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Puzza di “nero”? Ti mando in prima classe…

Rosa Parks
Rosa Parks

Pubblicato ieri sera da Viviana su Facebook. Senza dirglielo (nel senso che lo faccio tra un pò, appena la “acchiappo” via web) ho deciso di pubblicarlo anche qui. La speranza è che parlare possa aiutare a prevenire e a guarire. Che l’indignignazione sia con voi.

di Viviana Graniero
E’ accaduto sotto i miei occhi, martedì mattina sul treno in partenza da Napoli, destinazione Roma Termini. Da qualche scompartimento vicino al mio (di seconda classe), poco prima della partenza, si sentivano urla e imprecazioni. All’inizio non era chiara la faccenda, poi, purtroppo, lo è stata fin troppo: un ragazzo napoletano si “lamentava” del fatto che il suo posto non era “praticabile” perché “puzzava di nero”. Ovviamente seguivano imprecazioni e offese contro i ragazzi extracomunitari presenti nel suo scompartimento (che avevano regolare biglietto valido fino a Roma!).

Morale della favola, quando è arrivato lo staff di Trenitalia, invece di buttare fuori a calci questo deficiente razzista, hanno controllato e ricontrollato i biglietti degli extracomunitari (dando loro del TU, mentre continuavano a dare del LEI al cretino) e infine, non potendo far niente per buttarli fuori hanno pensato bene di offrire la prima classe al “gentile signore” per il disturbo arrecato…
evviva l’Italia!

Fare il napoletano stanca

enakapata3Sabato 24 aprile. Ore 6.10 a.m. Esco di casa diretto al bar Luciano per il quotidiano cornetto e caffè. Anche il sabato? Anche il sabato. Anche perché, da quando ho deciso di prendere un solo caffé al giorno, soffro di crisi di astinenza, nonostante abbia avuto cura di ridurre gradualmente la dose (da 6 o 7 caffé al giorno a 3 o 4 prima, da 3 o 4 a 1 poi). Il sabato è diverso perché non devo andare né a Fisciano, né a Roma e dunque sono in versione comoda e lite. Comoda perché non mi faccio la barba neanche se è già lunga di due giorni. Lite perché non ho com me lo zaino con il Mac. Perciò di solito scendo, mangio il cornetto, prendo il caffé, prendo la funicolare centrale, la prima corsa, quella delle 6.30, salgo al Vomero, faccio un giro, ritorno a casa a piedi per via Palizzi e mi metto a lavorare.
Sabato no. Perché alle 6.30 la funicolare era ancora chiusa. Alle 6.32 è sceso dall’autobus l’addetto di turno (che fortuna, ho pensato, e se l’autobus si fosse rotto o fosse passato più tardi?). Alle 6.35 si ferma la funicolare al Corso V.E. ma non apre le porte. A mia precisa richiesta il conducente mi dice che quella è la corsa di prova. Corsa di prova? Ma se è in ritardo rispetto alla prima corsa ufficiale? C’è stato un problema – è la risposta-. La funicolare che sale va, arriva quella che scende e si ferma. Qui ci sono molte persone a bordo. In salita era la corsa di prova e c’era il problema. In discesa no.  A Napoli abbiamo  inventato la funicolare con problema alternato.
Se state pensando “ma perché non dormi il sabato mattina invece di cercare rogne” vi dico subito che io non cerco niente. Che il mio giro per il Vomero me lo sono fatto così come la passeggiata per via Palizzi con vista su Capri, Posillipo, Sorrento. E aggiungo che ho aspettato anche qualche giorno per vedere se mi passava. Non mi è passata. Sarà perché lì con me c’era Ciro, che incrocio ogni  sabato e nell’occasione ho scoperto che lavora per le poste,  che era giustamente nero per il cazziatone che si sarebbe preso dal capo, più obbligo di recuperare alla fine della giornata il tempo perduto, per responsabilità certamente non sue.  Sarà per l’anziana insegnante che doveva arrivare a Casoria e che era preoccupata di arrivare in ritardo. Sarà perché sulla funicolare delle 6.45 c’erano almeno altre 15 persone nella prima delle tre carrozze, quella dove sono salito io, che stavano andando a lavorare e che in vario modo si lamentavano che la prima corsa della funicolare, in particolare al sabato, da tempo non era più puntuale.
È proprio vero. Fare il napoletano stanca. Hai voglia a provare a fare il giapponese. Ci vuole in Giappone. Ma pare proprio che non siamo capaci di meritarcelo.

p.s.
Il titolo me lo ha sparato in faccia un manifesto che annunciava il concerto  di Federico Salvatore al Teatro Delle Palme di Napoli il 29 aprile 2010. Non me lo sono lasciato scappare.

p.p.s.
per favore risparmiatevi la petizione, la protesta e compagnia cantante. Le persone che prendono la funicolare delle 6.30 il sabato per andare a lavorare non hanno tempo per queste cose. Si, sono stanche, hanno poca fiducia e tanta rassegnazione. Ma poi perché se la prima corsa della funicolare è prevista alle 6.30 bisogna fare una petizione perché la prima corsa della funicolare si faccia alle 6.30?

Regole, regole, regole

A La legalità come bene pubblico Il Mese ha dedicato la cover story di novembre 2009, in parte anticipando un lavoro più ampio della Fondazione Giuseppe Di Vittorio pubblicato sull’ultimo numero dello stesso anno di Quaderni di Rassegna Sindacale. La forza e la speranza delle donne contro l’illegalità è stato il messaggio con il quale l’Inca Cgil ha voluto caratterizzare l’8 marzo di quest’anno. Iniziative sulla legalità sono state promosse negli ultimi mesi dalla Cgil a Reggio Calabria, a Messina, a Reggio Emilia, solo per fare qualche esempio. Il punto non è che abbiamo visto giusto. Troppo facile. Il punto è che l’emanazione del decreto legge che ha riaperto i termini della presentazione delle liste per le elezioni regionali è un ulteriore tassello di una storia che, tra legittimo impedimento e leggi ad personam, ha come protagonista un ceto dirigente che sta facendo male all’Italia per molte ragioni, in particolare perché, come ha ricordato Marcelle Padovani, sembra ritenere che il potere e la ricchezza assicurino l’impunità.

Regole, regole, regole. Potrebbe essere la versione 2010 del “Resistere, resistere, resistere” di Francesco Saverio Borrelli. Regole per salvare l’Italia. Regole per cambiare i suoi modi di pensare, di essere, di fare.
Di fronte a fatti di questo tipo, l’azione di contrasto non può che essere forte, convinta, duratura, nel Parlamento e nel Paese. Ma siamo sicuri che basti?

È Francois Jullien (Le trasformazioni silenziose) a ricordare che l’azione, anche quando dura, è pur sempre “locale” e che è venuto il tempo di mettere in campo un processo di trasformazione globale, progressivo, in grado di compiersi nella durata.

Tornando al punto, l’idea è che, in particolare quando si parla di regole, il cambamento dura soltanto se si modificano culture, modelli di comportamento e prassi consolidate non solo tra i ceti dirigenti ma anche tra i cittadini. Fa male dirlo, ma nell’Italia di oggi l’intreccio perverso di piccole e grandi illegalità, nei e tra i ceti dirigenti e il popolo, incide in maniera significativa sulla definizione sia di chi è legittimato (il leader eletto dal popolo perciò al di sopra di tutto), sia di cosa è legittimo (le regole come impedimento). Non è solo l’esito di un processo di leaderismo esasperato sempre più difficile da contenere. È anche questione di esercizio della responsabilità a ogni livello che, per affermarsi, ha bisogno di “uomini di ferro”, di tempi lunghi e di trasformazioni profonde.

About Partecipare

Ci piacerebbe discutere di politica. Delle opportunità che essa rende disponibili per sottrarsi alla dittatura della necessità e aprire la strada alla dimensione della possibilità.
Una politica fatta di passione, senso di responsabilità, lungimiranza (1), che non sia indifferente alla distribuzione della felicità, attenta a ciò che le persone riescono a essere e a fare effettivamente, capace di sostenerle nei loro tentativi di ampliare la gamma delle possibilità tra le quali possono effettivamente scegliere.
Una politica che sappia dare valore ai diritti, non sottovaluti i rischi del condizionamento sociale e dell’adattamento, non riduca la libertà a un semplice vantaggio, sappia stabilire un ordine di priorità nella definizione dei criteri che ci dicono della nostra riuscita reale e della nostra libertà di riuscire.
Racconteremo dunque di donne e di uomini che hanno a cuore un interesse personale o collettivo, un ideale sociale, un progetto di società più felice o anche solo meno ingiusta e intendono operare, per variegate ragioni e motivazioni, con aspettative, tempi e impegno diversi, per vederli realizzati.
Persone che a tale scopo cercano di stabilire connessioni con altri, come loro facenti parte di cerchie, gruppi, comunità, associazioni, sindacati, partiti e, per questa via, tentano di rendere più forti e stabili le reti sociali di cui fanno parte e, con esse, le norme di reciprocità e di fiducia che le sostengono.
Persone che non intendono rinunciare rassegnarsi all’idea della politica come pratica del meno peggio (2), che credono nella possibilità di dare agli altri senza rinunciare ad avere cura e a valorizzare sé stessi (3), che considerano il sapere non solo una delle più significative ricchezze della società contemporanea ma anche una delle opportunità più importanti a nostra disposizione per essere e sentirci liberi e per esercitare la solidarietà con altri esseri, come noi, umani (4).
In questo libro si racconta insomma di persone che in sintonia con i propri convincimenti e, soprattutto, con le proprie azioni, ritengono giusto partecipare da attori alla costruzione del discorso pubblico.
E di persone che invece no. Perché non hanno più né voglia né fiducia per fare domande alla politica. Perché se proprio sono costretti a farlo si limitano a chiedere favori. Perché vivono la politica come una sommatoria indistinta e poltigliosa di ingredienti diversi che più soggetti solo apparentemente alternativi propongono a cittadini sempre meno interessati a investire tempo, impegno, ingegno, in questa direzione. Perché ritengono che la discussione, il confronto con punti di vista diversi dai propri, lo sforzo di comprendere le ragioni degli altri, siano esercizi a volte nobili, più spesso ipocriti, sempre inutili. Perché non credono nella possibilità che le idee, le convinzioni, le azioni di ciascun individuo possano realmente incidere, nell’ambito della sfera pubblica, sullo stato di cose esistenti. Perché sono stufi di sentirsi dire che stanno per diventare tutti ricchi, soprattutto se sono percettori di reddito fisso, o che stanno tutti impoverendo, in particolar modo se fanno parte della schiera dei cosiddetti patrimonializzati. Perché non hanno più voglia di perdere tempo con gli infiniti paroloni dei teorici dell’eccellenza, e aspirano a vedere riconosciuti dal versante sociale, professionale ed economico gli sforzi di chi, come loro, punta sulla crescita di buone competenze intermedie.
Per questa via, proveremo a porci sia domande che riguardano la teoria politica descrittiva, quella che punta, per l’appunto, a descrivere come stanno le cose e non come esse dovrebbero stare alla luce di un qualche criterio, sia domande che chiamano in causa i nostri impegni normativi, i nostri criteri del giudizio politico, la nostra idea di società giusta o desiderabile.
Ci ritroveremo in questo modo a ragionare sulla natura della politica democratica, su quale ruolo o spazio essa continua ad avere nelle nostre vite. E potremo vedere come cambiano, più specificatamente nella parte ricca del mondo, i soggetti della politica democratica, come e perché cittadini e cittadine governati possono agire politicamente, nello spazio pubblico, e in che modo sono in grado di scegliere e valutare i governanti (come sappiamo, il criterio del giudizio del cittadino sulla politica è la sua prima forma di partecipazione, dato che, rinunciando a giudicare, il cittadino si tira fuori dalla vita pubblica).

Mammiferi, anzi virus

Ricordate?
Siamo nel primo episodio della trilogia di Matrix. Morpheus è stato fatto prigioniero. E Smith gli dice della sua teoria secondo la quale gli uomini non sono mammiferi ma virus, perché quando arrivano in un posto distruggono tutte le risorse esistenti per poi spostarsi da un’altra parte e ricominciare da capo.
Chi per almeno un attimo non si è indignato scagli pure la prima pietra (digitale naturalmente).
E se invece provassimo a pensare all’acqua che noi ricchi e fortunati sprechiamo mentre i poveri (molto più numerosi) non ne hanno nemmeno per sopravvivere? E al cibo?
E cosa succederà quando 1 miliardo e mezzo di cinesi lascerà la bicicletta per acquistare l’automobile?
Sto dicendo che in fondo il “cattivo” Smith aveva ragione? Forse.
In ogni caso il tema è più che mai politico. Investe i modi con i quali interagiamo con questo nostro meraviglioso e non inesauribile mondo. E quelli relativi ai diritti delle persone, di tutte le persone, comprese quelle che non per loro colpa si ritrovano a essere svantaggiate.
La discussione è più che mai aperta.

I bambini e le città. Così Napoli chiama Reggio Emilia

“I bambini ascoltano i diritti dei papà, i bambini ascoltano i diritti dei bambini; i papà devono ascoltare i diritti dei bambini”.
“Se gli adulti non sono intelligenti non pensano e non proteggono i bambini”.
Alla libreria Feltrinelli di Napoli a discutere de “I diritti dei bambini nelle città del futuro” sono stati invitati Marco Rossi Doria, insegnante, autore del libro “Di mestiere faccio il maestro”, Deanna Margini, pedagogista, Rachele Furfaro, Assessore alla Cultura del comune di Napoli e Sandra Piccinini, Assessore Cultura e Sapere del comune di Reggio Emilia.
E dunque  un bene che per una volta i “grandi”, gli adulti, decidano di usare le parole, i pensieri, dei bambini. Quelli che avete letto all’inizio. Che sono raccolti, assieme a tanti altri altrettanto belli, nel libro “In viaggio coi diritti delle bambine e dei bambini”, autori i bambini stessi, edito da Reggio Children.
Marco Rossi Doria lo afferma convinto: “Occorre farsi sorprendere dalle parole dei bambini, trovare un punto d’incontro, ascoltare, mettersi in discussione”.
Poi cita ancora dal libro, “se i bambini conoscono le cose non hanno pi paura, sanno anche le cose pericolose” per sostenere che i bambini hanno diritto a sentire anche le parole del dolore. “Nelle nostre città c’è un eccesso di protezione. La vera protezione sta invece nel trovare le parole giuste per dire cose difficili. Non basta l’affetto, la cura, ci vuole il ragionamento”.
Deanna Margini, pedagogista, parte dall’esperienza di Reggio Children, nata nel 1994 per valorizzare il trentennale patrimonio educativo dei nidi e delle scuole dell’infanzia comunali a Reggio Emilia, e sottolinea la “necessità di considerare l’infanzia come un soggetto forte. La collana dell’ascolto che non c’è – così si chiama il progetto editoriale di Reggio Children – intende dunque promuovere l’ascolto attivo dei bambini, perchè sostenere l’infanzia, progettare le città del futuro, vuol dire abbassare lo sguardo all’altezza del bambino”.
Tocca a Rachele Furfaro, che riesce a mettere in evidenza i piccoli grandi risultati raggiunti, a cominciare dal numero di asili nido più che triplicato dal 1993 ad oggi, senza però smarrire il senso delle tante cose ancora da fare perchè Napoli possa anche solo avvicinarsi all’idea di città a misura di bambino.
“I diritti che i bambini ci chiedono – afferma – devono avere piena cittadinanza. Perchè dando spazio e futuro ai bambini si pensa al benessere degli adulti. Perchè se riusciamo a progettare una città a misura di bambino forse riusciamo a progettare una città vivibile. Da qui la necessità di creare luoghi dove il bambino possa essere davvero libero di esplorare e portare avanti il proprio modo di essere. Senza dimenticare al contempo che i bambini hanno bisogno anche di vuoto, che non bisogna riempire troppo gli spazi e il tempo dei nostri bambini”.
E’ Sandra Piccinini a chiudere la serata. Lei è assessore in un comune che gestisce una rete di 21 scuole dell’infanzia e 13 nidi, frequentate rispettivamente da 1508 e 835 bambini, ed  convenzionato con 5 nidi, 1 servizio per l’infanzia, ed 1 nido autogestito eppure riesce a parlare soltanto di futuro, di cose ancora da fare.
“Per i bambini – esordisce – i diritti sono desideri. Se riuscissimo a progettare le città con lo sguardo dei bambini sapremmo probabilmente guardare il futuro. Perchè i bambini sono più capaci di noi di allargare la prospettiva. Da 2 anni abbiamo avviato un progetto “Reggio tutta, una guida dei bambini e delle bambine alla città”.
Sapete che hanno scritto alcuni di loro? Che il confine  è un fumo. Non lo trovate straordinario?
I bambini sono pieni di cose. Mentre spesso c’è molta povertà nei loro confronti, anche nelle città ricche.
C’è bisogno di comunità. Di identità. Non può essere la pubblicità ad interpretare il bisogno di futuro. Neanche se ha il volto dolce di Nelson Mandela”.