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Smart Napoli Bay

1. Le vie del PD non si incrociano più con le mie per tante ragioni, ne cito due per tutte in maniera temo troppo sintetica:
non mi piace il modello di partito, così fortemente incentrato sull’uomo solo al comando;
considero inefficace prima ancora che arretrata l’idea di sviluppo proposta per l’Italia, così fortemente incentrata sulla competizione povera, senza visione, missione, strategia.

2. Per me l’Italia ha bisogno di:
più politica industriale e più investimenti privati;
una politica per l’innovazione e la ricerca scientifica;
maggiori investimenti nella scuola, nella formazione, nella conoscenza;
mettere al centro delle sue strategie di sviluppo le città, i distretti, territori italiani;
incentivare e sostenere la transizione delle PMI verso l’economia digitale;
ridefinire la propria identità e la propria mission e determinare il proprio vantaggio competitivo intorno a due concetti fondamentali: qualità e bellezza.

3. Anche nella crisi vince chi innova, chi sa scrutare i segni del tempo, chi sa capire prima degli altri che per competere meglio e crescere di più occorre investire in capitale umano, nuove professionalità e competenze, formazione, ricerca, chi sa scegliere la strada della competizione di livello alto, dello sviluppo che valorizza imprese e territori, città e distretti (culturali, sociali, produttivi) che diventano sempre più competitivi perché sanno sempre più pensare e agire come comunità di interazione che incarnano altrettanti nodi di elaborazione, di comunicazione e di scambio del sapere e del saper fare.
Se il presente si chiama internet delle cose, internet dell’energia, internet delle città, mi sembra evidente che i tag del cambiamento e dello sviluppo sono innovazione, lavoro, persone, qualità.
E’ sulle vie dell’innovazione, del lavoro e dello sviluppo di qualità che l’Italia può fermare il declino, può ritrovare carattere, senso, identità, missione, può riconnettere società e istituzioni, può arginare il deterioramento dello spirito pubblico, può uscire stabilmente dalla crisi, può ritrovare il legame non solo etico ma anche materiale, concreto, pratico che c’è tra lavoro, autonomia e diritti delle persone.
Perché sì, se anche i ragazzi che hanno un lavoro stabile e una retribuzione regolata dal CCNL continuano a vivere con i genitori anche dopo i 30 anni perché proprio non ce la fanno a guadagnare 1100 euro a mese e a pagare affitto, bollette e tutto il resto è ovvio che l’economia non gira e il Paese non cresce.

4. Penso che oggi più di ieri ci sia spazio per un partito di sinistra, come ho scritto altre volte ho detto partito, non movimento, gruppo, società civile, no, no, partito, nel quale naturalmente trovino spazio e iniziativa movimenti, gruppi, società civile, ecc., ma un partito vero, a due cifre, un partito del lavoro, di tutto il lavoro (dipendente, start-upper, artigiani tecnologi e tradizionali, auto impiego, popolo della partita iva, piccole imprese e imprese familiari, che rappresentano, è bene non dimenticarlo, la stragrande maggioranza dell’apparato produttivo nazionale).
Un partito che parli prima di tutto ai più giovani, un partito che non è alternativo al PD, che in un paese moderato come il nostro che il PD sia la forza principale di governo mi sembra la possibilità più auspicabile, piuttosto un partito che lo ‘costringa’ a un’alleanza a sinistra, e lo condizioni sui programmi e sulle cose da fare.
Un partito che abbia un’idea di Paese che dà più valore al lavoro e meno valore ai soldi, più valore a ciò che sai e sai fare e meno valore a ciò che hai, e che lavori e contribuisca a formare una classe dirigente in grado di sostenere questa visione.
Un partito che percorre con coerenza e pazienza questa strada e così toglie voti all’astensionismo, alla sfiducia, alla defezione, all’idea che la politica è una cosa sporca, che se paghi le tasse e lavori sei un fesso e se invece hai i soldi sei uno buono, indipendentemente da come li hai fatti, i soldi.

5. Napoli, con la sua area metropolitana, è naturalmente, per me napoletano, parte fondamentale di questo percorso.
Napoli è cultura, umanità, bellezza. Napoli è sapere e saper fare. Napoli è mare. Napoli è la sua Baia, come la racconta il mio amico Francesco Escalona, da Monte di Procida a Sorrento, Capri, Ischia e Procida comprese.
Si, proprio così, Smart Napoli Bay, un’occasione mancata, l’ennesisma, o uno straordinario esempio di Città Metropolitana Intelligente, uno  straordinario incubatore – molitplicatore di innovazione, di lavoro, di qualità, di bellezza.

6. Per me queste cose qui possono entrare da subito in un programma di governo per Napoli e la sua area metropolitana. Sì, da mò, da adesso. E la classe dirigente che si candida a Napoli deve discutere e far discutere la città metropolitana di queste cose, individuando con un percorso il più possibile partecipato le risorse, gli obiettivi, le cose che vengono prima e quelle che vengono dopo, i soggetti che hanno la responsabilità di realizzarle, i risultati attesi.
E insieme a questo la classe dirigente che si candida a Napoli deve avere il coraggio di lanciare una grande campagna di educazione alla cittadinanza, perché Napoli, tutta Napoli, molti dei suoi salotti civici compresi, è troppo abituata a essere suddita e troppo poco abituata a essere cittadina, con i diritti e soprattutto i doveri che l’esercizio della cittadinanza comporta, che non a caso abbiamo una storia così ricca di Masaniello.

* post pubblicato, in una versione in parte diversa e legata a un evento, sul mio blog su Rassegna.it

#lavorobenfatto2

Il nuovo contratto di lavoro in Cina

Su Economia e Management un articolo sulla nuova struttura contrattuale in Cina e altre risorse.

Wang Xing e China Serendipity Lab

Su Nòva24 di oggi un articolo sul fondatore di xiaonel, la versione Made in China di Facebook.
Da tenere presente anche China Serendipity Country, pubblicato il 7 luglio 2009.

Effetti collaterali

E se lo lo sviluppo delle NTI spingesse fino al limite della rottura tanto i processi di inclusione quanto quelli di esclusione? E se, così come accade per (quasi) tutte le cose di questo mondo, anche le innovazioni tecnologiche, nonostante rivestano una rilevanza decisiva nei processi che assicurano la crescita delle nostre società, avessero degli spiacevoli effetti collaterali?

L’idea, semplice ma forse non banale è che anche nel fantasmagorico mondo delle NTI ci siano luci e ombre.

Da un lato, potendo comunicare in tempi rapidi, accedere a risorse formative e informative a distanza, lavorare con più testa e meno braccia, il “catalogo” delle opportunità di partecipazione e di libera espressione che ciascuno di noi ha a disposizione diventa considerevolmente più ampio; come abbiamo visto anche nel capitolo precedente, abbiamo più risorse strategiche per fare scelte secondo autonomi criteri di giudizio, siamo più competitivi nello studio e nel lavoro, siamo più partecipativi.
Dall’altro lato e conseguentemente, chi non per propria colpa si ritrova fuori, impossibilitato a usare in maniera partecipata e autonoma i nuovi media, vede aumentare la distanza che lo separa da chi è integrato, si ritrova a fare i conti con uno svantaggio ulteriore.

Forse anche al tempo di internet la vera asimmetria da superare non è tanto quella, peraltro più supposta e sponsorizzata che reale, esistente tra coloro che utilizzano la rete, ma quella che si riferisce alle relazioni di potere operanti nella società reale, alle diseguaglianze da esse generate, ai meccanismi di accesso che di fatto ancora oggi impediscono ad una fetta molto significativa di persone di utilizzare la rete, e di farlo in maniera consapevole.

Neanche internet – che dei nuovi media è indubbiamente il simbolo, l’emblema, il luogo non solo simbolico dove reale e virtuale si incontrano – sfugge insomma alla regola che vuole che tutte le cose di questo pazzo, talvolta insopportabile, talaltra meraviglioso, mondo, presentano, nelle istruzioni per l’uso, un consistente numero di controindicazioni.

Geoffrey Numberg, in un articolo apparso su “The New York Times” il 23 febbraio 2005 ha ricordato ad esempio che “da uno studio del 2002, diretto da B. J. Fogg, psicologo dell’Università di Stanford, emerge che il popolo del web tende ad associare la credibilità di un sito internet al suo aspetto, piuttosto che agli autori e alle ragioni per le quali è nato”.

Con toni decisamente apocalittici, Theodore Schick, capo del dipartimento di filosofia del Muhlenberg College, Pennsylvania, USA, si spinge addirittura ad adombrare la possibilità di un futuro minacciato da un uso improprio delle nuove tecnologie digitali, che egli teme possano avere gli effetti malefici degli anelli resi celebri da Tolkien: “Anche Frodo è attratto dall’anello, è Sam a ricondurlo sulla retta via. Dovremmo gettare nel fuoco queste conoscenze tecnologiche, proprio come il Consiglio di Elrond ha votato di distruggere l’anello”.

Con un approccio sicuramente più razionale è Sunstein ad insistere su quella che a nostro avviso è la questione davvero rilevante, e cioè la possibilità che la diffusione delle tecnologie digitali possa avere, tra i propri non trascurabili effetti collaterali, quello di favorire l’insorgere di forme di estremismo, disprezzo per gli altri e per le loro opinioni, a tratti anche violenza, in quanto favorisce ed eleva a simbolo il confronto (attraverso ad esempio le chat o le comunità virtuali dedicate) fra soggetti che la pensano allo stesso modo.

La questione posta da Sunstein è almeno da due punti di vista assolutamente rilevante.
Da un lato perché mette in discussione uno dei capisaldi teorici oltre che pratici della Rete, quello che si riferisce, per l’appunto, alla valorizzazione e allo sviluppo di aree di discussione e di approfondimento intorno a punti di vista, argomenti, interessi, specifici e condivisi.
Dall’altro, perché i presupposti sui quali si basa trovano riscontro in più ambiti e contesti sociali.

In e Out

Vero. Il valore delle cose dipende sempre più dalle informazioni che in esse sono contenute. Il futuro si trasforma da tempo a luogo. Il mouse è la nuova chiave a stella. Reale e virtuale sono i nuovi contesti spazio temporali nei quali vivamo tra destini ineluttabili e speranze di libero arbitrio.

Ma l’intera storia dell’umanità, a partire almeno dalla “scoperta” del linguaggio, non è altro che una storia di evoluzioni ed innovazioni biologiche, culturali, tecnologiche.

Dove sta allora la novità?
Nelle modalità con le quali lo sviluppo e il cambiamento tecnologico sono connessi ai processi culturali, sociali, economici, che caratterizzano l’attuale modernità.

Il fatto che sia possibile conseguire una laurea, o lavorare, a distanza, trasforma, ad esempio, non solo il modo con il quale siamo abituati a studiare o lavorare, e conseguentemente la concezione e il rapporto con i quali storicamente ci siamo ad essi riferiti, ma anche il nostro modo di pensare e vivere lo spazio, le distanze, le relazioni con gli altri, siano essi studenti o lavoratori come noi, referenti in quanto professori o datori di lavoro, istituzioni come l’università o l’impresa.

Insieme al modo di studiare e lavorare cambia insomma il modo di socializzare, di vivere, di pensare.

I vantaggi?
Maggiore flessibilità nella gestione dello spazio e del tempo; possibilità di cambiare città senza necessariamente mettere a rischio il posto di lavoro o gli studi universitari; riduzione dei costi e dei tempi di spostamento; possibilità di dedicare più tempo ed essere più partecipe alla vita familiare; gestione più flessibile dei tempi e dei contenuti delle attività di formazione e aggiornamento; maggiore autonomia e, in svariati casi, motivazione.

E per quanto riguarda invece gli svantaggi?
Minore tutela per la salute; incremento delle spese domestiche; minori tutele sindacali; perdita delle forme tradizionali di relazione, comunicazione e apprendimento.
In modo particolare proprio il fatto di studiare o lavorare da soli, di ritrovarsi confinati ciascuno nel proprio atomo, nella propria isola, rende in qualche modo più impellente la necessità di supplire al deficit di comunità che viene a determinarsi, di individuare più occasioni di scambio e di reciprocità.

Cattive compagnie

La TV crea miti. Li metabolizza. Li distrugge. Occupa pagine intere di quotidiani, tabloid, settimanali. Alla televisione dedicano attenzione persone, intellettuali, personalità di ogni tipo.

Nelle nostre affollate e supertecnologiche metropoli, dove si raffreddano i rapporti umani e si lasciano un sacco di persone escluse, dove i genitori sono sempre più indaffarati e stanchi per avere anche il tempo di giocare con i propri figli, sono davvero tanti gli ingredienti che spiegano e giustificano il predominio della cattiva maestra televisione.

Se guardiamo al mondo dei più piccoli, la mancanza di luoghi nei quali essi possano incontrarsi e giocare con i loro coetanei senza necessariamente dover prenotare un campo di calcetto o la pizzeria, la pericolosità, vera e presunta, dei quartieri nei quali abitiamo, la sempre minore capacità di formare della famiglia e della scuola, contribuiscono ad esempio a dare un alone di oggettività al fatto che bambini e ragazzi di ogni età si ritrovino, per necessità o, peggio ancora, per routine, quotidianamente sbattuti per ore davanti ad uno schermo sempre acceso (i più fortunati finiscono con l’essere i video – pluralisti, quelli che hanno almeno la possibilità di alternare la TV con la play station, il game boy, il computer).

Ma anche se guardiamo al mondo degli adulti, ci accorgiamo che in fondo le cose non vanno un gran che meglio: schiacciati dallo stress, dal lavoro, dalle responsabilità, dalle difficoltà economiche, anche i “grandi” riescono sempre più raramente a uscire di casa quando viene la sera, a ritrovarsi in discoteca, in balera, al cineforum o a un concerto, a seconda dei gusti e delle età, e finiscono fatalmente sdraiati sul divano, alle prese con la quotidiana sfida per la conquista del telecomando.

E’ probabile che nella meticolosa, scientifica, masochistica, puntualità con la quale riempiamo le nostre case di televisori, spesso uno per ciascun componente della famiglia, e ci precludiamo finanche la possibilità di una comunicativa litigata con mariti, mogli, figli, per decidere su quale canale sintonizzarsi, sia racchiuso un ulteriore indizio delle complesse dinamiche che talvolta si stabiliscono tra carnefici e vittime, ma ciò non toglie nulla alla questione centrale: la televisione deve in massima parte la sua forza e importanza alla possibilità – capacità di agire su un’enorme quantità di solitudini involontarie.

E’ innanzitutto grazie a questa sua capacità che essa è diventata, in particolar modo per le generazioni più giovani, una delle più importanti agenzie formativa di valori, modelli di comportamento, stili di vita.

La televisione ci tiene compagnia, ci include, ci fa sentire meno soli. Da “piccoli” così come da “grandi”. In casa, quando siamo soli di giorno o stanchi di sera, E fuori, quando domani potremo commentare con i compagni di classe l’ultima puntata di “Art Attack”, ripetere con i colleghi di ufficio i tormentoni più simpatici di “Zelig”, verificare durante la pausa pranzo con quanti milioni di nostri connazionali, secondo i dati Auditel, abbiamo condiviso la visione del film della sera precedente.

La televisione seleziona gli avvenimenti e le informazioni alle quali abbiamo accesso. Influisce sui percorsi attraverso i quali si determinano le preferenze e le scelte di ciascuno di noi. Stabilisce criteri per rappresentare la realtà e definire ciò che è vero.

Consumatori vs Cittadini

Sì, essere cittadini è cosa diversa dall’essere consumatori.

In quanto consumatori siamo orientati, indotti, persuasi a scartare tutto quanto non collima con i nostri gusti, non incontra le nostre preferenze, non usiamo, non incrocia le nostre abitudini, ha per noi scarso interesse. Piuttosto che identificarci nel soddisfacimento di bisogni articolati, desideriamo cose, oggetti, prodotti che rispondano al nostro bisogno di sentirci persone di successo.

In quanto cittadini, al contrario, abbiamo bisogno proprio della diversità delle proposte e della pluralità delle soluzioni per formare le nostre opinioni, per partecipare con un autonomo punto di vista alla costruzione del discorso pubblico.

“Sovranità del consumatore significa che i singoli utenti possono scegliere come vogliono, soggetti alle limitazioni rappresentate dal sistema dei prezzi, ed anche alle loro capacità economiche ed esigenze. […] L’idea della sovranità politica si basa su fondamenti diversi. Non dà per definiti o scontati i gusti degli individui. Esalta l’autogoverno democratico, inteso come requisito del governare attraverso la discussione, accompagnato dal dover dare conto delle proprie opinioni in ambito pubblico”. [Sunstein]

Nell’ambito del pubblico l’esigenza fondamentale è insomma “[…] il miglioramento dei metodi e delle condizioni del dibattito, della discussione e della persuasione”. [Dewey]

Se si confondono i due ambiti accade che invece di elaborare o maturare ragioni e argomenti che ci consentano di operare scelte meditate, ci ritroviamo sempre più spesso a decidere sull’onda di suggestioni istintive, ammiccamenti amichevoli, promesse improbabili. Che si scelgono sindaci, senatori, presidenti di provincia o di regione con approcci e metodologie sempre più vicine a quelle che siamo soliti adoperare quando scegliamo un profumo o una cravatta. Che si affrontano questioni come la sicurezza per slogan, cavalcando le spinte più emotive e meno intelligenti.

Consumiamo, dunque siamo

Avete mai provato a portare il vostro orologio Swatch da un rivenditore per farlo aggiustare? Nel caso intendiate farlo, sappiate che vi sentirete rispondere, in tono molto cortese, che non è possibile farlo. Che se tenuto con cura, uno Swatch non si rompe mai. Ma che una volta rotto, se ci tenete a rimanere nel club di quelli che pensano che “Time is what you make of it”, non avete altre possibilità che comprarne uno nuovo.

Affermare che siamo sempre meno interessati a chiederci “chi siamo” e che diamo sempre più valore al “cosa abbiamo” non basta più a dare conto della radicalità del mutamento in atto.
La fase nella quale il processo di induzione e di manipolazione dei bisogni era riferita sostanzialmente ai prodotti, alle merci, ai beni di consumo si avvia ad essere definitivamente alle nostre spalle. Nel mondo nel quale ci catapultiamo ogni mattina uscendo di casa, imponenti fattori culturali, economici, sociali, politici, ci spingono a pensare, e a credere, che tutto ciò che dura, ivi compresi le idee, i sentimenti, le persone, rappresenta un disvalore.
Consumiamo vite e non solo prodotti. E ciò ci dice probabilmente qualcosa di significativo circa il ruolo e l’importanza del consumo nell’attuale fase della modernità.

Attorno al consumo organizziamo le nostre vite.
Per strada come a casa, in auto come in ufficio, le nostre giornate sono scandite da spot, suggerimenti pubblicitari, consigli per gli acquisti che ci annunciano un futuro bello, giovane, ricco, di successo.

Ciò che consumiamo definisce le nostre identità.
Il valore d’uso dei beni, dei prodotti, dei servizi incide sempre meno sulla definizione delle nostre preferenze: ancora una volta, avere sempre nuovi abiti, nuovi telefonini, nuovi computer, nuovi software, nuove automobili o anche nuove barche e nuove case, è importante “a prescindere”.
Altrettanto indicativo è ciò che accade nell’ambito della sfera pubblica, laddove associare buona politica a nuova politica pare essere diventato una sorta di imperativo categorico, come dimostra la frequenza con la quale vengono dati nomi nuovi a contenitori, organizzazioni, partiti, concezioni e modi di fare politica “vecchi” con la speranza, solitamente vana, che alla novità del nome corrisponda la novità della “cosa”.

C’è una diffusa tendenza ad abusare del termine nuovo, dietro il quale si finisce spesso per nascondere cose note, brutte, ingiuste. Si finisce col perdere di vista il fatto non banale che nelle nostre vite c’è sempre spazio, nella buona come nella cattiva sorte, per cose più nuove semplicemente in quanto successive alle precedenti. E che in realtà senza la memoria, senza la capacità di riconoscere quanto permane nel variare delle circostanze e delle condizioni, non ci sarebbe ragione di parlare di cose che valgono.

Facimme ammuina

La famiglia, lo Stato, il partito, l’impresa, le strutture tendono a perdere consistenza, autorevolezza, capacità di dialogo, in modo particolare nei confronti delle generazioni più giovani.
La stessa teoria sociale fa fatica a darsi modelli, scenari, contesti, in grado di leggere e interpretare ciò che accade.
Il risultato?
I nostri stati di essere, e i nostri modi di fare, finiscono col ricordare sempre più da vicino quelli dei marinai imbarcati a bordo dei legni e dei bastimenti della Real Marina Borbonica allorquando, in occasione delle visite a bordo delle Alte Autorità del Regno, veniva loro impartito il comando “Facite Ammuina” .
Di cosa si tratta?
Presto detto: “All’ordine Facite Ammuina: tutti chilli che stanno a prora vann’ a poppa e chilli che stann’ a poppa vann’ a prora: chilli che stann’ a dritta vann’ a sinistra e chilli che stanno a sinistra vann’ a dritta: tutti chilli che stanno abbascio vann’ ncoppa e chilli che stanno ncoppa vann’ bascio passann’ tutti p’o stesso pertuso: chi nun tiene nient’ a ffà, s’aremeni a ‘cca e a ‘llà”.
Accade insomma che, mentre nel mondo là fuori piccoli e grandi eventi si susseguono come indipendenti dalla nostra volontà, ci scopriamo sempre meno in grado di comprendere, meno interessati a capire.
L’assordante rumore di fondo che pervade le nostre giornate ci segnala il carattere frenetico, il deficit di consapevolezza, la mancanza di scopo, che contraddistingue le nostre vite, ci avverte che ciò che facciamo ha sempre meno senso.
Facimme ammuina. E finiamo col sentirci come “anime sperdute che si dibattono in una boccia di vetro”. Che fanno i conti, giorno dopo giorno, con vecchie e nuove paure. Che cercano rifugio e identità in un’automobile, un tatuaggio, nell’ultimo modello di telefono cellulare o di lettore mp3. Siamo esseri senza radici e senza memoria perennemente in cerca di prodotti in grado di conquistare uno spazio nelle nostre anime. Almeno fino alla prossima novità.

Coppi e Bartali

Il fatto che nella fase attuale le “fabbriche” che producono identità siano decisamente in crisi determina insomma effetti significativi sul terreno culturale, economico, politico, sociale. Sapendo chi siamo, avendo un’identità riconoscibile, abbiamo ad esempio più ragioni e motivazioni a competere, quale che sia l’esito, nell’arena democratica.
La difficoltà di riconoscersi in quanto componenti di comunità stabili, in una fase in cui le agenzie che tradizionalmente assicuravano identità di lunga durata vivono una crisi per molti aspetti strutturale, determina al contrario un indebolimento delle appartenenze e ciò fa sì che diventi sempre più difficile impiantare rapporti umani duraturi, condividere obiettivi di lungo termine, riconoscerci stabilmente nella durata e dire, per questo, di essere con altri. Non è dunque un caso che a questa contrazione del futuro sul presente sia connessa la produzione di solitudine, dato che quando abbiamo una storia solida alle spalle e molto futuro davanti disponiamo per ciò stesso di risorse da condividere con altri.

Il fatto di potersi dichiarare seguaci di Bartali o di Coppi, del Partito Comunista o della Democrazia Cristiana, del Napoli o dell’Internazionale, e potersi riconoscere per ciò stesso all’interno di comunità formati da tanti, come noi, comunisti, democristiani, seguaci di Bartali e del Napoli e così via discorrendo, non è insomma soltanto un modo per dichiarare la propria fede politica o sportiva, ma anche uno straordinario strumento di costruzione di identità e, allo stesso tempo, un potente antidoto alla produzione di solitudine involontaria.
Non a caso, ogni qualvolta vengono recise le radici con il nostro passato e le strade verso il futuro diventano più strette, si riducono drasticamente anche le possibilità di connetterci con altri e ci sentiamo più soli.

La signora in marketing

Nel corso di un seminario di aggiornamento rivolto ai responsabili del marketing di una multinazionale del settore moda, la gentile e colta signora seduta due posti più in là, verso il centro del tavolo della presidenza, ha concluso più o meno con queste parole la sua relazione: “Quando decidete di lanciare un prodotto, non dimenticate che ciò che le persone cercano oggi non è la fama, ma la notorietà. La prima ha il pregio di durare, ma la si costruisce nel tempo, e purtroppo siamo destinati ad averne sempre di meno; la seconda è meno stabile e prestigiosa, ma ha il vantaggio dell’immediatezza e soprattutto rappresenta un traguardo possibile anche per chi non compierà mai un’impresa storica, per chi non ha le qualità o la fortuna per diventare un divo della musica, del cinema, dello sport. E’ esattamente su questa voglia di essere riconoscibili senza doversi impegnare troppo che dovete puntare”.

Gli inquilini del cimitero di Lowhill

In una bellissima storia di Dylan Dog, il fumetto culto delle generazioni post Tex Willer, l’indagatore dell’incubo si trova alle prese con una categoria molto speciale di morti viventi.
Diversamente dai loro colleghi dei film dell’orrore, canonicamente assettati di vendetta e di sangue, gli inquilini del cimitero di Lowhill, la cittadina nella quale l’autore Michele Medda ha ambientato l’avventura, ritornano alla vita semplicemente perché intendono recuperare tempo, quello che si sono accorti di non aver speso bene nel corso della loro vita, impegnati come erano a correre avanti e indietro, giorno dopo giorno, come forsennati.
Il messaggio è fin troppo evidente, così come le sue connessioni con le vite che ci ritroviamo quotidianamente a vivere. La modernità sta cambiando, assieme al nostro approccio con il tempo, il rapporto con le culture, le storie, i modi di fare e di dire che abbiamo ereditato.
Al tempo dei senza tempo la parola chiave è “correre”. Niente più tempi morti nelle nostre vite. Non possiamo permettercelo. A nessuna età. Come dimostra l’agenda settimanale di un qualunque figlio della middle class italiana dagli 8 anni in su: la scuola e i compiti, tutti i giorni; sport, teatro o ballo, due o tre volte a settimana; l’appuntamento col dentista per dare una controllata alla macchinetta il mercoledì; il cinema o la festa di compleanno di qualche compagno di classe (o di modulo) il venerdì o il sabato; la domenica col papà, in particolare se ha la ventura di essere figlio di genitori separati.
E’ una vita da stressati. Che ci sfugge. Nella quale il tempo diventa sempre più prezioso. Tiranno. Impalpabile. Irrecuperabile. Incomprensibile. Irraggiungibile.
La morale della storia sembra, almeno a prima vista, abbastanza semplice.
Il tempo è denaro. Divora ogni cosa. E dunque bisogna andare al massimo. Preferibilmente a gonfie vele.
Conoscere le ragioni o la meta? Non è indispensabile. Ciò che conta davvero è non restare indietro. Raggiungere l’obiettivo. Qualunque esso sia. Ovunque esso sia. A qualunque costo.

Time machine

Il tempo inafferrabile, che è la misura di tutte le cose, che tutto toglie e tutto dà, che non lascia alternative, non è stato e non è sempre lo stesso tempo né dal punto di vista scientifico, né da quello filosofico, né, tanto meno, da quello sociale. E ciò produce effetti e conseguenze sulle nostre vite, in particolar modo in questa fase nella quale i cambiamenti appaiono sempre più veloci e radicali e il modello sociale fondato sulla stabilità – dei valori, della famiglia, del lavoro – vive una profonda crisi.

Nella fase precedente, chi ad esempio entrava in fabbrica come apprendista, si ritrovava nel corso degli anni operaio generico, specializzato, professionalizzato, fino a diventare a fine carriera, se proprio tutto era filato per il verso giusto, caposquadra o capoturno. E una aspettativa di carriera in qualche modo equivalente attendeva l’impiegato comunale o l’addetto alla contabilità in azienda. Per tutti, paga base, contingenza, scatto di anzianità ogni 2 anni, rinnovo del contratto ogni 3 o 4 anni, età e ammontare della pensione facilmente prevedibili non appena conquistato l’agognato posto di lavoro.
E’ stata la storia di mio padre Pasquale, alla Società Meridionale Elettrica prima e poi, in seguito alla nazionalizzazione, all’ENEL; di Raffaele Parola, papà di Tonino, all’Italsider; di Gennaro Traino, papà di Salvatore, alla Mecfond; di Francesco Strazzullo, papà di Rosario, alla FIART.
Le stesse vite da mediano di tanti loro coetanei di Milano, Genova, Taranto, Bologna, Torino. La fierezza di poterci mandare a scuola. La voglia di darci una vita migliore di quella che avevano avuto loro. La convinzione che i loro sacrifici erano ripagati dal maggior rispetto sociale di cui godevano assieme alle proprie famiglie.

Nella fase attuale, per dare l’idea dei tanti cambiamenti che ci aspettano o ai quali ci dobbiamo semplicemente abituare usiamo dire che la vita lavorativa è sempre meno un posto e sempre più un percorso (troppo spesso a ostacoli). E che presto o tardi coloro che potranno raccontare di aver lavorato in una sola fabbrica o in un solo ufficio troveranno posto di diritto nel Guinness dei primati, diventeranno personaggi da fiera delle rarità.

Who has time

Who has time? But then, if we do not ever take time, how can we ever have time?

Ricordate? E’ la visionaria macchina da presa dei fratelli Wachowski a proiettarci in un mondo chiamato Matrix. In un futuro dominato dalle macchine. Reso possibile dalla finzione.
Morpheus, Neo e Trinity sono al cospetto del Merovingio. L’improbabile scopo, farsi consegnare il Fabbricante di Chiavi. La missione impossibile, salvare Zion, l’ultima roccaforte della razza umana.
E’ la disperata lotta contro un nemico che non può essere battuto. Una straordinaria metafora del difficile rapporto che noi, eredi dei grandi sconvolgimenti determinati dall’avvento della società industriale, abbiamo con le macchine, la realtà, il tempo, il consumo.

Perché vi raccontiamo tutto questo?
Perché pensiamo si possa parlare di tempo, tecnologie, realtà, consumo privilegiando uno specifico punto di vista. Quello di chi si prefigge di indagare lo spazio nel quale sono più evidenti le connessioni esistenti tra i diversi concetti e le conseguenze che esse determinano sulle nostre esistenze, nei confini di ciò che siamo e di ciò che per noi ha valore. Di approfondire questioni relative ai cambiamenti che si determinano nelle nostre vite ogni qualvolta cambia il nostro rapporto con il tempo, all’incidenza sempre più importante del consumo, al ruolo rilevante e controverso che in tali processi rivestono le nuove tecnologie, alle sempre più estese relazioni esistenti tra mondo reale e realtà virtuale.

What’s future?

Proprio nell’era digitale appare più difficile definire il luogo dove le forze in campo si confrontano, dove avviene lo scontro politico, così come è più difficile identificare chi siano i dominanti e chi i dominati, dove siano, in altre parole, i veri centri di gestione del potere.

E’ in atto un processo di progressivo slittamento dalla democrazia dei cittadini verso la democrazia dei consumatori che sta producendo dei cambiamenti irreversibili nei nostri modi di vivere, pensare, partecipare. Cresce il senso di fatalità, l’accettazione incondizionata del reale così come ci viene offerto dallo spazio simbolico e virtuale.

Da un lato, viviamo le nostre vite da operaio, impiegato, professionista, studente, dirigente, professore, imprenditore, in città incerte, senza volto e senza identità, esaltati e perseguitati dalla possibilità di essere “raggiungibili” senza soluzione di continuità, in cielo, in terra e in ogni luogo.

Da un’altro si sviluppano nuove opportunità, di carattere non solo ludico, in molti casi come conseguenza, non predeterminabile ex ante, di un libero confronto di idee. Diviene possibile definire nuove identità e cerchie di condivisione. Possiamo trasformarci da meri consumatori a produttori di contenuti.

Le nostre rughe ce le siamo guadagnate

La parte ricca del mondo sembra avere sempre più paura di scoprirsi vecchia, decrepita, prossima alla fine, per molti versi inutile. Nonostante l’ingegneria genetica, l’oggettivo allungamento della vita, la sconfitta di molte malattie, le nostre aspettative di futuro diminuiscono piuttosto che crescere. Ci aggrappiamo con tutte le nostre forze al presente, a ciò che dura un attimo e va costantemente rinnovato, al fascino del nuovo che porta con sé, per il fatto stesso di essere tale, significati positivi.

Nelle nostre culture, società, economie globalizzate, nelle quali il significato dei valori di libertà ed uguaglianza è cambiato in maniera profonda, l’aggettivo “nuovo” tende sempre più a perdere la sua neutralità, a rendersi indipendente dall’evento, dal fatto, dalla cosa a cui è associato, per diventare una promessa “a prescindere” di esiti, approdi, risultati migliori di quelli precedenti (vecchi). Facciamo sempre più fatica a pensarci in quanto appartenenti a una famiglia, un partito, un gruppo, una nazione, una comunità, uno Stato. Parlare di vecchi valori è come parlare di valori in disuso. Le idee se sono vecchie sono ritenute per ciò stesso logore e, soprattutto, perdenti.

Viviamo come ossessionati dalla necessità di cogliere sempre nuove opportunità, di raggiungere sempre nuovi traguardi. Ci scopriamo impegnati a sbarazzarci di antichi usi e conoscenze prima ancora di averne acquisiti degli altri. Ogni qualvolta pensiamo di lasciarci alle spalle una quotidianità che sentiamo mediocre, povera, stressante, insoddisfacente, ci diciamo pronti a cominciare una nuova vita.

The universum graduate survey 2007

In un bell’articolo (Fitness Culturale) di Antonio Carlo Larizza su Nòva 24 Ora, viene citata l’edizione 2007 del rapporto The universum graduate survey.
Detto che l’articolo in questione è da leggere tutto per i nostri ragionamenti segnaliamo che il 61% del totale del campione (laureati europei, risposta multipla) considera “formazione e aggiornamento gratuiti” i migliori benefit (60% straordinari pagati; 25% ricevere prestazioni mediche a condizioni vantaggiose; 17% possibilità di guidare un’auto aziendale. E che secondo uno studio del Centro di ricerca sull’organizzazione aziendale dell’Università Bocconi, un terzo dei lavoratori considera l’aggiornamento e la crescita professionale più importante della retribuzione.

Questioni di identità

Delusione e sfiducia sono i sentimenti predominanti, i soli capaci di accomunare donne e uomini di più generazioni. Si fa sempre più incombente il rischio di finire soffocati dall’impasto paludoso di competitività globale e disintegrazione sociale con il quale si è costretti quotidianamente a fare i conti. Mentre il caos, l’anomia, la violenza, spingono a dubitare degli ordinamenti e delle leggi, a mettere in discussione la saggezza dei padri, a rifuggire le responsabilità, a cercare rifugio nell’autorità e nei poteri forti.

A rendere ancora più intricata la faccenda ci sono poi le questioni di identità, quelle che investono le modalità con le quali ci si riconosce stabilmente nel tempo con altri.
Si tratta dell’insicurezza per certi versi più insidiosa e difficile da combattere, quella che è dentro ciascuna persona, che determina una condizione diffusa di sfiducia tormentosa, che ha a che fare con la percezione di se stessi nel mondo, con l’idea di cosa è importante e cosa invece non lo è.

I processi di modernizzazione, con particolare incidenza durante le fasi di transizione, scompaginano orizzonti, credenze, modi di vedere e interpretare il mondo; l’equazione «niente dura dunque niente ha valore» produce effetti devastanti sulla fiducia nel futuro, sulla voglia di partecipazione, sulle personalità.

A essere messe in crisi, fino al limite della rottura, sono le identità conquistate, costruite, alle quali ci si è abituati.
Modelli relazionali sempre più volatili, evanescenti, difficili da mantenere a fronte della solidità, a tratti persino della rigidità, della fase precedente sono in modi diversi il prodotto di tali processi, così come l’iperattivismo spesso inconcludente che accompagna le vite di un numero sempre più consistente di persone e la flessibilità delle reti sociali, che richiede una costante e non banale capacità di riconfigurare il proprio ruolo.

Il leader è nudo?

Alcune riflessioni bollenti dopo una notte angosciante – esaltante nel corso di un mattino non ancora sereno in un paese sulla lama di un coltello.

1. Se anche in Senato l’Unione ha potuto conquistare, seppure per un soffio, la maggioranza, lo si deve non solo al voto degli italiani all’estero, ma anche al voto degli elettori del Sud.
Diversamente da quello del Centro, dove decenni di buon governo rappresentano, tra alti e bassi, un dato consolidato di riferimento, nel Sud si tratta di un esito niente affatto scontato, perché se è vero che Berlusconi si è particolarmente distinto per la propria incapacità (non volontà) di affrontare seriamente almeno alcuni dei problemi più importanti di questa parte del Paese, è altrettanto vero che da molto tempo la questione meridionale non c’è più. Dissolta più che risolta. Colpevolmente lasciata cadere piuttosto che abbandonata.
Le ragioni? Tante e naturalmente non tutte fuori dal Sud.
Ad esempio la classe dirigente meridionale non si pensa abbastanza in quanto tale e non dimostra una sufficiente capacità di innovazione sul terreno delle cose da fare e delle modalità con le quali farle, come vedremo anche più avanti; le donne e gli uomini del Sud fanno fatica ad assumere fino in fondo i doveri e i diritti della cittadinanza, finiscono troppo spesso col delegare, si comportano troppo spesso come sudditi invece che come cittadini.
Ciò detto, resta il fatto che le responsabilità delle classi dirigenti nazionali sono grandi.
Riuscirà il governo Prodi a ridare una dimensione politica alla questione meridionale e dunque a ridare un’identità al nostro Paese? Sta qui a nostro avviso uno snodo importante per il nostro futuro. Sicuramente più di un ulteriore dibattito su come si dovrà chiamare il nuovo contenitore partito del centro sinistra.
Da queste parti, continuiamo a ritenere che la Cosa sia più importante del Nome della Cosa. Che i contenuti siano più importanti dei contenitori. Che i programmi di governo e la coerenza con la quale si portano avanti siano, per tutti, il vero banco di prova.

2. Abruzzo 53.2; Basilicata 60.4; Calabria 56.8; Campania 49.6; Molise 50.5; Puglia 47.9; Sardegna 50.9; Sicilia 40.5: sono i dati relativi alle percentuali conseguite dall’Unione nelle regioni meridionali.
Spicca, in negativo, il dato della Campania, terz’ultima. (per ragioni diverse, i dati della Puglia e della Sicilia erano in fondo prevedibili: la particolare forza del blocco moderato e le note commistioni in Sicilia, il valore aggiunto portato da Vendola e l’alto tasso di astensionismo nelle recenti elezioni regionali in Puglia, ecc).
In Campania, neanche un anno dopo le elezioni regionali, va male nonostante Bassolino, De Mita, Mancino, ecc. Ci sarà un giudizio degli elettori sulla capacità e sulle modalità di governo a livello regionale? Sui criteri di formazione delle liste? Sui livelli di civiltà e di sicurezza delle nostre vite e delle nostre città? Ci sarà qualche riflessione da fare anche in riferimento alle prossime elezioni al comune di Napoli?

3. Abruzzo 18,4; Basilicata 19,9; Calabria 14,4; Campania 14,1; Puglia 15,6; Sardegna 17,2; Sicilia 11,4: questi sono invece i risultati conseguiti dai DS nel Sud (in Molise è stata presentata la lista dell’Ulivo anche alla Camera).
Qui l’urgenza di affrontare la questione Campania, dopo 15 anni di governo, appare ancora più evidente. Per quanto ci riguarda continuiamo a ritenere che molte mani e molte teste siano meglio di una. Che occorre privilegiare le capacità e le competenze piuttosto che le appartenenze. Che una classe dirigente sia meglio di un leader, per quanto autorevole possa essere.
Si può avviare finalmente una riflessione seria intorno a questo punto?

L’immondizia siamo noi?

L’immagine che vedete qui a fianco è stata scattata sabato 1 aprile 2006 a via Nicotera, a Napoli. E forse merita qualche commento. Così come il titolo di questo post, solo in parte provocatorio.
Naturalmente non è la peggiore immagine possibile di Napoli. Nè segnala il peggiore dei suoi mali. Del resto, in un mondo nel quale ogni ora, tutte le ore di tutti i giorni, muoiono 1200 bambini, la maggior parte per la fame e la sete, senza che neanche facciamo finta di accorgercene, si fa fatica a pensare a qualcosa come al peggio in assoluto. A napoli come in ogni altro posto del mondo.
Ma queste poche righe non si prefiggono di salvare il mondo, ma soltanto di condividere qualche considerazione.
A Napoli ieri la giornata era molto bella. Napoli è bella. La primavera a Napoli è bella. Ma purtroppo a Napoli la vita è sempre più impossibile.
Se c’è qualcuno che sente il bisogno di appiccicare il cartello ritratto nella foto è perché non ne può più di vedere suoi “simili” che portano per strada l’immondizia fuori dalle fasce orarie consentite.
Il fatto è che non sembra esserci rimedio.
Non sono trascorsi 15 minuti che siamo su via Caracciolo. Il mare, il Vesuvio, Capri, un incanto.
Abbandonati sul muretto tre contenitori sporchi di pizza e due bottiglie di birra vuote. A meno di tre o quattro metri c’è un contenitore per i rifiuti. Servirebbe scrivere “l’immondizia come voi sta a tre metri”?
Tra poche settimane si voterà per il rinnovo del consiglio comunale.
Sulle carenze, i limiti, le omissioni di chi governa e di chi si oppone in questa città ci sarebbe davvero tanto da dire. Ma di questo potete leggere sulle cronache de la repubblica, il corriere del mezzogiorno, il mattino, ecc.
Qui la questione è un’altra. Fino a quando saremo immondizia e non cittadini potremo davvero sperare di avere una classe dirigente seria, rigorosa, capace, onesta?