Leggi la Storia
Un po’ della mia famiglia


































Un po’ delle cose che faccio
















A Natale hai mai regalato un libro a chi lavora con te?
In fondo un libro vale molto e costa poco. E sta bene anche nella cesta con lo spumante, il panettone e tutto il resto.
Ti dico subito che ti scrivo per un libro in particolare, so che lo apprezzerai, in giro si dice che non ti piace perdere tempo. Si intitola “Il lavoro ben fatto”, lo abbiamo scritto io, mio figlio Luca e mio padre Pasquale, anche se lui non sapeva scrivere, lo chiamava “il lavoro preso di faccia” e il suo nome sulla copertina non c’è.
Ecco, se adesso stai pensando che il mio è solo uno dei milioni di modi escogitati da scaltri venditori per darti fastidio da qui a Natale, ti sbagli.
Lo puoi pensare, non mi conosci e puoi farlo, ma ti sbagli.
Perché nel libro raccontiamo un’idea, un approccio, un modo di essere e di fare che ha già un suo pubblico a livello nazionale, anche nel tuo mondo, imprese di ogni tipo e dimensione. E perché il lavoro ben fatto non è solo questo ma anche una pratica, una maniera per condividere una possibilità e lavorare meglio. È per questo che ti scrivo.
Perché il lavoro ben fatto lo possiamo fare tutti. Perché fa bene alle persone, alle famiglie, alle scuole e anche alle imprese. Perché fare bene le cose è bello, ha senso, è giusto, è possibile e soprattutto conviene. Perché se ciascuno fa bene quello che deve fare, qualunque cosa debba fare, funziona tutto.
Ancora due cose prima di salutarti. La prima: a partire da gennaio, dopo che le persone lo avranno letto, potremmo fare un piccolo workshop online gratuito di un’ora per tornarci su assieme con domande, approfondimenti ed altro. La seconda: anche se tutto questo non ti interessa, a Natale regala un libro.
Un caro saluto, poi ti riscrivo per gli auguri, naturalmente a prescindere.
Le bimbe e i bimbi del i.C. Follonica 1 di Follonica in visita al caseificio con la loro maestra Irene Costantini. Per saperne di più leggete qui.
INDICE STORIE SINGOLE SU INTERTWINE
Nino Anacleria
PROGETTO DI RIFERIMENTO
A scuola di lavoro ben fatto, di tecnologia e di consapevolezza
STAZIONE PICCOLO PRINCIPE
Lavoro ben fatto, tecnologia, consapevolezza: stazione Piccolo Principe
SCUOLA
I. C. Samuele Falco di Scafati
Dirigente Scolastico: Prof. Domenico Coppola
CLASSE
Seconda Media Sezione G
BOARD
Loredana Ricchiari, Elvira de Marco, Vincenzo Moretti
DIARIO
@23 Settembre 2017;
23 SETTEMBRE 2017 Torna al Diario
Caro Diario, il prossimo Mercoledì 27 Settembre ritorno a Scafati, dove, come di certo ricorderai e in ogni caso puoi rivedere qui, l’anno scorso le ragazze e i ragazzi della Prima G insieme alla prof. Loredana Ricchiari hanno fatto un ottimo lavoro.
Ti voglio dire che sono molto contento di tornare a lavorare e a inventarci cose con le/i ragazze/i della 2 G e con le mie amiche e i miei amici prof., e che sono molto contento anche di conoscere il nuovo Dirigente Scolastico, il prof. Domenico Coppola, che ti devo dire la verità quando ho saputo che Anna Pumpo si era spostata a Milano un po’ mi ero preoccupato, perché sai in questo Paese non è mai facile trovare persone che hanno l’intelligenza, la passione e la disponibilità per ricominciare da tre e non da zero, e invece questa volta è accaduto, e ne sono felice assai.
Che ti devo dire amico mio, sarà che quest’anno la prof. Loredana e io speriamo di coinvolgere di più anche la prof. Elvira de Marco e il prof. Giorgio Simeoli, sarà che le/i ragazze/i continuano a chiedere quando incominciamo, sarà che con noi ci sarà Il Piccolo Principe, ma mi sto facendo l’idea che ne vedremo delle belle, e se riusciamo a organizzare tutto come si deve la Secondo G un giorno la portiamo anche all’università. Vediamo, come mi ha detto la prof. Maria D’Ambrosio quando gliene ho parlato, se le cose le possiamo pensare le possiamo anche fare. A mercoledì.
CASI DI STUDIO
2017 – 2018
Il Piccolo Principe all’Università
Il Piccolo Principe al 33° Circolo Didattico Risorgimento
Il Piccolo Principe al I. C. Samuele Falco Scafati
Un tuffo nel passato
Stazione Follonica: I.C. Follonica 1
Stazione Modugno: 3° Circolo Didattico Don Lorenzo Milani
Stazione Porchiano: I. C. Bordiga Porchiano
Stazione Scafati: I. C. Samuele Falco
Stazione Università: Comunicazione e Cultura Digitale 2016 – 2017
Stazione Scampia: ITI Galileo Ferraris
Stazione Roma: Istituto Comprensivo Pablo Neruda
Stazione Torre Annunziata: Liceo Artistico Giorgio de Chirico
Stazione Soccavo: 33° Circolo Didattico Risorgimento
Stazione Ponticelli: I. C. Marino Santa Rosa
Stazione Marcianise: Istituto Novelli
Stazione Nola: Liceo Carducci
LIBRI E BLOG
L’uomo che aggiustava le cose
Il coltello e la rete
#Lavorobenfatto
#LavoroBenFatto. Industria culturale 3.0 e …
Testa, Mani e Cuore
Questo lo avete scritto voi
Ho ritrovato la fotocopia di questo compito di Riccardo qualche sera fa mettendo a posto un po’ di carte. Non serve che io aggiunga altro, se non che tengo due figli stupendi.
Venerdì 19 Marzo 2004
Descrivi il tuo papà
Il mio papà si chiama Enzo ed è molto alto, ha quarantotto anni ed è un po’ chiattoncello e infatti un po’ di atletica gli farebbe bene. Papà ha la testa un po’ ovale e i capelli grigi e un po’ elettrizzati come se avesse preso da poco la scossa. Ha gli occhi marrone scuro come i miei e la bocca larga come una porta e in genere mangia soltanto frutta o vegetali perché sta a dieta. Egli ha le mani morbide come un cuscino e, infatti, quando le tocco le vorrei toccare sempre. Quando ha tempo libero, in genere solo il sabato e la domenica, mi compra delle cose e io lo ringrazio tantissimo. Egli ha scritto molti libri e lavora molto, intanto io penso: sono fiero di te e ti voglio bene.
Domenica si vota da tante parti d’Italia, e mi fa piacere spendere qualche parola per tre miei amici che vorrei tanto poterli votare tutti e tre e però ne posso votare uno solo.
Prima di dirvi chi sono e perché li voterei devo dire però – non sarei io se non lo facessi – che in generale a me questa cosa di votare le persone invece che i partiti non piace, preferivo la situazione precedente, quella nella quale mi riconoscevo in un partito comunità – nel mio caso il Partito Comunista Italiano – e non avrei votato neanche mio padre, mio fratello o mio figlio se si candidavano in un partito diverso dal mio. Ciò detto, vengo al punto.
I miei tre amici sono Osvaldo Cammarota, Francesco Escalona e Tarcisio Tarquini e sono candidati rispettivamente alla Presidenza della X Mucipalità (Bagnoli Fuorigrotta) di Napoli, al Consiglio Comunale di Napoli e a Sindaco di Alatri, in provincia di Frosinone.
Non vi preoccupate, non vi racconto da quando e come ci siamo conosciuti, tutte le cose che abbiamo condiviso, le battaglie, le gioie, le amarezze, anche perché ci vorrebbe un libro e non un post, a pensarci bene un libro per ciascuno di loro. Vi dico solo alcune delle cose che secondo me li accomunano, insomma le ragioni e le motivazioni per le quali li voterei con tutto il cuore tutti e tre e invece posso votare soltanto Francesco, dato che vivo a Chiaia e non a Fuorigrotta, a Bagnoli o ad Alatri.
La prima cosa che accomuna Osvaldo, Francesco e Tarcisio è l’onestà. Lo so, dovrebbe essere una pre-condizione, soprattutto per un amministratore pubblico, ma «dovrebbe essere» non «è» e dunque io lo scrivo. Mio padre usava dire, quando mi parlava di queste cose, «pezzente era e pezzente è rimasto», laddove il concetto di pezzente andava inteso in maniera molto larga, poteva trattarsi anche di una persona agiata che però non aveva mai approfittato dei suoi incarichi per così dire moltiplicare i suoi agi. Ecco, i miei tre amici «pezzenti erano e pezzenti sono rimasti» e a me questa cosa qui «mi» piace assai.
La seconda cosa è che tutti e tre non hanno solo le loro idee – che quello è indispensabile non solo per amministrare la vita pubblica ma proprio per vivere una vita più degna di essere vissuta – ma ascoltano anche le idee degli altri, ma veramente. E se l’idea degli altri sembra loro una buona idea la adottano, la fanno loro, la sostengono, nei limiti delle loro possibilità la portano avanti.
La terza cosa è che Osvaldo, Francesco e Tarcisio le cose che dicono le fanno. Non tutte naturalmente, che quello non ci riusciamo neanche nelle nostre singole vite figurarsi quando amministri una municipalità o una città, però una parte si. E per la parte che non fanno non ti dicono che l’hanno fatta ma ti spiegano perché non l’hanno fatta, e secondo me anche questa non è una cosa da poco.
La quarta è che se proprio devono scegliere tra il più forte e il più debole – che non sempre puoi risolvere con il bene comune – loro scelgono di stare dalla parte del più debole. Non serve disturbare John Rawls e la teoria della giustizia, è che sono fatti così, per cultura, per formazione, per daimon, per codice dell’anima, per streppegna.
La quinta e ultima cosa – che non è che possiamo stare qui fino a Domenica – è che magari tanti queste cose qui le dicono, mentre loro le fanno già da una vita, e non è lo stesso.
Spero tanto che lunedì sia un giorno buono per le cittadine e i cittadini di Bagnoli Fuorigrotta, di Napoli e di Alatri. Buona partecipazione.
Caro Diario, il nostro treno carico carico di lavorobenfatto, di tecnologie e di consapevolezza si è fermato all’Istituto Comprensivo Bordiga – Porchiano di Ponticelli. A te non posso nascondere che sono felice assai. Con la preside Colomba Punzo, che poi fino all’anno scorso è stata maestra, ho una rapporto di lavoro e di amicizia che dura da oltre 30 anni e se tu potessi leggere quello che ha scritto ne Il coltello e la rete ti renderesti conto subito di come funziona e di come lavora. Ad ogni modo, nonostante le mille cose che si è trovata ad affrontare in questo suo primo anno da dirigente in una scuola e in quartiere di frontiera – ma perché a quelli come noi capita sempre così? – ha voluto esserci comunque, e così qualche mese mi ha messo in contatto con il professor Vito Russoniello con il quale abbiamo avviato un percorso di sperimentazione in una seconda media, la sezione C, in attesa di partire poi all’inizio del prossimo anno in maniera più strutturata.
Quello che abbiamo fatto lo puoi immaginare da te: ci siamo incontrati, abbiamo parlato di metodologia, di obiettivi, di possibili risultati e abbiamo stabilito un breve percorso pilota che preparasse noi e i ragazzi al prossimo anno. Vito ne cominciato a parlare con le/i ragazzi e così come ci eravamo detti li ha prima introdotti al concetto – significato di tecnologia, poi ha chiesto loro di fare un elenco di tutte le tecnologie di loro conscenza, poi ancora di dare una loro risposta alla domanda «che cosa sono le tecnologie?» e poi infine di intervistare i loro genitori su questi stessi temi, con una particolare attenzione all’impatto delle tecnologie sui modi di essere e di fare dei loro ragazzi. A proposito, infine è solo un modo di dire perché contemporaneamente il mitico prof. Russoniello – prendendo spunto dal lavoro portato avanti dalla prof. Antonella Tomo, dai suoi colleghi e dai ragazzi dell’Istituto Comprensivo Pablo Neruda di Roma, e complice un imput della preside Colomba – ha ideato un questionario con 12 domande alle quali hanno risposto 100 ragazze/i.
Le domande sono le seguenti: 1. Possiedi un cellulare?; 2. Che uso ne fai?; 3. Possiedi a casa una connessione internet? Se sì come la usi?; 4. Sul cellulare hai internet? Se sì come lo usi? I tuoi genitori lo sanno?; 5. Sei iscritto su un social Network? Se sì, quale? I tuoi genitori sanno che hai un profilo social?; 6. Ritieni importante possedere un cellulare? Se sì, perché?; 7. Lo hai acquistato di persona o è stato un regalo? Se sì, da parte di chi? A che età?; 8. Ritieni di poter “sopravvivere” senza cellulare? E perché?; 9. Il cellulare secondo te è dannoso quando navighi su internet? Se sì, perché?; 10. Il cellulare lo spegni di notte?; 11. Il cellulare lo spegni durante i compiti scolastici?; 12. Secondo te a che età bisogna iniziare ad usare il cellulare? E perché?.
Le risposte sono state elaborate dal prof. che ha sintetizzato così i principali risultati emersi:
«Dati generali: Il 100% degli studenti possiede un cellulare; Il 46% lo usa per telefonare; Il 33% lo usa anche per giocare; Il 71% lo usa per restare in contatto con gli amici e parenti con sms e chat; L’ 84% lo usa per fare foto e video, ascoltare musica o cercare informazioni in rete. L’82% delle famiglie possiede una connessione wifi a casa.
Internet sul cellulare: Il 92 % degli studenti naviga in Internet e usufruisce dei servizi on line, con i genitori consapevoli che essi lo fanno.
Social Network: Il 76% degli studenti ha già un profilo Facebook e/o usa Instagram; Il 51 % dei genitori sa che il proprio figlio ha un profilo sui social, ma solo il 6% di essifa controlli specifici. Il 91% dei genitori ha almeno un profilo sui social.
Importanza del cellulare nella vita quotidiana: Per il 84% il cellulare è stato un regalo e il 16% lo ha acquistato da solo; nel 78% dei casi ciò è avvenuto tra i 10 e i 13 anni mentre per il 21% è avvenuto tra i 7 e 9 anni. Il 37% degli studenti dichiara di non pensare di poter vivere senza cellulare.
Comportamenti rischiosi o dannosi: L’uso del cellulare è considerato dannoso dal 59% degli studenti: Il 45% di loro per la frequentazione di siti non adatti o pericolosi o conoscenze con persone pericolose; Il 22% per la propria salute. Ciò nonostante, viene spento durante la notte solo dal 42% dei ragazzi e solo il 44% lo spegne durante lo svolgimento dei compiti scolastici. Il 26% degli studenti si dichiara infine favorevole a proibire l’uso del cellulare ai minori di 14 anni.»
Stamattina sono tornato a scuola e sono contento assai perché insieme a Vito ho parlato con i ragazzi delle cose che avevano fatto, del contesto nel quale sono inserite, delle cose che vorremmo continuare a fare assieme a loro.
Naturalmente avendo dovuto parlare molto io – però non sempre io, perché comunque mi sono fatto raccontare un po’ di cose da loro, che come sai non è mica facile – ti faccio qui solo una super sintesi delle tre cose che ho detto: 1. quando fai una cosa, qualunque cosa fai, quella cosa ha senso solo se la fai bene; 2. le tecnologie, tutte le tecnologie, non sono nè buone e nè cattive, possono essere usate in maniera giusta o sbagliata ed è questo che fa la differenza; 3. per usare bene le tecnologie, tutte le tecnologie, bisogna farlo in maniera consapevole, non bisogna accontentarsi di sapere «come» fare le cose ma chiedersi anche il «perché» farle.
Come dici? Sono stato in classe quasi due ore per dire solo queste tre cose? Si, perché ho fatto mille esempi – il martello, la leva, la bomba atomica, l’ago, il telofono, skype, il pane, Maradona, Michael Jordan, la pasta e patate, i lacci delle scarpe e tanto altro ancora – perché ci vogliono mille esempi se vuoi dire ai ragazzi che non solo si può imparare a fare bene le cose e a utilizzare in maniera consapevole le tecnologie, ma ci si può abituare a farle così, proprio come ci siamo abituati ad allacciare le scarpe o ad abbottonare la camicia nel modo giusto.
Adesso non mi chiedere dei risultati perché io non sono Batman e il prof. Russoniello non è Superman, per i risultati ci vuole tempo, però un’impressione te la posso dire, che poi magari te la confermo tra una settimana quando ci ritorno, e insomma la mia impressione è che le/i ragazze/i si sono incuriositi, ma sì, almeno un po’ gli siamo piaciuti. Perché poi io come sai sono anche fortunato, e così tra tutte le possibilità che c’erano ho scelto di commentare proprio la frase della mamma di Francesca, che ha scritto: «da quando c’è la tecnologia non si dialoga più».
Come dici? Ho spiegato che non è vero? Niente affatto. Ho fatto l’esempio di un ragazzo e di una ragazza seduti su un muretto che aspettavano l’autobus e ognuno di loro scriveva con il suo smartphone. Ho aggiunto che ho detto al ragazzo «Antonio, ma c’è questa bella ragazza seduta accanto a te e tu ti metti a chattare?» e che lui mi ha risposto «prof., ma io sto chattando con lei». E poi ho fatto l’esempio di quando sono andato a Tokyo la prima volta, nel 1989, e parlavo con la famiglia a casa un paio di minuti, solo via voce, pagando. E di quando ci sono tornato nel 2007 e parlavo mezzora, in video, via Skype, senza spendere un centesimo.
Vuoi sapere come è andata a finire, mio caro Diario? Che quando ho detto a Francesca che deve dire alla mamma che la prossima volta che vuole esprimere quel pensiero lì, proprio quello che ha espresso – che poi possiamo discutere se ci piace o meno ma questo è un altro discorso – non deve scrivere «da quando c’è la tecnologia non si dialoga più», ma deve scrivere «da quando usiamo in questo modo le tecnologie digitali non si dialoga più». Si, questo non ho paura di dirlo, hanno capito tutte/i, anche perché prima quando avevo chiesto che alzasse la mano chi pensava che se con un coltello faccio male a una persona la colpa è del coltello la mano non l’ha alzata nessuno, perché si, era evidente a tutte/i che la colpa era mia che l’avevo usato in quella maniera orribile.
Ecco, potrei anche fermarmi qui, però mentre tornavamo a casa in auto il prof. Russoniello mi ha raccontato una cosa che mi ha fatto così tanto piacere che la voglio raccontare anche a te. Mi ha detto che ieri ha fatto l’esame per l’immissione in ruolo – e noi naturalmente speriamo che se la cava – e che una delle domande a risposta libera chiedeva di simulare un’azione formativa che coinvolgesse i ragazzi e in qualche modo facesse da contrasto all’abbandono scolastico. «Sai Vincenzo cosa ho proposto? – mi ha detto -.» «No!» «Un progetto intitolato Per un uso civico delle tecnologie. Ho spiegato le varie fasi, prendendo spunto dal lavoro che abbiamo fatto in classe, ho motivato le ragioni del coinvolgimento dei ragazzi, ho scritto che questo approccio consapevole alle tecnologie, questa cultura del lavoro ben fatto li avrebbe sicuramente aiutati a dare più senso anche allo studio e alla nostra comunità scolastica. Che dici Vincenzo, ti sembra una buona proposta?». «Buona? A me sembra bellissima. Facciamo così, appena puoi fermati al bar che ti voglio offrire un caffè e una sfogliatella.»
In un certo senso è un ossimoro, nel senso che non si può dire «vado per la prima volta nel paese in cui sono nato», se sei nato lì ci sei stato, è per definizione il primo posto in cui sei stato, però la verità resta che a Cotronei, sulla Sila – al tempo provincia di Catanzaro oggi provincia di Crotone – io ci sono nato eppure ci vado per la prima volta tra due giorni, il primo aprile, a 60, 6 mesi e 20 giorni compiuti.
Non so quante persone abbiano avuto un’esperienza come questa, soprattutto non so come l’hanno vissuta, provo a raccontare come l’ho vissuta io, sperando che vi piaccia.
Per prima cosa voglio dire che tra gli ultimi anni cinquanta e i primissimi anni 60 nelle famiglie come la mia alcune cose c’erano e altre invece no.
Tra le cose che c’erano alcune non sono state importanti, sono state decisive, scrivo solo le parole che per ciascuna di loro si potrebbe scrivere un libro: amore, famiglia, onestà, educazione, lavoro, scuola, rispetto, solidarietà, amicizia.
Tra le cose che non c’erano – naturalmente non proprio del tutto, ma quasi – alcune sarebbe state meglio averne di più ma anche senza poi non è che chissà quanto ci abbiamo sofferto – soprattutto io e Antonio, i due più grandi, che quando sono arrivati Gaetano e soprattutto Nunzia le cose almeno in parte erano già un poco migliorate -, e comunque sia chiaro che i nostri meravigliosi genitori hanno sempre dato tutto per noi ed è anche giusto che alcune delle cose che mancavano in casa poi ce le portassimo noi. Per darvi un’idea tra i miei ricordi c’è la casa di via Savatore Girardi n°1 , una traversa di corso Secondigliano, una stanza di meno di 20 metri quadri gabinetto compreso dove oltre a papà, a mamma a me e ad Antonio è vissuta per qualche anno, fino alla sua morte, zia Giovannina, che immagino fosse zia di mio padre ma non ne sono sicuro. Poi ci sono stati gli anni della casa di via Cupa dell’Arco 41, di fronte al campo di calcio, sempre una sola stanza però più grande con n bagnetto dove è nato Gaetano, dicembre 1962, e dove credo siamo restati fino al 64-65, prima di trasferirci nel nostro primo quartino (appartamento con più stanze) prima nel palazzo Limone, di fianco al cinema Arcobaleno, e poi al corso d’Italia, sempre a Secondigliano. Ricordo i cappottini che passavano dai miei cugini più grandi a me e poi ad Antonio, ricordo che non c’erano libri in casa, o dischi, per i primi anni neanche la televisione, e che c’erano poche foto e persino pochi ricordi, nel senso che non si riusciva mai a sapere con precisione quando era accaduta una cosa, tipo a che ora precisa sono nato, perché zio Peppino era andato a fare il soldato in Africa e dove precisamente aveva prestato servizio, in che giorno era nata mia madre (si, lo giuro), in che giorno si erano sposati papà e mamma (mai saputo), insomma i nostri ricordi di famiglia sono stati sempre avvolti nella nebbia, come se ci fosse poco o nulla da ricordare.
Detto con la mano sul cuore, perché è la verità, che non ricordo mai che mi sia mancato nulla, che sono cresciuto felice con i miei cugini, mio fratello e miei amici senza avvertire complessi, difficoltà, problemi di alcun tipo, nemmeno di essere così lungo e secco perché tanto tutti avevamo un soprannome o un difetto, aggiungo che da grande – nel senso di adulto – mi sono fatto l’idea che questa scarsità – mancanza di ricordi fosse dovuta a due fattori, in parte l’ignoranza che ti faceva dare scarso valore alla memoria, in parte alla voglia di lasciarsi il passato alle spalle, di migliorarsi, di guardare al futuro.
E’ in questo contesto che è nato e cresciuto il mio rapporto con Cotronei. Perché si, è inutile che la fate troppo facile, da un lato io sono napoletanto, di più, Napoli la tengo nel sangue, “mi sono” coltivato la mia lingua nativa molti decenni prima che fosse riconosciuta dall’Unesco, mi sono curato i ricordi, i modi di dire, le espressioni, e ancora oggi anche nelle occasioni più impegnative una parola in napoletano ce la devo mettere per forza; dall’altro il fatto di essere nato a Cotronei non è uno di quei fatti che puoi considerare ininfluenti, almeno per me non lo è stato. Non è questione di anagrafe, di documenti, di stare lì a spiegare che la «R» di Cotronei sta dopo la «T» mentre quella di Crotone sta dopo la «C», che ci voleva pure il cambio di provincia a complicare le cose. E’ questione che il fatto di essere nato in un posto ti lega per sempre a quel posto, almeno per me è stato così, e anche se tu te ne volessi scordare ci pensano le cose della vita a ricordatelo. Come dite? Faccio degli esempi? Come no, posso scegliere fra tanti.
Il tifo calcistico per il Catanzaro quando ero ragazzino insieme a quello per lo squadrone di Serie A, la felicità quando il Catanzaro è salito nella massima serie, le imprese di Palanca.
L’orgoglio quando nel 1980 mi arriva a casa – pochi giorni dopo la mai richiesta – l’estratto di nascita necessario per sposarmi che ancora più della gentilezza e del biglietto di auguri mi aveva colpito l’efficienza del «mio» comune.
La soddisfazione di leggere sull’Unità, un paio di anni dopo, mentre il «mio» PCI, quello di Berlinguer, stava cominciando a cedere pesantemente terreno al PSI di Craxi, che nella «mia» Cotronei avevamo vinto con oltre il 50 percento dei voti. Ricordo che inviai anche un telegramma di felicitazioni al Sindaco di allora.
La gioia che ho provato ogni volta in cui ho potuto dire a un amica o a un amico «sono nato in Calabria, a Cotronei» e la complicità che questa cosa determinava, due esempi per tutti quello di Santina – vecchia amica – e di Rita – amica nuova.
L’iscrizione a un gruppo locale su Facebook, uno dei tantissimi di questo tipo, Sei di Cotronei se, perché volevo cercare una storia di #lavorobenfatto «mio» paese, che mi faceva brutto che tra le tante che avevo raccontato non ce ne fosse una di Cotronei, e infatti l’ho trovata, è quella di Adolfo Grassi, che è solo la prima, e se volete potete leggerla qui. Insomma io, napoletano nel daimon, nell’anima, nella streppegna, Cotronei l’ho tenuta sempre con me, ma «overo», non tanto per dire.
Vengo alla storia recente, che questo post sta diventando un romanzo. Dovete sapere che prima mio fratello Gaetano e poi mia sorella Nunzia avevano avviato un prezioso recupero delle poche e sgangherate foto di famiglia. Va bene, non è stato un processo di digitalizzazione vero e proprio – e quanto siete impicciosi, mamma mia – le avevano fotografate, però questo aveva fatto sì che le potessimo condividere, tenere con noi, farle girare. In particolare Nunzia me ne aveva mandate un bel po’ e tra queste ce n’era una in cui nostra madre giovanissima teneva un bimbo piccolo in braccio su un balconcino.
Ora come vi ho detto in queste materie, cose di famiglia precise precise non ce ne sono, dunque sulla foto niente data, niente luogo, niente. Era evidente che in braccio a mamma potevamo essere o io o mio fratello Antonio, più io che lui, e che era molto probabile che quella fosse Cotronei, ma come è evidente probabile non vuol dire sicuro, potevamo stare anche da qualche altra parte. Così una sera posto la foto che Nunzia mi aveva mandato nel gruppo di Cotronei chiedo se per caso qualcuno riconosce il posto, se insomma la foto è stata scattata a Cotronei, spiegando che sono nato lì eccetera eccetera. Tra i primi a rispondere e a confermarmi il tutto c’è Nicola Fabiano, che non contento della risposta comincia a chiedere in giro e mi scrive che ci sono persone che si ricordano ancora dei nostri genitori, che se vado ci possiamo parlare, che insomma adesso è davvero il tempo che io e Cotronei ci incontriamo.
Nei mesi successivi accadono un sacco di altre belle cose, scopro che il cantante degli Aerosmith ha i nonni di Cotronei, che è stato lì e forse ci ritorna per un concerto, ma questo forse l’avete già letto nel racconto di Adolfo. E poi Nicola mi fa chiamare dal Sindaco di Cotronei a Natale e ci scambiamo gli auguri. E poi un venerdì di un paio di mesi fa lo incontro con Cinzia a Napoli insieme al suo figliolo e finalmente possiamo abbracciarci e stringerci la mano, ma adesso mi fermo qui, tanto in questi giorni avrò modo di ritornarci su. Perché si, ve l’ho detto, io domani vado, se volete venire con me non vi perdete i prossimi racconti.
di Serena Sorrentino
Squilla il telefono, la voce sempre gentile, sommessa, tentenna all’inizio nella richiesta e poi arriva al punto, Vincenzo mi chiede se sono disponibile a scrivere la prefazione alla sua ultima fatica letteraria, raccontando al contempo la mia storia con Napoli e il Lavoro. Non ho alcun esitazione e accetto.
Il compito è arduo, a convincermi da subito è stato quel “con”, la mia storia con la città. È incredibile, ho pensato, non è una casualità, siamo napoletani ed è così, noi abbiamo una storia con la nostra città. Lo scriviamo nelle poesie, nelle pieces teatrali, nelle canzoni, abbiamo una concezione della cittadinanza partenopea che va ben oltre l’identità territoriale, è viscerale, siamo nati e cresciuti, educati alla vita e alla morte dalla città, che non è solo uno spazio fisico, bensì un complesso coacervo di codici e culture che determinano modi di vivere e di relazionarsi che hanno caratteri di unicità. Un napoletano può adattarsi in qualsiasi contesto, è il viceversa a non essere sempre possibile.
Non cambierei la mia vita in relazione alla mia città con nessun altro luogo, che potrebbe al massimo essere una residenza, ma mai una storia di passione.
Nel suo ultimo film, “Passione”, Turturro narra il rapporto viscerale tra la città e la musica, soprattutto ci dice del paradosso della coesistenza di una straordinaria capacità poetica e la crudezza di vita, la profondità nell’utilizzo della tastiera dei sentimenti e la miseria storica nella quale essa è stata esercitata.
Leggendo il libro, o meglio le storie raccolte, la sensazione che ho avuto è stata quella che l’autore volesse farci un regalo: portarci riga dopo riga ad acquisire la consapevolezza che Napoli è in fondo un pezzo determinante per il sé, in ognuno di noi, ed è anche l’insieme, quel non luogo in cui, ognuno di noi, ritrova il proprio agio, con tutte le ferite ed i dolori che l’essere napoletani, vivendo, ci procura. Ho letto una volta in un’intervista ad uno scrittore arabo in visita a Napoli una sua affermazione che mi ha colpito molto: “come può una città così grassa e sporca essere così calda e accogliente?”. Questa è la definizione dicotomica che preferisco.
Lavoro, non lavoro, migrazione, il rapporto con gli studi, con la sofferenza e con la realizzazione lunga e farraginosa di un progetto di vita, le pagine che seguono con la semplicità dell’autonarrazione raccontano di più che delle belle biografie. Ci raccontano con leggerezza e profondità, esercizio non facile, la vita del Paese reale, quello che non fa notizia se non per cronaca, il lavoro, quello vissuto e praticato, anche a Napoli.
Per ciò che attiene me, ad esempio, ho incrociato la rappresentanza sociale per bisogno, per necessità di affermare diritti negati. Le esperienze di lavoro sono state saltuarie e frammentate come per tante e tanti, ma il sindacato prima studentesco e poi dei lavoratori è stato parte determinante.
Quando a 23 anni fui eletta in segreteria confederale della Camera del Lavoro di Napoli, ne volli trarre subito due insegnamenti: il primo era che essere una “novità” non voleva per forza dire essere una “innovazione”, l’altro era che non avrei mai dovuto smettere di studiare perchè il nostro è un mestiere difficile, che ci chiama a sfide sempre più alte, ci porta a rappresentare le lavoratrici e i lavoratori, le persone che hanno dedicato una vita al lavoro e ora si trovano in pensione così come le future generazioni, soggetti in formazione per i quali il precariato rischia di rimanere un’ambizione se non si inverte il pericoloso processo di destrutturazione del diritto del lavoro in atto e non si rimette in moto un meccanismo di crescita e sviluppo, a partire dal Mezzogiorno.
Essere parte di una storia collettiva centenaria che è storia sociale e civile dell’Italia repubblicana, cercare di essere all’altezza del compito, in un’area metropolitana come quella di Napoli, in Cgil, non è stato facile. E anche se sono partita dall’essere una rappresentante degli studenti di un liceo di Arzano, area nord di Napoli, e mi ritrova oggi a essere in segreteria nazionale della Cgil, la più giovane donna meridionale, so che tutto questo non deriva da meriti personali, che prima di tutto è merito di chi, da quando avevo tredici anni, mi ha affidato la delega a rappresentare le proprie istanze, è merito delle compagne e dei compagni che ho incrociato in questi anni di militanza e direzione sindacale, donne e uomini che mi hanno generosamente regalato pezzi di esperienze che in tutta una vita non avrei avuto modo di assimilare, di tutti quei tanti e tante che non mi hanno concesso l’attenuante della giovinezza ed hanno preteso che fossi in grado di sostenere il ruolo, lavorando duramente, e infine anche di lei, della “nutrice”, della mia città a cui ho sempre pensato come a una monade.
Negli anni dell’esperienza territoriale ho avuto esperienze nei settori pubblici, occupandomi della contrattazione sociale e territoriale, in quelli privati, quasi tutti, nel sociale, nella conoscenza, ho girato quasi tutti i comuni dell’hinterland per iniziative e contrattazioni. Quasi, perché ammetto di non essere mai stata né a San Paolo Bel Sito né a Roccarainola.
Posso dire di aver toccato con mano una parte consistente dell’unicità partenopea legata alle dinamiche di governance del territorio e di governo dei processi di sviluppo.
Nelle giornate buone, nelle esperienze negoziali, ho conosciuto innovazione, genio, determinazione, spirito pubblico, etica del lavoro e di impresa, correttezza istituzionale e solidarietà vera. In quelle non buone ho incontrato indolenza, corruzione, malgoverno, affarismo, negazione del valore sociale del lavoro.
Tutta la mia esperienza con la Cgil di Napoli parte e termina in via Torino16. Lì mi recai a tredici anni, rappresentante d’istituto, per incontrare altri rappresentanti e fondare il sindacato degli studenti medi, poi anni dopo con il sindacato universitario. Da lì a Roma, per un anno nell’esecutivo nazionale, ma è sempre a via Torino che tornerò per iniziare la mia più bella ed appassionante avventura, l’esperienza di segretaria della Camera del Lavoro. Da lì infine sono partita per Roma, in Cgil nazionale, prima come responsabile delle pari opportunità ed ora in segreteria nazionale. Via Torino è stata per diciotto anni la mia casa, non il mio luogo di lavoro. Sì, perché quello di sindacalista non è un “mestiere” anche se per farlo devi avere “mestiere”, è una missione.
Di Vittorio, Lama, Trentin, Cofferati, Epifani, interrogati per il centenario rispondono tutti che l’essere sindacalisti e della Cgil vuol dire essere dalla parte degli ultimi, dei poveri, di chi sta peggio. A Napoli significa stare praticamente con i due terzi della popolazione. Le Camere del Lavoro svolgono una funzione sociale, vi arrivano tutte le ansie, si manifestano tutti i bisogni, occorre sempre essere preparati a tutto. Se si vive il proprio ruolo a servizio della causa e degli altri, cosa che ho provato a fare e continuo ad avere come ambizione, si può avere la fortuna di vivere in una comunità vera, con i pregi e difetti dell’animo umano, ma onesta e saziante. Porto con me non solo compagne e compagni di lavoro, di battaglie e di idealità, ma anche amicizie sincere, rarità eccezionali. Facciamo ancora tanto, come Cgil, per mantenere spirito civico, tensione democratica, trasmissione di valori come accoglienza e solidarietà, per dire che anche laddove la povertà dilaga c’è un solo strumento di lotta all’illegalità, alla depauperazione del territorio, alla dismissione produttiva, di costruzione di identità sociali positive: il Lavoro. Spesso in taluni comuni e alcuni quartieri non c’è altro che una chiesa, una scuola e una sede della Cgil.
La crisi profonda in cui è precipitata la città, da lungo tempo, sembra derivare dalla perdita della sua anima; Napoli si è rassegnata, non combatte più, si lascia violare senza reagire.
Le responsabilità non si possono ricondurre a personalizzazioni, piuttosto siamo noi, i napoletani, che abbiamo tradito. La città dei bambini, della normalità, della cultura, della valorizzazione del proprio patrimonio artistico, architettonico, quand’è che ci siamo rassegnati a rinunciare al sogno?
Abbiamo smesso di reagire, individualmente e collettivamente, ed invece è proprio questa la caratteristica principale di cui avremmo bisogno; siamo tutti sindaci, allenatori, imprenditori, ci facciamo sempre i fatti degli altri, partecipiamo alla vita del palazzo, del quartiere, del posto di lavoro, della strada, ma non riusciamo più a vedere la Bella Napoli.
Certo chi ha responsabilità di governo, chi è classe dirigente dovrebbe dare l’esempio, ma questo rischia di diventare un alibi infinito, anche su questo punto concordo con ciò che scrive Vincenzo.
Credo che leggendo le storie raccontate in questo volume ognuno potrà alla fine riconoscersi e condividere le esperienze che vengono narrate, tante diversità, di genere, di generazioni, di ceti sociali, ma alla fine con la stessa ambizione: essere felice, a Napoli.
Pubblicato qualche anno fa su Piazza Enakapata. Però poiché funziona davvero come dice Morpheus a Niobe, nel senso che ci sono cose a questo mondo che non cambieranno mai e altre che invece cambiano, ve lo ripropongo qui.
Sì, con Beppe D. V. funziona più o meno così: la grande casa che accoglie le nostre sere; il pranzo della domenica, compreso il dolce o il gelato a seconda della voglia, e delle stagioni e poi naturalmente chiacchiere e caffè, che quelle proprio non possono mancare; la mia telefonata “sotto sotto” che magari “last minute” fa più chic ma io non faccio sconti e perciò va bene così, per chiedergli se va a pranzo al solito posto che magari lo raggiungo, perché magari c’è lo sciopero dei lavoratori dei trasporti e di andare a Roma non se ne parla.
Diciamo che ieri è andata proprio così: mi sono fatto la mia bella salita a piedi, la funicolare centrale era “out” come tutto il resto, ho raggiunto Beppe alla sua bottega e l’ho trovato come se fosse già pronto che la sua weltanschauung semplicemente non prevede che sia proprio pronto quando tu arrivi.
Spaghetti con i lupini per lui, spaghetti con i polpi per me, acqua minerale liscia a temperatura ambiente che quella fredda che ti brucia la lingua non fa per noi, chiacchiere con i vicini di tavolo.
Adesso non mi chiedete come siamo finiti a parlare delle alici fritte che ho mangiato qualche giorno fa con Cinzia ad Arco Felice perché non me lo ricordo. Vi dico piuttosto del suo mare d’azzurro e d’argento, sì, proprio quello che ti può capitare di ammirare se sei bravo e fortunato e ti ritrovi immerso in un mare di alici azzurre, saltellanti, d’argento, e ti batte forte il cuore di fronte a tanta bellezza.
“Vicié, accade soltanto in certe giornate, con una certa corrente, ti devi trovare nel posto giusto nella maniera giusta nel senso che devi stare in pace con ciò che ti circonda, devi aver gettato il ferro, ma sì, l’ancora, in maniera tale da mettere ‘a varca ‘a currente, insomma non è facile ma quando accade è uno spettacolo”.
Adesso non mi chiedete com’è possibile che di fronte a un racconto così bello, che dico, assai più bello, che come lo racconto io non è mica la stessa cosa, invece di chiudere gli occhi e iniziare a viaggiare su un tappeto di alici volanti io abbia chiesto a Beppe “che significa mettere ‘a varca ‘a currente?”. Sì, non me lo chiedete che mi fate sentire male.
Per me la questione non è la mancanza di animo poetico, è che la voglia di sognare che ho preso dal papà operaio convive con la necessità di rimanere attaccato alla terra, sì, insomma alle cose concrete, che ho preso dalla mamma contadina. E poi aggiungete che nella realtà accade come nella poesia di Pablo Neruda, il Neruda di Siam molti, e così finisce che quando cerco in me il poeta trovo il contadino e viceversa. Uffa, insomma è andata così, voi lo volete sapere o no cosa vuol dire “mettere ‘a varca ‘a currente”?. E allora state zitti, e lasciatemi continuare.
“Vicié, quando con la barca ti fermi in un posto non devi gettare subito l’ancora, devi aspettare qualche minuto, il tempo necessario alla barca per posizionarsi in direzione della corrente.”
“E perché?”
“Perché a far muovere la barca non è il movimento che vedi in superficie, ma quello che avviene in profondità, e se tu butti l’ancora e la barca poi cambia direzione quella può disincagliarsi, si può allontanare dal posto che hai scelto, puoi ritrovarti ad esempio su un fondale diverso da quello che avevi scelto per pescare un certo tipo di pesce e se stai lì per pescare quel pesce la cosa può essere un problema.
Vicié, sono pochi minuti, tu aspetti che si mette nella posizione sua, getti l’ancora, e quella la barca non si muove, la corrente la tira sempre dalla stessa parte. Mò ‘e capito?”
Si, ho capito. Mettere ‘a varca ‘a currente mi piace. E mi piace anche che il movimento sia provocato da ciò che accade in profondità e non da quello che si vede in superficie.
Eh no, mo’ non ci provate, perché mi piace non ve lo dico, in primis perché non è poi così difficile da capire, “in secondis” perché un’altra volta imparate a prendermi in giro per il mio attaccamento alle cose concrete, “in terzis” perché se dico tutto io voi nei vostri commenti cosa scrivete?
Buona partecipazione.
E’ accaduto ieri sera, mentre chiacchieravo via Skype con la mia giovane amica Antonella Romano, a un certo punto mi sono ricordato di mio fratello Antonio, il ferroviere, che poi è il vero intellettuale della famiglia, che un pò di anni fa parlando di nostro padre se ne usci a un certo punto con un “sì, don Pasquale nonostante la quinta elementare è stato uno dei più grandi filosofi del novecento”, che mi fece prima sorridere, poi ridere e infine riflettere.
Anche Antonella ha sorriso, e allora le ho raccontato della filosofia del guaio, che più o meno può essere riassunta così: “Guagliò, cerca di non fare guai; se nonostante l’impegno e la buona volontà non riesci proprio ad evitarlo prenditene la responsabilità e cerca con tutto te stesso di porvi rimedio; se proprio non riesci a porvi rimedio fai un guaio più grande”.
Naturalmente ho aggiunto subito che la filosofia in questione non era certo farina del sacco di papà, che queste cose qui si tramandano da padre in figlio non so da quanto tempo, e che però papà era un sacerdote particolarmente attento all’ortodossia, nel senso che aveva i suoi argomenti per farti capire che non dovevi fare guai, sì, come te lo faceva capire lui non te lo faceva capire nessuno e per convincerti che essere responsabili delle proprie azioni, e delle conseguenze che esse producono, è indispensabile se vuoi crescere, se “vuo’ diventà n’ommo”, come diceva lui.
Antonella mi ha detto “questo lo capisco prof., – sì, continua a chiamarmi così, forse per abitudine forse per i miei capelli sempre più bianchi – quello che non capisco è la faccenda di fare un guaio più grande”, e allora le ho fatto l’esempio di Bush, dei guai che aveva in casa e della guerra santa in Iraq.
Avete ragione prof., in fondo molto spesso succede così, soprattutto quando a fare guai sono i (pre)potenti.
Proprio così, potenti prepotenti, peccato non abbiano consociuto a papà, che altrimenti avrebbero imparato anche a non fare guai e soprattutto, quando li fanno, as assumersene la responsabilità.
Dite che così il mondo sarebbe più bello? E certo, ve l’ho detto o no che papà è stato uno dei più grandi filosofi del novecento?
Amici
Per carità, il programma della De Filippi non c’entra nulla, ci mancherebbe anche questa, al massimo c’entra, ma appena un po’, la canzone di Guccini, quella dove dice “non cerchiamo la gloria, ma la nostra ambizione è invecchiar bene, anzi, direi… benone!”, insomma gli amici di cui parlo sono quelli di Stefania Bertelli, quelli che alla presentazione di Bella Napoli sono venuti per lei più che per me, anche se poi alla fine spero di averli convinti che ne valeva la pena, ma questo l’ho già detto quella sera là.
Ora, poiché i loro nomi non me li ricordo tutti non ne citerò alcuno, neanche quelli dei due amici miei che sono venuti alla presentazione, che tanto i nomi non sono quasi mai importanti, il dare nomi sì, ma quello è un altro discorso. Dirò invece che quello che mi è piaciuto un sacco è stato l’impegno, l’attenzione, la serietà con cui è stato discusso il mio libro, niente banalità insomma, a tratti per me è stata tosta e persino difficile anche se credo di essere riuscito a tenere la rotta, a non perdere il filo del mio discorso, a dire della mia voglia e del senso di raccontare Napoli, e l’Italia, attraverso il lavoro. Ecco, di questa attenzione, serietà, impegno, sono sinceramente grato a Stefania e a tutte/i coloro che hanno partecipato, di più, spero che almeno qualcuna/o di loro trovi la voglia e l’interesse di continuare a interagire, magari scrivendo una recensione o un commento al libro.
Blu
Sì, blu, come il cielo di Venezia, di Conegliano, del Veneto in questi giorni. Difficile immaginare condizioni migliori. Sì, questa volta tocca a Rino Gaetano, il cielo è sempre più blu, Venezia sempre più bella, persino per quelli come me (vedi alla voce Venezia).
Conegliano
Una sbirciata ma proprio una sbirciata su Wikipedia l’avevo data prima di partire, giusto il tempo di leggere della torre del 1200, se ricordo bene, del corso principale, insomma quanto basta per poter dire a Cinzia che anche lì avremmo trovato qualcosa da vedere, per alleviare il suo dolore nel lasciare Venezia. Complice la splendida giornata di sole per le strade di Conegliano abbiamo trascorso una mezza giornata incantevole, ma non è di questo che intendo raccontarvi, nel caso fate come me, cercate su Wikipedia.
Voglio dirvi piuttosto che appena fuori la stazione Cinzia dixit: “questa è una cittadina molto ricca”. “Perché?”. “Guarda quante banche, e poi le auto, tante di grossa cilindrata e quasi tutte nuove di zecca”. Azz, che occhio sociologico che ha la signora. Dieci minuti dopo, mentre Carlo, il marito di Silvana mia cugina, insomma abbiate pazienza che tra un paio di voci farete conoscenza, ci porta a casa sua, gli dico “città molto ricca, questa Conegliano”, e ho come risposta “sì, è ricca, ma adesso è ricca normale, ma prima era ricca ricca, qui fino a dieci anni i soldi camminavano da soli per strada”. Non so perché ma i soldi che camminano per strada mi fanno pensare a Money, la canzone dei Pink Floyd, la differenza tra “ricca” e “ricca ricca” al fatto che non ci sono abituato, che a livello di città dalle nostre parte si usa di più “povera” e “povera povera”. Faccio appena in tempo a pensare che tutto questo è soprattutto colpa nostra, nel senso di noi meridionali, che ci fermiamo all’asilo dove Carlo lavora. Ci dice di scendere, ci fa visitare l’asilo, io penso alla differenza tra “asilo asilo” e “asilo” Cinzia telefona alla sua amica Pina che fa la maestra in un asilo di Bacoli. Ha ragione il mio amico Luca De Biase, non è più tempo di questione meridionale, ci vuole la risposta meridionale, ma di questo ne parliamo un’altra volta.
Fabrizio Ferrari
Fabrizio è l’eccezione che conferma la regola, è l’unico amico di cui parlo, ma non perché è venuto a prenderci all’aeroporto, ci ha portato a prendere il caffè nella sua splendida casa anche se il merito è più della moglie Paula che sua, il merito della casa non del caffè, ci ha accompagnato alla Feltrinelli di Mestre a ritirare le copie del libro spedite dalla Feltrinelli di Milano, ci ha accompagnato a Piazzale Roma ma solo perché a Venezia accompagnarti in auto in centro è tecnicamente impossibile. No, se parlo di Fabrizio è per dire che le nostre discussioni su Napoli e i napoletani sono cominciate ai tempi delle presentazioni di “Come ti erudisco il pupo”, scritto da Salvatore Casillo, Sabato Aliberti and me, a Padova e Trento. Persona colta, critica, attenta, orgogliosa del suo essere veneziano doc, se deve provocarti lo fa senza problemi, come quando ti chiede “ma come fate voi napoeltani a non ribellarvi?”, ma il più delle volte ti stimola, suggerisce, ti propone curiosità come ad esempio martedì 11 marzo 2008 (tranquilli, non è che d’un tratto mi è tornata la memoria, è che sta scritto in “Enakapata, storie di strada e di scienza da Secondigliano a Tokyo”, scritto assieme a mio figlio Luca al ritorno del nostro indimenticabile viaggio in Giappone) quando mi scrive: “Caro Enzo, ti seguo nel blog quotidianamente. Ti confesso che l’idea di un napoletano a Tokyo mi incuriosisce molto. Da Secondigliano al Giappone il salto è grande, mi chiedo come affronterai la cultura nipponica e gli infiniti stimoli della terra del Sol Levante, cosa produrrà la tua mente fertile. Al ritorno potrai raccontarci molte cose di quest’esperienza. In realtà so poco della sociologia giapponese e non conosco gente che ne sappia molto, quando rientri ti inviterò a Padova per tenere una lezione con il maestro di scuola salernitana (Casillo). Penso di non avertelo detto, ma la mia grande passione sono i pesci, ed il popolo giapponese ne è un grande divoratore (140 Kg all’anno pro capite). Mi dicono che una delle attrazioni straordinarie di Tokyo è il mercato ittico, uno dei più importanti al mondo. Se ne hai l’opportunità vallo a vedere, credo che anche dal punto di vista organizzativo sia molto interessante. Sono certo ne uscirai esterefatto. Ti auguro un buon soggiorno in Giappone. Fatti vivo di tanto in tanto. Un abbraccio affettuoso.”.
Ecco, una persona così è davvero meglio trovarla che perderla e insomma visto che non l’ho fatto allora che in un libro sa troppo di sdolcinato lo faccio adesso e gli dico semplicemente grazie.
Flora e Silvana
Flora e Silvana sono invece le mie cugine, figlie di zia Carolina, la sorella di mamma. Certo che lo so che così anche chi arriva qui per caso capisce che sono napoletano, ma mica lo devo nascondere, il fatto che sia molto critico con la mia città non mi impedisce né di amarla né di esserne orgoglioso, e in ogni caso sono stato contento che più contento non si può di rivedere Flora e Silvano, Gigi e Carlo, i loro mariti, Arianna, Tatiana, Carolina, Carmela, Domenico, i loro figli, e poi i mariti e i figli dei figli che come vedete quando comincio coi nomi finisco sempre per dimenticarne qualcuno.
L’ho detto già che i nomi non sono importanti? Meglio. Ciò che importa è che una folta delegazione della famiglia, come si diceva una volta, è intervenuta alla presentazione a Venezia, che nei gironi successivi abbiamo potuto stare un po’ di tempo assieme, che ci hanno accolto con grande premura e altrettanto affetto, non solo Flora e Silvana, ma anche Gigi che si è preso il sabato di ferie per portarci in giro per Conegliano e Carlo che ci accompagnato all’aeroporto di Venezia. Ebbene sì, niente parenti serpenti, soltanto parenti contenti, e sono cose che se le apprezzi ti riempiono il cuore di gioia, e scusate se è poco.
Menù turistico
Viene offerto dappertutto, è l’unica cosa che costa poco, ma giuro che ho mantenuto il punto. Nessuna puzza sotto al naso, ci mancherebbe, funziona come con la fila alla mensa, piuttosto non mangio ma non la faccio, o come con il caffè, se non è in tazza piuttosto non lo prendo, che problema c’è. Nella fattispecie il mio motto è stato “magari mangio una cosa sola, ma la scelgo da me” e Cinzia non ha avuto difficoltà a seguirmi, lei una cosa sola la mangia di default, un po’ perché mangia poco un po’ perché fa a pugni con la dieta. Il primo giorno lei fegato alla veneziana e io coda di rospo con le patate, più un tiramisù che non c’è stato verso di farglielo mangiare da sola, il secondo io filetto e lei lasagne alle verdure affacciati sul Canal Grande a tre metri tre dal ponte di Rialto con le gondole che facevano su e giù. Io per la verità mi sono fatto nuovo nuovo, va bene mi sono rifatto, la sera, leggete alla voce Stefania Bertelli, Cinzia non me lo ricordo, ero troppo impegnato a farmi nuovo nuovo, ma comunque credo di no.
Stefania Bertelli
Sì, c’è voluta Bella Napoli a Venezia affinché con Stefania potessimo fare girare l’interruttore da @mici ad amici. Elegante, affettuosa, discreta, è stata un’ospite meravigliosa e anche un’ottima organizzatrice, perché Cinzia and me non è la prima volta che siamo in giro al di là del Garigliano e dunque lo sappiamo bene che non è facile far partecipare tante persone alla presentazione di un libro.
L’incontro in Campo dei Frari, di fronte alla bellissima chiesa con annesso chiostro, con Cinzia ci avevamo anche provato a trovarlo da soli il teatro dove si presentava il libro, ci eravamo anche andati vicino, ma vicino in questi casi non basta e perciò ho telefonato a Stefania e ci siamo dati appuntamento lì. Le chiacchiere intorno alle mie storie di lavoro, di passione e di rispetto, ma di questo vi ho raccontato già, poi la cena a casa sua, la sua antica cortesia, stoviglie color allegria (Guccini, ancora lui, spero mi perdoni, ma “nostalgia” in questo caso non era la parola giusta). Della pasta e fagioli, dei bisoli al sugo, dell’ottimo vino e dei formaggi e dei dolci rigorosamente veneti non posso che dire un gran bene, ma le due cose due per me indimenticabili sono l’amicizia con la quale siamo stati accolti da Stefania, da suo marito Franco e dagli amici che hanno invitato a cena, perché insomma per tutta la serata io e Cinzia ci siamo sentiti a casa nostra, e quella crema di stoccafisso che non mi ricordo come si chiama ma spalmata sui crostini garantisco che è una delizia delizia. La crema di Stefania, si, per quanto mi riguarda la chiamerò così, ha conquistato la medaglia d’argento all’olimpiade del mio gusto, subito dopo il baccalà fritto, che quello per quanto mi riguarda è l’ultima cosa che spero di mangiare prima di tornare da dove sono venuto.
Stupido hotel
Come sapete è il titolo di una canzone di Vasco Rossi che avevo già usato ai tempi di Enakapata. Perché riproporlo qui? Perché il post di lunedì 3 marzo 2008 finiva così: “la stanza dimensioni casetta di Barbie trasmette un senso di inquietudine. Mentre mi chiudo la porta alle spalle Luca mi dice che quando torniamo conviene tenere le valigie fuori tanto qui nessuno le tocca. Lo guardo con occhi modello non capisco che dici. O noi o loro – chiosa -. Mi sembra difficile riuscire a stare dentro tutti”. Togliete inquietudine e Luca e aggiungete un bagno come si deve con una doccia con idromassaggio e ci siete. Per una notte si può fare, ma come direbbe Totò quelle sono stanze per (uno de)i sette nani, simpatica categoria alla quale però con i miei 197 centimetri faccio fatica ad appartenere.
Venezia
Meglio dirlo subito, a me Venezia non piace, di più, mi inquieta, rieccola la parola galeotta. Fermi, fermi, non ho detto che non è una città incantevole, bellissima, unica, meravigliosa, strabordante di arte e di storia e aggiungeteci pure tutto quello che vi pare, ho detto solo che non mi piace, che mi inquieta. Proprio così. Troppa acqua, troppo scura nonostante il sole splendente, soprattutto troppi turisti, sempre, dappertutto. Giuro che ci abbiamo provato a vagare, a vagabondare, a disorientarci, a bighellonare, insomma a fare come suggerisce Tiziano Scarpa, ma non è mica così facile, 8-9 ore di cammino in due giorni non sono bastati a trovare che dico una strada, un vicolo, senza italiani, giapponesi, cinesi, ucraini, polacchi, olandesi, francesi, americani, aggiungeteci voi qualunque popolazione del mondo che tanto a Venezia la trovate. Ha voglia Cinzia di essere entusiasta, incantata, ammirata, da tanta bellezza, che quando fa così ritorna bambina e diventa davvero una persona speciale, io a Venezia mi sento ogni volta quasi come Antonio, il mercante di Venezia: “In verità, non so perché sono così triste. Mi duole e dite che ciò duole anche a voi; ma io in qual guisa sia pigliato questo affanno, come l’abbia trovato, in che consista, da che sia originato, non so ancora comprendere”. Ciò detto, ammetto che quando ho letto su Wikiquote “Così disposte ai due lati del canale, le abitazioni facevano pensare a luoghi naturali, ma di una natura che avesse creato le proprie opere con un’immagine umana”, firmato Marcel Proust e poi anche “Se dovessi cercare una parola che sostituisce ‘musica’ potrei pensare soltanto a Venezia”, firmato Friedrich Nietzsche mi sono quasi vergognato, ma è stato solo un attimo, alla fine se il primo diritto imprescrittibile del lettore è il diritto di non leggere il primo diritto imprescrittibile del viaggiatore può ben essere il diritto di sentirsi a disagio a Venezia. Punto. E grazie.
ma ‘na pace senza blog. Scherzo naturalmente, con il permesso, spero, del grande Eduardo, perché se sono qua vuol dire che mi piace. Ma un pò faccio anche sul serio, perché nonostante i miei continui tentativi di accorpamento ci sono sempre troppe cose da aggiornare, io non ce la faccio a starci dietro e voi vi stancate, se non vi sto appresso non è che lo scrivete lo stesso un post per le vostre rubriche su piazza Enakapata, o un commento ai miei post su della Leggerezza, insomma io mi ammoscio e voi peggio di me.
Ciò detto, siccome il napoletano secco, nel senso di magro, si fa ma non muore, io ci riprovo, semplifico, sperando di riuscire in questo modo di trovare più connessioni, relazioni, idee, storie, non solo le mie anche le vostre, da condividere con voi. Benvenuti.
Al massimo, stabilito che la pastiera è mia, vi copio la ricetta che mi ha mandato la mitica Maria Paraggio, sociologa, cuoca, poetessa e tanto altra ancora.
Avete preparato carta e penna? Non ci credo. Meglio: siete pronte/i al taglio e incolla? E allora procedete:
Ingredienti pasta frolla: 700 grammi di farina, 2 uova intere e 4 tuorli, 200 grammi di zucchero, 20 grammi di burro o strutto, buccia di limone grat. Un pizzico di bicarbonato, un cucchiaio di buon miele, mezzo cucchiaino di cannella in polvere, un pizzico di sale, una bustina di vanillina, qualche goccia di acqua di fior d’arancio, di limoncello e di rhum.
Ingredienti ripieno: 500 grammi di ricotta cremosa e freschissima, crema pasticcera. 500 grammi, 5 uova intere e due tuorli, una bustina di vanillina, cannella in polvere, fior d’arancio, qualche goccia di strega o rhum, grano cotto raffreddato ( cuocere prima il grano in 150 grammi di latte, 20 grammi di zucchero, 40 grammi di burro, buccia di limone fino a quando non si ottiene un composto cremoso), cedro e scorzetta di arancia canditi a pezzetti ( da aggiungere alla fine).
Lavorazione: Impastare la pasta frolla e lasciar riposare almeno un’ora. Frullare la ricotta con tutti gli ingredienti, tranne il grano cotto e i canditi. Aggiungerli quando si è frullato il tutto, amalgamando il composto.
Foderare di pasta frolla le teglie apposite, dopo averle imburrate e infarinate, versarvi il composto e completare con strisce di pasta frolla. Spennellare la superficie della pastiera con tuorlo d’uovo battuto. Infornare per un’ora a 200 gradi. Spegnare il forno e lasciar asciugare la pastiera nel forno.
Slurp ce lo aggiungo io, assieme alla foto della “mia” pastiera.
Ponticelli. Zona est di Napoli. Un tempo non lontano il cuore operaio della città. Oggi troppo spesso teatro di storie di emarginazione e di violenza. Di droga e di camorra.
Ponticelli. Quartiere difficile. Che non si arrende. Come dimostra la storia che state per leggere, nata per iniziativa della Biblioteca Universitaria di Napoli in occasione della seconda edizione di “Ottobre piovono libri 2007″.
Il progetto si chiama Primo Levi: il lager, la provetta, la fabbrica.
Come nasce ce lo racconta Antonio Borrelli, coordinatore e animatore del progetto.
L’11 aprile 1987 lo scrittore della Shoah muore suicida come altri testimoni che hanno raccontato l’indicibile. È perfino inevitabile che Levi diventi lo scrittore icona della sofferenza interiore dalla quale non si può guarire, lo scrittore di Se questo è un uomo, testimone della più grande tragedia del ‘900. Ciò rischia di produrre però un corto circuito che schiaccia la vita e la figura di Levi tra il lager e il suicidio e di mettere per così dire in ombra una produzione letteraria ricca di suggestioni e di temi anticipatori e in controtendenza rispetto alle mode culturali.
Abbiamo scelto perciò tre i filoni di approfondimento:
la testimonianza del lager (Se questo è un uomo; La tregua; Lilit e altri racconti; I sommersi e i salvati);
il rapporto tra cultura scientifica e cultura umanistica e i risvolti psicologici e sociali di un uso disinvolto delle tecnologie (Storie naturali; Il sistema periodico; L’altrui mestiere);
il tema del lavoro (La chiave a stella), dove Levi scrive che ciò che più avvicina l’uomo allo stato della felicità è lo svolgere un lavoro che piace.
Già nelle opere della testimonianza, soprattutto ne La tregua il tema del lavoro, del suo valore, delle diverse mentalità rispetto ad esso, è trattato attraverso la presentazione di figure eccentriche e bislacche. Ma è con Faussone, l’operaio specializzato protagonista de La chiave a stella che Levi affronta l’argomento e lo fa esaltando la competenza, l’attitudine alla concretezza, la capacità di creare materialmente ordine dal disordine che è tipica del lavoratore non alineato.
Dopo l’iniziativa di apertura dello scorso dicembre, due le iniziative previste a Ponticelli.
Martedì 29 gennaio, alle ore 10,00, presso il Liceo Scientifico “P. Calamandrei”, si terrà l’incontro Scrivere per guarire. Primo Levi, Alda Merini e altri, organizzato dalla Biblioteca Universitaria di Napoli insieme con i Dipartimenti di Salute Mentale delle Asl Napoli 1 e Napoli 4. Un incontro che si propone di far conoscere agli studenti delle scuole superiori, la potenzialità della parola e della scrittura come strumenti di attenuazione del disagio esistenziale e, talvolta, di “superamento” di un forte trauma, come quello di aver vissuto in condizioni estreme: il campo di stermino (Levi) e il manicomio (Merini). In proposito appare particolarmente significativa questa frase di Levi: “Sentivo più ancora che nel Lager l’offesa che avevo ricevuto, e capivo che l’unico modo di salvarmi era raccontare”.
Psicologi e psichiatri dei Dipartimenti di Salute Mentale documenteranno i risultati ottenuti con alcuni pazienti.
Venerdì 15 febbraio, alle ore 17,00, presso la Casa del Popolo, si discuterà invece di cambiamenti organizzativi e culturali nel mondo del lavoro, di incertezze e di identità, di cittadinanza e sviluppo.
Buona partecipazione.
Sapete che il Ministero del Lavoro e l’ISFOL hanno promosso un progetto di e.learning pubblico e gratuito? Che finalmente anche il nostro Paese si sta dotando di un sistema nazionale di formazione via web che copre una vasta gamma di argomenti e si rivolge a tutti coloro che intendono migliorare le proprie conoscenze e competenze?
Proprio così. Il progetto in questione si chiama XFormare. E, secondo Mimma Giaccari, direttore generale ENAIP (capofila del raggruppamento che sta attuando il progetto e che comprende, tra gli altri, importanti enti come IAL, Associazione SMILE, ENFAP, Consorzio Scuola Lavoro), si tratta di un’opportunità formativa di alta qualità, destinata a diversi profili professionali, fondata sull’idea che le nuove tecnologie vanno utilizzate per stimolare l’interazione. Favorire i comportamenti collaborativi. Sostenere il passaggio dalla società dell’informazione alla società della conoscenza. Sviluppare nuovo paradigma cognitivo dinamico e interattivo.
Sullo sfondo?
La strategia di Lisbona. L’idea che le persone possano apprendere lungo tutto l’arco della vita. Sviluppare al meglio le loro capacità e competenze. Realizzare il loro potenziale in quanto di cittadini, membri della società e agenti economici.
Cinzia Massa, responsabile del progetto per Associazione SMILE, tiene molto a sottolineare che X Formare non è solo un catalogo formativo organizzato per unità formative e percorsi, ma anche un sistema teso a favorire lo scambio di esperienze in rete, lo sviluppo di conoscenza condivisa, la creazione di ambienti virtuali di crescita professionale, il collaborative learning.
Il tutto è sostenuto – conclude la Giaccari – dalla possibilità di personalizzare i percorsi, di gestire in modo flessibile i tempi, i luoghi e i modi dell’apprendimento, di facilitare il confronto e lo scambio di conoscenze attraverso le comunità di pratiche, di creare conoscenza condivisa, di favorire la crescita professionale.
Per chi intendesse raccogliere la sfida l’indirizzo è http://www.xformare.it
Per saperne di più scrivere a xformare@smile.it
Diciamo la verità. Siamo stati in tanti a pensarlo. Che l’idea di pubblicare in CD ROM la Divina Commedia recitata da Roberto Benigni e di distribuirla nelle scuole medie superiori è una buona idea. Che ci auguriamo di vedere realizzata al più presto. E che soprattutto ci auguriamo diventi il pretesto, l’occasione, per allargare ulteriormente il discorso relativo all’utilizzo dei nuovi linguaggi per l’apprendimento. Ad esempio sfruttando di più You Tube e la molteplicità di risorse, anche didattiche, che è possibile rinvenirvi. Utilizzando le tecniche tipiche dei videogiochi per insegnare la storia ai ragazzi delle scuole medie. Sfruttando le risorse che gratuitamente sono disponibili su portali come quelli della RAI. Facciamo un esempio? Infine Napoli. La città più di ogni altra maltrattata dalle sue classi dirigenti alla quale vengono dedicate due puntate. Nella prima Gassman racconta Napoli da ”O sole mio alla Livella, passeggia per il parco della reggia di Caserta, mangia la pizza in compagnia di Renzo Arbore. Nella seconda visita Capri, meta preferita di Torquato Tasso, che la declama nelle sue “Rime” e ritorna alla Napoli dove trova rifugio Leopardi negli ultimi giorni della sua vita. Davvero da non perdere. |
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Per Schein studiare un’organizzazione vuol dire studiare la sua cultura, data dall’insieme di assunti che essa inventa, scopre, sviluppa, nel corso della propria storia, per rispondere ai bisogni di adattamento esterno e di integrazione interna. Perché ci sia una cultura organizzativa è perciò indispensabile che ci sia un gruppo che sta insieme da tempo, ha condiviso e affrontato problemi importanti, ha monitorato gli effetti che le diverse soluzioni hanno determinato, ha ideato o scoperto risposte valide (vengono ritenute tali non solo quando risolvono i problemi, ma anche quando riducono l’ansia del gruppo) che vengono trasmesse in quanto tali ai nuovi arrivati.
Più specificamente, Schein sostiene che lo studio di una cultura organizzativa può essere condotto a tre diversi livelli di analisi: A suo giudizio sono proprio gli assunti di base che, combinandosi tra loro in variegati modi, danno conto dell’anima dell’organizzazione, determinano quei sistemi di convinzione che possiedono una loro coerenza interna e fanno in modo che scetticismo, sfiducia, cinismo, non mettano in crisi l’organizzazione o ne minaccino la sopravvivenza. Gli assunti ritenuti validi, capaci di reggere alla prova dei fatti, diventano per l’organizzazione un punto di riferimento e vengono trasmessi ai nuovi componenti come la maniera corretta di percepire, pensare, reagire rispetto ai problemi, tanto quelli relativi all’adattamento con l’ambiente esterno (obiettivi, strategie e mezzi necessari a conseguirli, valutazione delle prestazioni ecc.) quanto quelli relativi all’integrazione interna (capacità del gruppo di funzionare come tale, consenso intorno ai criteri di inclusione e di esclusione dei suoi componenti, distribuzione del potere, definizione di premi e punizioni). I problemi possono essere insomma affrontati solo se gli assunti dell’organizzazione, la sua cultura, funzionano abbastanza bene da essere considerati validi e tocca alla leadership gestire in maniera equilibrata la tensione esistente tra la tendenza alla conservazione del patrimonio consolidato e la spinta all’innovazione, ad esempio definendo percorsi di adattamento reciproco in grado di valorizzare tanto la cultura storicamente consolidata quanto quelle che nuovi componenti o leader portano con sé da esperienze diverse. Fin qui Schein. E voi? Quale è la cultura organizzativa della scuola, dell’università, dell’istituzione nella quale studiate o lavorate? Come si sviluppano i processi decisionali? Quale è il livello di condivisione delle scelte? Quale la capacità di definire strategie, conseguire gli obiettivi, valorizzare il cambiamento, gestire l’incertezza ad esso associato? |
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Irene ha quasi tre anni. Qualche giorno fa Massimo, il suo papà, le ha chiesto se aveva voglia di scrivere la letterina a Babbo Natale. L’idea le è piaciuta tanto. Il suo sì è stato di quelli colmi d’entusiasmo. Cosa è accaduto? Che Massimo è andato in cerca di carta e penna, che quando li cerchi non li trovi mai. Mentre Irene si è precipitata al computer. Immaginiamo che in giro per il Belpaese di Irene ce ne siano tante. E come sempre ci piace sperare che troviate il tempo e la voglia di raccontarcelo. Ma per intanto intendiamo dirvi del nostro sgomento. Di pensieri – come “e se tra qualche anno non sapremo più scrivere a mano?”, “ma davvero siamo destinati a diventare schiavi dei correttori automatici, di quelli che scrivi Bauman (Zygmunt) e te lo trasformano in Barman?”, “cosa accadrà quando i quaderni elettronici non saranno più così costosi?” – che rimbalzavano come palle da bigliardo nella nostra testa. Poi … Jorge Luis Borges. Che ricorda che Andrew Lang diceva che siamo tutti geniali fino ai sette otto anni. Cioé, che tutti i bambini sono geniali. Ma da quando il bambino cerca di somigliare agli altri, va in cerca della mediocrità, e nella maggior parte dei casi ci riesce. Poi … la Storia. Una Storia antica come le montagne. Quella che ci ha fatto incontrare la ruota e la leva. Il telaio e la locomotiva. L’automobile e il computer. Poi … il dubbio. Quello che ci porta a pensare che in fondo non ci sorprende vedere quei libroni grandi scritti dagli amanuensi esposti nelle biblioteche e nei musei; che in fondo ci fa sorridere vedere nei film d’epoca i nostri antenati alle prese con penna inchiostro e calamaio; che in fondo nell’ultimo anno molti di noi “adulti” hanno usato la penna soprattutto per apporre firme o scrivere bigliettini durante le riunioni. Poi … la domanda. Ma la nostra scuola è preparata per aiutare i bambini a non finire preda della mediocrità? P.S. |
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L’appuntamento è per Venerdì 14 dicembre, Università degli studi di Napoli Federico II, Facoltà di Architettura, Dipartimento di Progettazione urbana e di Urbanistica. È L’occasione è il Seminario sulle sperimentazioni didattiche tenute nell’ambito dei corsi di laurea in Architettura da “giovani” docenti a contratto del settore disciplinare composizione architettonica e urbana. Un’iniziativa davvero particolare, della quale abbiamo parlato con Carmine Piscopo, che insieme a Claudio Finali Russo e Stefano Memoli si sono “inventati” un contenitore, Minimadidattica , e hanno lanciato questo “call for cards”, una cartolina, tre domande, millecinquecento caratteri per discutere dello stato dell’arte dei ‘nuovi’ corsi di composizione. Per prima cosa provo a spiegare velocemente che cos’è minimadidattica, ci dice Piscopo. È un gruppo di lavoro, un’iniziativa editoriale, un contenitore di dibattito, un blog. È il tentativo di sistematizzare i numerosi contributi didattici che una generazione di ricercatori, definiti tradizionalmente “giovani” (in relazione non tanto all’età anagrafica quanto, piuttosto, alla condizione precaria), ha fornito in anni recenti nei corsi assegnati con contratto d’insegnamento annuale. Proviamo a fare qualche domanda, ma il nostro interlocutore fa tutto da solo. In un anno vengono pubblicati circa mille nuovi titoli di architettura e urbanistica. Perché pubblicare il milleunesimo? I blog su internet sono milioni, perché editarne uno di più? I seminari affollano il calendario delle Facoltà, perché appendere l’ennesima locandina? L’obiettivo? Partire dal “già fatto” per rileggerlo in chiave critica, assegnando un primato ed una centralità alla materialità dell’architettura, da cui partire di volta in volta secondo punti di vista, tradizioni, prassi operative differenti alla ricerca di un percorso didattico comune. Ce la faranno i “giovani”, brillanti, precari docenti napoletani a cambiare le regole del “loro” gioco? |
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Da queste premesse incontrovertibili dedusse che la Biblioteca è totale, e che i suoi scaffali registrano tutte le possibili combinazioni dei venticinque simboli ortografici (numero, anche se vastissimo, non infinito) cioè tutto ciò ch’è dato di esprimere, in tutte le lingue. Tutto: la storia minuziosa dell’avvenire, le autobiografie degli arcangeli, il catalogo fedele della Biblioteca, migliaia e migliaia di cataloghi falsi, la dimostrazione della falsità di questi cataloghi, la dimostrazione della falsità del catalogo autentico, […] la traduzione di ogni libro in tutte le lingue, le interpolazioni di ogni libro in tutti i libri.
Jorge Luis Borges, La biblioteca di Babele
“Ma come accade”, dissi ammirato, “che siete riuscito a risolvere il mistero della biblioteca guardandola da fuori e non l’avete risolto quando eravate dentro?”
“Così Dio conosce il mondo, perchè lo ha concepito nella sua mente, come dall’esterno, prima che fosse creato, mentre noi non ne conosciamo la regola, perchè vi viviamo dentro trovandolo già fatto”.
Umberto Eco, Il nome della Rosa
La mia biblioteca era per me un ducato grande abbastanza.
William Shakespeare
Non c’è nulla che mi faccia sentir male come la porta chiusa di una biblioteca.
Barbara Tuchman
Erano trascorsi più di cent’anni da quando la biblioteca era stata finalmente completata. L’ultimo direttore, Jorge Louis Groussac, la lasciò, nel lontano 2018, con l’orgoglio di chi sa di aver affidato ciascuno degli infiniti volumi in essa custoditi alla giustizia incorruttibile di un droide di ultima generazione.
Non c’era possibilità di arbitrio. Non era immaginabile l’errore. Il sistema era tanto semplice da risultare perfetto. Chiunque poteva richiedere un libro. Il sorteggio e la consegna erano garantiti dalla procedura prevista dal codice @millenium.star. Ineluttabile, eterna, essa aveva consentito che intere generazioni potessero leggere, o anche solo consultare, volumi di ogni tipo.
Sul pianeta Buc nessuna censura era consentita. Ogni cosa era stata per tempo sottoposta alla perfetta volubilità del Caso. Non era proibito essere felici. Si potevano persino avere desideri.
r2bo@bucplanet.star
L’efficacia di un’organizzazione è data dalla sua capacità di raggiungere gli obiettivi prefissi, l’efficienza dalla sua capacità di soddisfare le esigenze espresse da ciascun componente in quanto parte del sistema cooperativo.
L’autorità del dirigente, o del manager, non può che essere a propria volta formale, legittima, discreta, forte solo in quanto capace di attivare processi di cooperazione e ottenere consenso da parte di chi è destinatario del comando e deve all’occorrenza eseguirlo. Per essere eseguito l’ordine deve essere comprensibile, consono ai fini dell’organizzazione, compatibile con gli interessi legittimi delle persone che devono eseguirlo, eseguibile da parte delle persone a cui è diretto. Dal momento che la coercizione non è in nessun caso una risposta alla mancanza di autorità e non genera consenso, chi dirige non può essere un burocrate che impone ordini a dei meri esecutori di compiti, ma un manager dotato di senso di responsabilità, in grado di determinare chiaramente i fini dell’organizzazione, di garantire le risorse per il suo funzionamento, di assicurare un corretto e efficiente sistema di comunicazione, di gestire il rapporto tra contributi (ciò che chi lavora dà all’organizzazione ) e incentivi (ciò che chi lavora riceve dall’organizzazione) in maniera tale che si allarghi la disponibilità delle persone a rispondere alle indicazioni che si ricevono. Così scriveva Chester I. Barnard alla fine degli anni 30 del secolo breve con l’occhio rivolto naturalmente al mondo dell’industria (Le funzioni del dirigente: organizzazione e direzione, Introduzione di Franco ferrarotti, UTET, Torino). E nel mondo dell’università e della scuola oggi? Forse non sarebbe male discuterne. |
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Numerose le iniziative della Feltrinelli per festeggiare i 50 del Dottor Živago, a partire da quelle più “naturali”, come la pubblicazione di una nuova edizione del celeberrimo romanzo (2 milioni di copie vendute nel nostro Paese), con una nuova traduzione dall’originale basata sull’edizione delle opere complete del 2004 curata da Evgenij Pasternak e l’ormai immancabile DVD che in questo caso propone però immagini esclusive di Boris Pasternak nella sua casa e un documento (dagli archivi RAI) nel quale Italo Calvino, Ignazio Silone, Vasco Pratolini, Giangiacomo Feltrinelli, Angelo Maria Ripellino, Carlo Muscetta, Nicola Chiaromonte, Paolo Milano, Gianni Granzotto, discutono del “Caso Pasternak”.
Da oggi 26 novembre a partire dalle 17.00 e per tutta la giornata di domani si svolgerà invece, al Centro Congressi della Fondazione Cariplo, Via Romagnosi 6, Milano, il convegno internazionale dedicato al grande scrittore russo e alla sua opera. |
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Liguria, 13 scuole monitorate: 7 sono state giudicate appena sufficienti in termini di sicurezza, cinque discrete e una buona; le scuole liguri possono contare su 1,6 milioni di euro messi a disposizione nel 2007 dallo Stato per la sicurezza antisismica (SA 2007) e su un fondo triennale (2007-2009) di 16,5 milioni di euro cofinanziati da Stato ed Enti locali per la manutenzione ordinaria e straordinaria (MOS 2007-2009).
Lombardia, 32 scuole monitorate: 4 sono state giudicate appena sufficienti, 19 discrete e 9 buone; le scuole lombarde possono contare su 600 mila euro SA 2007 e su 83,6 milioni di euro MOS 2007-2009.
Piemonte, 12 scuole monitorate: 8 sono state giudicate discrete e 4 buone; le scuole piemontesi possono contare su 1,4 milioni di euro SA 2007 e su 44.6 milioni di euro milioni di euro MOS 2007-2009.
Lazio, 10 scuole monitorate: 2 raccolgono un giudizio insufficiente, 5 appena sufficiente, 3 discreto; le scuole laziali possono contare su 18,8 milioni di euro SA 2007 e su 61,2 milioni di euro MOS 2007-2009.
Marche, 15 scuole monitorate: 3 hanno raggiunto un giudizio appena sufficiente, 7 discreto e 5 buono; le scuole marchigiane possono contare su 8,9 milioni di euro SA 2007 e su 20,4 milioni di euro MOS 2007-2009.
Calabria, 35 scuole monitorate: 7 hanno un punteggio insufficiente, 18 appena sufficiente, 9 discreto, 1 buono. Le scuole calabresi possono contare su 39,7 milioni di euro SA 2007 e su 52,8 MOS 2007-2009.
Campania, 10 scuole monitorate: 8 hanno registrato un risultato discreto in termini di sicurezza e 2 buono; le scuole campane hanno a disposizione 43,4 milioni di euro SA 2007 e su 90,7 milioni di euro MOS 2007-2009.
Puglia, 13 scuole monitorate: 7 hanno raggiunto un giudizio complessivo appena sufficiente e 6 discreto; le scuole pugliesi possono contare su 4,3 milioni di euro SA 2007 e su 55,7 milioni di euro MOS 2007-2009.
Sardegna, 8 scuole monitorate: 1 scuola ha un punteggio insufficiente, 5 appena sufficiente e 2 discreto; le scuole sarde possono contare su 28,9 milioni di euro MOS 2007-2009.
Sicilia, 21 scuole monitorate: 1 scuola raccoglie un giudizio insufficiente, 2 appena sufficiente, 10 discreto e 8 buono; le scuole siciliane possono contare su 35 milioni di euro SA 2007 e su 82,2 milioni di euro MOS 2007-2009.
Sono questi i dati principali suddivisi per regioni presentati nel V Rapporto nazionale sulla sicurezza delle scuole, realizzato mediante l’elaborazione dei dati raccolti in fase di monitoraggio dai monitori civici (genitori, insegnanti, gruppi di alunni, talvolta gli stessi dirigenti scolastici) di Cittadinanzattiva, movimento di partecipazione civica che opera per la promozione e la tutela dei diritti dei cittadini e dei consumatori,
A livello nazionale dal Rapporto emerge che: il 44% delle scuole è collocato in zone a rischio sismico, il 9% in zone a rischio idrogeologico, il 7% in zone ad elevato inquinamento acustico; nel 13% dei casi esaminati si sono verificati episodi di criminalità, nel 15% di bullismo e nel 30% atti di vandalismo; nel 27% delle mense, il 26% delle segreterie e il 21% delle sale professori si sono riscontrati crolli di intonaco; barriere architettoniche di varo tipo rendono difficilmente accessibili il 30% delle biblioteche, il 25% delle mense, il 21% dei servizi igienici; 71 delle 184 scuole esaminate non hanno una palestra e anche dove la palestra c’è sono del tutto assenti le attrezzature per gli studenti disabili; nel 41% delle scuole censite manca infine il certificato di agibilità statica, nel 43% quello di agibilità igienico-sanitaria e nel 52% il certificato di prevenzione incendi.
La città è Reggio Emilia. L’istituto il Liceo Linguistico Matilde di Canossa. La classe la 5°A.
La prof. è Lorena Mussini. Loro sono Sara Pensieri, Giulia Grasselli e Marika Benevelli. Hanno circa 18 anni. Hanno lavorato ad un percorso di ricerca sulle donne reggiane. Sul loro ruolo nella Resistenza.
La ricerca è stata l’occasione per parlare del rapporto tra i giovani e la storia. Delle ragioni e delle motivazioni che li possono spingere a impegnarsi in lavori di questo tipo. Le risposte di Sara, Giulia e Marika non sono state affatto banali. Leggere per credere.
Sara è partita dai suoi nonni, dalla loro militanza tra le fila partigiane. Dall’idea che partecipare alla ricerca l’avrebbe aiutata a comprendere più a fondo la loro vicenda umana e a comunicarla meglio ad altre persone. Ha aggiunto che si è trattato di un’esperienza che ha soddisfatto pienamente tutte le sue aspettative e alla domanda, insidiosa, relativa al come fa a dirlo, ha risposto senza pensarci un attimo “lo posso dire perché è stata un’esperienza che mi ha emozionata. E mi ha permesso di apprezzare di più quello che ho. Le cose di tutti i giorni così come la libertà”.
Giulia dà un’impronta diversa al suo racconto. Dice di aver sempre avuto un forte interesse per la storia, soprattutto quella recente, che sente più vicina al mondo nel quale vive, che vede più facile da “monitorare” rispetto ai risultati che produce. L’esperienza l’ha soddisfatta soprattutto perché ha condiviso ed in un certo senso vissuto una storia che diversamente non sarebbe mai potuto essere “sua”.
Marika pensa che la storia è difficile da apprendere e allo stesso tempo affascinante perché è un modo diverso e diretto di capire perché sono accadute delle cose e quali conseguenze hanno avuto. Aggiunge che alle medie aveva già raccolto una testimonianza di un partigiano nonno di un suo compagno di classe e che in famiglia non ha esperienze dirette. Conclude dicendo che l’aspetto più bello dell’esperienza fatta è quello che si riferisce al rapporto umano stabilito con la signora intervistata.
Ma forse è venuto il momento di svelarvi come si è svolta la ricerca.
Innanzitutto le ragazze hanno seguito lezioni specifiche di preparazione su questo argomento (8 ore con esperti oltre all’attività didattica condotta direttamente dalla prof.); poi hanno pensato alle domande da fare alla testimone; poi c’è stato un primo incontro preliminare con la signora; infine c’è stata l’intervista (ripresa e montata da un vero regista).
La prof. Lorena Mussini è stata attenta fin qui a non dire nulla. Si vede che ci tiene che ad essere protagoniste siano le “sue” ragazze. Ma noi vogliamo saperne di più sulle sue ragioni e motivazioni.
Ci dice che a lei sembrava importante innanzitutto che le memorie delle ragazze di allora si intrecciassero con quelle delle ragazze di oggi.
Ci racconta che la signora intervistata faceva parte della rete di supporto delle donne. Dava ospitalità ai latitanti. Dava senso al suo rifiuto dell’orrore. Il dvd con le cinque testimonianze raccolte è stato intitolato “Dalla guerra alla conquista dei diritti: le donne si narrano” anche per sottolineare questo aspetto comunicativo, di passaggio del testimone.
Fare, essere partecipi: la storia imparata così si impara meglio. Si recupera l’interruzione di memoria in atto a livello di famiglia e di società. Si rafforzano le relazioni tra generazioni.
La storia è anche per questo importante.
State pensando di fare uno stage? È sicuramente una buona idea. A patto naturalmente di farlo in una organizzazione (azienda, associazione, istituzione, ecc.) davvero interessata a valorizzare le vostre conoscenze e competenze, tacite ed esplicite.
Ma non è di questo che intendiamo parlarvi. Ma della possibilità di giocare con le parole. Con la loro origine (etimologia). Le famiglie. I prestiti e i forestierismi. Le locuzioni e i modi di dire. Le preposizioni e le reggenze. I sinonimi. Per esempio “Stage” è una parola inglese, francese o tedesca? Restiamo naturalmente in tema per segnalarvi Aenegmatica, con tanti giochi, dai “classici” cruciverba, rebus, ecc. ai giochi interattivi per grandi e piccini e la sezione giochi di Bibliolab, Lettura, Storia, Scienze, laboratori per docenti e studenti della scuola di base. Infine, a tutti coloro che hanno voglia di saperne di più senza perderci la testa consigliamo le pagine dedicate da Wikipedia a “Esercizi di stile” di Raymond Queneau, dove potrete cominciare un viaggio davvero interessante alla scoperta del le novantanove varianti stilistiche (enigmistiche: anagrammi, apocopi, aferesi, permutazioni delle lettere, lipogrammi, ecc.; retoriche: litoti, metafore, apostrofe, ecc.; linguaggi settoriali: geometrico, gastronomico, medico, botanico, ecc.; gerghi e lingue maccheroniche: anglicismi, francesismi, volgare, ingiurioso, ecc.; varianti di tipi testuali: testo teatrale, tema scolastico, interrogatorio, poesia tanka, sonetto, telegrafico, ecc.). Buona navigazione. |
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E’ nata a Napoli la “tube school” fatta dai ragazzi
Vero. Oggi più che mai. Napule è mille culure. Come cantava Pino Daniele nel suo mitico album d’esordio (l’anno era il 1977, l’album era Terra mia, “Napule è” era il pezzo d’apertura).
Napoli è i colori di una speranza che troppo spesso sembra destinata a perdersi come lacrime nella pioggia (ancora una citazione, l’anno questa volta è il 1982, il film è Blade Runner, la scena quella finale).
Napoli è i colori di stati di essere, e di modi di fare, che ricordano sempre più da vicino quelli dei marinai imbarcati a bordo dei legni e dei bastimenti della Real Marina Borbonica allorquando, in occasione delle visite a bordo delle Alte Autorità del Regno, veniva loro impartito il comando “Facite Ammuina” (“All”ordine Facite Ammuina: tutti chilli che stanno a prora vann” a poppa e chilli che stann” a poppa vann” a prora: chilli che stann” a dritta vann” a sinistra e chilli che stanno a sinistra vann” a dritta: tutti chilli che stanno abbascio vann” ncoppa e chilli che stanno ncoppa vann” bascio passann” tutti p”o stesso pertuso: chi nun tiene nient” a ffà, s”aremeni a ”cca e a ”llà”).
Napoli è i colori della voglia di provarci ancora. Di ricominciare. Almeno da tre (l’omaggio è naturalmente al grande Massimo Troisi).
Facciamo un esempio?
Provate a cliccare su www.youschool.it.
E vi ritroverete nella home page del Progetto YouSchool – la bella scuola.
L’idea?
Come scrivono i promotori dell”iniziativa, “Avvicinare i ragazzi alla scuola utilizzando gli strumenti a loro più familiari. Dare ai ragazzi uno spazio dove raccontare le loro esperienze tra i banchi”.
Gli obiettivi?
Contrastare l’idea, e la pratica, di una scuola alla deriva, ferita a morte da mquotidiane storie di bullismo e di inciviltà.
Fare in modo che siano gli stessi ragazzi, attraverso l’inserimento di video girati da loro stessi sul tema la bella scuola, i principali protagonisti di questa inversione di tendenza, di questo messaggio positivo, di questo tentativo di consolidare idee e modi di fare propositivi.
Contribuire ad affermare un’idea di scuola dove gli elementi di comunicazione e di socializzazione sono una componente fondamentale del processo di apprendimento.
Buona navigazione.
Ancora l’e-learning sotto le luci della ribalta. L’appuntamento è questa volta per il 15 e 16 ottobre 2007 al Centro Congressi di Lisbona. L’evento è “eLearning Lisboa 2007: Delivering on the Lisbon Agenda”. Ha lo scopo di valorizzare le buone pratiche realizzate e di promuovere e sostenere ulteriori sperimentazioni e innovazioni a livello internazionale. È patrocinato dalla Presidenza di turno portoghese dell’Unione europea. Realizzato con il sostegno delle Direzioni Generali Istruzione e Cultura, Imprese e Industria, Società dell’Informazione e Mezzi di Comunicazione dell’Ue. Rivolto non solo a insegnanti, formatori ed esperti di apprendimento ma anche a funzionari e dirigenti della pubblica amministrazione, dirigenti aziendali e responsabili delle risorse umane. In quali modi l’eLearning, e le tecnologie dell’informazione e della comunicazione più in generale, possono determinare processi di inclusione? E sostenere processi di apprendimento permanente, di innovazione nella gestione delle conoscenze formali e informali, di miglioramento delle prestazioni delle persone, delle organizzazioni, dei territori? È per rispondere a queste domande che delegati e partecipanti si ritroveranno nel corso della due giorni a discutere in particolare di: 1. coesione digitale e sociale (e-government, accessibilità, usabilità, ecc.); Cinque le aree a disposizione per incontri, conferenze, dibattiti: Detto che sul sito potete naturalmente trovare il programma dettagliato e tutte le modalità per seguire, anche online, l’evento, segnaliamo il seminario organizzato dalla Rete di Eccellenza Kaleidoscope per martedì 16 ottobre, dalle 14.00 alle 15.00 presentato dagli organizzatori come un’occasione è veramente utile per esprimere il proprio punto di vista nella individuazione delle priorità che la ricerca dovrebbe perseguire in materia di eLearning, per fare in modo che modo le scuole possono essere coinvolte nella loro definizione, per trasformare i risultati della ricerca in azioni positive e buone pratiche nella scuola. Buon apprendimento a tutti. |
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Ogni tanto vale la pena farlo. Evitando fatti e ragionamenti. Lasciando spazio al genio. E al gioco. Il genio è naturalmente quello dei filosofi, scienziati, scrittori, pensatori citati tra qualche riga. Il gioco è quello di inseguire un filo conduttore. Per questa volta l’intelligenza, il talento, la conoscenza. È un gioco che ci piacerebbe continuare ancora. Con le vostre citazioni. Gli incipit. Gli aforismi. Tutto quanto avete letto e almeno per un momento vi ha commosso. Colpito. Eccitato. Buona lettura. Ludwig Wittgenstein: Il talento è una fonte da cui sgorga acqua sempre nuova. Ma questa fonte perde ogni valore se non se ne fa un giusto uso. |
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L’occasione è Tecknos 1.0. Due giornate di idee, progetti, iniziative promosse dall’omonima Associazione che avranno come filo conduttore il concetto e la pratica dell’innovazione, dalla robotica alla domotica, dall’informatica a Internet. Davvero tanti gli ospiti e le occasioni per conoscere, approfondire, creare connessioni e relazioni. È Laura Marchini, presidente di Tecknos, a rimarcare che il mondo della scuola è da sempre uno degli interlocutori fondamentali dell’Associazione. Più presto ci si avvicina alle nuove tecnologie, prima si prende confidenza con le loro straordinarie potenzialità anche sul terreno del sostegno dei processi di socializzazione e di apprendimento, tanto più le nuove generazioni saranno in grado di gestire invece che subire il cambiamento. Il progetto Bee-Bot è uno dei prodotti di questa impostazione. Di cosa si tratta? Abbiamo pensato al Bee-Bot (un automa assai sofisticato, che non ha niente a che vedere con un semplice giocattolo che si illumina, suona e si muove) – aggiunge Laura Marchini – come a un semplice, spontaneo, straordinario strumento formativo. Per cominciare saranno interessate alcune classi delle scuole di Sarzana (La Spezia) e di Fosdinovo (Massa Carrara). Naturalmente – conclude Laura Marchini – i nostri programmi per la scuola non si fermano alle materne, come dimostra la nostra pluriennale collaborazione con le Università e con le scuole medie superiori. Dietro l’angolo? |
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Napoli. Fine settembre. Presentazione di un volume sull’università a La Feltrinelli Libri e Musica si Piazza Dei Martiri. A seguire il dibattito. Particolarmente acceso. Come peraltro era prevedibile. Dato il tema.
Al centro della discussione ci sono infatti i tratti salienti della condizione del nostro sistema universitario al termine del primo ciclo di applicazione della riforma del 1999, che avrebbe dovuto elevare il livello del nostro sistema universitario e, insieme, metterlo in condizione di operare in modo più razionale, efficace ed efficiente rispetto al passato; la crisi profonda nella quale versa invece la nostra università, caratterizzata da incongruenze, errori, furbizie, favoritismi e perversioni di ogni tipo; le decisioni da prendere per definire linee e regole serie, il più possibile condivise, di riprogettazione sia dell’assetto complessivo degli studi universitari nel nostro Paese sia delle prospettive del loro sviluppo.
La mattina dopo trovo nella mia casella la seguente mail:
“[…] Mi è dispiaciuto moltissimo andar via e non aver ascoltato le risposte ai tanti quesiti posti dal pubblico.
In realtà anche io avrei voluto fare un piccolo intervento ma, anche un pò per timidezza, non mi sono esposto.
Ciò che avrei voluto fare è aprire una piccola parentesi su quelle che sono le conseguenze di questa condizione universitaria; parlare degli effetti malefici che tutto ciò che è stato oggetto di dibattito questa sera finisce con l’avere quando, terminati gli studi, bisogna fare il gran passo verso il mondo del lavoro.
Ad esempio nell’azienda per la quale lavoro (una società di ingegneria di oltre mille dipendenti dove la ricerca industriale è pane quotidiano e l’innovazione del prodotto è il core business) accade sempre più spesso che si preferisce esaminare un diplomato a massimo punteggio che un laureato del nuovo ordinamento, con il risultato che la percentuale di laureati in azienda, che superava il 90% fino al 2002, è oggi dell’85%, a parità di organico.
Il dato mi sembra estremamente preoccupante. E ancora di più lo è il fatto che le nuove generazioni si affacciano in un contesto lavorativo di tipo globale avendo molte carte in meno a propria disposizione a causa della inadeguata preparazione rispetto ai colleghi europei”.
Che dire?
Che di fronte a considerazioni di questo tipo si rischia di rimanere senza parole.
Che c’è da sperare che l’azienda nella quale lavora F. C. rappresenti un’eccezione e/o che le sue scelte derivino da ragioni diverse da quelle che egli prospetta (agevolazioni finanziarie, minor costo del lavoro ecc.).
Che ciò che è certo e che la riforma che doveva portare le nostra università in Europa e soprattutto doveva consentire ai nostri giovani di trovare più facilmente lavoro sta clamorosamente fallendo su ambedue i terreni.
Che contiamo di scoprire, anche con il vostro aiuto, se davvero i diplomati trovano lavoro nell’industria prima dei laureati di primo livello.
Fateci sapere cosa ne pensate.
E segnalateci casi ed esempi concreti di cui siete a conoscenza.
Mettete assieme due scienziati come Francis Collins, già capo del Human Genome Project, e Richard Dawkins, famoso anche presso il grande pubblico per il suo approccio divulgativo e i suoi libri (un esempio per tutti, Il gene egoista, Mondadori). Fatto? Bene. E adesso provate a farli confrontare su un tema quanto mai difficile. Forse il più difficile di tutti. Quello che si muove intorno alla domanda se la scienza può davvero mettere in discussione l’esistenza di Dio. Infine provate a chiedere al pubblico cosa ne pensa. Punto per punto. Con tanto di click sul faccione (disegnato) dell’uno o dell’altro scienziato. Wired l’ha fatto. E forse vi interesserà sapere che 1095 lettori sono stati d’accordo con l’idea di Collins che “Dio è la risposta a tutte le domande relative al come è cominciato” a fronte dei 9869 che si sono detti d’accordo con Dawkins che ritiene che “Questa è un’incredibile fuga dalla responsabilità di trovare spiegazioni; che gli scienziati non possono fermarsi a questo, ma debbono poter dire ci stiamo lavorando su”. Detto che se volete saperne di più non dovete fare altro che collegarvi con il sito della più famosa rivista digitale del mondo, si può aggiungere che l’idea appare potrebbe essere di grande utilità per sviluppare la partecipazione e l’interesse di chi studia. Soprattutto se quest’ultimo viene messo in condizione di esprimere non soltanto un voto ma anche un’idea, un contenuto, un’opinione. Abituare i nostri ragazzi a contribuire con le proprie idee al confronto tra opinioni e posizioni diverse non è solo un ottimo modo per aiutarli a diventare cittadini, a battersi per le proprie convinzioni e ad avere rispetto per quelle degli altri, ma è anche un ottimo modo per aiutarli a imparare. Coinvolgere scenziati, filosofi, giuristi, imprenditori, artisti famosi aiuta. Ma in fondo non è obbligatorio. Nè bisogna finire per forza su Wired o su Nature. Possono bastare un blog o un wiki. La voglia di discutere utilizzando testi, immagini, video. Sfruttando almeno alcune delle opportunità di interazione e comunicazioni rese disponibili dall”attuale fase di sviluppo del web. E magari ci si ritrova alle prese con questioni di italiano, filosofia, storia, economia, matematica, diritto, geografia, discutendo di legalità e sicurezza. E si scopre che si può discuterne con approcci appena un pò diversi da quelli tipo “arrestare i lavavetri si o no”. Suscitare interesse. Coinvolgere. Insegnare. Imparare. |
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In una bellissima storia di Dylan Dog, il fumetto culto delle generazioni post Tex Willer, l’indagatore dell’incubo si trova alle prese con una categoria molto speciale di morti viventi.
Diversamente dai loro colleghi dei film dell’orrore, canonicamente assettati di vendetta e di sangue, gli inquilini del cimitero di Lowhill, la cittadina nella quale l’autore Michele Medda ha ambientato la storia in questione, ritornano alla vita semplicemente perché intendono recuperare tempo, quello che si sono accorti di non aver speso bene nel corso della loro vita, impegnati come erano a correre avanti e indietro, giorno dopo giorno, come forsennati.
Il messaggio è fin troppo evidente, così come le sue connessioni con le vite che ci ritroviamo quotidianamente a vivere.
La modernità ha stravolto il nostro approccio con il tempo.
Al tempo dei senza tempo la parola chiave è “correre”. Sempre. A lavoro. A casa. A scuola.
Sì. Anche a scuola. Non importa se la necessità è quella di completare il programma piuttosto che quella di “cacciare” (nel senso di andare a caccia di) crediti. A farla da padrone è decisamente lui, il verbo correre.
Difficile immaginare che sia questa la strada giusta.
In particolar modo se si ritiene che i processi di apprendimento si riferiscono sempre più all’ambito della socialità piuttosto che a quello dell’informazione. Che la priorità si sposta dall’accumulo progressivo delle informazioni (il contenuto) alla cura delle connessioni che rendono possibile l’accesso a tali informazioni (Siemens). Che la trasformazione demografica (sempre più studenti che provengono da matrici culturali differenti), la tirannia della scelta (alla quale sono condannati i ragazzi sempre più alle prese con un mondo inflazionato di informazioni e deflazionato di senso), la necessità di ridefinire il concetto di intelligenza, saranno tra le tendenze con le quali ci ritroveremo a fare i conti nel futuro prossimo venturo (Zolli).
Sarà davvero così? Forse. Di certo la discussione intorno alle modalità e alle caratteristiche dei processi di apprendimento è assai lontana dall’essere conclusa.
E voi che la scuola la vivete tutti i giorni, da studenti, da insegnanti, da genitori, che cosa ne pensate?
Buona partecipazione.
Sophie Wolfe, chi era costei?
Un’insegnante di scienze alla Abraham Lincoln High School (l’equivalente del nostro liceo) quartiere Brooklin, città di New York.
Che ha avuto tra i suoi studenti 3 premi Nobel:
Arthur Kornberg, biochimico, premio Nobel per la medicina nel 1959 per le sue scoperte sui meccanismi della sintesi biologica dell’acido deossiribonucleico;
Paul Berg, biochimico, premio Nobel per la chimica nel 1980 per le sue ricerche sul DNA ricombinante;
Jerome Karle, biofisico, premio Nobel per la chimica nel 1985 per lo sviluppo di metodi per la determinazione delle strutture cristalline.
I quali, udite udite, non hanno davvero perso occasione per ricordare, rendere omaggio, riconoscere l’importanza del suo insegnamento nella loro formazione.
Avete già indovinato che cosa rendeva Sophie Wolfe un’insegnante così tanto speciale?
Allora ve lo diciamo noi: la sua capacità di coinvolgere, di suscitare interesse, di rendere piacevoli le lezioni; il fatto che, come ha scritto Paul Berg, “sapeva rendere la scienza divertente, ci rendeva partecipe delle idee”.
Interessare. Coinvolgere. Partecipare.
Ecco tre paroline davvero importanti nei processi di apprendimento. Tre piccoli grandi punti di riferimento per insegnanti, genitori e ragazzi che intendono dare senso e significato al loro impegno, alla faticosa, meravigliosa possibilità di imparare durante tutto l’arco della vita.
Interessare. Coinvolgere. Partecipare. Sempre.
Perché anche nei fantasmagorici mondi dei saperi ci sono cose che cambiano e altre che invece no. E perché tra queste ultime la capacità di stimolare l’interesse, sviluppare percorsi coinvolgenti e partecipativi, rendere esplicito il significato pratico di ciò che viene chiesto di imparare riveste sicuramente un’importanza particolare. Ad ogni età. In ogni tipo di scuola o di università. In ogni contesto di apprendimento. Formale e informale. In presenza e a distanza.
Semplice. Ma non banale.
Per questo, mentre comincia un nuovo anno scolastico, ci piace ricordarlo. E perché vorremmo che ci raccontaste delle “Sophie Wolfe” che insegnano nelle scuole e nelle università italiane. Che ci inviaste le vostre storie di insegnanti che motivano. Incuriosiscono. Coinvolgono. Dunque fanno venir voglia di imparare.
Noi saremo davvero lieti di pubblicarle.
Buon anno scolastico a tutte/i.
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Per una volta non abbiamo dubbi. È proprio il caso di tornare a parlarne. Di che cosa? Della lettera di inizio agosto con la quale i Ministri Fabio Mussi e Tommaso Padoa-Schioppa hanno voluto accompagnare il documento “Misure per il risanamento finanziario e l’incentivazione dell’efficacia e dell’efficienza del sistema universitario” licenziato dalla Commissione Muraro il 31 luglio e sottolineare l’esigenza di un Patto per l’Università. L’iniziativa è per molte ragioni importante. E il fatto che ci vorrà tempo prima di poterne valutare compiutamente gli effetti non impedisce certo di cominciare a discuterne. Di provare a definire una prima griglia di questioni. Di mettere in fila alcune considerazioni e domande che l’iniziativa dei due Ministri suggerisce. Cominciamo dal capitolo “luci”, nel quale a nostro avviso è possibile annoverare: l’idea di chiamare “tutto il mondo dell’università, a partire dagli organi di governo degli Atenei, ad un grande confronto e ad un serrato lavoro di analisi e di proposta, che possa tradursi rapidamente in provvedimenti concreti e comportamenti innovativi” da inserire nel Patto stesso; la scelta di puntare sulla costituenda Agenzia di valutazione del sistema universitario e della ricerca (ANVUR) per determinare in che misura “la qualità scientifica e didattica dell’ateneo e dei diversi settori di ogni ateneo risulterà accresciuta” [.. e per attivare ..] “lo strumento dell’incentivazione finanziaria di provenienza statale, legata alla programmazione e ai risultati ottenuti”); l’idea di incentivare la mobilità di studenti e professori “anche attraverso congrue politiche edilizie e di sostegno economico”; Ribadito che, come sempre in questi casi, perché le “luci” siano davvero tali occorre che le cose dette divengano cose fatte, possiamo passare al capitolo “ombre” nel quale invece è possibile a nostro avviso annoverare: la scelta del “Risanamento finanziario e incentivazione dell’efficacia e dell’efficienza del sistema universitario” come criterio guida fondamentale intorno al quale strutturare il Patto e le conseguenti indicazioni relative alla necessità di: |
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“Per me il successo non è il business o la popolarità, ma riuscire a realizzare il sogno che viaggia da anni nella propria testa, riuscire a vincere contro se stessi tirando fuori la propria grande passione. Nel mio caso è stata la musica, ma naturalmente il discorso non cambia in qualunque altro campo”. Parola di Devis Annibaldi, 33 anni, ideatore, fondatore, leader del gruppo Eskaloska, un CD alle spalle (Menti astratte), tanti progetti per il futuro prossimo venturo.
Cosa c’entra tutto questo con la scuola?
C’entra. Perché Devis oltre a suonare, cantare, cucinare nel ristorante di famiglia (eh sì, Devis riesce alla grande anche in cucina) lo scorso anno ha avviato un interessante esperimento nella scuola materna di Casperia, in provincia di Rieti, dove è nato e vive: fare musica con le bambine e i bambini della scuola materna. E perché gli piacerebbe allargare questa esperienza ad altre scuole materne ed elementari, a cominciare naturalmente da quelle di Rieti e del Lazio.
A spiegarci più nel dettaglio i contenuti dell’iniziativa è il maestro Danilo Stazi, 44 anni, ingegnere elettronico, straordinario chitarrista, arrangiatore, coautore delle musiche del nuovo disco degli Eskaloska.
“Credo che la cosa migliore sia provare a spiegarsi con un esempio: “La canzone del sole” di Lucio Battisti.
Come sappiamo una canzone è fatta di musica e di parole. La musica può essere a propria volta suddivisa in 3 elementi: melodia, armonia, ritmo.
La melodia è quella che si “canta”, normalmente mediante l’uso delle parole ad essa associate. Possiamo definirla come la vera identità della canzone, l’elemento che dà all’ascoltatore il messaggio più diretto e all’interprete la possibilità di esprimersi come tale.
Quando sentiamo Battisti cantare “le bionde trecce, gli occhi azzurri e poi…” ascoltiamo per l’appunto la melodia”.
L’armonia invece?
“Semplificando al massimo, possiamo definire l’armonia come ciò che dà “colore” alla musica, ciò che ascoltiamo come accompagnamento della melodia, tolto il ritmo (se isoliamo la melodia e gli strumenti ritmici – batteria, percussioni – , ciò che resta è più o meno l’ armonia. Nella sostanza essa è formata dai famigerati “accordi” e contribuisce all’umore della canzone (triste, allegra, arrabbiata, ecc.).”.
Nel caso de “La canzone del sole” l’armonia si può dunque identificare nel “suono” prodotto dalla chitarra nell’introduzione e che accompagna lo sviluppo di tutta la canzone.
“Esatto. Più precisamente è l’interferenza tra melodia e armonia a contribuire al risultato finale. “La canzone del sole”, per restare al nostro esempio, potrebbe diventare una canzone molto triste e melanconica mantenendo esattamente la stessa melodia e cambiando “solo” i suoni “musicali” della chitarra (accordi). Ecco cosa si intende quando si dice che l’armonia influenza molto il colore e l’umore della musica, a parità di melodia”.
Infine il ritmo.
“Il ritmo può essere definito come il modo in cui si scandiscono la melodia e anche l’ armonia ed è divisibile in velocità e figurazioni. La velocità è proprio la velocità del pezzo, quindi ci saranno canzoni lente o veloci.
La figurazione e’ data dalla sequenza di istanti in cui si suona (in gergo “pattern”).
Camionisti, commessi viaggiatori e manager più e meno affermati lo hanno imparato presto, non di rado a proprie spese: non importa quanto il ristorante sia famoso, citato, “stellato”, rinomato, la regola fondamentale quando si mangia fuori di casa è tenersi buono il cameriere. Che può essere tanto cerimonioso in vostra presenza quanto “pericoloso” in cucina.
Molti di meno sono quelli che sanno che a spiegare “tecnicamente” la doppiezza del cameriere è stato un grande della sociologia moderna, Erving Goffman, lo studioso che ha svelato in che senso e perché l’istituzione totale azzera il senso di sé, impedisce ogni distinzione tra presa di ruolo e distanza dal ruolo, fa dell’individuo il destinatario di una violenza istituzionalizzata che distrugge ogni suo barlume di umanità e di razionalità.
Ma torniamo ai nostri camerieri – tanto deferenti, educati, discreti al cospetto dei clienti del ristorante quanto estremamente informali e irrispettosi in cucina – per ricordare che essi rappresentano l’esempio paradigmatico di cui Goffman si serve per mettere in evidenza come le persone, nella loro vita sociale, abbiano comportamenti significativamente differenti a seconda se si trovano in spazi di palcoscenico (pubblici, nei quali si comportano secondo canoni definiti) o di retroscena (privati, nei quali non c’è necessità di recitare).
I camerieri sanno ciò che fanno in cucina e dunque: i loro segreti devono necessariamente rimanere all’interno del gruppo che comprende per definizione tutte le persone che sono a conoscenza di tali segreti; se anche uno di loro raccontasse ai clienti i segreti del gruppo – il modo in cui si preparano le portate, si mangia o si deridono i clienti – il gruppo stesso verrebbe distrutto; appartenere a un gruppo sociale, sia esso formato da un gruppo di amici, da una categoria professionale, da un’associazione, da un circolo informale, significa dunque condividere il suo patrimonio di conoscenze e i suoi segreti.
In definitiva, Goffman ci ha mostrato come le nostre realtà quotidiane siano il prodotto di un intricato sistema di regole fisiche, biologiche, psicologiche e socio-giuridiche, del modo in cui si riesce a comunicare contestualmente in modo appropriato, adeguato a ciò che gli altri partecipanti all’interazione si attendono. E perché è necessario che le persone mettano in campo sia un sapere sociale relativo alle regole conosciute sia un sapere comunicativo che permette di adattare il loro repertorio comunicativo – gesti, parole, espressioni, movimenti – alla gamma di attese psicosociali oltre che tecniche che il pubblico (gli altri partecipanti all’interazione non attivi in quel momento) desidera percepire nella situazione considerata (cerimoniale, rituale, lavorativa, di svago o casuale che sia).
Meglio fermarsi qui. Evitare che la faccenda prenda una piega troppo seriosa per queste giornate dominate dal generale agosto. Cercare di mantenersi leggeri. Senza dimenticare di lasciare la mancia per i camerieri.
Diciamoci la verità. Il modello di università telematica che si è fin qui affermato nel nostro Paese non è di quelli di cui essere orgogliosi. Contenti. Soddisfatti.
Quelle che seguono sono quattro mosse a nostro avviso utili per provare a invertire l’ago della bussola. A rovesciare la tendenza.
La prima mossa si riferisce alle strategie e andrebbe orientata, come richiesto dalla stessa Conferenza dei Rettori, alla definizione di una via italiana all’e-learning che, sul modello delle open universities definisca standard condivisi di qualità, realizzi una mappatura delle esperienze in atto, individui tempi e percorsi credibili di inserimento, sostenga lo sviluppo di esperienze di cooperazione e di scambio, diffonda buone pratiche.
Della seconda mossa abbiamo scritto recentemente ed è quella che punta sul Web come risorsa fondamentale intorno alla quale articolare i processi di apprendimento a distanza, in primo luogo in ambito universitario.
La terza mossa si riferisce alla necessità di un programma orientato allo sviluppo delle effettive capacità delle persone di usare le tecnologie, le risorse, gli strumenti, i contenuti oggi disponibili e a sostenere la voglia di conoscere, comunicare, partecipare delle persone di ogni età, cultura, genere, ceto sociale. L’idea è che per questa via sia possibile avviare uno straordinario processo di inclusione sociale, di ottimizzazione di sistema, di diffusione di ambienti attivati nei quali quando si parla di tecnologia ci si riferisce non solo a un insieme di macchine inanimate ma anche alla capacità umana di usarle, governarle, sfruttarne al meglio le potenzialità.
La quarta e ultima mossa prevede di definire un criterio di urgenza nell’allocazione delle risorse, da quelle, più ingenti, europee, a quelle nazionali e locali, e di assegnare ai tre punti precedenti un carattere di priorità.
Si tratta ancora una volta di rendere visibile il «filo della conoscenza» che permette di migliorare la nostra capacità di imparare, comunicare, comprendere, lavorare per tutto il corso della vita; di essere consapevoli che le risorse educative diventano attive nel processo di apprendimento nel momento in cui diventano gli arnesi che permettono ai discenti di fare (costruire) qualcosa di utile, che è la corrispondenza tra processi educativi e capacità di rispondere alla domanda reale delle persone, ai loro concreti bisogni nello studio, nel lavoro, nella vita, a determinare l’efficacia del processo.
E voi, cosa ne pensate?
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Tre dati (il 20% degli studenti di età inferiore a 15 anni ha una capacità di leggere che raggiunge appena il livello più basso; tra gli studenti di età compresa tra 18 e 24 anni il 15% circa lascia la scuola premturamente; il 23% dei ventiduenni non ha portato a termine la propria istruzione secondaria superiore) e otto domande (Come organizzare le scuole in modo che possano fornire a tutti gli studenti la serie completa delle competenze di base? Come possono le scuole fornire ai giovani le competenze e la motivazione necessarie a rendere l’apprendimento un’attività permanente? Come possono i sistemi scolastici contribuire ad appoggiare la crescita economica sostenibile a lungo termine in Europa? Come possono i sistemi scolastici soddisfare in modo ottimale la necessità di fornire equità, di tener conto delle diversità culturali e di ridurre l’abbandono scolastico? Se le scuole devono soddisfare le esigenze educative di ogni singolo alunno, come si può agire a livello dei programmi, dell’organizzazione scolastica e del ruolo degli insegnanti? Come possono le comunità scolastiche aiutare i giovani a diventare cittadini responsabili, in armonia con valori fondamentali quali la pace e la tolleranza di fronte alle diversità? Come fornire al personale scolastico formazione e sostegno per affrontare i problemi che si presentano? Come possono le comunità scolastiche ricevere la guida e la motivazione necessarie per avere successo? Come possono acquisire la facoltà di evolvere per poter affrontare i cambiamenti a livello delle esigenze e delle domande?) alla base del documento “Le scuole per il 21° secolo” licenziato dalla Commissione Europea lo scorso 11 luglio. Le risposte? Un documento tutto da leggere e da commentare. |
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I risultati di una ricerca del Centre for Educational Research and Innovation (OCSE)
Fa sempre piacere cominciare la settimana con una buona notizia. Quella che ci arriva da una recente pubblicazione del Centre for Educational Research and Innovation (CERI) dell’OCSE. Che declassa a livello di leggenda metropolitana l’idea che lo sviluppo del cervello si completa nel corso dei primi anni di vita.
Non solo il cervello non perde mai la sua capacità di apprendere. Ma c’è una connessione forte tra apprendimento e sviluppo celebrale dato che i processi di apprendimento sono talmente importanti da trasformare, quanto più sono attivati, la stessa struttura fisica del nostro cervello. Understanding the Brain: The Birth of a Learning Science – questo il titolo del volume – è parte del progetto Learning Sciences and Brain Research avviato dal CERI nel 1999. I risultati di questo programma di ricerca appaiono importanti per molte ragioni, a partire dalle applicazioni che possono avere nelle politiche e nelle pratiche educative. Secondo il rapporto apprendere è per molti aspetti un piacere fisico, con tutto quello che ciò significa per quanto riguarda le metodologie, le didattiche, i contenuti, le relazioni insite nei processi di apprendimento, a partire da quelle che si riferiscono alla formazione iniziale. Davvero tanti insomma gli spunti interessanti che il rapporto fornisce, da quelli che si riferiscono alle modalità con le quali favorire i processi di apprendimento negli adulti al rapporto tra sviluppo dei processi celebrali e apprendimento delle lingue straniere, dalla messa in discussione delle idee consolidate circa le funzioni della parte destra e della parte sinistra del cervello (pare che la maggior parte delle abilità non siano alloggiate esclusivamente in una parte del cervello; ad esempio sommiamo e sottraiamo in parti totalmente diverse del cervello) alle domande etiche relative all’utilizzo di farmaci per migliorare la propria capacità di apprendimento. Cosa aggiungere ancora? |
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+ CERI
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Insicurezza sociale. Svalutazione e precarizzazione del lavoro. Erosione del sistema di garanzie che va sotto il nome di stato sociale.
Molto comincia alla fine degli anni ’70, sotto la spinta del reaganismo e del thatcherismo.
Sono gli anni in cui ritorna in auge l’idea che il lavoro, quello operaio in primo luogo, non è altro che uno dei tanti strumenti della produzione.
Quando non serve, l’operaio va espulso dal ciclo produttivo; quando non regge più i ritmi, va sostituito, non molto diversamente da quanto accade con una qualunque macchina.
Nella metamorfosi dei modi di lavorare e produrre tra la gerarchia e la frammentazione del fordismo e la flessibile precarietà del postfordismo, la questione insicurezza diventa un carattere specifico dell’esistenza, un fenomeno che va molto al d là della nuova barbarie a cui si riferiva Benjamin negli anni ’30.
Sono circa 1200. Gli studiosi che da oggi 9 luglio e fino a venerdì 13 luglio si incontrano a Genova, in occasione di Statphys 23, la conferenza evento organizzata dall’Istituto Nazionale per la Fisica della Materia (INFM) e dall’Istituto dei Sistemi Complessi del CNR, che ogni 3 anni riunisce i più grandi esperti di fisica statistica e scienza della complessità (la fisica applicata alla biologia, alla finanza, alle tecnologie, agli studi sociali, alla teoria dell’informazione, all’organizzazione aziendale, al web sociale, alla diffusione di epidemie, al traffico delle città).
Tanti gli avvenimenti in programma. Anche per i non cervelloni. Che potranno seguire i tanti eventi divulgativi organizzati con la collaborazione del Festival della Scienza, dal “Caffè corretto con frattali” al film dedicato a Ludwig Boltzmann.
Per l’occasione saranno assegnati anche le Medaglie Boltzmann 2007 al fisico tedesco Kurt Binder (Johannes Gutemberg University di Meinz) e all’italiano Giovanni Gallavotti (Università “La Sapienza” di Roma).
Ancora a Genova, ancora ai Magazzini del Cotone, questa volta dal 15 al 20 luglio, da segnalare anche la conferenza EP2DS-MSS.
800 questa volta i partecipanti, mentre le luci del palcoscenico saranno tutte per le nanotecnologie per l’elettronica e la fotonica.
Anche in questo caso un parterre quanto mai d’eccezione, da Klaus Von Klitzing, Nobel per la Fisica 1985 (per la scoperta dell’effetto Hall quantistico), a Albert Fert, il cervello al quale dobbiamo la scoperta dell’effetto di magneto-resistenza gigante che ha reso possibili i nostri amati hard disk, a Allan H. MacDonald, vincitore proprio quest’anno del Buckley Prize dell’American Physical Society.
Buona divulgazione a tutti.
E-Learnig tra formale e informale: questa l’idea guida scelta dalla Società Italiana di e-Learning (SIe-L) per il suo IV congresso, realizzato in collaborazione con l’Università di Macerata, la Facoltà di Scienze della Formazione e patrocinato dalla CRUI (Conferenza dei Rettori delle Università italiane), dal Comune di Macerata e dal Dipartimento di Scienze dell’educazione e della formazione, a Macerata dal 4 al 6 luglio.
Il congresso è stato preceduto da due interessanti tutorial dedicati alla predisposizione di un ambiente per l’eLearning con uso di Learning Management System open source, nel caso specifico Moodle, e alla sperimentazione di percorsi di apprendimento che utilizzino gli strumenti del web 2.0 e favoriscano processi di personal learning environment e si propone per l’appunto non solo di affrontare i mille volti, e le connesse problematiche, che caratterizzano il fantasmagorico mondo dell’e-learning, ma anche di approfondire la riflessione intorno ai suoi aspetti formali ed informali. La questione appare da molti punti di vista di non poco conto. Le risorse educative diventano attive nel processo di apprendimento nel momento in cui diventano gli arnesi che permettono ai discenti di fare (costruire) qualcosa di utile; è la corrispondenza tra processi educativi e capacità di rispondere alla domanda reale delle persone, ai loro concreti bisogni nello studio, nel lavoro, nella vita, a fare la differenza, a determinare l’efficacia del processo. C’è bisogno per questo di forti motivazioni, chiarezza degli obiettivi, rigore metodologico, elevata qualità dei percorsi di apprendimento, consapevolezza che la stessa formazione universitaria non è più «il» punto di arrivo, integrabile al massimo con il Master o il Corso di Specializzazione, ma una tappa, per quanto importante, di una via all’apprendimento che siamo impegnati a percorrere per tutta la vita. Cosa aggiungere ancora? |
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Si fa sempre più ricca e stimolante la discussione sull’e-learning dai mille volti e sul suo futuro (da non perdere, su elearningeuropa.info, il paper n. 4 con l’anteprima del rapporto Helios 2006-2007). E se si puntasse sul Web come risorsa fondamentale intorno alla quale articolare i processi di apprendimento a distanza? Il messaggio potrebbe essere: Web, sempre Web, fortissimamente Web. Che naturalmente non vuol dire esclusivamente Web, dato che il suo utilizzo è assolutamente compatibile non solo con i percorsi di apprendimento in modalità blended, ma anche con i più tradizionali corsi in aula. Molti fattori concorrono a fare del Web la piattaforma ideale per persone di ogni età, sesso, condizione sociale, alle prese con la necessità di imparare a scuola, all’Università, per tutto l’arco della propria vita. Ne segnaliamo tre: Se tutto questo è almeno in parte vero, ecco che diventa fondamentale sviluppare le effettive capacità delle persone di ogni età, cultura, genere, ceto sociale, di usare le tecnologie, le risorse, gli strumenti, i contenuti oggi disponibili. L’idea è che per questa via si possa rendere visibile il «filo della conoscenza» che permette di migliorare la nostra capacità di imparare, co-municare, comprendere, lavorare per tutto il corso della vita; di avere più opportunità ed essere meno esposti all’incertezza che ci assale ogni qual volta le cose intorno a noi cambiano, e con esse cambia il mondo al quale siamo abituati; di valorizzare la capacità individuale di arricchire quanto diversamente appreso e di personalizzarlo in base ai contesti effettivi di vita e di lavoro; di limitare i rischi di dispersione del nostro capitale culturale; di essere consapevoli che le risorse educative diventano attive nel processo di apprendimento nel momento in cui diventano gli arnesi che permettono ai discenti di fare (costruire) qualcosa di utile. |
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Giuseppe Di vittorio e il valore della conoscenza
Tempo di esami. E di vocabolari. Che in questo periodo diventano compagni inseparabili degli studenti che studiano, hanno la testa al proprio posto, cioè sul collo, e sperano di portare a casa il diploma. Il momento insomma è di quelli giusti per parlarvi di una persona davvero particolare e del suo particolare rapporto con il vocabolario. La persona in questione è Giuseppe Di Vittorio, del quale si celebra quest’anno il cinquantenario della morte. Nato a Cerignola da una famiglia poverissima, costretto dalla morte del padre ad abbandonare giovanissimo la scuola e a lavorare nei campi come bracciante, Peppino conosce assai presto le ragioni dell’impegno a favore dei più deboli e ad essi dedica la sua vita, sempre dalla parte del lavoro (l’affermazione del valore sociale e culturale del lavoro è stata l’idea-guida che ha ispirato la sua azione) e dei lavoratori. Tra i suoi atti principali come leader della CGIL vanno ricordati il Piano del Lavoro, presentato al Congresso di Genova del 1949, e la proposta di uno Statuto dei diritti dei lavoratori, lanciata al Congresso di Napoli del 1952. Ma che c’entra tutto questo con il vocabolario? La scoperta, come racconta Felice Chilanti nella biografia pubblicata a puntate nel 1953 su Lavoro, settimanale della CGIL e ripubblicata su Rassegna.it in occasione del centenario della confederazione, avviene un giorno a Barletta, lungo il bel viale della stazione. Come avrete già immaginato, il libraio diede il vocabolario a Peppino, che passò la notte a sfogliarlo pagina dopo pagina. Ma la storia non finisce qui. Perché Di Vittorio il giorno dopo cominciò a segnare su un block notes tutte le parole sconosciute, udite negli incontri casuali, in treno, lette in un giornale o in un libro. «Ricordo ancora alcune di quelle parole — racconta egli stesso a Chilanti — come ad esempio idraulica, bigamia. Quando tornavo a casa ne apprendevo il significato sul vocabolario e lo trascrivevo con parole mie sul notes. Questo metodo mi aiutava molto. Con un metodo di poco diverso, molti anni dopo ho imparato il francese». Incredibile? Semplicemente vero. |
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Presentato dall’Unesco il rapporto “Corrupt schools, corrupt universities: What can be done”
La notizia non è di quelle che fanno stare allegri: l’illegalità nell’ambito del settore educativo è un diffuso fenomeno di portata mondiale.
Ad affermarlo, sulla base di un lavoro di ricerca (durato diversi anni e condotto in oltre 60 paesi su fonti dei diversi ministeri, delle agenzie di sviluppo e degli istituti di ricerca nazionali) sui temi dell’etica e della corruzione nei sistemi educativi di tutto il mondo, sono Jacques Hallak e Muriel Poisson nel rapporto “Corrupt schools, corrupt universities: What can be done”, realizzato dall’International Institute for Educational Planning (IIEP) dell’UNESCO e presentato esattamente una settimana fa a Parigi.
L’armamentario di illegalità riscontrate, e che gli autori elencano a pagina 30, in quello che con (forse) involontario sarcasmo definiscono breve glossario è davvero esemplificativo: bustarelle, tangenti, criteri legali stravolti e non rispettati, diversione, uso illegale e furto di denaro pubblico, appropriazione indebita, favoritismo, frodi, lavoratori fantasmi, nepotismo, tasse di registro illegali, falsi diplomi, gare d’appalto truccate. E come se non bastasse le false università che promettono falsi diplomi su internet passati da 200 a 800 tra il 2000 e il 2004.
Come ha sottolineato il Direttore Generale dell’Unesco, Koïchiro Matsuura, si tratta di un fenomeno che non solo ha un costo che può essere stimato in miliardi di dollari, ma indebolisce seriamente e avario livello gli sforzi per assicurare a tutti, a ogni età e in ogni parte del mondo la possibilità di studiare.
Come combattere il fenomeno?
Gli autori, non a caso tra gli ideatori dell’edizione internazionale dell’Università d’estate “Trasparenza, responsabilità e misure di contrasto alla corruzione nel campo dell’educazione”, alla quale stanno partecipando (dal 6 al 15 giugno) alti funzionari e rappresentanti della società civile di più di 20 paesi, propongono una vasta griglia di raccomandazioni e suggerimenti, a partire da:
stabilire norme chiare, regolamenti e procedure trasparenti;
adottare politiche mirate a definire le responsabilità dei differenti stakeholders in merito alla allocazione, alla distribuzione e all’uso delle risorse educative;
migliorare la gestione, l’aspetto contabile, il monitoraggio e la capacità di ascolto verso lo staff amministrativo e gli altri stakeholders, (associazioni dei genitori, insegnanti, organizzazioni della società civile, ecc.);
permettere l’accesso all’informazione per costruire partecipazione, proprietà e controllo sociale. Le scuole devono essere sufficientemente informate non solo per rilevare (cioè per accorgersi) delle frodi, ma per esercitare il diritto di proposta nella definizione delle scelte.
Ricordate? Vi avevamo raccontato qualche tempo fa di C. P. Dei 32 esami che aveva dovuto sostenere in 3 anni per conseguire la laurea in Scienze della comunicazione. Dei 21 che ancora le rimanevano da fare per conseguire la laurea magistrale (specialistica). Della sua media strordinaria (29,8 o giù di lì). Della sua teoria che per riuscire a prendere voti alti si doveva seguire più corsi possibili, studiare l’esame con grande impegno e resettare tutto non appena finito l’esame. “Lo so che è un pò triste – ci aveva detto -. Ma se non si cancella quello di prima è quasi imppossibile immagazzinare i dati dell’esame successivo”.
La faccenda ci aveva colpito perché ci era sembrata un pò il simbolo di una generazione di credit hunter che chiunque abbia in qualche modo a che fare con l’università italiana può vedere saltare da un corso a un laboratorio, da un credito facoltativo a una prova di lingue e così via discorrendo.
Questo della trasformazione degli studenti in cacciatori di crediti ci sembrava, continua a sembrarci, uno dei più perniciosi dei tanti effetti collaterali di una “riforma” che continua a mostrare più ombre che luci. E anche se la proliferazione dei corsi e degli esami non era, non è, il solo fattore distorcente, contribuiva, contribuisce in maniera significativa ad alimentare il fenomeno.
La buona notizia è che se ne sono accorti anche al MIUR. E che un paio di giorni fa la Corte dei conti ha registrato i decreti ministeriali sulle classi di laurea rendendo così operativi i nuovi percorsi di studi per le lauree triennali e magistrali: 20 esami al massimo per le prime e 12 al massimo per le seconde con l’impegno per ciascuna università di accorpare più moduli e de-frammentare i percorsi didattici.
Tra le novità introdotte, da segnalare quella che garantisce agli studenti che nell’ambito di una stessa classe si trasferiscano da un’università ad un’altra o da un corso di laurea ad un altro, il riconoscimento di almeno la metà dei crediti accumulati.
Cosa aggiungere ancora?
Che almeno l 50% dei docenti dei nuovi corsi dovrà essere di ruolo nelle materie che fanno parte del corso di laurea stesso. E che come spesso accade in questi casi è previsto un percorso di attuazione delle nuove norme in tre anni cosicché la riforma entrerà definitivamente in vigore a partire dall’A.A. 2010 – 2011.
Immaginiamo che i/le tanti/e C.P. in giro per l’Italia non saranno proprie entusiasti/e di aver fatto 20 esami in più per conseguire la stessa laurea.
Ma tant’è. In casi come questi, credeteci, è davvero meglio tardi che mai.