A La legalità come bene pubblico Il Mese ha dedicato la cover story di novembre 2009, in parte anticipando un lavoro più ampio della Fondazione Giuseppe Di Vittorio pubblicato sull’ultimo numero dello stesso anno di Quaderni di Rassegna Sindacale. La forza e la speranza delle donne contro l’illegalità è stato il messaggio con il quale l’Inca Cgil ha voluto caratterizzare l’8 marzo di quest’anno. Iniziative sulla legalità sono state promosse negli ultimi mesi dalla Cgil a Reggio Calabria, a Messina, a Reggio Emilia, solo per fare qualche esempio. Il punto non è che abbiamo visto giusto. Troppo facile. Il punto è che l’emanazione del decreto legge che ha riaperto i termini della presentazione delle liste per le elezioni regionali è un ulteriore tassello di una storia che, tra legittimo impedimento e leggi ad personam, ha come protagonista un ceto dirigente che sta facendo male all’Italia per molte ragioni, in particolare perché, come ha ricordato Marcelle Padovani, sembra ritenere che il potere e la ricchezza assicurino l’impunità.
Regole, regole, regole. Potrebbe essere la versione 2010 del “Resistere, resistere, resistere” di Francesco Saverio Borrelli. Regole per salvare l’Italia. Regole per cambiare i suoi modi di pensare, di essere, di fare.
Di fronte a fatti di questo tipo, l’azione di contrasto non può che essere forte, convinta, duratura, nel Parlamento e nel Paese. Ma siamo sicuri che basti?
È Francois Jullien (Le trasformazioni silenziose) a ricordare che l’azione, anche quando dura, è pur sempre “locale” e che è venuto il tempo di mettere in campo un processo di trasformazione globale, progressivo, in grado di compiersi nella durata.
Tornando al punto, l’idea è che, in particolare quando si parla di regole, il cambamento dura soltanto se si modificano culture, modelli di comportamento e prassi consolidate non solo tra i ceti dirigenti ma anche tra i cittadini. Fa male dirlo, ma nell’Italia di oggi l’intreccio perverso di piccole e grandi illegalità, nei e tra i ceti dirigenti e il popolo, incide in maniera significativa sulla definizione sia di chi è legittimato (il leader eletto dal popolo perciò al di sopra di tutto), sia di cosa è legittimo (le regole come impedimento). Non è solo l’esito di un processo di leaderismo esasperato sempre più difficile da contenere. È anche questione di esercizio della responsabilità a ogni livello che, per affermarsi, ha bisogno di “uomini di ferro”, di tempi lunghi e di trasformazioni profonde.