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Karl Wiig

A Karl Wiig si deve l’enunciazione dei principi del knowledge management (KM), l’idea che nell’ambito dei processi organizzativi occorra: domandarsi «perché» prima ancora di «come»; conoscere facendo ma anche insegnando ad altri; privilegiare l’azione piuttosto che concetti e piani formalmente ineccepibili; considerare l’errore una componente ineliminabile dell’azione; liberarsi della paura perché impedisce di convertire la conoscenza in azione; conoscere il contesto, capire come sostenere i propri progetti, convertire tale conoscenza in azione.

Muovendo dalla consapevolezza che avere a disposizione delle conoscenze non significa automaticamente saperle usare, Wiig teorizza la possibilità di sviluppare il ciclo della conoscenza all’interno di una comunità di pratica o d’apprendimento tramite strumenti e tecnologie dell’informazione.

L’idea in questo caso è quella di rendere espliciti e mettere in comune dati (grezzi), informazione (dati selezionati e organizzati per essere comunicati), conoscenza (informazione rielaborata e applicata alla pratica), saggezza (conoscenza mutuata dall’intuizione e dall’esperienza) che ogni componente ha maturato nel corso del suo percorso professionale per migliorare l’efficienza dei gruppi collaborativi.

La prima generazione del KM si riferisce alla mera gestione dell’informazione, tende a ridurlo alla sua componente strumentale, l’information technology, si caratterizza soprattutto per lo sviluppo dei mezzi per rendere veloce e semplice l’archiviazione, la descrizione e la comunicazione di dati e informazioni.

La seconda fase, quella della condivisione della conoscenza, si focalizza invece sulle modalità attraverso le quali le conoscenze professionali di ogni specifico componente dell’organizzazione possono essere messe al servizio di tutta la struttura e per questa via il KM acquista il carattere di vera e propria filosofia della collaborazione e della condivisione della conoscenza negli ambienti di lavoro.

Riparare è giusto

Non so voi, ma io per molti anni ho pensato che l’ideatrice del principio di riparazione fosse mia madre. Come tantissime altre mamme in quei “favolosi” anni 60, per lei il rattoppo, l’aggiusto, la riparazione erano una filosofia prima ancora che una necessità. Più avanti sarebbe venuto il tempo dell’usa e getta ma nel frattempo molti di noi, grazie ai sacrifici dei papà operai che volevano il figlio dottore, avevano conosciuto il grande John Rawls e imparato che le ineguaglianze sono giustificate soltanto se producono benefici compensativi per i componenti meno avvantaggiati della società e sono collegate a cariche e posizioni aperte a tutti (principio di riparazione).  E che per questo sarebbe necessario che i decisori decidano come se non avesser nessuna conoscenza (velo di ignoranza) circa la razza, il genere, il censo, ecc. che ci sono stati assegnati dalla lotteria sociale.

Pura teoria? Niente affatto. In particolare se si usa “teorico” come sinonimo di “astratto”. Nella realtà senza il principio di riparazione la “società dell’accesso”, così tanto richiamata in letteratura, nei documenti ufficiali dei governi nazionali ed europei e così poco perseguita nella concreta attività dei governi, semplicemente non esiste.

Che fare allora? Naturalmente tante cose. Qui c’è lo spazio per una: creare le condizioni affinchè tutti possano imparare. Sempre. Perché è questo il modo più realistico per evitare che chi non per propria colpa si ritrova indietro veda aumentare la distanza che lo separa da chi è integrato. E perché il sapere trasforma il lavoro, i modi di vivere, i modi di essere e di comunicare.

Come farlo? Ad esempio facendo della formazione continua il principale strumento di gestione delle trasformazioni del lavoro (suggerisce qualcosa il fatto che il Rapporto “The universum graduate survey 2007”, questionario a risposta multipla, indica che il 61% dei laureati europei considerano la “formazione e l’aggiornamento gratuiti” il migliore benefit?). Favorendo  la costruzione di legami sociali fondati sugli scambi di conoscenza. Dando valore al merito. Facendo dei processi di apprendimento lungo tutto il corso della vita l’asse strategico attorno al quale ripensare il modello sociale nei paesi cosiddetti avanzati.

Cose da non credere. Migliorando le abilità e le capacitazioni delle persone crescerebbero anche la conoscenza capitalizzata e la competitività, l’economia e le imprese. Provare per credere.