Giuseppe Pisciotta l’ho conosciuto un anno e mezzo fa, anche due.
Arriva un mercoledì e mi chiede del programma di sociologia dell’organizzazione. Non faccio in tempo a dirgli autori e titoli dei libri che li dice lui a me. Scusa – gli faccio -, ma se li sai già che me li chiedi a fare? Mi scusi – mi risponde -, in realtà volevo la conferma che non erano cambiati, perché questi ce li ho già, nel senso che ce li ha già mia figlia, che studia sociologia, e che l’esame con lei l’ha fatto già. Ok, allora siamo a posto – dico io-. Per la verità non ancora – mi fa lui-. In che senso, scusa? Nel senso che volevo chiederle se mi poteva dare qualche indicazione su come studiare.
Voi a un tipo così cosa avreste detto? Io gli ho detto di ripassare il mercoledì successivo intorno alle 8.30.
Il mercoledì dopo arriva in fretta, la prima ora se ne va per le indicazioni che mi aveva chiesto, dopo di che mi dice che è dell’ottobre 1954, che è studente di Scienze del Governo e dell’Amministrazione, che ha lavorato alla Conceria IMPEL di Solofra (AV) come ragioniere responsabile di acquisti, vendite e contabilità per circa 28 anni senza fare mai un giorno di assenza. Prende fiato, poi mi racconta del cuore che non ha retto, del lento recupero, della dieta alimentare, del passaggio da 60 a 0 sigarette al giorno, dell’attività sportiva leggera ma continua. Dal 2004 sono in pensione – conclude-, nel 2007 mi sono iscritto all’università.
Giuseppe ha fatto il suo esame, ogni tanto un incontro nei corridoi di Fisciano, fino all’annuncio della prossima laurea triennale con una tesi su Luigi Einaudi e il federalismo in Storia delle dottrine politiche. Il 22 febbraio 2010 la seduta di laurea, con l’emozione che lo avvolge fino a paralizzarlo quando pensa ai genitori che non possono vivere questo momento assieme a lui.
Adesso Giuseppe si è iscritto alla Magistrale, a Scienze politiche, indirizzo storico, ha già fatto due esami. Professò – mi ha detto l’ultima volta che l’ho visto -, prima correvo, avevo come l’ansia di laurearmi. Adesso invece no, adesso se non mi danno almeno 27 l’esame non me lo prendo. Non devo dimostrare niente, ma studio con piacere, e penso che anche alla nostra età – se mi posso permettere -, possiamo reggere il confronto con i più giovani.
Posso dire che mi fa piacere pensare che anche in un paese in questo momento così “sgarrubato” come l’Italia ci sono tante persone come Giuseppe Pisciotta che non rinunciano a migliorarsi, a imparare, a crescere? Io intanto l’ho detto. Spero faccia piacere anche a voi.
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Riparare è giusto
Non so voi, ma io per molti anni ho pensato che l’ideatrice del principio di riparazione fosse mia madre. Come tantissime altre mamme in quei “favolosi” anni 60, per lei il rattoppo, l’aggiusto, la riparazione erano una filosofia prima ancora che una necessità. Più avanti sarebbe venuto il tempo dell’usa e getta ma nel frattempo molti di noi, grazie ai sacrifici dei papà operai che volevano il figlio dottore, avevano conosciuto il grande John Rawls e imparato che le ineguaglianze sono giustificate soltanto se producono benefici compensativi per i componenti meno avvantaggiati della società e sono collegate a cariche e posizioni aperte a tutti (principio di riparazione). E che per questo sarebbe necessario che i decisori decidano come se non avesser nessuna conoscenza (velo di ignoranza) circa la razza, il genere, il censo, ecc. che ci sono stati assegnati dalla lotteria sociale.
Pura teoria? Niente affatto. In particolare se si usa “teorico” come sinonimo di “astratto”. Nella realtà senza il principio di riparazione la “società dell’accesso”, così tanto richiamata in letteratura, nei documenti ufficiali dei governi nazionali ed europei e così poco perseguita nella concreta attività dei governi, semplicemente non esiste.
Che fare allora? Naturalmente tante cose. Qui c’è lo spazio per una: creare le condizioni affinchè tutti possano imparare. Sempre. Perché è questo il modo più realistico per evitare che chi non per propria colpa si ritrova indietro veda aumentare la distanza che lo separa da chi è integrato. E perché il sapere trasforma il lavoro, i modi di vivere, i modi di essere e di comunicare.
Come farlo? Ad esempio facendo della formazione continua il principale strumento di gestione delle trasformazioni del lavoro (suggerisce qualcosa il fatto che il Rapporto “The universum graduate survey 2007”, questionario a risposta multipla, indica che il 61% dei laureati europei considerano la “formazione e l’aggiornamento gratuiti” il migliore benefit?). Favorendo la costruzione di legami sociali fondati sugli scambi di conoscenza. Dando valore al merito. Facendo dei processi di apprendimento lungo tutto il corso della vita l’asse strategico attorno al quale ripensare il modello sociale nei paesi cosiddetti avanzati.
Cose da non credere. Migliorando le abilità e le capacitazioni delle persone crescerebbero anche la conoscenza capitalizzata e la competitività, l’economia e le imprese. Provare per credere.
Formarsi è giusto
Formarsi è giusto. Perché in un mondo che cambia a un ritmo sempre più incessante chi sa, e sa fare, ha più possibilità di non ritrovarsi estraniato, emarginato, escluso, dai processi produttivi, sociali, culturali. Perché in una società che, con strabica, talvolta insopportabile, autoreferenzialità, ama definirsi della conoscenza, l’importanza dell’apprendimento per tutto l’arco della vita dovrebbe rappresentare un presupposto ancor prima che un esito. E perché forse, come intuì una bambina un pò di anni fa, la libertà è davvero il diritto di sapere delle cose.
Il tema è qui la formazione continua per i lavoratori. E all’interno della FC i fondi interprofessionali.
Il piano formativo è un inganno?
La domanda è solo apparentemente provocatoria.
Oggi tutti i settori produttivi più dinamici sono in tensione estrema verso mutamenti forti. Cambiano con rapidità Organizzazioni, Attori e Sistemi di Relazioni interne alle grandi imprese. E spesso è il contesto a determinare il modello organizzativo.
A fronte di una siffatta velocità di mutamento la competenza collettiva rischia di indebolirsi se anche il sistema d’interfaccia organizzativa diventa mutevole.
Il nostro lavoro di sperimentazione, in un quadro di collaborazione molto fattiva con le Parti Sociali ha permesso di:
portare alla luce le differenze tra ciò che c’è e ciò che appare;
testare la tenuta metodologica del modello di pianificazione, ma nel contempo di evidenziare la scarsa sostenibilità di un sistema relazionale “radicalmente“ bilaterale;
delineare le peculiarità della situazione italiana, le criticità ad esse collegate, la difficoltà a immaginare transfer meccanici di buone pratiche sperimentate altrove in Europa;
promuovere un percorso sostenibile che può generare apprendimento di sistema, a partire dalla identificazione di attori e competenze;
individuare i possibili attori chiave chiamati a governare i Piani formativi nelle grandi imprese italiane;
delineare gli elementi di un Piano formativo sui quali è possibile che si attivi una relazione partecipata tra le parti sociali e con quali possibili strumenti.
ALCUNE INDICAZIONI EMERSE DALLA RICERCA
Gli attuali modelli di bilateralità formativa aziendale, tranne qualche caso di eccellenza, non contemplano una concertazione diffusa su tutto il Piano Formativo.
C’è una bilateralità macro negli intenti e molto sfumata sul processo.
Emergono con evidenza alcuni momenti concertativi più di altri, con Fasi e Attori abbastanza definiti, ma la Relazione e i Ruoli restano elementi che meritano ulteriori riflessioni e azioni di rinforzo.
Ad oggi l’allineamento degli intenti e degli obiettivi di tutti gli attori chiave, è più facilmente individuabile all’inizio ed alla fine dei Piani formativi, sulle finalità, gli indirizzi e sulle valutazioni finali.
Il processo del Piano è in parte lasciato alle regole del “mercato”; in parte delegato ad un sistema di attori di facilitazione tecnica; in piccola parte legato ad aspetti negoziali (es l’orario).
Sarebbero utili format di orientamento alla relazione bilaterale (es. l’allineamento degli intenti, la condivisione degli indirizzi del PFA); un set di metodologie e strumenti di natura snella, leggera e adattabile, utili alla verifica congiunta in itinere e finale dei Piani.
Da parte sindacale viene segnalata l’esigenza di entrare meglio nei momenti di monitoraggio e verifiche in itinere; nella individuazione della tipologia dei destinatari; nella definizione del quadro del riconoscimento della competenza ex post; azioni di sensibilizzazione e informazione delle RSU affinchè possano entrare di più e meglio nel merito dei piani formativi.
Da parte aziendale viene segnalata l’esigenza di rendere più flessibili le modalità di accesso al finanziamento dei Piani e maggiore snellezza nelle procedure di gestione.
ALCUNE INDICAZIONI PER IL FUTURO
Nella realtà dei fatti, la firma sul Piano non è garanzia di condivisione.
Processi e procedure hanno bisogno di un background culturale e di un sistema di competenze nel quale ciascun Attore fa la propria parte; di tempi di elaborazione e di sedimentazione lunghi e complessi nelle imprese; di costanza e continuità; di valorizzazione delle buone pratiche; di azioni di rafforzamento, di sostegno agli Attori Sociali (informazione diffusa nelle Imprese; formazione mirata al ruolo di agenti di formazione; sensibilizzazione, anche a partire dal contesto territoriale esterno alle imprese; regia dei processi da parte delle OO.SS territoriali nei confronti delle RSU e delle Associazioni datoriali nei confronti delle imprese associate).
La negoziazione, concertazione, condivisione del piano formativo richiede insomma dei ruoli organizzativi e sociali, un processo di costruzione dal basso da animare e preparare con gli stessi attori sul campo, nei contesti aziendali, misurando modalità e strumenti con le parti direttamente coinvolte.
Gli Attori sociali sono chiamati a svolgere un nuovo ruolo di agenti di formazione continua, agenti di apprendimento nei luoghi di lavoro e ciò pone all’ordine del giorno la necessità di ripensare le strategie di relazione e di stare dentro la relazione bilaterale con un ruolo meno difensivo e più propositivo.
Nell’attivazione di processi di bilateralità, di condivisione dal basso, le responsabilità delle scelte restano interne al sistema di relazione tra le Parti Sociali. E se non c’è un inquadramento preliminare di alcune variabili di contesto (clima organizzativo, relazioni sindacali) e una presa d’atto di quali sono gli Attori che entrano in campo nel sistema di relazione che si crea dentro e fuori le aziende (figure di facilitazione della relazione, figure di supporto alla creazione della relaizone di fiducia, le organizzaizoni datoriali, le OOSS territoriali) si fa oggettivamente molta più fatica ad impostare processi reali di bilateralità.
Si può rafforzare il processo di condivisione, lavorando per:
rendere più sistemico e meno contingente il rapporto con la strategia formativa nelle Grandi Imprese;
definire un orizzonte temporale medio lungo per la programmazione al fine di determinare un processo virtuoso (utilizzare gli esiti finali dei Piani e le verifiche di impatto per fare nuove programmazioni);
pensare e definire congiuntamente il fabbisogno formativo.
Per costruire sensibilità alla condivisione serve una “pedagogia” fondata su esperienze e pratiche di terreno che definiscano quando e cosa condividere, gli intenti e gli impatti, gli obiettivi e i risultati, per le imprese e le persone.
Può essere utile prevedere formule leggere di verifica in itinere, gestibili da parte dei non addetti ai lavori;
snellire le procedure di accesso alla formazione continua;
rafforzare le valutazioni e le autovalutazioni sugli esiti, costruendo indicatori di misura legati alla qualità e all’efficacia della formazione finanziata.
individuare sedi settoriali e territoriali per favorire le prassi di bilateralità nelle imprese.
Dichiarazione di intenti.