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Un tuffo nel passato

Meglio essere precisi. Il passato del titolo non si riferisce al tempo, la recensione di Carmen Fiano mi è arrivata oggi, ma al libro, dato che oggetto delle riflessioni di Carmen è Bella Napoli. Perché allora il suo commento sta qui? Perché come molti di voi sanno esiste una connessione forte tra Bella Napoli, Testa, Manie  Cuore e La tela e il ciliegio. E perché le riflessioni di Carmen la rendono quanto mai evidente. Ma adesso basta parlare io, leggete piuttosto cosa scrive lei.

Mi scuso per il mio lungo silenzio.  Questi sono degli appunti che ho scritto dopo aver letto il suo libro “mi avvicino ad un libro come ad un viaggio, non cerco mete esotiche o false evasioni dalla realtà ed allora … 
Salgo su un vagone di treno “occupato” da un sindacato in cui non credo più e da dove non vedo l’ora di scendere, passo in un altro vagone dove trovo posto, il mio posto in quella “condizione di possibilità che non toglie ma aggiunge responsabilità tenendomi distante da chi ha preferito “alle vie del lavoro e della partecipazione quelle della ricchezza senza la capacità, del comando senza la responsabilità”.
Faccio sosta in un negozio di musica ed imparo che il miglior modo di imparare è insegnare “e che è importante far si che si ami insegnare agli altri ad amare il proprio lavoro che tu sia un ingegnere o “sistemi carte”.
Ho incontrato “mastri”, quelli che sanno fare una cosa dall’inzio alla fine ed ho incontrato una certa Valeria che mi ha stordita con un pot pourri di lavori legati da un sorriso e dall’ascolto.
Su quel treno c’era anche il signor “costruttività” accompagnato dalla misura attendibile della forza reattiva di cui si ha bisogno nella vita per costruire, ideare, creare e c’era la signora “costanza”, la signora “volontà” e il signor “esperienza non legata al cosa ma al come” erano tutti li su quel treno.
Ci siamo fermati per una sosta ed ho bevuto un caffè “da re, fatto da un re del caffè”.
Il mio viaggio è continuato ed è salito un controllore, un napoletano, ma non uno di “quelli modello cartolina” ma una sorta di ibrido, di apolide che abita a Bologna, uno di quelli che fa viaggiare i treni in sicurezza e ci siamo messi a parlare di meritocrazia “che non esiste o è difficile da valutare” come l’impegno e la capacità di scegliere.
Si sono aggiunti a noi un’insegnante una di quelle che crede nella scuola, che insegna e “non crede solo nei progetti”, era con un gruppo di bambini a cui auguro di non diventare una “massa di ignoranti alfabetizzati. Poi sono saliti altri passeggeri abbiamo chiacchierato un pò , con qualcuno non ero molto d’accordo ma “non si può essere sempre d’accordo, ogni tanto bisogna ribellarsi e far valere i propri diritti” ed esprimere le proprie opinioni.
Eravamo quasi alla meta quando è salito lui il “Maestro”, quello che veramente insegna, trasmette un’etica, dà l’esempio, dà il sapere, che dà la memoria dell’ineguagliabile valore di un mestiere che s’adda arrubbà , è stato lui che mi ha regalato una foglia oro che sto portando a casa come il più bel regalo di questo viaggio e sapete ???????  ho deciso di tornare lì, lì nella bella Napoli.

Bella Napoli. Storia della mia gente

Dite la verità, voi l’avete avuta una prof. di matematica che il primo giorno di lezione, classe prima, liceo scientifico, vi ha chiesto di scrivere sulla lavagna due cose due che amate e due che invece non sopportate? Se la risposta è no non vi scoraggiate, non l’ho avuta neanch’io. Io però ce l’ho per amica, un’amica vera, di quelle che ad averle ti si scalda il cuore perché lo sai che ci sono anche se lei vive a Catania e tu a Napoli. Un’amica che ti scrive per dirti che ha comprato una copia di Storia della mia gente e una copia di Bella Napoli e li ha dati da leggere a Simone S. e Giovanni M., ragazzi di prima, suggerendo loro di trovare qualche parallelismo, e che quello che ti ha mandato è il risultato del loro lavoro.
Ho chiesto a Concettina, sì, scusate, magari non tutti la conoscete, la mia amica è Concetta Tigano, perché ha scelto proprio loro, e la risposta è stata “perché Giovanni è un ragazzino molto maturo, impegnato, legge libri, giornali, e la cosa non che isa proprio così usuale alla sua età, Simone invece mi ha sorpreso quando il primo giorno, per rompere il ghiaccio, ho fatto scrivere ai ragazzi alla lavagna due cose che amavano e due che non sopportavano e lui ha scritto il ’68 tra quelle che amava e l’arroganza tra quelle che non sopportavano”.
Solo a questo punto ho cominciato a leggere, e vi dico solo che sono stato contento, perché adesso tocca a voi leggere, e mi piace che lo facciate senza troppe chiacchiere da parte mia.  Ah, solo una cosa ancora: ma avete visto come ci sta bene il titolo del libro di Nesi come sottotilolo di Bella Napoli. No, non è per un attacco di megalomania, ho tanti limiti ma non sono stupidi, è per dire che questa idea di raccontare la propria gente è un’idea bella, che vale, che si può contribuire in molti modi, con i libri o anche con le inchieste, come stiamo cercando di fare con Le vie del lavoro. Basta, mi fermo qui, altrimenti finisco per fare troppe chiacchiere.

From Storie della mia gente to Bella Napoli
di Simone S. e Giovanni M.
“L’Italia è (oppure “era”…) una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”.
Il celebre primo articolo della Costituzione racchiude in poche parole tutta l’importanza del lavoro per la vita di ogni singolo cittadino e di un’intera comunità.
Mentre scriviamo queste poche considerazioni sul lavoro, decine e centinaia di lavoratori stanno trascorrendo le loro ultime ore di lavoro o stanno manifestando perché sono in procinto di perderlo. Davanti a loro non vedono più futuro o progetti per sé o per i propri figli, vedono solo un quotidiano fatto di rinunce e di speranze, un presente basato sulla precarietà.
Se è vero che il lavoro è necessario in primo luogo per la sussistenza, cioè per procurarsi i beni primari per la sopravvivenza propria e della famiglia, esso è anche funzionale a una dignitosa esistenza. Il lavoro per essere tale deve conferire dignità, altrimenti è pura schiavitù o sfruttamento. Resta da capire appunto se il lavoro precario non abbrutisca o demotivi il lavoratore al punto tale da fargli perdere ogni tipo di progettualità e di amore per il lavoro. Si perde così anche la nozione di mestiere: questo spesso si tramandava di padre in figlio ed era un valore sicuro per la comunità che poteva ricorrere ad artigiani o tecnici esperti. Oggi purtroppo si usa soprattutto il termine occupazione, come se una persona dovesse soltanto riempire uno slot, liberatosi fortunosamente dopo un’attesa simile a quella che precede la agognata vincita a una lotteria.
Non dimentichiamo, poi, che il lavoro contraddistingue anche la storia di un popolo, ne è il motore, assieme ai suoi principi democratici. Un popolo che lavora è fondamentale per uno Stato che vuole progredire e prosperare in un contesto internazionale, mantenendo la propria sovranità e la propria specificità. Le recenti vicende legate alla stabilità dell’euro hanno appannato la fisionomia classica dello stato che può restare solido e a sé stante e hanno fatto capire come i destini economici possono influire sulle opportunità di lavoro di intere generazioni. Un’intera generazione, hanno detto molti, resterà invisibile, andrà perduta, resterà fuori dalla storia, proprio perché non troverà un lavoro o ne afferrerà solo periodici frammenti.
Un tratto caratteristico e innovativo della realtà economica e industriale italiana, un esempio per tutto il mondo, sono state le Piccole e Medie Imprese (P.M.I.). Queste fino a poco tempo fa erano una splendida storia di successo sia di operai sia di dirigenti, che, fondando il tutto su rispetto e collaborazione reciproca, davano vita ad attività industriali e a produzioni di qualità, che portavano ricchezza anche all’indotto, cioè alle piccole fabbriche o manifatture del luogo che si occupavano della produzione di componenti o accessori richiesti dalle P.M.I. Un celebre caso, reso noto al pubblico solo nel 2010, è contenuto nel libro (vincitore tra l’altro del Premio Strega ) di Edoardo Nesi “Storia della mia gente” che parla di come una P.M.I (un maglificio), nata nel dopoguerra, sia riuscita a diventare una grande impresa per poi essere venduta nel 2004 e vedere il declino non solo dell’azienda ma anche città stessa, che era diventata famosa e rinomata appunto per la produzione di tessuti.
Oggi il lavoro è un valore in crisi sia da un punto di vista puramente economico (i danni a seguito del crollo finanziario del 2008 sono stati ingenti,con aumento di disoccupazione e della precarietà, licenziamenti…), sia etico. Se l’Italia è diventato un paese di poche speranze e con scarse opportunità, in primo luogo per le generazioni più giovani, è perché alle vie del lavoro e della partecipazione ha preferito quelle della ricchezza senza capacità, del comando senza responsabilità, della notorietà senza merito. Perché, a fronte delle tante persone che portano a termine ogni giorno il loro lavoro con passione e con lo scopo di dare un senso alla propria stessa esistenza, ve ne sono altre che danno poca importanza a quello che fanno ritenendolo scontato, o che hanno un’occupazione per loro frustante o insoddisfacente, magari perché sentono quel lavoro estraneo, una forzatura o perché non accettano con senso di umiltà il lavoro per quello che è. Si tratta spesso di persone che non credono che il lavoro possa effettivamente migliorare le condizioni della comunità, che lavorano per portare a casa lo stipendio, non per imparare qualcosa ogni giorno dai propri maestri e dai colleghi, le cui conoscenze sono quanto di meglio il mondo del lavoro possa offrire in termini umani.
Lasciando da parte quelli morali, i motivi materiali dell’attuale “crisi del lavoro” sono da riscontrarsi in una sconcertante e spaventosa disoccupazione giovanile che sfiora il 30%. I giovani, nonostante la loro preparazione al lavoro corredata da lauree e masters, fanno fatica ad inserirsi per il troppo lento e macchinoso ricambio generazionale: i vecchi lavoratori occupano per troppo tempo il proprio posto per poter permettere già ad un giovane di sostituirlo. Inoltre, il nostro paese non valorizza affatto i neolaureati, inducendoli a lasciare l’Italia per trovare stabilità economica e riconoscimento dei loro meriti altrove. Sono questi i presupposti alla base del fenomeno dei cosiddetti “cervelli in fuga”, difficile da arginare, se lo Stato non interviene con opportuni incentivi e non finanzia con mezzi idonei la ricerca.
Un elemento che può sembrare contro corrente è rappresentato dall’occupazione di immigrati. Gli immigrati oggi nel nostro paese fanno lavori umili che ormai la maggior parte dei cittadini italiani non vuole fare perché mal retribuiti o faticosi, come il bracciante nei campi di pomodori, le pulizie domestiche o il lavoro di badanti. È innegabile il fatto che molti di questi immigrati lavorano in nero, senza diritti e coperture assistenziali. È pur vero, tuttavia, che essi contribuiscono notevolmente alla crescita del nostro PIL, anche perché molti di essi sono contribuenti e consumatori. L’Italia dovrebbe prendere come modello altri paesi; nel Regno Unito, per esempio, dopo la Seconda guerra mondiale, moltissimi immigrati provenienti dalle ex-colonie inglesi, dopo essere approdati nei porti di Sua Maestà, con pazienza e dedizione sono arrivati anche ad importanti ruoli nella società. Dunque non deve sorprendere se si possono trovare manager indiani o kenioti, ruolo che in Italia non è ancora così frequente.
Perché allora una realtà di questo tipo non può esistere nel nostro paese? La risposta è da ricercarsi, purtroppo, soprattutto nel diffuso pregiudizio secondo cui “gli immigrati rubano il lavoro agli italiani”. Un focolare di diffidenza spesso alimentato da partiti politici, che, anzi, ritengono gli immigrati una delle cause della crisi, ma anche radicato nella mentalità di alcuni strati sociali.
Allo stesso modo, i cittadini del Mezzogiorno a volte vengono discriminati in certe sedi di lavoro al nord proprio per razzismo e pregiudizi, secondo cui i “terroni” sarebbero ignoranti e poco professionali nel proprio lavoro. Invece tutto ciò è ben lontano dalla realtà, come sottolinea il libro “Bella Napoli” di Vincenzo Moretti, nel quale sono raccolte dodici storie di cittadini napoletani, storie di lavoro, di passione e di rispetto, che ci offrono spunti di speranza e di ottimismo nella Napoli fatta di mafia e corruzione raccontata in Gomorra da Roberto Saviano.
Ora, nonostante i problemi già esistenti, la situazione sta peggiorando con le misure varate dal governo Monti che, pur necessarie, aggraveranno la situazione. Bisognerà agire presto, quando la situazione finanziaria si sarà assestata, per migliorare l’accesso al lavoro soprattutto dei più giovani e favorire il ricambio generazionale. In fondo una società basata sul lavoro e sui diritti costituzionali è una società civile e democratica, ma, se fosse basata sul lavoro giovanile, essa sarebbe ancora più giusta e proiettata verso un futuro positivo, fondato su idee fresche e nuove, su una progettualità creativa che solo i giovani possono avere.
Non usiamo il lavoro come un vuoto slogan politico o sindacale. Il lavoro è frutto di sacrificio, va conquistato dopo anni di studio e di pratica in bottega o in officina o in laboratorio. Il lavoro non è merce di scambio, non è favoritismo, è giusta ricompensa data al merito.

Elogio dell’uomo artigiano

L’importante è capire

New York, 1962. Richard Sennett ricorda il gran freddo, l’incontro con Hanna Arendt, il calore con cui la sua maestra afferma che “le persone che fabbricano cose di solito non capiscono quello che fanno”, si accontentano di scoprire “come” farle, rinunciano a chiedersi “perché” (Sennett, 2008). Era accaduto con la bomba atomica, come confermerà Robert Oppenheimer, leader degli scienziati impegnati a Los Alamos; rischiava di accadere ancora, con la crisi dei missili a Cuba e il mondo alle prese con l’incubo di una nuova guerra.

Non ricordo se l’autunno a Napoli fu particolarmente freddo, conservo invece memoria di quello strano miscuglio fatto di incredulità e angoscia che accompagnava le nostre sere. A Secondigliano, a quel tempo, papà, mamma, io e Antonio, mio fratello, vivevamo in una stanza grande con angolo cucina e bagno sulla destra, di fianco al balcone che affacciava sullo stadio e una domenica si e una no si affollava di sedie e di amici, giusto il tempo della partita, campionato Promozione, al posto del biglietto il caffè, lungo, offerto dalla premiata ditta Moretti.

Ricordo che papà aveva comprato da poco il Telefunken, schermo bombato, bianco e nero e la sera l’intero caseggiato si riuniva per ascoltare, sperare, pregare per la pace nel mondo con Papa Giovanni XXIII, anche se noi non è che fossimo proprio credenti, almeno non nel senso impegnativo della parola.

Il lavoro, la missione, la nazione

Tokyo 2007. L’occasione del nuovo viaggio in Giappone mi viene data dall’indagine sull’organizzazione della scienza al Riken, uno dei più importanti istituti di ricerca del mondo. Sarà Angelo Volpi, al tempo responsabile Scienze e Tecnologie dell’Ambasciata d’Italia a Tokyo, a raccontarmi che in Giappone “non c’è lavoro di cui ci si debba vergognare, lavorare con impegno vuol dire condividere una missione, quella stessa che fa grande la nazione” (Moretti, 2008). Due domeniche dopo, quando scendo per la passeggiata e trovo nel cortile una trentina di volontari di ogni età pronti a pulire prati e strade del Riken non mi sorprendo, così come non mi ero sorpreso il sabato precedente a Odaiba quando salendo le scale che conducono al palazzo della Fuji Tv ero stato rapito dalla cura con cui l’uomo in divisa lucidava i corrimano. Quando io e mio figlio Luca, assistente, interprete, compagno di viaggio, ritorniamo a casa, ci scopriamo vittime di una sorta di jet lag sociale: Napoli è sempre Napoli, Sorrento, Capri e Posillipo visti da casa continuano a sembrarci incantevoli, eppure abbiamo l’impressione di vivere all’incontrario, ci vorrà un po’ per tornare “normali”.

Bella Napoli, bella Tokyo

Napoli 2011. Come sempre più spesso mi accade l’idea di raccontare la città attraverso le storie di persone diverse per età, lavoro, quartiere e però accomunate dall’amore per il loro lavoro è nata per caso, mi ci sono prima abituato e poi entusiasmato, neanche l’uscita del libro basta a fermarmi, continuo a cercare dignità e passione per il lavoro nelle persone che incontro. Nell’ultimo mese ho intervistato Salvatore, dipendente dell’azienda di trasporto locale; Rosa, estetista che ha trovato la sua strada a San Casciano Terme; Lelio, paroliere, musicista, leader dei JFK e La Sua Bella Bionda che il suo spartito lo ha cercato invece tra Londra, Parigi e Napoli; Renato, maestro di chitarra con tanto di laurea al conservatorio, sommelier, lavoratore in scadenza di contratto al museo di arte moderna, laurea magistrale in lingue a un passo, un napoletano che parla inglese, francese, giapponese e russo.

Salvatore dice che solo chi ha fatto la gavetta può capire veramente quanto sia importante il lavoro e perché bisogna rispettarlo, farlo bene, con responsabilità, senza cercare alibi nelle mille cose che non funzionano come dovrebbero. Io non penso sia così, però quando ho scritto su Facebook che un giorno svelerò la differenza tra quelli che sono cresciuti mangiando la zuppa di latte con il pane e quelli che invece la zuppa la fanno con i biscotti un po’ sono stato contento dello scompiglio che si è creato.

Silvio Piersanti mi riporta a Tokyo, racconta su Repubblica di sua moglie Kyoko e di suo figlio Tomoyuki alle prese con il grande terremoto, racconta di Buon’Italia, il negozio dove Kyoko vende olio e miele e altri prodotti italiani, dello psicotsunami che sta sconvolgendo la sua vita, di Kyoko che gli dice “sono sfinita, ma sento la profonda soddisfazione di aver fatto tutto quello che era necessario per me, per la mia famiglia, per il mio lavoro, per il mio Paese. Se ognuno di noi farà la sua piccola parte, riemergeremo anche questa volta”.

Con la testa e con le mani

New York 1962, Tokyo 2007, Napoli 2011, mezzo secolo, tre metropoli e il valore del lavoro. Il lavoro come dignità, come rispetto, come cultura materiale, come voglia di fare le cose per bene perché è così che si fa, come capacità di tenere assieme, nel processo del fare, testa e mani.

Lavoro “in sé” e lavoro “per sé”

Ma esiste ancora questo lavoro di cui parli tu? Maria, 27 anni due giorni prima del prossimo Natale, la questione la prende come avrebbe fatto mio padre, “di faccia”. Il tuo libro è bello – mi dice –, ma ci sono alcune storie, ad esempio quella di Giovanna, la lavoratrice del call center, che si fa fatica a considerare vere. Guarda che io l’ho fatto per un anno e mezzo quel mestiere lì – aggiunge -, e ti garantisco che è un lavoro assurdo, alienante, spersonalizzante, altro che l’apologia del sorriso telefonico. Avrei potuto rispondere che è tutto vero, che basta ascoltare la registrazione per rendersene conto, che di quella storia lì mi è dispiaciuto di non aver registrato il video, che il fatto è che nascere e crescere a via Chiaja è una cosa, al rione Luzzati è un’altra. Sì, avrei potuto farlo, non l’ho fatto. Le ho detto solo che il lavoro di cui racconto io non è il lavoro “in sé”, che da quel punto di vista come darle torto, è il lavoro “per sé”, che insomma quello che cerco io è l’approccio dell’artigiano, quello che ti fa provare soddisfazione nel fare bene una cosa “a prescindere”, qualunque essa sia, pulire una strada, progettare un centro direzionale, scrivere l’enciclopedia del dna, cucinare la pasta e fagioli. Sì, gli ho detto che sono un uomo in cerca di una cultura, di una vocazione, di quella “cosa che fai con gioia, come se avessi il fuoco nel cuore e il diavolo in corpo”, come diceva Josephine Baker.

Si può fare, si fa

Non so se cerco l’impossibile, penso di no, perché altrimenti Kyoko non avrebbe detto “mi rimbocco le maniche e comincio a spingere fuori del negozio la melma [… di vino e miele …] che copre il pavimento. L’indomani mattina Buon’Italia è aperta”; Sennett non avrebbe scritto che “l’artigiano è la figura rappresentativa di una specifica condizione umana: quella del mettere un impegno personale nelle cose che si fanno”; Renato non avrebbe definito il suo lavoro di maestro di chitarra come “l’umiltà con la quale cerchi di trasmettere qualcosa”, come “il calore che riesci a fare quando fai qualcosa”.

Certo che poi ci vuole equilibrio tra contributi, ciò che il lavoratore dà all’organizzazione, e incentivi, ciò che l’organizzazione dà al lavoratore (Barnard, 1970); certo che il dirigismo e la competitività senza qualità indeboliscono la motivazione e rendono tutto più difficile, in fondo militiamo nel sindacato, ci iscriviamo alla Cgil, anche per superare queste difficoltà; certo che aiuterebbe la presenza di uomini come Adriano Olivetti, che pensava che le sue fabbriche, i suoi negozi, le sue macchine da scrivere, dovessero racchiudere tutta la bellezza e la tecnologia possibile, o come Enzo Ferrari, che intorno alle auto da corsa inventò il mito che il mondo ci invidia; certo che la ricerca del meglio si riferisce all’approccio e non ai risultati dato che siamo persone a razionalità limitata (March, 2002). Rimane il dato di fondo, il bisogno di un ribaltamento culturale, l’urgenza di spostare l’ago della bussola dal riconoscimento sociale della ricchezza al riconoscimento sociale del lavoro, dal valore dei soldi al valore della conoscenza, del sapere, del saper fare.

Fare è pensare

In questi tempi un po’ così si fa fatica a vederlo, ma il lavoro è anche un valore, un bisogno in sé, uno strumento importante per organizzare la propria vita in un sistema di relazioni riconosciute, per soddisfare le proprie aspettative di futuro, per contribuire a creare ricchezza a livello non soltanto economico ma anche sociale. Attraverso il lavoro, il sapere, il saper fare possiamo cercare, in una pluralità di ambiti e di circostanze, di vivere vite più degne di essere vissute. Si, secondo me ha ragione Sennett, fare è pensare. In fondo solo se ci pensi puoi amare veramente ciò che fai.