragioni è stato un vero piacere conoscerlo e una è questa che potete vedere nel video.
Le altre? Ve le farò scoprire nei prossimi giorni. Perché quella di Antonio è una storia speciale. Una storia di talento, anzi di talenti, di molti talenti. Per adesso buon ascolto.

Le rughe, le facce, il carattere e il destino

by Matteo Arfanotti
by Matteo Arfanotti

Le rughe e le facce sono connesse come sappiamo in molti modi. Poi c’è il legame tra le facce e il carattere. E poi quello tra il carttere e il destino.
Qui di seguito le citazioni dalla Presentazione per il lettore de “La forza del carattere” di James Hillman (tra parentesi il nome dell’autore e il numero di pagina, per questa volta non c’entra niente Adriano Parracciani, è il mio modo di sempre per ritrovare le citazioni).
Se anche solo una di esse ci darà uno spunto per le nostre conversazioni ne sarò contento.
Buona partecipazione.

Il carattere è il destino [Eraclito 15].

Esiste un qualcosa [ … carattere … ] che plasma ciascuna vita umana in un’immagine globale, comprendente le sue contingenze casuali e i suoi momenti speciali in attività inutili. Spesso gli ultimi anni sono dedicati ad esplorare tali particolari insignificanti, ad avventurarsi negli errori passati per scoprirvi configurazioni comprensibili [Hillman 15].

[…] Il pensiero è capace di dare origine alle proprie specie, di selezionare idee innaturali e di palesare la propria evoluzione; inoltre, un mucchio di pensieri asoslutamente inadatti soppravvive [Hillman 16].

I vecchi dovrebbero essere esploratori [Eliot 21].

[…] Per me questo significa: segui la curiosità, indaga idee importanti, rischia la trasgressione [Hillman 21].

[… L’alétheia è …] il tentativo […] di porci in contatto con la nuda realtà […] nascosta dietro il manto della falsità [Ortega y Gasset 21-22].

Il pensiero è una straordinaria modalità di eccitamento [Whitehead 22].

Le nostre rughe ce le siamo guadagnate. Le immagini

Maria Paraggio

Dolci rughe
Dolci rughe

Lina Scalea

by Lina Scalea
by Lina Scalea
by Lina Scalea
by Lina Scalea
by Lina Scalea
by Lina Scalea

Vincenzo Moretti

Le mie rughe più care
Le mie rughe più care

Dedé Adele Gagliardi

Ancora a proposito di rughe
Ancora a proposito di rughe

Cinzia Massa

100 di queste rughe. Indovinate chi è la bimbetta al centro?
100 di queste rughe. Indovinate chi è la bimbetta al centro?

Antonella Romano
Vi presento Antonio Romano, detto Totonno o’maglicone (il maglio era un martello con cui si scolpivano le pietre per costruire le strade).
Nella prima in basso è ritartto in occasione dei 50 anni di matrimonio. Nella seconda e nella terza durante le classiche domeniche dai nonni nel momento catartico de “A carcioffola arrustuta”. Rigorosamente curata da nonno Totonno.

Antonio Romano mentre arrostisce i carciofi
Antonio Romano mentre arrostisce i carciofi
Antonio Romano mentre arrostisce i carciofi
Antonio Romano mentre arrostisce i carciofi

Antonio Romano e i 50 anni di matrimonio
Antonio Romano e i 50 anni di matrimonio

Maria Paraggio

Mia mamma, 88 anni, tante rughe e un dolcissimo sorriso

Santina Verta

Lo zio Francesco, accanto alle due sorelline Dora e Virginia

Lo zio Nunziato in partenza per la rugosa America!

Nonna Carolina e nonno peppino e il loro sorriso rugoso che si deposita sull'anima e alleggerisce il peso del distacco.

Felicia Moscato

Questa foto è stata scattata nei dintorni dei laghi di Monticchio, in provincia di Potenza. L'istinto mi ha fatto tirare lo scatto, sapevo che un giorno l'avrei potuta tirar fuori per un occasione speciale...

Santina Verta

 La felicità rugosa degli amici
La felicità rugosa degli amici
Che tracce meravigliose!
Che tracce meravigliose!
Mi incanta ogni ruga e ne seguo il ricamo del tempo
Mi incanta ogni ruga e ne seguo il ricamo del tempo

Le nostre rughe ce le siamo guadagnate

Il titolo non è mio, è del mio amico Luigi Santoro. Sì, proprio quello che a fine agosto è passato a T1, come ha scritto Adriano Parracciani (ricordate? T0 vita, T1 morte), e ancora mi manca e mi mancherà sempre. Credo fosse il 1996 o il 1997, i miei amici del sindacato pensionati mi avevano chiesto di aiutarli a fare il sito web e io cercavo un titolo. Ne parlai con tanti che mi diedero tante belle idee ma fu lui a fulminarmi, come del resto accadeva spesso.
Sono passati un pò di anni, e un giorno leggo in un bel libro di James Hillman (La forza del carattere, Adelphi) che la grande Anna Magnani, durante la lavorazione di un film, aveva detto al suo truccatore “mi raccomando, non toccare le mie rughe, me le sono guadagnate una a una”.
Sono passati altri anni ancora e in un Liceo di Reggio Emilia, dopo aver visto il bel film di Carlo Lizzani e Francesca Del Sette, Giuseppe Di Vittorio, Voci di ieri e di oggi, con tutte quelle belle facce segnate dalla fatica e dal sole, ho raccontato ai circa 200 ragazzi  dai 16-18 anni presenti di Luigi Santoro e di James Hillman, di Anna Magnani e dei contadini di Cerignola, di come quelle facce fossero singolari, espressive, uniche e di come invece oggi, nell’era del lifting sfrenato e dei 70enni che giocano a fare i 20enni, le facce sono intercambiali, di plastica, nel senso che potrebbero appartenere all’uno o all’altro senza che ci sia molta differenza. So che ci crederete, ma vi assicuro lo stesso che da quei ragazzi ho ricevuto uno dei più bei applausi della mia vita.
Adesso ci si è messo Giacarlo Iorio, con le sue belle foto intotolate rughe, come faceva a non venirmi l’idea. Quale idea? Quella del concorso “Le nostre rughe ce le siamo guadagnate”.

INVIATE LE VOSTRE FOTO, IMMAGINI, DISEGNI, POESIE, NON IMPORTA IL VALORE ARTISTICO IMPORTA IL CONTENUTO, CHE ABBIANO COME SOGGETTO LE RUGHE.
LE VOSTRE RUGHE, QUELLE DELLE VOSTRE AMICHE O DEI VOSTRI AMICI, QUELLE DELLE PERSONE CHE INCONTRATE PER STRADA, QUELLE DEL VOSTRO CANE O DEL CANE DEL VOSTRO VICINO O DI QUALUNQUE ALTRO ANIMALE, QUELLE DELLA TERRA, QUELLE DEL SOLE E DELLA LUNA, INSOMMA QUELLE CHE VI PARE PURCHE’ SIANO RUGHE, SOLCHI, IMPRONTE, SEGNI.

I tre vincitori riceveranno in regalo una t-shirt nera con su stampato il quadro dedicato a Enakapata di Matteo Arfanotti e una copia del libro Uno, ddoje, tre e quattro, in uscita a novembre di quest’anno e per ora non posso dirvi di più.

Come decideremo i vincitori non lo so ancora, ma questo non mi sembra importante. Voi cominciate a spedire le vostre foto e a invitare i vostri amici a partecipare, al resto ci pensiamo via facendo.
Buona partecipazione.

Appocundria

E’ un pò di giorni che continuo a pensare che mi piacerebbe scomparire per un pò, non solo da Piazza Enakapata e da Facebook, scomparire in generale, vorrei essere un prestigiatore tipo David Copperfield ma non come Nando Paone in “E fuori nevica” che lui non riesce a scomparire davvero e poi sappiamo come va a finire.
La cosa che mi preoccupa di più è che nel frattempo continuo a mettere in cantiere idee, progetti, appuntamenti, ancora non deve uscire il numero de Il Mese e poi dei Quaderni con l’intervista a Rifkin che già sto mettendo in pista l’intervista a Sennett. E poi ci sono i libri su cui sto lavorando, e sì, cari @amici e amici, vicini e lontani, ci saranno sorprese nei prossimi mesi, che dico, settimane, e poi c’è c’è la Fondazione, e poi l’università, e poi la serendipity, e poi la ricerca sul fare artigiano e poi quella su Sud e classi dirigenti.
Voi dite che è troppo? Io dico che la mia vita è stata più o meno sempre questa, che non conosco un altro “mio” modo di essere. Mi sono sempre detto “non ce la faccio”. Mi sono sempre risposto “in qualche modo farò”. E così è stato.
Adesso è diverso. Perché adesso lo so che ce la faccio, nel senso che l’ho imparato. E’ che non ho voglia di farcela. Non mi dice niente. Mah, prima o poi passa. Magari sono i 55 anni che compio sabato, ogni tanto me lo fa. Quando ho compiuto 30 anni è stata una tragedia, poi tutto tranquillo, a 40 come a 50 anni. Sono trascorsi 25 anni, saranno le nozze d’argento d’ “appocundria”. Mah, speriamo. Comunque se è qualcosa vi tengo aggiornati.

Lo strano caso dell’umile converso

Giancarlo Ioriodi Giancarlo Iorio

Quando, nell’autunno del ’79, fui assunto nella Casa di Cura Ave Gratia Plena, specializzata nella terapia delle malattie neurologiche e psichiatriche, dovetti trasferirmi a S. Apollonia, ventimila abitanti, seicento metri sul livello del mare, distante meno di quindici chilometri dalla costa.
Mi ambientai bene nel giro di pochi mesi. Avevo scoperto abitanti gentili e pervasi da un sottile spirito epicureo, amanti della musica, della buona cucina e della cultura.
Il posto, oltre che per la clinica, era conosciuto nel circondario anche per un rinomato complesso sinfonico, davvero qualcosa di più di una banda musicale, che, tra l’altro, si esibiva solennemente in occasione della festa della Santa Patrona, il 13 marzo.
In quella ricorrenza l’orchestra, diretta dal baffuto maestro concertatore prof. Anselmo De Donatis, suonava brani di musica classica e lirica su un palco ottagonale, pennellato di bianco, con fregi azzurri e dorati.
Ritratti di musicisti famosi, tra cui Donizetti, Puccini, Verdi, Bellini, Schubert, Mozart, Rossini ornavano gli spicchi del soffitto e sorvegliavano l’esecuzione. Alle arcate portanti erano avvitate mille lampadine che diffondevano una luce intensa e calda. Il maestro De Donatis, virtuoso del violino, concludeva quasi sempre la serata con “il volo del calabrone”, scatenando entusiastici consensi anche tra gli spettatori più tiepidi.
Non lontano dalla Casa di Cura, in via Ugo Foscolo, l’altro motivo per cui quella città era famosa: “Da Santino”, un raffinato ristorante, in equilibrio fra tradizione e innovazione, dove si preparava, tra l’altro, un risotto di vialone nano, tirato con il brodo di frutti di mare e mantecato, rigorosamente fuori dal fuoco, come precisava l’autore, con spuma di crostacei. L’effetto consolatorio di quel piatto era tale che noi, nelle frequenti riunioni conviviali l’avevamo ribattezzato “Soma e Psiche” e qualche collega lo proponeva come cura alternativa agli antidepressivi.
I menu erano vergati a mano da Fra Guglielmo, il miniaturista dell’Abbazia Benedettina di sant’Erasmo, che distava dodici chilometri dal centro abitato.
Carta pergamena, inchiostri di china, caratteri gotici, ogni capolettera era una miniatura. Il risvolto di copertina recava una massima attribuita a Epicuro: “La sazietà è nemica del piacere”.
Santino approfittava spesso della nostra presenza per chiedere un consulto:
“Dottori, spiegatemi perché, se non posso avere sempre il meglio per il mio ristorante, mi viene l’ansia”. Fingevamo una confabulazione seriosa e poi rispondevamo un po’ a turno:
“Santino, questa non è una malattia… Tu hai la sindrome del Dom Perignon, solo il meglio… In fondo tutti i grandi cuochi, come i grandi artisti, sono dei perfezionisti”.
“Ho capito, ma allora dovrei aumentare i prezzi, così quasi ci perdo, la cucina e il servizio sono da Gran Vefour e il prezzo da normale buon ristorante cittadino”.
Non ero d’accordo sulla sindrome del Dom Perignon, il famoso champagne preferito da James Bond.
Santino non voleva il meglio per sé, come 007. Offriva il meglio ai suoi clienti, sperando di guadagnare la loro stima e benevolenza. In un certo senso l’opposto.
Comunque nessuno di noi lo avrebbe curato, poiché il suo disturbo ossessivo di personalità era il suo stile di vita e aveva il merito della bontà dei suoi piatti. D’altra parte avremmo continuato a frequentare quel luogo di delizie, anche se i prezzi fossero raddoppiati.
Comunque per quanto la città fosse tendenzialmente gaudente e invitasse a un simile stile di vita, lavorare si lavorava.
Eravamo più di venti specialisti senza contare gli psicologi e i consulenti esterni e, pur con qualche crisi personale e qualche sporadica caduta di rendimento, curavamo con grande attenzione e dedizione i nostri pazienti.
L’attività culturale preferita poi era la discussione dei casi clinici.
Mi ero appassionato a questo esercizio fin da studente, con la lettura di Tempo Medico, che nelle pagine centrali, illustrate da Crepax, vedeva un professore di clinica medica discutere con l’aiuto Attilio e con qualche fascinosa assistente, di complicati casi clinici che alla fine riusciva brillantemente a risolvere. Naturalmente avrei voluto essere come lui.
Anche per questa ragione avevo stretto amicizia con il consulente internista della clinica,
Luca Franceschi, fisicamente il gemello di Oliver Sachs, stesso barbone, stessi occhiali, stesso sorriso, dotato di raro acume e di vasta e profonda preparazione, dalla cardiologia all’endocrinologia. Lo stimavo e lo consideravo un eccezionale diagnosta.
Forse fu per questo motivo che quella mattina del maggio dell’ottantuno, quando mi venne a cercare in reparto e, battendomi una mano sulla spalla scandì col suo vocione:
“Ho un caso clinico da risolvere, ho bisogno di un tuo consulto”, caddi dalle nuvole.
“Eh, se…”, dissi, meravigliato e compiaciuto.
“Si tratta di una consulenza che l’abate in persona mi ha chiesto domenica scorsa dopo la messa”.
Luca, nonostante l’aspetto da sessantottino era un fervente cattolico.
“E’ per… un monaco, quindi dobbiamo andare all’abbazia”. Non volle anticiparmi altro.
Concordammo di vederci alle sedici del giorno dopo davanti al monastero.
Attraversammo il chiostro per giungere nell’ampia sala dedicata alla vendita al pubblico dei prodotti erboristici, dove ci attendeva il vice-priore.
Aveva incarico di condurci nell’ufficio dell’abate, padre Dom Ugo Clementi.
Questi ci salutò cordialmente e si disse grato per la nostra disponibilità.
Era un uomo più alto della media, magro, energico, il volto chiaro, quasi diafano, su cui spiccava la puntinatura nera della barba, nonostante la perfetta rasatura, capelli neri, lisci, mortificati da una chierica perfettamente rotonda. Mio padre, che, quando ero alle medie mi spiegava le parole difficili, lo avrebbe portato come esempio di figura ieratica.
La stanza dove ci aveva ricevuto era sobria ma non spartana. I mobili erano antichi e di eccellente fattura, alle pareti delle pergamene policrome e dipinti di soggetto religioso.
“Attribuito alla Scuola del Tiepolo”, disse soddisfatto, sorprendendomi a indugiare con lo sguardo su una “Madonna con Bambino”, affrescata alle sue spalle“.
Forse il figlio del maestro, Giandomenico… voi sapete che gli affreschi dell’abside della basilica sono del maestro in persona, 1750-51 circa, dopo l’incendio che annerì tutta la chiesa. Mentre il padre decorava da par suo la basilica, il figlio si dedicò ad affrescare alcune stanze e le cappelle interne. Questa stanza una volta era una chiesetta per i frati più anziani, non lontana dalle celle”.
Si capiva che avrebbe preferito parlare d’arte, di cui si sapeva che era un grande appassionato, ma subito dopo cambiò espressione e iniziò:
“Noi abbiamo sempre cercato di essere il più possibile autosufficienti ed è perciò che abbiamo anche un allevamento di animali da cortile e di maiali.
A occuparsi del nutrimento dei maiali è frate Onofrio, un laico, una persona semplice, cui il buon Dio, per sua imperscrutabile decisione, ha fornito una notevole forza fisica ma un intelletto non altrettanto robusto”.
“Ah, un converso!…” esclamai, contento di mostrare una certa competenza.
Sapevo di questa figura non tanto per aver studiato il monachesimo, quanto per i racconti di mia madre su Suor Maria Crocifissa, una nostra prozia ottocentesca, priora di un convento di clausura a Napoli e la sua conversa, che aveva acquisito fama perché bravissima nel confezionare i dolci di pasta reale. Il converso o la conversa erano persone di servizio, uomini di fatica o, nella migliore ipotesi, artigiani o dame di compagnia. In un certo senso la prova che l’egalitè non aveva espugnato i monasteri o semplicemente che una società ideale resta un’utopia.
Finalmente ora stavo per conoscerne uno dal vivo.
“Un converso, sì…” confermò l’abate con un lieve imbarazzo, “la famiglia ha voluto affidarlo a noi perché non aveva un lavoro vero e proprio, aiutava in campagna, ma i coetanei lo prendevano in giro a causa della sua ingenuità e… innocenza e, dopo la morte del padre, lui era diventato rissoso, si stava sbandando e… così… è qui da cinque anni”.
Dopo un lungo sospiro l’abate allargò le braccia e poi le richiuse come in dominus vobiscum.
“Mi dicono i confratelli che negli ultimi tempi, quando frate Onofrio porta il cibo ai maiali, si siede vicino alla mangiatoia ed emette degli strani singhiozzi o dei suoni gutturali anche per un’ora di seguito. A volte si prende la testa fra le mani e a volte solleva il capo al cielo. A volte alterna ai singulti dei veri e propri ululati. Se qualcuno dei frati si avvicina, appare come inebetito e, dopo un po’, il suo singhiozzare e il suo ululare si attenuano, fino a cessare. Se lo si interroga non risponde. Guarda a terra e non parla”.
Non seppi fare a meno di chiedere se solo in quella occasione il converso singhiozzasse e ululasse.
“Un confratello, che dorme vicino alla sua celletta, dice di averlo sentito qualche volta anche di notte”.
Il collega Franceschi mi guardava sperando che io avessi una risposta o almeno un’ipotesi, per tranquillizzare il prelato.
“Sarebbe bene ascoltarlo” dissi “ e anche visitarlo”.
L’abate si strinse un po’ nelle spalle, poi fece cenno di sì col capo.
“Temo” aggiunse “che non vi dirà molto. Anzi ho paura che non dirà neppure una parola”.
Ci recammo nell’infermeria dove il frate addetto ci accolse con tutti gli onori e quando ci fummo sistemati ci portarono frate Onofrio.
“ Buona sera frate Onofrio, accomodatevi”.
Il paziente, ancora sulla porta si girò a cercare rifugio nella tunica del confratello che lo accompagnava. Aveva un aspetto corpulento, ma il viso rotondo di un bambino.
Lo fecero sedere davanti a noi, ma alle mie domande non rispondeva. Guardava a terra come chi viene colto in fallo e rimproverato. Ogni tanto mi rivolgeva lo sguardo e una sola volta accennò a un debole sorriso. L’esame neurologico era negativo per deficit focali, ma era evidente una discreta microcefalia. Sicuramente, il frate era un minus habens, come dicevano allora gli psichiatri di grido, ossia era poco dotato sul piano dell’intelletto. Egli aveva una discreta intelligenza pratica, ma non sarebbe stato capace di formulare un concetto astratto.
Quando Luca Franceschi ed io fummo di nuovo soli mi inoltrai in un tentativo diagnostico differenziale:
“Mi è capitato una volta qualcosa di simile, una sindrome ticcosa con emissione soltanto di suoni gutturali, simili a grugniti o a singhiozzi, senza movimenti ticcosi, nel fratello di un paziente con sindrome di Gilles de la Tourette, oppure… potremmo pensare a una forma di epilessia parziale, secondariamente generalizzata, con emissione di vocalizzazioni, ma è una forma rara e poi… non mi tornano i conti. La crisi dura troppo…ma tu a che pensi?”.
“Da internista ho osservato il collo di frate Onofrio e allora darei uno sguardo anche alla tiroide, un deficit precoce potrebbe aver dato i suoi frutti”, disse Luca.
“Oppure sta diventando psicotico, potrebbe trattarsi di una sindrome d’innesto…” dissi riservando poca attenzione all’osservazione endocrinologica del mio collega.
Decidemmo che frate Onofrio sarebbe stato indagato in day-hospital, dove avrebbe praticato l’elettroencefalogramma, alcuni esami radiologici e neuroradiologici, alcuni test adatti alla sua età mentale e gli esami di laboratorio, compresi quelli per la tiroide.
Dopo circa 15 giorni avevamo i risultati che però non erano affatto illuminanti.
Non confermavano, ma non escludevano le diagnosi ipotizzate.
Prescrissi allora al converso una terapia sintomatica, blandamente sedativa, con piccole dosi di farmaci neurolettici e del triptofano e inviai una breve relazione all’abate, per informarlo della negatività degli esami e della necessità di attendere almeno quattro settimane per poter verificare gli effetti della terapia.
Non passarono neppure otto giorni, invece, che l’abate mi telefonò e mi fece capire che i farmaci non stavano dando miglioramenti, anzi. Gli ululati si erano fatti più lunghi e strazianti.
Alla fine della telefonata mi accennò, discretamente, alla sua ipotesi diagnostica.
“Dottore la cosa sta portando scompiglio nel monastero… non dovrei parlarne per telefono, ma se proprio la medicina non può far nulla… è tradizione che almeno uno dei confratelli si occupi… di… esorcismo e nel nostro monastero abbiamo frate Adelmo, che ha risolto molti casi, che da tempo mi chiede di intervenire… dice che forse la vicinanza con le bestie immonde…”.
Non commentai in nessun modo ciò che l’abate mi andava dicendo e a lui quel silenzio dovette sembrare piuttosto eloquente.
“Capisco che sto entrando in una sfera che voi laici… che gli uomini di scienza… oltre tutto i familiari hanno saputo qualcosa e ora vogliono essere informati sulle condizioni di salute del congiunto”.
Dissi educatamente che non era il caso di esorcizzare frate Onofrio e che avrei visto di nuovo lui e i familiari nel mio studio il giorno dopo.
Infatti, alle diciannove del pomeriggio seguente ero seduto di fronte al frate con i familiari in sala d’attesa.
Mi stavo giocando una carta importante. Mi dissi che, come nelle versioni di greco più incomprensibili, anche quel mistero doveva avere un senso.
“Onofrio, ricordate qualcosa di quando vi viene quella crisi? Vi succede di avere una specie di bolla nello stomaco? Avete mal di testa? Vi si abbaglia la vista? Vedete per caso cose strane?”
Mi sembrò che il povero frate si mettesse finalmente nei miei panni, capiva che ero nei guai per lui e che avrei dovuto dir qualcosa alle sorelle, alla madre e allo zio.
Fece passare un tempo che mi sembrò lunghissimo, poi bisbigliò qualcosa, sempre guardando a terra.
“Come? Non ho sentito”.
A quel punto mi guardò fisso mentre allungavo il collo e tendevo le orecchie per non farmi sfuggire neppure una sillaba e, al tempo stesso abbassavo lo sguardo verso il piano della scrivania, per non intimidirlo.
“Ce vulesse n…n…na femminuccia…p…p…però!” disse con voce bassa ma, questa volta, perfettamente comprensibile.
In quell’istante si aprì davanti ai miei occhi la voragine dell’ovvio. Come avevo potuto non pensarci. Avevo dato per scontato che il poveretto avesse una malattia, solo perché l’abate aveva questa implicita teoria su di lui, sostituita più tardi da quella della possessione.
Sia io che il mio collega eravamo caduti in un grave errore di metodo. Avevamo dato per certo ciò che non lo era affatto. Avrei dovuto ricordarmi che “La certezza è nemica della verità”, ma soprattutto avrei dovuto applicare questo insegnamento di Popper e invece io ero diventato subito certo dello stato di malattia del frate. Mi sentii un vero idiota e mi chiedevo chi tra noi due fosse il minus habens.
Non c’era diagnosi, semplicemente perché non c’era malattia. Ma quale sindrome ticcosa, epilessia parziale, innesto psicotico o possessione! I singulti e gli ululati erano dovuti a desiderio d’amore e nessuno di noi aveva pensato che anche una persona così semplice e innocente potesse soffrirne.
Ci misi quindici secondi per pensare tutto ciò. Quando alzai lo sguardo mi resi conto che Onofrio non era più disperato, si era liberato di un grande peso e sapeva che lo avrei aiutato.
Lo capii, al di là di ogni ragionevole dubbio, perchè sul viso rotondo dell’umile converso, ancora vestito da benedettino laico, era stampato il più complice e impertinente dei sorrisi.

Lo strillone dalla voce roca

Giancarlo Ioriodi Giancarlo Iorio

Decidere un giovedì sera del giugno del ‘74, dopo un pomeriggio trascorso sulle sferocitosi ereditarie, di andare al cinema a vedere “Dove osano le aquile”.
Le ragioni del no: l’avevo già visto due o tre anni prima, non era il tipo di film di guerra che mi piaceva, non rispettava la storia e non era realistico, insomma un fumettone con un titolo enfatico, anche se con interpreti eccellenti, inoltre avrei dovuto attraversare piazza S. Maria La Scala alle 20 e avrei potuto trovarmi tra i piedi un alessandrino in avanscoperta.
Le ragioni di Giovanni: I grandi film di guerra si possono vedere anche tre volte, al Tiberio si paga poco, cast stellare, che ti frega del titolo.
Il bonus era poi la proposta della margherita finale.
Finii per cedere alle sue ragioni, anche perché, l’alternativa era pastina al burro e Rischiatutto in bianco e nero.
Il mio collega aveva visto “La grande fuga” 14 volte, conosceva i prezzi di tutti i cinema e di tutti gli spettacoli e al Tiberio riusciva anche a farsi fare lo sconto, corteggiando la cassiera, che aveva avuto lo zio ricoverato nel reparto dove lui era interno.
Quando uscimmo gli alessandrini misuravano il marciapiede di fronte all’ingresso del palazzo. Erano due o forse tre, ma, per fortuna non attraversavano allo scoperto quasi mai a quell’ora.
Sono topi di fogna col muso a forma di piramide tronca gli alessandrini, padroni assoluti della piazza dalle 23 in poi, l’ora in cui saremmo tornati dal cinema.
Assalivano i sacchi dei rifiuti, depositati accanto al portone, e sarebbe stato un problema entrare.
Al Tiberio si arrivava dopo Salita Sanfelice, si girava a sinistra e ancora duecento metri.
Il locale allora aveva un aspetto deprimente: luci al neon, sedute di legno, pubblico di studenti, disoccupati, venditori ambulanti… con qualche eccezione quando il film era di qualità, ma quasi mai esemplari di pubblico da Filangieri o da Metropolitan.
Passava Agostino per le bibite e i pop corn: “Aranciate, Coca, chi beve. Maasticate la gomma!”.
Qualcuno, ispirato dalla pettinatura, dalle movenze e dalla voce lo chiamava Agostina, con fare caramelloso, ma lui non si offendeva, anzi era compiaciuto.
A un certo punto, un altro personaggio sembrava comparire dal nulla: il venditore di giornali.
Capelli neri, che ricoprivano la testa e anche tutta la fronte, fino agli occhi di colore verde chiaro, faccione carnoso con barba di due giorni e figura appesantita, un camice grigiofumo ormai nero lungo ben oltre le ginocchia, respiro asmatico, la voce arrochita dalle nazionali esportazione.
Alcuni locali a Napoli conservavano ancora la vecchia usanza di far vendere i giornali prima dell’inizio dello spettacolo e nell’intervallo.
Lo sentivi arrivare perché pubblicizzava la sua mercanzia annunciando i titoli con fare professionale e in italiano:
“Assassinata minorenne nel bagno di casa, sospetti sul cognatooo…”
Poi allegramente traduceva:
“E’ stat chillu scurnacchiato do cainato… tutti i particolari… Cronaca Vera… Crimèn”.
La traduzione incrementava di molto la vendita.
La prima volta che l’avevamo visto, Giovanni aveva scommesso che si chiamava o Ciro o Gennarino, così quando fu a due file di distanza: “Ciro! Ciro mi dai la Gazzetta?”
Ne era seguito un chiarimento,
“Mio fratello più piccolo si chiama Ciro, io mi chiamo Raffele” disse, mentre porgeva la Gazzetta dello Sport a Giovanni:
“Gesù, tuo fratello si chiama Ciro e tu non ti chiami Gennarino!”.
“Io Gennaro mi dovevo chiamare, ma… quando sono nato io… mio padre aveva litigato co’ nonno e così per dispetto mi chiamò Raffele, che a me questo nome non mi piace, chi è po’ stu Rafele”
Punto sul vivo perché mio padre si chiamava Raffaele, il mio maestro si chiamava Raffaele e mio figlio, quando lo avrei avuto, si sarebbe chiamato Raffaele…
“Un angelo” dissi, £un angelo mandato da Dio. Raffaele significa mandato da Jahvè”.
“N’ angelo?” disse con la voce di cartavetro. Si fermò, guardò a terra come per prendere fiato o per trovare le parole e poi in perfetto italiano: “Sentite, io vi devo essere grato che mi dite così, ma… mi avete visto bene…”.
Poi continuò: “I’ so chiatt, tengo i denti guasti, tengo pure i bronchi asmatici e ‘o fegato… e po’ vedete come sto vestuto, cu stu camice niro che ce dormo pure a notte. Se propio mi doveva mandare, il padreterno mi poteva fare nu poco chiù accunciatiello”.
Fece un’altra pausa: “A Napoli ce stanne i Rafele ma… vulite mettere”.
Non aveva aspettato una replica e aveva ripreso il suo giro con passo da podagra: “Crimèn… Cronaca Nera.. i meglio muort accisi, giornali!”.
Ogni tanto promuoveva anche le testate sportive: “Tutto sul calcio a zona di Viniciooo! Il Napoli vincerà lo scudetto?”.
La versione vernacolare era: ” ‘O aizammo o no sto commò?”
Da quella sera, quando ci vedeva, si fermava e puntualmente chiedeva al mio collega: “Allora Gazzetta o Guerino?”.
Poi rivolto a me:
“Volete un giornale o volete dire qualche altra stronzata”. In genere prendevo una copia di Paese sera e lui se ne andava sorridendo all’aria.
Siccome stavo frequentando le lezioni di psichiatria, mi ero convinto che Raffele era una personalità bipolare e che, di volta in volta, avremmo potuto trovarlo depresso e malinconico o euforico ed espansivo.
Per chiarire ciò che successe quella sera di “Dove osano le aquile”, è necessaria una premessa. Circa venti o trenta giorni prima si era verificato un delitto che aveva fatto molto scalpore.
Una donna dall’apparente età di trenta anni era stata trovata morta in riva a un fiume, trafitta da venti coltellate e decapitata, l’identificazione non era ancora avvenuta e la polizia stava controllando alcune testimonianze.
Circa venti anni prima Nel 1955 a Castelgandolfo c’era stato un delitto analogo ed era stato denominato “La decapitata del lago”.
Era rimasto impunito ed era entrato nella leggenda.
Quella sera Rafele, cominciò a passi misurati per non avere il fiatone, il giro che precedeva lo spettacolo e annunciò in italiano: “Il mistero della donna del fiume! Ancora si cerca la testa della donna! tutti i particolari sul Mattino di oggi!”.
E dopo un respiro: “Ma a capa nun se trovaa, a capa nun se trova!”.
Nelle file centrali pochi istanti prima che si spegnessero le luci erano andati a sedersi quattro spettatori di mezza età, capelli più o meno brizzolati, molto eleganti, vestiti di scuro e con la cravatta.
Date queste premesse nessuno si aspettava quello che stava per succedere.
Appena si accese la luce dell’intervallo si sentì Rafele: “S’è truvata a capa! S’è truvata a capa”. Tutti si girarono a guardarlo.
Uno degli eleganti fece segno che voleva il giornale. Raffele glielo portò con la solita camminata lenta e sofferente.
Quello lo aprì e cominciò a leggere, poi sfogliò di nuovo da cima a fondo le pagine.
Infine chiamò ad alta voce Raffele e chiese sempre ad alta voce:
“Scusi, ma quale capa s’è trovata?”.
Raffele si sentì come il capocomico a cui viene preparato il terreno per la battuta finale, non avrebbe dovuto, forse, ma non seppe trattenersi, anzi gli dovette sembrare che quel signore facendogli la domanda stava ubbidendo al copione e quindi si sentì autorizzato a rispondere:
“S’è truvata a cap’e cazz che s’accattat ‘o giurnale”.
A questo punto si fermò atteggiando il faccione a sorriso, convinto che l’uomo elegante, che non sembrava di Napoli, avrebbe riso anche lui per quella splendida trovata.
Ma non fu così. Quello lo guardò gelido e dopo aggiunse: “Ma questo non è serio, lei, lei è uno scostumato, lei dovrebbe cambiare mestiere! Voglio parlare con il direttore”.
Raffele capì che le cose non erano andate come lui si sarebbe aspettato, si fece cupo e disse:  “Scusate ma a voi chi ve l’ha promessa tutta questa serietà, a noi ci piace stare allegri e non stare seri, se a voi non vi piace… un’altra volta non ci venite!”.
“Questo è troppo io la denuncio!”.
A quel punto Raffele, da serio divenne furibondo e disse con voce chiara, per niente roca:
“A-mi-co! O vuò capì o no che cà amm campà tutti quanti!”.
Nelle sue ultime parole c’era lo stesso furore con cui il cane difende il territorio.
Poi girò le spalle e, lentamente, come si era avvicinato, si allontanò.
Quando si chiuse il sipario nessuno ebbe il coraggio di applaudire.

Cosmo

Diciamoci la verità, ogni volta che in stazione o in aeroporto mi si avvicinano per chiedermi se ho già l’abbonamento a Sky o a Mediaset me la godo un sacco a rispondere che non solo non ho l’abbonamento ma non ho neanche la televisione e poi ad osservare le loro facce che dall’attonito passano all’incredulo per poi sfociare nello sguardo schifato modello “vabbè questo è un troglodita, del resto si vede, porta ancora lo zaino ed è alto quasi due metri”.
Oh come mi diverto, oh come mi diverto, ancora di più di quando dico che sono più di 30 anni che non posseggo più l’automobile che quello ormai non ce la fanno a smettere ma se ne sono accorti anche loro che è una eco-tossico dipendenza.
Allora perché sto qui a parlarvi di Cosmo, la nuova trasmissione in onda da sabato 4 settembre alle 21.30 su Rai 3 di cui potete vedere qui sotto il promo? Perché ogni eccezione ha una regola, come direbbe il mitico Totò, e la regola è che il mio amico Luca De Biase quando fa una cosa la fa per bene perché è così che si fa. Ha fatto sempre così nella sua vita, alla Mondadori all’inizio, poi come free lance, oggi al Sole 24 Ore,  ma anche con AustroeAquilone, con i Nonni Raccontano che con tutte le altre mille cose che ha fatto e che fa, mettendoci sempre la faccia, le idee, la voglia di innovare.
Basta complimenti, se volete saperne di più andate sul suo blog. Io intanto cerco amici Tvdotati disposti a invitarmi a cena sabato sera.
Buona visione.
Poi magari domenica mi piacerebbe riparlarne con voi.

Luigi S.

A dirvelo ve l’ho già detto, ma in fondo anche se lo ripeto male non fa, tra le cose a cui sto lavorando in questi mesi c’è un volume che vorrei intitolare “Bella Napoli” con un sottotitolo tipo “Storie di lavoro, di passioni e di rispetto”. Ad un certo punto, nelle pagine dedicate ai mie maestri, ci troverete le  righe  relative a Luigi S. che adesso potete leggere qui. Le potete leggere perché venerdì scorso Luigi è morto. Perché  la sua mancanza è assai dolorosa. Perché io non sopporto la retorica e lui la sopportava ancora meno di me. Perché queste righe le ho scritto pensando che lui a inizio 2011, quando come ogni volta gli avrei portato il libro, le avrebbe lette, e  se solo avessi esagerato con i toni non avrebbe avuta alcuna esitazione a dirmi l’equivalente di “Vicié, guarda che io sono vivo, non c’era nessun bisogno di farmi il necrologio” (l’equivalente, perché quello che mi avrebbe detto veramente non lo posso scrivere ma lo potete immaginare). Insomma quello che vi voglio dire è che Luigi era molto, ma molto, ma molto di più di quello che sta scritto qua, che mi sono dovuto “mantenere” per non prendermi l’ennessima “cazziata”.
Lo so che state pensando che adesso che è morto potrò raccontare com’era veramente, non vi preoccupate, non mi piglio collera, l’ho pensato pure io, è normale pensarlo, anche se ne avrei fatto tanto volentieri a meno.  No no, il punto è che ho bisogno di tempo, non ce la faccio ancora a raccontarlo al passato. Quello che state per leggere è Luigi pensato al presente, e per adesso è tutto quello che vi posso regalare di quest’uomo straordinario.

Luigi S. dei quattro è il più facile e il più difficile da definire. È per me il fratello maggiore che non ho, essendo io il primogenito, è (stato) il mio maestro e il mio capo anche quando le circostanze della vita hanno voluto che a fare il capo fossi io.
Ho davanti a me vivida la scena che puntualmente si ripeteva quando andavamo assieme a trovare  i miei al paese. Ad un certo punto la discussione finiva inesorabilmente sul lavoro, con papà che si tratteneva per un tempo che a lui sembrava interminabile e a noi inutile prima della domanda fatidica: don Luigi, ma voi lo tenete a posto a mio figlio, ce li mettete i contributi, questo quando si fa vecchio la prende la pensione?, con me che a seconda del momento mi incazzavo o mi mettevo a ridere e con Luigi che rispondeva compunto “don Pasquale, innanzitutto vostro figlio non lavora con me ma con la Cgil e la Cgil è un’organizzazione seria, e poi adesso è lui il mio capo, se fosse come dite voi, me li dovrebbe mettere lui a me i contributi”. Papà? Alla parola “seria” riferita alla Cgil alzava tutte e due le mani, si alzava in piedi e profferiva un contrito “per carità” che equivaleva a un “chi si è mai permesso di metterlo in dubbio” all’ennesima potenza, insomma una specie di “ ’a faccia mia sotto ’e piere vuoste”, e alla parola “capo” riferita a me diceva “e gghià, don Luì, nun pazziate sempe, ca cheste sò cose serie”.
Insomma nella vita ci sono quelli che diventano capi, a volte con merito altre volte no, e quelli che capi ci nascono. È come la storia che racconta Bill a Beatrix Kiddo in Kill Bill, quello delle differenze tra Superman, che si sveglia la mattina ed è già un superoeroe, e Batman o Spiderman, che si svegliano la mattina e sono Bruce Wayne e Peter Parker. Ecco, Luigi si sveglia la mattina ed è già capo.
Lo è quando ti spiega perché quando stava in produzione la fabbrica la sentiva sua, che cosa intendeva dire quando nel corso delle trattative poneva il problema del troppo cascame (scarti nel processo di lavorazione delle fibre sintetiche) e al capo del personale che sosteneva che il problema del cascame è un problema dell’azienda e non del sindacato rispondeva “no, la qualità e la competitività sono problemi nostri, perché se chiude la fabbrica, la proprietà non muore certo di fame, lei va a fare il capo del personale da un’altra parte, mentre noi finiamo in mezza alla strada”.
Lo è quando – al Vice Prefetto che gli indica la stanza dove si tiene la riunione dicendogli “Signor S., in fondo al corridoio a destra, mi dispiace ma ogni tanto anche lei deve svoltare da quella parte” -,
risponde di botto “Dottò, non vi date pensiero, io arrivo là, mi giro di spalle, e svolto comunque a sinistra”.
Lo è quando ti tortura fino alla morte perché anche il sabato mattina si vada a lavorare, anche quando da tempo nella Cgil non è più la norma, spiegandoti che un pò alla volta  finisce che non si lavorerà più neanche il venerdì pomeriggio, si chiuderà la sede per Natale,  Pasqua e le feste comandate,  insomma la Cgil diventerà come un qualunque ufficio, mentre invece la  Casa dei Lavoratori deve stare sempre aperta.
Lo è soprattutto quando te lo trovi a fianco sempre, quando lo vedi felice perché hai portato a casa un buon risultato ancora di più di quando il buon risultato lo porta a casa lui, quando ti lascia la scena anche quando è lui che ha fatto la maggior parte del lavoro, quando ti spiega che il capo migliore è quello che sa far crescere i propri allievi, un  concetto questo che per sentirlo espresso in maniera altrettanto chiara, credibile, convincente, ho dovuto aspettare un bel pò di anni, fino al 2008 e alle mie chiacchierate a Tokyo, al Riken, con Piero Carninci, ma questo l’ho già raccontato in un’altra occasione.  […]

Caro Vincenzo

Questa la mail che via Facebook mi è arrivata ieri da Giancarlo Iorio, sì, proprio lui, l’autore di Bianco Nero & Click:
Caro Vincenzo,
ti voglio premettere qualche informazione sulla recensioe fotografica di ENAKAPATA.
Mi sono ispirato al concetto gramsciano di letteratura. Ho dato da leggere il libro a diversi personaggi di differente estrazione e cultura e li ho fotografati mentre, nel loro ambiente, leggono.
Le foto sono state eseguite con un apparechio digitale, perchè purtroppo non ho più la camera oscura e non potrei stampare delle foto eseguite in modalità analogica. Le foto sono a colori ma naturalmente si può visionare anche la versione in bianco e nero, specie per alcune di esse. Spero che il lavoro complessivamente non ti deluda. Qualche ritocco ancora e domani ti mando tutto
.
A lui l’ho detto già, adesso lo ripeto anche a voi, io sono semplicemente commosso da questo guazzabuglio di emozioni, idee, progetti, @micizia, amicizia, affetto che ci tiene assieme. Spero il 10 settembre a eBookFest di riuscire a trasmetterne almeno un pezzetto di tutto questo, ma intanto vi prometto che domani, non appena Giancarlo mi manda la sua recensione fotografica, io …..

Replicante o Robot?

Replicante o Robot?
Replicante o Robot?

Sennett ne “L’uomo artigiano” (Feltrinelli 2010) li definisce utensili specchio. E aggiunge che possono essere di due tipi: replicante e  robot (non pensate al robot come l’immagine qui di fianco che ho rubato ad Adriano Parracciani, pensate a “macchine” come il telaio completamente automatico o l’ipod).
Per capire bene vi consiglio di leggere il libro (ne vale la pena), qui a Piazza Enakapata basta dire che i replicanti imitano le nostre possibilità-capacità, i robot le potenziano fino a farle arrivare a livelli per noi umani impossibili.
Ciò detto, la domanda del titolo riguarda la “macchina” “piattaforma” blog e potrebbe essere formulata più o meno così:
i blog sono replicanti o robot? Sono semplicemente lo specchio delle nostre capacità  – possibilità come i primi o ci permettono di potenziarle come i secondi? E se le potenziano in che senso lo fanno?
Dite che in pieno agosto una discussione così è inconcepibile? Rispondo che non vado di fretta. Se avete un’idea da condividere, fatelo. In caso contrario, pensateci pure fino a quando non viene l’inverno, il post qua sta.

p.q. (post questionem, domanda successiva, ‘a domanda appriess)
ma i social network sono replicanti o robot?

Era già rotto (Core ‘e mamma)

Sì, prenderla alla lontana mi piace. No, non c’entra niente il fatto che sto in ferie, è che mi piace raccontare, c’entra il daimon, il codice dell’anima, la streppegna, insomma non sono portato per la sintesi e poi non è che dovete leggere per forza. Uffah.

1972-1973. Campeggio Baia Domizia. A 17-18 anni è bello essere innamoratissimi, contraccambiati, di una stupenda ragazza di nome Rosanna. Eravamo in campeggio libero, e una delle attività giornaliere era quella di andare con il padre di lei, Luigi, l’uomo della tenda affianco, a prendere l’acqua.
Lui, da quasi 40 anni iscritto al PCI, sapeva del nostro amore, e ne era anche contento. Comunista lui, comunista io, per di più giovane studente che studia con la testa al proprio posto cioé sul collo,  cosa vuoi di più dalla vita.
Quel giorno, mentre riempiamo la settima-ottava damigiana da 50 litri, Luigi mi fa “ricordati, ‘a femmena che dice ca te vo’ bene cchiù da mamma è ‘na femmena che ti inganna”.
Posso dire che non capisco perché mi dice questa cosa? Che un pò ci rimango male? Che mi sembra una mancanza di riguardo rispetto alla figlia sua – innamorata mia bellissima?. L’ho detto. Punto.

2010. Cellole. Con Cinzia siamo ritornati dopo la bellissima giornata trascorsa qualche giorno prima, sì, proprio quella delle foto e del filmato del post precedente e, cosa non proprio scontata, trascorriamo un’altra bellissima giornata.
Mare, telline, pallavolo, chiacchiere, tentativo di restare al sole fino alle 3 p.m. da me prontamente sventato, ritorno a casa, doccia in giardino con la pompa dell’acqua che a me piace un sacco, i sandali messi ad asciugare. Indosso degli infratido di un pò di numeri più piccoli del mio, della serie l’arte di arrangiarsi è obbligatoria se hai 46 di piede.
Pranzo, musica, tanta bella musica, chiacchiere again, mentre sto scendendo per andare a vestirmi per il ritorno a Napoli si rompe l’infradito destro. Mi scuso con mia cognata Paola che me li ha prestati, lei naturalmente sorride e mi dice che non c’è problema, nel frattempo Cinzia è scesa ed essendo una persona che mette pace ha detto a mamma “Vostro figlio ha rotto gli infradito di Paola”.
La risposta di mamma:” e che fa, quelli già erano rotti”.
Io e Cinzia siamo scoppiati a ridere come pazzi. Poi mi è venuto in mente Luigi e la storia della femmina ingannatrice.
Voi dite che è l’età? Dite, dite. Intanto a mamma mia guai a chi me la tocca.

Grand Hotel

Va bene, l’ammetto, dato il periodo, le possibilità del “qui pro quo” sta nelle cose, ma il Grand Hotel del titolo non c’entra nulla con il posto nel quale trascorrerò le ferie, che per ora non ho deciso neanche se e dove le trascorrerò. Grand Hotel sta per la rivista Grand Hotel, quella fondata nel 1946 dai fratelli Alceo e Domenico Del Duca, i boss delle Edizioni Universo,  con Matteo Macciò,  che ne diventò il direttore, che all’inizio era basata sulle storie d’amore a fumetti (tra i collaboratori il grande Walter Molino) e poi si trasformò  in un contenitore di fotoromanzi destinati prevalentemente al pubblico femminile (prevalentemente, perché tra i lettori c’ero anche io, avevo 9-10 anni, ma sempre pubblico maschile ero).
Perché vi racconto tutto questo? Perché ieri ho passato una bellissima giornata, assieme a Cinzia, ai miei cognati Paola e Alberto, ai miei nipoti Flavia e Angelo, a mia madre Fiorentina, e a Nunzia, Gaetano e Antonio, i miei fratelli. E  perché questa bellissima giornata ho deciso di raccontervela con tre immagini e un breve filmato, con tanto di didascalia, proprio come si faceva su Grand Hotel.
Buona visione.

 

Un tuffo nel passato. I quattro fratelloni di Secondigliano sul terrazzo di casa il giorno del mio 50° compleanno, l'11 settembre 2005
Un tuffo nel passato. I quattro fratelloni di Secondigliano sul terrazzo di casa il giorno del mio 50° compleanno, l'11 settembre 2005
Ma questi non sono due fratelli, sono due campioni. Prima di quelli di quelli di Castellammare, c'erano già i fratelloni di Secondigliano, senza Peppeniello di Capua come timoniere, e se c'era il beach tennis la medaglia alle olimpiadi la vincevamo anche noi.
Ma questi non sono due fratelli, sono due campioni. Prima di quelli di Castellammare, c'erano già i fratelloni di Secondigliano, senza Peppeniello di Capua come timoniere, e se c'era il beach tennis la medaglia alle olimpiadi la vincevamo anche noi.

I campionissimi all’opera, infruttuoso salvataggio compreso … E vissero tutti felici e contenti.

 

 

Luca, piglia ‘o milk ‘a int’o fridge

Livio Fiorenza and Me
Livio Fiorenza and Me

Va bene, ci ho messo una settimana invece di 24 ore, ma il lavoro è lavoro e in quanto tale ha la priorità, soprattutto quando poi c’è il lavoro di altre persone collegato al tuo. Eh sì, funziona così, altrimenti mica sarei stato praticamente tutto sabato e domenica incollato al mio mac. Ma poi perché devo darvi tutte queste spiegazioni? Vi avevo detto che ve lo raccontavo? E ve lo sto raccontando. La telefonata del mio amico Michele non mi aveva sorpreso, il suo contenuto invece sì. Vicié, vedi che da me ci sta Livio, e avrebbe piacere di passare una giornata con te, Luca e Salvatore.
Chi è Livio? E’ quello che vedete  con me nella foto, vive da 42 anni a Sydney, e nel  nel settembre 2000  ha ospitato praticamente per un mese a casa sua me, Luca, Salvatore e Michele, in quella che è stata la più fantastica vacanza della mia vita in quello che per me  è il più meraviglioso paese del mondo.
Era lui che la mattina ci preparava improbabili, straordinarie colazioni a base di pancetta, uova fritte, frutta varia, marmellata e chi più ne ha più ne metta. Ed era ancora lui che a un certo punto profferiva il “Luca, piglia ‘o milk ‘a int’o fridge” che stava a significare “se siete così assurdi da preferire latte e biscotti fate pure, ma non cercate il mio consenso”.
Cosa ho fatto quando Michele mi ha detto che era qui? Prima mi sono emozionato. Poi ho telefonato a Salvatore. Poi abbiamo deciso di passare assieme una giornata a Procida. Poi l’abbiamo fatto. Ed è stata una giornata bellissima. Ma questo ve lo racconto un’altra volta, non appena Livio mi manda le fotografie.

Viva l’Italia

biglietto di Salvatore Di Domenico
biglietto di Salvatore Di Domenico

Salvatore Di Domenico è il mio amico del cuore, per mia fortuna non è l’unico, ma ci vogliamo bene veramente. Oggi è venuto a Roma ad accompagnare Livio che ripartiva per Sydney, Livio è il nostro amico di “Luca, piglia ‘o milk ‘a int’o fridge”, e anche se per ora non si capisce,  fidatevi, perché come vi ho premesso uno di questi giorni, magari pure domani, questa storia ve la racconto.
Il lavoro oggi mi ha impedito di essere in giro per Roma assieme a Salvatore e Livio, ma  sono riuscito a raggiungerli a Termini e a salutare Livio prima che partisse per Fiumicino.
Erano più o meno le 5.30 p.m. quando io e Salvatore siamo arrivati alla macchinetta per fare il biglietto per il treno AV delle 18.00, da Roma a Napoli, insomma quello che vedete sopra (io ho l’abbonamento).
Seconda classe. Costo del biglietto 44 euro. Posto non garantito. E infatti abbiamo viaggiato in piedi. Anzi no, Salvatore a un certo punto si è accartocciato accanto alle valigie, nel bagagliaio tra uno scompartimento e l’altro. Gli ho fatto anche due foto, anzi credevo di avergliele fatte, devo aver sbagliato qualcosa, le foto non ci sono e io mi sono preso talmente collera che avevo deciso di non scrivere più il post. Poi mi sono ricordato che Salvatore mi ha dato il biglietto. La prova ce l’ho, mi sono detto, ed eccomi qua.
Voi che direste di un paese che ti fa pagare 44 euro da Roma a Napoli e ti scrive sul biglietto che non hai il posto garantito, che significa guarda che abbamo fatto più biglietti dei posti disponibili, dunque preparati a viaggiare all’impiedi?
Io le mie parole le ho terminate. Anzi no, dico Viva l’Italia. Ma viva veramente. Che io con i miei 55 anni se ci riesco me ne vado a vivere da un’altra parte. Giuro.

Volo nel buio

di Felicia Moscato

Due facce del bene, dell’amore,
come due sono le facce di una moneta;
una porta al bene, l’altra alla morte.

Fatta la scelta non puoi tornare indietro
ed ecco che il viaggio inizia.

L’inconsapevolezza e l’ingenuità
ti prendono per mano
e il buio diventa il tuo miglior amico.

Ad ogni passo la meta è più vicina,
ma sempre più cresce la sua ambigua natura.

Il viaggio è il giusto mix delle sue opposte
componenti: TREPIDAZIONE, ANGOSCIA, SPERANZA,
ILLUSIONE, SOGNO, REALTà.

Arrivi a destinazione,
dopo interminabili momenti di disorientamento.

Cosa vedono ora i tuoi occhi?
Distese immense di menzogne si perdono all’orizzonte,
alberi di disprezzo spuntano al tuo avanzare.

Gli occhi pieni di incredulità e sgomento sono quelli
di chi li ha tenuti chiusi per troppo tempo.

Il viaggio è stato un volo nel buio e ora una luce ti
ha mostrato la cruda realtà.

Guardi indietro giovane farfalla,
vorresti scappare e tornare all’istante della scelta.

Vorresti sentirti dire:
“Gira di nuovo la ruota, sarai più fortunato”,
ma tu sei lì e hai smesso di credere alle favole;
tu sei li e hai solo voglia di tirar fuori le ultime
forze e invertire i poli della tua vita.

La ruota delle opportunità è dinanzi a te,
l’ultima monetina l’avevi inserita prima del viaggio.

Che fai ora? Dove sei diretta?

Il bene che avevi scelto portava alla morte
e tu gli sei andata incontro ballando e cantanto.

Somigliavi più a una di quelle schiave nere che
cantavano, con nostalgia, nelle piantagioni di cotone
americane.

Dispiega le tue ali farfalla, vola via.
Scrollati di dosso l’amarezza, canta una nuova melodia,
riempi di note nuove e dolci il pentagramma del tuo
spartito e non aver paura della paura.

by Felicia Moscato
by Felicia Moscato

Febbraio2009

E’ severamente vietato

by Adriano Parracciani
by Adriano Parracciani

Oggi a Roma mi è venuto a trovare Adriano Parracciani e mi ha fatto 3 regali.
Il primo non ve lo dico.
Il secondo è la tela con la bellissima recensione pittorica di Enakapata, vi assicuro che vista dal vivo è una meraviglia.
Il terzo è il titolo di questo post, me lo ha ispirato mentre mi ha accompagnato a Termini, ricordandomi che l’Italia è l’unico paese al mondo dove non basta dire “è vietato” ma bisogna dire “è severamente vietato”.
La cosa mi ha riportato alla mente  quanto mi è  accaduto qualche giorno fa: passeggiavo con mio fratello Antonio per via Chiaia quando ad certo punto siamo sovrastati dalle grida di un vigile urbano e di un negoziante che litigavano a causa del traffico assordante causato dalla rottura del marchingegno elettronico che permette a un paletto di abbassarsi e di alzarsi a seconda se l’automobile ha o meno il permesso per circolare in quella determinata zona.
Il povero negoziante aveva ragione perché l’inferno che si era scatenato non sembrava destinato a finire. Il povero vigile aveva ragione non solo perché il marchingegno non l’aveva rotto lui ma anche perché stava lì proprio per cercare di tenere a  bada gli automobilisti e per aspettare l’arrivo dei tecnici.
Il commento di mio fratello è stato: gli stessi paletti di Bologna (ci vive da  più di 30 anni); difficile da credere, ma siamo l’unico paese in cui non basta sapere che da una parte non si può passare, bisogna creare una barriera che ti impedisca letteralmente di passare.
Mettete assieme Adriano e Antonio e avete la morale della favola. Ci crediamo i più furbi, siamo soltanto i più stupidi del mondo.

La Napoli che ricordo

di Sabato Aliberti

Sabato Aliberti
Sabato Aliberti

Correva l’anno 1984 avevo poco più di vent’ anni. Per 5/6 mesi, il sabato e la domenica, si andava a Napoli, destinazione:Convento dei Padri Trinitari situato nella Piazzetta Trinità degli Spagnoli, cuore dei quartieri Spagnoli, a pochi passi da via Toledo.
Poco distante, la Galleria Umberto I, il teatro S. Carlo, Palazzo Reale.
Tutti i fine settimana, la nostra auto, una Fiat 127  proveniente dal’Agro nocerino sarnese e carica di secchi di pittura, pennelli e carta vetrata, percorreva indisturbata (il sabato mattina e soprattutto la domenica le vie erano completamente deserte) la strada adiacente  la Galleria e il Teatro per svoltare poi in  di via Toledo e , dopo 100 metri in un vicoletto che portava al Convento dei Padri Trinitari.
Lo zio di un mio amico di infanzia,  responsabile del Convento e da poco ritornato dal Madacascar, dove era stato missionario per una ventina di anni, ci aveva chiesto di dare una mano ad imbiancare  le pareti del convento per renderlo più pulito e accogliente. Aveva intenzione di fittare, a prezzi bassi, le diverse stanze vuote del convento, ai ragazzi stranieri che studiavano a Napoli. Con il ricavato degli affitti voleva risistemare alcune sale del convento, seriamente danneggiate dal sisma dell’80, per farne un centro di aggregazione per i residenti.
Il convento era una magnifica struttura in cui vivevano solo 4 Padri Trinitari, con molte stanze due o tre  sale riunioni e una enorme sala da pranzo, vi era inoltre, una piccola biblioteca piena di libri antichi, anche del ‘400 che, mi ricordo, pulimmo ad uno ad uno con panni morbidi e leggermente inumiditi. Sfogliare quei libri era come entrare in un’altra dimensione temporale. La scrittura a mano, il linguaggio quasi incomprensibile dell’epoca, lo stile ecc..
Fuori, la piazzetta, era un vero e proprio parcheggio di auto per i residenti, i quali, quando arrivavamo,  si adoperavano per trovare un posto anche per la nostra auto.
Ricordo le persone che abitavano in quelle “case”, tutte molto gentili nei nostri confronti e allo stesso tempo diffidenti e guardinghi. In fondo avevamo invaso il loro spazio, le loro case con la porta aperta che dava sulla piazza. La privacy era una parola sconosciuta. Si mangiava e si dormiva nella stessa stanza mentre in una stanza a fianco vi era parcheggiato una barca o un motoscafo. La diffidenza scomparve dopo qualche mese. Ormai eravamo i “nipoti del prete”, e venivamo trattati con rispetto, anzi ogni tanto qualcuno ci diceva “nun vi preoccupat, cà nisciun vi tocca nient, ci stamm nui”.
Ogni tanto il sabato sera restavamo a dormire in convento, per continuare il lavoro il giorno dopo.
La domenica mattina venivamo svegliati sempre dalle urla di qualcuno che chiamava qualcun’altro da un balcone colorato di biancheria stesa. “Signora Amalia” si sentiva ripetere per almeno 5 o 6 volte.
Le persone che abitavano in quella piazza apprezzavano il lavoro che stavamo facendo e non mancavano di farcelo notare, sia quando le incontravamo in qualche bar, nei momenti di pausa per un caffè, che quando venivano a messa la domenica. Spesso vedevo un gruppetto di signore che si fermavano a parlare, piangendo, con il responsabile del convento, nostro “zio” , ma non vi ho mai dato importanza, in fondo era un quartiere povero e sicuramente quelle signore erano là per chiedere qualche aiuto economico. Certo non era una bella zona! Ogni 3 o 4 ore una volante della polizia faceva un giro di perlustrazione in quei vicoletti stretti, a volte “attaccata” a una piccola ape car della nettezza urbana che girava nel quartiere per raccogliere la spazzatura e che costringeva l’auto della polizia ad andare a passo d’uomo.
Qualcuno al mio paese mi aveva detto che era un quartiere pericoloso e che vi vivevano molti delinquenti alcuni dei quali appartenenti alla NCO. Personalmente non mi sono mai accorto di nulla, ne è mai successo qualcosa che mi facesse pensare ad un quartiere pericoloso. Anzi, lo trovavo bellissimo, sembrava una di quelle scene che si vedevano nel film “L’oro di S. Gennaro”, sebbene meno caotico di quello rappresentato nel film.
Una domenica Padre Orlando, così si chiamava lo zio del  mio amico, ci disse di lasciar stare le stanze di sopra e di iniziare ad imbiancare una sala riunioni di fianco alla cappella. Ci chiese se potevamo restare fino al mercoledì perchè aveva bisogno che il salone fosse pronto  in 4 o 5 giorni. La richiesta ci sorprese un pochino. Non erano più importanti le stanze da affittare? A cosa serviva il salone se  non si era neanche pensato a come organizzare un oratorio o un centro di aggregazione giovanile? Non ci ponemmo tante domande, in fondo dovevamo comunque finire di imbiancare tutto il convento!
Mancava ancora qualche mese per finire i lavori. La domenica mattina sembrava ci fosse più gente in chiesa e il gruppetti di signore che prima si fermava a parlare dietro l’altare non si vedeva più. Dopo la messa andavano nella sala riunioni, che avevamo finito di imbiancare una quindicina di giorni prima, dove restavano a parlare per qualche ora.
A settembre, dopo 5 mesi di lavoro, avevamo pulito tutto il convento in modo decoroso. Il nostro lavoro era finito. Mi dispiacque sapere di non poter più tornare il sabato e la domenica. La gente era simpatica e a volte anche divertente, non si curava tanto delle apparenze che, viste dall’esterno, facevano sembrare quell’area un quartiere degradato. Anzi sembravano felici. I vocii, le urla lanciate ai ragazzini che giocavano,  le canzoni napoletane quando si stendevano i panni, creavano un’atmosfera familiare come se vivessero tutti in una unica casa e non in un intero quartiere.
Nel mese di dicembre decidemmo di ritornare per fare visita a padre Orlando, era il periodo pre-natalizio. Non so perchè ma avevo la sensazione che le cose non erano più come qualche mese prima. Sentivamo come se fossimo spiati, controllati.
Padre Orlando ci accolse come sempre amorevolmente. Ci raccontò che era riuscito ad ottenere dei fondi dalla legge 219 per la ristrutturazione del convento, che nel salone che avevamo pitturato, aveva organizzato un Centro dove diverse donne del quartiere, e qualcuna anche da più lontano, si incontravano per discutere dei loro problemi, che le cose erano cambiate e che non potevamo più tornare a trovarlo dato che lui stesso era stato trasferito in Puglia. Ma come dopo solo due anni a Napoli? Dopo aver sistemato tutto il convento e aver ottenuto fondi per la sua ristrutturazione? Dopo aver procurato, a prezzi modici, un posto per dormire a studenti provenienti dall’Africa?
Non ci diede spiegazioni.
Qualche mese dopo lessi sui giornali che a Napoli molte mamme avevano iniziato a denunciare i propri figli tossicodipendenti e che si era costituito un gruppo di donne, nei quartieri spagnoli,  che  i  giornali definirono le “ le madri coraggio”.
Il mio amico Franco mi spiegò qualche tempo dopo che suo zio era stato trasferito perchè era in pericolo. Un uomo, una domenica , dopo la messa, era andato dietro l’altare e aveva consegnato un lungo coltello con la lama retrattile a suo Zio, dicendo che era lì per eseguire un’ordine ma che, dopo aver ascoltato la messa, non se la sentiva più. Consigliò al prete di andarsene e di fretta perché sarebbe venuto qualcun’altro. Gli consegnò l’arma con cui avrebbe dovuto eseguire l’ordine  e sparì.
Padre Orlando fu trasferito pochi giorni dopo.
La Napoli che ricordo io è quella degli anni ’80,. Non quelli della camorra e  degli omicidi. Quella dei cittadini che abitavano a Piazzetta della Trinità degli Spagnoli e che si adoperavano per trovarci un parcheggio, delle mamme che dietro l’altare della cappella confabulavano con il prete e piangevano, del richiamo domenicale alla signora Amalia. La Napoli  delle “madri coraggio”.

Destinazione

di Giancarlo Iorio

Giancarlo IorioTornare un lunedì mattina del ‘73 a Napoli e trovare lo sciopero dei mezzi.
Da piazza Garibaldi sarei dovuto arrivare a Gradini San Liborio, dietro piazza Carità dove avevo alloggio, in una casa vecchia e fatiscente.
Le padrone, la vecchia vedova e l’anziana figlia di un odontotecnico, promosso a dentista nei loro racconti, erano così gentili da non farmi rimpiangere una sistemazione più confortevole.
I pullman sostitutivi erano quelli di linea con i sedili imbottiti e con più posti a sedere, ma con corridoi più stretti, che rendevano difficile farsi largo per scendere alla fermata giusta.
Salii sul 129 rosso, non barrato, sostitutivo, e vidi che i passeggeri erano tutti seduti.
Presi posto anch’io rasserenato che non avrei fatto tardi a lezione.
Al primo posto, vicino all’autista, si era sistemata una donna bruna, rugosa e ossuta, i capelli ricci unti di brillantina, con un rossetto vistoso che sconfinava intorno alla bocca.
Stava lamentandosi in un gramelot assolutamente impenetrabile, con voce roca e concitata. Gli occhi neri che una volta erano stati vispi e furbi fendevano il vuoto davanti a sé.
Non se ne capiva il motivo, visto che era seduta al primo posto e sarebbe potuta scendere senza problemi, il pullman era in orario e non era neppure affollato.
Forse lo sciopero in quanto tale, l’anomalìa, non così rara a Napoli, ma che si andava a sommare alle tante anomalie della sua vita, era forse il motivo delle sue rimostranze.
Seduto al terzo o quarto posto c’era un eduardo, stesso viso scavato e allungato, stessi capelli e stessi baffetti, cappotto grigio di pesante grisaglia e sciarpa di lana, sempre grigia, incrociata sul petto, che usciva due dita appena dal collo del cappotto. Guardava in silenzio serafico a destra e a sinistra, inarcando ora l’uno ora l’altro dei due sopraccigli, con una mimica del volto intensa, manifestazione di un misterioso dialogo interiore.
Ai Quattro Palazzi la signora bruna alzò di un’ottava il tono delle sue lamentazioni, che divennero più esplosive e sincopate. Era chiaramente un soliloquio, non cercava né la solidarietà né l’approvazione degli altri. Forse rispondeva alle sue voci.
Il signore che somigliava tanto a Eduardo dava infine qualche segno di intolleranza e aveva cominciato a ruotare le mani come il maestro di musica davanti a una banda quando vuole sostenere un crescendo.
Erano le otto e mezza, era uscito il sole, il traffico si stava intensificando, un’altra giornata era cominciata.
A piazza della Borsa Eduardo, senza neppure girarsi indietro, alzò la mano destra e il bigliettaio si precipitò, anzi mi sembrò quasi materializzarsi ad ascoltare le sue richieste.
“Voi mi dovete usare una grande cortesia” disse al fattorino, scandendo lentamente le parole, con un fare gentile e al tempo stesso autorevole.
“Dite!”, fece il giovane, allargando le braccia in segno di disponibilità, quasi fosse davvero Eduardo.
“ Dovete dire alla signora che lei ha sbagliato mezzo.”. Pausa. Sguardo furbo rivolto al bigliettaio.
“Lei non doveva pigliare il 129 rosso, ma il 229 rosso”.
Naturalmente non era assolutamente necessario specificare a quale signora si stesse riferendo.
A quel punto il fattorino, con i tempi e la complicità di una spalla, consumata da anni di teatro: “ E perché, il 229 dove va?”
“ A o’ manicomio!!” scandì solennemente Eduardo.
L’applauso crudele che seguì avrebbe fatto cadere il teatro.

I rimossi

di Santina Verta

by Sandro Fichera
by Sandro Fichera

È da giorni che penso a come fare a mantenere viva la memoria delle tante vittime innocenti spesso dimenticate o rimosse. Dimenticate o rimosse non soltanto dalla maggioranza degli italiani, ma anche da chi fa informazione e da chi amministra la giustizia.
Credo che solo ricordarle non basta, forse una rete di parole collettive, servirebbe a dare contorni meno sfumati alle tante vite spezzate.
L’elenco è troppo lungo e le parole rischiano di perdere il valore di ognuno nella banalità della normalizzazione o nell’ipocrisia retorica delle ricorrenze. Il rischio è addirittura che vengano fagocitati dallo stile dissacratorio dei politicanti di turno. Ma è necessario ricordare, è l’unico modo di dare senso a queste perdite.
Attualizziamo il valore di ogni perdita come un dovere civile impellente. Proviamoci!
Incomincio dal ricordare due reporter: Ilaria Alpi e Milan Hrovatin, uccisi in Somalia il 20 marzo 1994 che non erano in Somalia per farsi una vacanza a spese della Rai, come afferma Carlo Taormina, presidente della commissione parlamentare, ma erano in Africa per lavorare, stavano realizzando interviste e girando filmati.
Avevano, soprattutto, intercettato, nell’ultima intervista al sultano di Bosaso, un traffico di sostanze tossico-nocive e di armi che venivano trasportate attraverso i porti italiani di La Spezia, Livorno e Gaeta verso la Somalia, un paese in piena guerra civile. Le navi su cui viaggiavano questi rifiuti e questo materiale bellico erano di una società, la Shifco, che solo formalmente risultava avere l’autorizzazione a importare pesce dall’Europa. In realtà era proprietà di un noto armatore somalo che aveva addirittura ricevuto le sue navi dalla cooperazione internazionale. Il tutto si fa inquietante quando appare l’ombra lunga dei servizi segreti, i quali fanno finta di non vedere un traffico fin troppo evidente. Tutti questi fatti oggi li sappiamo perché ci sono state diverse inchieste, non solo sulla morte di Ilaria Alpi e di Miran Hrovatin.
Migliaia di pagine, di rivoli giudiziari sono stati scritti da diverse procure, da Asti a La Spezia, in Calabria. E i fatti che ne emergono parlano di una sorta di scambio tra rifiuti tossici, che venivano sotterrati o dispersi nel mare della Somalia, in cambio di armi che una volta finivano ad uno dei contendenti ed altre volte finivano al suo esatto rivale.
Un particolare inquietante: dal novembre 1996 la Procura della Repubblica di Asti, specializzata in reati come il traffico internazionale di rifiuti tossici e radioattivi in partenza ed in transito dall’Italia, ha a disposizione una copiosa documentazione che contiene nomi e fatti, ed evidenzia numerose circostanze legate a questi traffici, comprese le generalità dei faccendieri che li dirigono nell’ombra, gli intrecci con i mercanti d’armi e perfino la mappatura completa che dimostra come ai tempi dell’omicidio tutto convergesse sulla Somalia, oltre che sui territori di altri Paesi dell’Africa costiera. Questa documentazione sembra scomparsa nel nulla, forse dimenticata anche dalla stessa Commissione Parlamentare sul traffico dei rifiuti.
Ilaria Alpi era già stata in Somalia prima del 1994, e conosceva bene la situazione, ma è stata eliminata.
Se a uccidere fosse stato semplicemente la mano di un’organizzazione criminale intenta nel salvaguardare i propri meri interessi, gli assassini di Miran e di Ilaria sarebbero stati presi dopo pochi giorni.
Il problema, invece, in questa storia, è lo stesso che riguarda le vicende delle stragi in Italia da piazza Fontana a oggi: la  possibile protezione, da parte degli apparati dello Stato italiano, sui mandanti o esecutori. Quest’ombra fa sì che la verità giudiziaria, e quindi anche quella storica, tardino sempre più a venire. E nella dilatazione del tempo rispetto al momento in cui sono avvenuti i fatti, gli esecutori e i mandanti alla fine la fanno franca, perché proprio il tempo gioca dalla loro parte. Col rischio che anche la gente dimentichi.
Per tutti questi lunghi anni, i genitori di Ilaria, Giorgio e Luciana, hanno cercato di far emergere la verità e ci hanno fatto conoscere Ilaria, quello che era stata come giornalista, come donna, ci hanno restituito la sua grande umanità, la sua passione civile, il suo impegno per la ricerca della verità, il suo amore per l’essere umano, per le donne  e i bambini della Somalia.
Il papà di Ilaria, Giorgio si è spento pochi giorni fa, in questi ultimi sedici anni ha combattuto sempre a fianco di Luciana per arrivare alla verità e alla giustizia sulla morte della loro unica figlia Ilaria. Verità e giustizia che purtroppo ancora non ci sono.
Un saluto commosso a quest’uomo generoso che ha incarnato la determinazione a voler ricordare in un Paese che tende a dimenticare con troppa frequenza.

ILARIA ALPI E MIRAN HROVATIN
sono stati ricordati sabato 20 marzo 2010 nella Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime delle mafie.