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Anna e Giancarlo

Non dite che non avete visto neanche una volta nella vostra vita Blade Runner altrimenti mi arrabbio. Comunque se non lo avete fatto qui trovate il pezzetto più commovente del film. Sì, proprio quello che ho voglia di ricordare per raccontarvi di una giornata, quella di ieri, che ogni tanto anche noi umani abbiamo la fortuna di vivere.
La giornata prevedeva il viaggio a Caserta, che oramai con questa storia dell’alta velocità e tutto il resto è degrado è quasi peggio che andare a Roma, dove nel primo pomeriggio sono stato impegnato in una iniziativa su Statuto dei Lavoratori e sua attualità a 40 anni dall’Autunno caldo.
Nei giorni precedenti avevo chiamato Sondra, la mia amica del cuore, che riesco a vederla sempre meno di quello che vorrei, per dirle che se era libera sarei potuto arrivare da lei in mattinata e avrei potuto mangiare da lei, e mi ero scritto con Anna, per dirle che finito il dibattito mi avrebbe fatto piacere incontrare da qualche parte lei e Giancarlo per bere un caffé e donarle una copia di Bella Napoli.
Prima che me lo diciate voi me lo dico io “che vita è una vita in cui per incontrare i tuoi amici li devi ‘incastrare’ tra una discussione e l’altra”. Prima che me lo chiediate voi ve lo dico io che è una vita che ha un sacco di controindicazioni ma è la vita che mi sono scelto, quella che mi piace. E poi come vi ho detto tante volte io sono nato con la camicia, sono molto fortunato, cosicché non solo Sondra era libera ma Anna e Giancarlo mi hanno invitato a cena e mi hanno anche detto che i libri degli amici si comprano, che loro l’avevano già fatto, e che ci volevano pure la dedica.
Ve l’ho detto che in realtà la giornata non è che non era cominciata bene ma anzi era cominciata da schifo? No, e allora ve lo dico adesso. È la storia delle controindicazioni. Diciamo che il mio corpo cerca di avvertirmi in molti modi che non riesce più a stare indietro alla mia testa, che il tempo passa anche per me, che dovrei fare una vita più quieta e regolata e aggiungiamo anche che sarei stupido a non ammettere che ha ragione lui. Quello che lui però non vuole capire è che per fare una vita più quieta e regolata io, non potendo permettermi di tagliare alla voce “lavoro lavoro”, dovrei tagliare alla voce “lavoro piacere” e allora che vita sarebbe la mia?. Su aiutatemi, quando lo incontrate diteglielo anche voi che un po’ di ragione ce l’ha anche la mia testa.
Comunque per tornare al punto ieri prima di uscire di casa me la sono vista brutta, ma brutta brutta brutta. Il risultato? Sono arrivato tardi a Caserta, volevo fare una passeggiata con Sondra e non ho potuto farlo, mi è venuta a prendere in auto e ce ne siamo andati a casa.
Da qui la giornata ha preso un’altra piega. Agitato ho continuato ad essere agitato, però abbiamo chiacchierato e riso e chiacchierato e poi lei si è arrabbiata tanto, per fortuna non con me, e poi abbiamo mangiato una meravigliosa pasta e zucca e poi mi ha accompagnato alla Feltrinelli e poi alla Camera di Commercio, sede dell’iniziativa.
Anche la discussione è stata bella e partecipata, non sempre accade, sarà stato il tema, molto attuale, ma di questo vi racconterò un’altra volta da un’altra parte. Poi mi è venuta a prendere Anna e abbiamo raggiunto Giancarlo, ai fornelli, a casa.
Ora io potrei cominciare dalla casa, bellissima, ma non perché ci stanno mobili di famiglia bellissimi, che quelli per esserci ci sono, ma perché è una casa piena piena di senso, di significato, di amore, tra queste due persone straordinarie che stanno assieme da 43 anni.
Oppure potrei cominciare dal menù, sì, perché mi hanno fatto trovare anche un menù, Menù Bella Napoli, così composto:
10 marzo 2011 Spagettata con Vincenzo, Menù: Alici ammollicate; Gamberi e zucchine, Crudo di Pezzogna alla vinaigrette; Linguina di Gragnano a vongola sottile; Mezzi paccheri alla pescatrice; Filetto di orata all’acqua pazza; Treccia di bufala, Frutta barchetta; Profiteroles Chirico; Vini campani. Detto che letto così di seguito è una cosa e visto stampato sul menù, tutto in fila, in corsivo, al centro, è un’altra, aggiungo anche che l’unica cosa che era buona ma non eccezionale era la treccia di bufala, perché vi assicuro che tutto quello che hanno preparato Giancarlo e Anna era allo stesso livello della cena che Akira Tonomura, lo scienziato che ha inventato il microscopio più potente del mondo, ha offerto a Tokyo a Luca, a Franco Nori e a me (per saperne di più leggete Enakapata, il libro e il blog).
E invece comincio, e finisco, da Anna e Giancarlo. Era la seconda volta che ci vedevamo, siamo stati qualche ora assieme eppure mentre in treno me ne tornavo a casa ho rimpianto di non essere rimasto a chiacchierare fino a notte fonda, di non essere restato a casa loro a dormire.
I miei amici di più lunga data se ne meraviglieranno, con il tempo tra le controindicazioni sto sviluppando anche la sindrome di Proust, nel senso che ho bisogno di tornare tra le mura amiche, di ritrovare stanze e mobili disposti “come sai tu”, mi rifiuto di svegliarmi la mattina e di non sapere da che parte scendere per andare in bagno, che insomma anche se continuo a dormire spesso fuori, con la vita che faccio non sarebbe possibile altrimenti, lo faccio sempre più raramente con piacere.
E invece ieri sera l’ho pensato. E ho sorriso. E sono stato felice di pensarlo. Sì, da Anna e Giancarlo mi sono sentito come a casa.
Dite che è perché a un certo punto io e Anna abbiamo scoperto che il suo e il mio papà hanno lavorato tutti e due nella Società Meridionale Elettrica? Che sono stati tutte e due a Cotronei, sulla Sila, il posto dove sono nato? Che hanno conosciuto tutti e due l’ingegnere Massaioli che a voi non dice niente e a noi tante cose? Che forse si sono anche conosciuti? Che è stato molto tenero scoprire negli occhi dell’altra/o quanto avremmo voluto poterglielo domandare?
Io dico che tutto questo e tanto altro è stato bello, di più, straordinario. Ma penso che non c’entra. Come non c’entra il menù e non c’entra la casa. C’entrano Anna e Giancarlo. Sono proprio loro, è il loro modo di esserti amico quello che mi ha fatto sentire a casa mia.
Dite che Anna e Giancarlo sono proprio loro anche nei ricordi, nella casa, nel menù? Ecco, così si, così penso che avete ragione voi, così sono d’accordo. È troppo bello avere amici così. Grazie di cuore.

L’incantesimo del motore

di Giancarlo Iorio
Questo racconto è ambientato a Morrone del Sannio, nel Molise, in un periodo in cui la meccanizzazione cominciava ad affermarsi in agricoltura, con una certa difficoltà di adattamento, per persone, volenterose, ma del tutto digiune di tecnologia. 

Quando mio nonno aggiustava il trattore indossava un pantalone ampio, di tessuto jeans, con una pettorina mantenuta da due bretelle incrociate sul dorso e sotto una camicia di fustagno a quadroni con le maniche rimboccate.
In casa questo indumento era conosciuto come panzuork.
L’aveva portato dall’America, da Seattle per la precisione, dove era stato a lavorare come minatore.
Succedeva circa trenta giorni prima della stagione della trebbiatura, che, al mattino presto, lo si poteva vedere indaffarato, con indosso il panzuork.
Per mesi il Field Marshal gommato era stato fermo. Aggiustarlo significava semplicemente rimetterlo in moto.
Operazione complessa in un trattore della metà degli anni ‘50. L’accensione prevedeva, una serie di operazioni, tra cui ovviamente il rifornimento di nafta, che veniva prelevata da grandi fusti cilindrici di colore verde chiaro. Erano quelle le prime occasioni in cui vedevo applicata in pratica la proprietà fisica dei vasi comunicanti.
Nonno Carlo infilava nel fusto grande un tubo di gomma, avvicinava l’estremità libera del tubo al recipiente di destinazione del carburante, si chinava e aspirava col fiato la nafta, poi, precipitosamente, infilava il tubo col carburante in uscita nella tanica rettangolare di metallo da 20 litri.
Molto spesso ne assaggiava un po’, suo malgrado, oppure il carburante gli colava sulle scarpe e poi mia madre a tavola si chiedeva: “Da dove viene questa puzza di nafta?”, e si alzava in preda ai conati di vomito.
Il gommato era di un bel colore verde scuro, aveva delle ruote posteriori enormi, dal profilo a spina di pesce molto scolpito.
I soci lo chiamavano “il motore” perché era destinato ad una funzione statica cioè a far girare il meccanismo della trebbiatrice a cui veniva collegato con una lunga cinghia di trasmissione di un tessuto di corda, molto robusto. Ma, quando poteva, Peppino, con la scusa di provarlo, mi portava a fare un giro e lo faceva correre. Una volta andammo addirittura alla stazione di Ripabottoni – Sant’Elia per prelevare un pezzo di ricambio. Undici chilometri ad andare e undici a tornare.
Verso la metà del mese di giugno, i soci, Michelino, Giovanni, zio Pasquale, zio Leonardo con il figlio maggiore Peppino, e nonno, conosciuto da tutti come zì Carluccio, si davano appuntamento alle cinque del mattino.
Il Marshal andava cacciato a spinta dal garage di Pasquale.
La messa in moto doveva avvenire in strada perché c’era più spazio.
Il serbatoio veniva riempito con un paio di taniche da 20 litri, usando un imbuto di lamiera di stagno.
Poi iniziava la procedura vera e propria, durante la quale i soci parlavano solo se era davvero necessario, come si fa in chiesa.
Carluccio estraeva dalla tasca della tuta una cartina assorbente,  che aveva comprato apposta a Campobasso in confezioni da trenta e l’arrotolava come una sigaretta. La cartina era imbevuta di una sostanza pirica che la rendeva simile a una miccia.
Michelino intanto aveva svitato dal motore una chiave a T che terminava con un tubo destinato a ricevere la sigaretta.
Bisognava posizionare con cura la cartina all’estremità del tubo, accenderla, assicurarsi che avesse preso ad ardere e non si era spenta sul nascere, magari per il vento forte o perché inumidita, introdurla nel condotto che portava alla camera di scoppio e avvitare bene la chiave a T.
L’operazione successiva doveva avvenire in rapida sequenza, perché, altrimenti, finita la poca aria a disposizione, la cartina si sarebbe spenta. Infatti subito dopo aver avvitato la chiave nel motore era un muoversi rapido e convulso. Ci si doveva disporre due da una parte e uno dall’altra della massiccia manovella, che avrebbe azionato il volano. I soci già sapevano che l’operazione non si sarebbe conclusa al primo colpo, per cui non apparivano delusi che il primo tentativo produceva al massimo due o tre stu stu stu e una nuvoletta di fumo chiaro.
Si svitava la chiave a T, si toglieva la cartina usata, se ne arrotolava un’altra, si introduceva nel tubo, la si riaccendeva, si riavvitava la chiave e si faceva girare la manovella con uno sforzo sincronizzato da un energico: “Uno, due e tre…ooh”. In genere dopo il quarto tentativo senza risultato zio Pasquale sentenziava: “Coss è uocchie”.
Zio Pasquale credeva molto nel malocchio e lo tirava fuori in ogni circostanza.
La prima volta che, in quella occasione, formulò la sua ipotesi era ancora sorridente, come se stesse scherzando, infatti, gli altri non gli diedero retta, ma dopo il quinto tentativo infruttuoso zio Pasquale ripeté con assoluta convinzione e senza ridere:
” Se n’è maluocchie coss…”.
Così, mentre gli altri preparavano la sesta accensione, andò in casa per prendere quello che lui chiamava il pendolino, che gli serviva per accertare il malocchio.
Se il pendolino, cioè un pezzo di spago con un piccolo peso di metallo ad un’estremità, messo sul motore, si sarebbe messo a girare, allora era malocchio.
Naturalmente puntualmente il pendolino si metteva a girare:
“Facem’u benedice”, propose, rimettendo in tasca l’attrezzatura con la stessa cura che un maestro artigiano avrebbe usato con i ferri del mestiere.
Ma intanto si provava per la settima volta.
“Da chi u vu fa benedice, da Don Daniele?”, lo canzonava Michelino, che in un certo senso voleva dire:
“Tu vorresti andare da Don Daniele, gli vorresti dire che al trattore hanno fatto il malocchio e vorresti che quello subito ti servisse una bella benedizione, ma ti rendi conto?”, solo che Michelino non era così loquace
“U feceme benedice da Ze’ Filomè, i diengh i’ na galline”.
Ze’ Flomè incantava il malocchio. Era una vecchina buona come il pane e nell’aspetto e nei modi, non aveva nulla della fattucchiera. Normalmente, quando veniva chiamata, faceva tre croci col pollice sull’oggetto da liberare o sulla pancia della persona con la colica o sulla fronte del bambino epilettico, poi, molto presa dal ruolo, mormorava delle parole con le mani congiunte e infine si ritirava in silenzio.
Una volta, molti anni dopo, le chiesi: “Ze’ Flomè, ma tu che dici?”
E lei mi rispose in modo amorevole ma fermo:
“Solo cose di Dio, ma nun tu pozz dice, zie seie”.
Mi sono chiesto a lungo il perché del segreto. Che cosa poteva cambiare? Perchè ciò che si considera sacro conserva la sua sacralità e il suo potere solo se viene riservato a pochi iniziati, escludendo i profani?
Mio nonno era molto religioso e, anche se non aveva nulla contro la persona, non avrebbe potuto acconsentire alla pratica, considerata superstiziosa dalla religione.
Invece mio padre quando si trovava davanti alla convulsione di un bambino, dopo aver prescritto una supposta di Brolumin, se vedeva gli sguardi ansiosi e dubbiosi dei familiari, diceva: “Ho capito va bene, chiamate la collega”.
La “collega” era appunto Ze Flomè che con il suo intervento rassicurava gli astanti. Il modo di fare di mio padre non era canzonatorio, ma semplicemente rispettoso della “cultura” del luogo.
Fatto sta che zio Pasquale due o tre anni prima, siccome l’accensione del motore tardava, era andato a consultare zè Flomè.
Pare, ma non lo ammise mai, che concordò che lei sarebbe passata vicino al trattore facendo finta di niente e avrebbe pronunciato le sue giaculatorie.
Pare che al tentativo successivo il motore si accese, confermando così la sua convinzione.
Ma questa volta zio Pasquale non voleva insistere con zè Flomè. Gli altri erano contrari o per fede religiosa, come mio nonno, o per eccesso di concretezza che portava a negare tutto ciò che non si vede, come Michelino e Giovanni o per assoluta passione per la meccanica come zio Leonardo e Peppino.
Zì Carluccio ascoltava il parere di tutti, anche quando per principio non poteva essere d’accordo, mettendo in pratica la regola di Voltaire. Così aveva chiesto a zio Pasquale:
“Pasquà pecchè dice ch’è maluocchie, pur ù trettore mo ze fa u maluocchie?”
E zio Pasquale con una logica stringente aveva risposto:

“A nafta ce l’ì miss, a cartucce cel’ì piccete, a manuelle ce l’ì gerete, sette vote, u trettore nze picce, che pò esse? Sole maluocchie”.
Si erano fatte le sette e mezza e si procedeva all’ottavo tentativo, assistiti da cinque o sei spettatori in circolo tutti con le braccia conserte.
Questo tentativo si concluse con uno stu in più, ma il motore non si accese.
Pasquale si era ormai distolto dall’impegno, con disappunto degli altri soci, convinto com’era che erano entrate in gioco forze esoteriche.
Cercava, guardando intorno, una soluzione al problema, mentre considerava con sufficienza gli sforzi dei compagni.
Vide allora spuntare dalla parte del Colle delle croci, Trese, una donna di circa cinquanta anni, abbastanza alta, dai modi cortesi ma decisi, con due braccia robuste, come quelle di un uomo giovane, i capelli rossi e gli occhi verdi che la facevano assomigliare a un’irlandese. Pasquale sapeva che Trese in più occasioni aveva dimostrato di essere una “magara” ed era considerata da alcuni un’erede, da altri una concorrente di Ze’ Flomè .
Siccome questa figura era praticamente sconosciuta ai soci, almeno come maga, lui decise di avvicinarla sapendo di non destare sospetti e, prima che questa arrivasse nei pressi del trattore, le chiese se poteva fare qualcosa.
Così ze’ Trese, quando fu a dieci metri dal gommato, disse a voce alta:
“Sante Mertine!”,  una specie di generico augurio di riuscita, buono per tutte le imprese. Si usa quando chi arriva trova che si sta impastando il pane o si mettono a bollire le bottiglie di salsa di pomodoro.
I soci quasi automaticamente risposero come dovuto cioè:
“Bommenute”.
Ze Trese si avvicinò un altro poco poi chiese:
“Mo’, mettete n’ moto?”.
Mio nonno si incaricò di rispondere per tutti con buona educazione e pazienza:
“Se Die vo’”.
E Trese:
“Eh! vo’, vo’, mah, Die u benedich”.
Detto ciò la donna se ne andò con un inavvertibile cenno di intesa con Pasquale, che decise a quel punto di partecipare al nono tentativo.
Prima di cominciare tutto il rito per la nona volta zì Carluccio, che era anche presidente dell’Azione Cattolica disse:
“I dico ‘na gloria patri a San Giovanni Bosco”.
Zio Leonardo invece chiese di poter accendere lui la cartuccia. Mise molta cura nell’arrotolarla, si pose al riparo dal vento per accenderla nell’incavo della ruota grande del gommato, la posizionò lentamente nel condotto che potava alla camera di scoppio, avvitò con cura, ma abbastanza rapidamente la chiave, si sputò nelle mani e comandò il giro di manovella. Il volano girò velocemente e, agli stu stu stu iniziali, si unirono anche tre o quattro tump tump tump tump in rapidissima successione e poi tratratra.
I soci guardarono la ciminiera del motore con lo sguardo ansioso e speranzoso, come quello dei fedeli rivolti verso il comignolo della Cappella Sistina in attesa della decisione del conclave. Per un attimo tutto tacque e sembrò fallito anche il nono tentativo, ma subito dopo, con una abbondante emissione di fumo nero e con un botto che assomigliava a un’esplosione, il gommato si accese. Un applauso partì dagli spettatori. I soci trattenevano a stento un sorriso di compiacimento. Peppino salì sul trattore e abbassò l’acceleratore, poi non seppe trattenersi dal farlo partire e percorse trionfante tutta via Cristoforo Colombo.
A quel punto, però, tutti rimasero della loro convinzione.
Nonno Carlo attribuì il merito della riuscita del nono tentativo alla preghiera a San Giovanni Bosco, ch’era il Santo protettore della nostra casa, zio Leonardo, tra l’ilarità degli spettatori, cominciò a saltare dalla gioia e a gettare la coppola a terra come liberato da una forte tensione, convinto che il merito era suo per come aveva acceso la cartina e comandato la manovella, Michelino e Giovanni, agnostici, che non avevano attribuito alla breve visita di Trese nessun significato, dissero rivolti a Pasquale:
“I’ vist, quale maluocchie”.
Zio Pasquale, che si aggirava compiaciuto, con le mani in tasca, intorno al trattore finalmente acceso, li guardò compassionevolmente, scuotendo il capo e, con un sorriso superiore che nessuno colse, mormorò:
“Mah! Che ne volete capire voi. Che ne capite voi dei misteri della vita!”.

Il perimetro di un sognatore

Ieri ho conosciuto Giancarlo Iorio. Devo dire che a me continua a fare un certo effetto pensare che fino a qualche tempo fa se scrivevo  questa cosa di una qualunque persona voleva dire che prima non sapevo niente di lui, mentre adesso vuol dire soltanto che l’ho visto per la prima volta, perchè in realtà di Giancarlo conoscevo già, come molti di voi, le foto, i racconti, la gentilezza, l’ironia, la profondità, la discrezione. Potenza dei social network, ma questo già ce lo siamo detti e dunque possiamo procedere oltre.
Quello che non potete sapere è che sono andato a trovarlo assieme alla mia amica Sondra Toraldo, che abbiamo trascorso un’ora molto bella, che abbiamo chiacchierato di molte cose e di molti luoghi, che le sue foto viste da vicino sono ancora più meravigliose, che presto avrete modo di vederne qualcuna anche qui a Piazza Enakapata, che come direbbe Confucio e anche Adriano Parracciani, se le persone oltre a taggarle le tocchi e le guardi negli occhi è tutta salute, ma soprattutto che quando ci ha svelato l’incipit del suo prossimo racconto a me e a Sondra ci ha lasciati senza fiato, di più, sconvolti, sì letteralmente meravigliosamente sconvolti, al ritorno non potevamo parlare di altro.
Per ora è tutto, ma soltanto per ora, perché ci siamo ripromessi di incontrarci ancora molto presto. Intanto aspettiamo le sue foto. Il suo racconto no. Nel senso che quando arriverà me lo terrò almeno una settimana soltanto per me. Sì, penso che non lo faccio sapere neanche a Sondra.  Dite che è questo è un pò difficile? E come fate a saperlo? Sondra mica la conoscete? O si?

Le nostre rughe ce le siamo guadagnate

Il titolo non è mio, è del mio amico Luigi Santoro. Sì, proprio quello che a fine agosto è passato a T1, come ha scritto Adriano Parracciani (ricordate? T0 vita, T1 morte), e ancora mi manca e mi mancherà sempre. Credo fosse il 1996 o il 1997, i miei amici del sindacato pensionati mi avevano chiesto di aiutarli a fare il sito web e io cercavo un titolo. Ne parlai con tanti che mi diedero tante belle idee ma fu lui a fulminarmi, come del resto accadeva spesso.
Sono passati un pò di anni, e un giorno leggo in un bel libro di James Hillman (La forza del carattere, Adelphi) che la grande Anna Magnani, durante la lavorazione di un film, aveva detto al suo truccatore “mi raccomando, non toccare le mie rughe, me le sono guadagnate una a una”.
Sono passati altri anni ancora e in un Liceo di Reggio Emilia, dopo aver visto il bel film di Carlo Lizzani e Francesca Del Sette, Giuseppe Di Vittorio, Voci di ieri e di oggi, con tutte quelle belle facce segnate dalla fatica e dal sole, ho raccontato ai circa 200 ragazzi  dai 16-18 anni presenti di Luigi Santoro e di James Hillman, di Anna Magnani e dei contadini di Cerignola, di come quelle facce fossero singolari, espressive, uniche e di come invece oggi, nell’era del lifting sfrenato e dei 70enni che giocano a fare i 20enni, le facce sono intercambiali, di plastica, nel senso che potrebbero appartenere all’uno o all’altro senza che ci sia molta differenza. So che ci crederete, ma vi assicuro lo stesso che da quei ragazzi ho ricevuto uno dei più bei applausi della mia vita.
Adesso ci si è messo Giacarlo Iorio, con le sue belle foto intotolate rughe, come faceva a non venirmi l’idea. Quale idea? Quella del concorso “Le nostre rughe ce le siamo guadagnate”.

INVIATE LE VOSTRE FOTO, IMMAGINI, DISEGNI, POESIE, NON IMPORTA IL VALORE ARTISTICO IMPORTA IL CONTENUTO, CHE ABBIANO COME SOGGETTO LE RUGHE.
LE VOSTRE RUGHE, QUELLE DELLE VOSTRE AMICHE O DEI VOSTRI AMICI, QUELLE DELLE PERSONE CHE INCONTRATE PER STRADA, QUELLE DEL VOSTRO CANE O DEL CANE DEL VOSTRO VICINO O DI QUALUNQUE ALTRO ANIMALE, QUELLE DELLA TERRA, QUELLE DEL SOLE E DELLA LUNA, INSOMMA QUELLE CHE VI PARE PURCHE’ SIANO RUGHE, SOLCHI, IMPRONTE, SEGNI.

I tre vincitori riceveranno in regalo una t-shirt nera con su stampato il quadro dedicato a Enakapata di Matteo Arfanotti e una copia del libro Uno, ddoje, tre e quattro, in uscita a novembre di quest’anno e per ora non posso dirvi di più.

Come decideremo i vincitori non lo so ancora, ma questo non mi sembra importante. Voi cominciate a spedire le vostre foto e a invitare i vostri amici a partecipare, al resto ci pensiamo via facendo.
Buona partecipazione.

Lo strano caso dell’umile converso

Giancarlo Ioriodi Giancarlo Iorio

Quando, nell’autunno del ’79, fui assunto nella Casa di Cura Ave Gratia Plena, specializzata nella terapia delle malattie neurologiche e psichiatriche, dovetti trasferirmi a S. Apollonia, ventimila abitanti, seicento metri sul livello del mare, distante meno di quindici chilometri dalla costa.
Mi ambientai bene nel giro di pochi mesi. Avevo scoperto abitanti gentili e pervasi da un sottile spirito epicureo, amanti della musica, della buona cucina e della cultura.
Il posto, oltre che per la clinica, era conosciuto nel circondario anche per un rinomato complesso sinfonico, davvero qualcosa di più di una banda musicale, che, tra l’altro, si esibiva solennemente in occasione della festa della Santa Patrona, il 13 marzo.
In quella ricorrenza l’orchestra, diretta dal baffuto maestro concertatore prof. Anselmo De Donatis, suonava brani di musica classica e lirica su un palco ottagonale, pennellato di bianco, con fregi azzurri e dorati.
Ritratti di musicisti famosi, tra cui Donizetti, Puccini, Verdi, Bellini, Schubert, Mozart, Rossini ornavano gli spicchi del soffitto e sorvegliavano l’esecuzione. Alle arcate portanti erano avvitate mille lampadine che diffondevano una luce intensa e calda. Il maestro De Donatis, virtuoso del violino, concludeva quasi sempre la serata con “il volo del calabrone”, scatenando entusiastici consensi anche tra gli spettatori più tiepidi.
Non lontano dalla Casa di Cura, in via Ugo Foscolo, l’altro motivo per cui quella città era famosa: “Da Santino”, un raffinato ristorante, in equilibrio fra tradizione e innovazione, dove si preparava, tra l’altro, un risotto di vialone nano, tirato con il brodo di frutti di mare e mantecato, rigorosamente fuori dal fuoco, come precisava l’autore, con spuma di crostacei. L’effetto consolatorio di quel piatto era tale che noi, nelle frequenti riunioni conviviali l’avevamo ribattezzato “Soma e Psiche” e qualche collega lo proponeva come cura alternativa agli antidepressivi.
I menu erano vergati a mano da Fra Guglielmo, il miniaturista dell’Abbazia Benedettina di sant’Erasmo, che distava dodici chilometri dal centro abitato.
Carta pergamena, inchiostri di china, caratteri gotici, ogni capolettera era una miniatura. Il risvolto di copertina recava una massima attribuita a Epicuro: “La sazietà è nemica del piacere”.
Santino approfittava spesso della nostra presenza per chiedere un consulto:
“Dottori, spiegatemi perché, se non posso avere sempre il meglio per il mio ristorante, mi viene l’ansia”. Fingevamo una confabulazione seriosa e poi rispondevamo un po’ a turno:
“Santino, questa non è una malattia… Tu hai la sindrome del Dom Perignon, solo il meglio… In fondo tutti i grandi cuochi, come i grandi artisti, sono dei perfezionisti”.
“Ho capito, ma allora dovrei aumentare i prezzi, così quasi ci perdo, la cucina e il servizio sono da Gran Vefour e il prezzo da normale buon ristorante cittadino”.
Non ero d’accordo sulla sindrome del Dom Perignon, il famoso champagne preferito da James Bond.
Santino non voleva il meglio per sé, come 007. Offriva il meglio ai suoi clienti, sperando di guadagnare la loro stima e benevolenza. In un certo senso l’opposto.
Comunque nessuno di noi lo avrebbe curato, poiché il suo disturbo ossessivo di personalità era il suo stile di vita e aveva il merito della bontà dei suoi piatti. D’altra parte avremmo continuato a frequentare quel luogo di delizie, anche se i prezzi fossero raddoppiati.
Comunque per quanto la città fosse tendenzialmente gaudente e invitasse a un simile stile di vita, lavorare si lavorava.
Eravamo più di venti specialisti senza contare gli psicologi e i consulenti esterni e, pur con qualche crisi personale e qualche sporadica caduta di rendimento, curavamo con grande attenzione e dedizione i nostri pazienti.
L’attività culturale preferita poi era la discussione dei casi clinici.
Mi ero appassionato a questo esercizio fin da studente, con la lettura di Tempo Medico, che nelle pagine centrali, illustrate da Crepax, vedeva un professore di clinica medica discutere con l’aiuto Attilio e con qualche fascinosa assistente, di complicati casi clinici che alla fine riusciva brillantemente a risolvere. Naturalmente avrei voluto essere come lui.
Anche per questa ragione avevo stretto amicizia con il consulente internista della clinica,
Luca Franceschi, fisicamente il gemello di Oliver Sachs, stesso barbone, stessi occhiali, stesso sorriso, dotato di raro acume e di vasta e profonda preparazione, dalla cardiologia all’endocrinologia. Lo stimavo e lo consideravo un eccezionale diagnosta.
Forse fu per questo motivo che quella mattina del maggio dell’ottantuno, quando mi venne a cercare in reparto e, battendomi una mano sulla spalla scandì col suo vocione:
“Ho un caso clinico da risolvere, ho bisogno di un tuo consulto”, caddi dalle nuvole.
“Eh, se…”, dissi, meravigliato e compiaciuto.
“Si tratta di una consulenza che l’abate in persona mi ha chiesto domenica scorsa dopo la messa”.
Luca, nonostante l’aspetto da sessantottino era un fervente cattolico.
“E’ per… un monaco, quindi dobbiamo andare all’abbazia”. Non volle anticiparmi altro.
Concordammo di vederci alle sedici del giorno dopo davanti al monastero.
Attraversammo il chiostro per giungere nell’ampia sala dedicata alla vendita al pubblico dei prodotti erboristici, dove ci attendeva il vice-priore.
Aveva incarico di condurci nell’ufficio dell’abate, padre Dom Ugo Clementi.
Questi ci salutò cordialmente e si disse grato per la nostra disponibilità.
Era un uomo più alto della media, magro, energico, il volto chiaro, quasi diafano, su cui spiccava la puntinatura nera della barba, nonostante la perfetta rasatura, capelli neri, lisci, mortificati da una chierica perfettamente rotonda. Mio padre, che, quando ero alle medie mi spiegava le parole difficili, lo avrebbe portato come esempio di figura ieratica.
La stanza dove ci aveva ricevuto era sobria ma non spartana. I mobili erano antichi e di eccellente fattura, alle pareti delle pergamene policrome e dipinti di soggetto religioso.
“Attribuito alla Scuola del Tiepolo”, disse soddisfatto, sorprendendomi a indugiare con lo sguardo su una “Madonna con Bambino”, affrescata alle sue spalle“.
Forse il figlio del maestro, Giandomenico… voi sapete che gli affreschi dell’abside della basilica sono del maestro in persona, 1750-51 circa, dopo l’incendio che annerì tutta la chiesa. Mentre il padre decorava da par suo la basilica, il figlio si dedicò ad affrescare alcune stanze e le cappelle interne. Questa stanza una volta era una chiesetta per i frati più anziani, non lontana dalle celle”.
Si capiva che avrebbe preferito parlare d’arte, di cui si sapeva che era un grande appassionato, ma subito dopo cambiò espressione e iniziò:
“Noi abbiamo sempre cercato di essere il più possibile autosufficienti ed è perciò che abbiamo anche un allevamento di animali da cortile e di maiali.
A occuparsi del nutrimento dei maiali è frate Onofrio, un laico, una persona semplice, cui il buon Dio, per sua imperscrutabile decisione, ha fornito una notevole forza fisica ma un intelletto non altrettanto robusto”.
“Ah, un converso!…” esclamai, contento di mostrare una certa competenza.
Sapevo di questa figura non tanto per aver studiato il monachesimo, quanto per i racconti di mia madre su Suor Maria Crocifissa, una nostra prozia ottocentesca, priora di un convento di clausura a Napoli e la sua conversa, che aveva acquisito fama perché bravissima nel confezionare i dolci di pasta reale. Il converso o la conversa erano persone di servizio, uomini di fatica o, nella migliore ipotesi, artigiani o dame di compagnia. In un certo senso la prova che l’egalitè non aveva espugnato i monasteri o semplicemente che una società ideale resta un’utopia.
Finalmente ora stavo per conoscerne uno dal vivo.
“Un converso, sì…” confermò l’abate con un lieve imbarazzo, “la famiglia ha voluto affidarlo a noi perché non aveva un lavoro vero e proprio, aiutava in campagna, ma i coetanei lo prendevano in giro a causa della sua ingenuità e… innocenza e, dopo la morte del padre, lui era diventato rissoso, si stava sbandando e… così… è qui da cinque anni”.
Dopo un lungo sospiro l’abate allargò le braccia e poi le richiuse come in dominus vobiscum.
“Mi dicono i confratelli che negli ultimi tempi, quando frate Onofrio porta il cibo ai maiali, si siede vicino alla mangiatoia ed emette degli strani singhiozzi o dei suoni gutturali anche per un’ora di seguito. A volte si prende la testa fra le mani e a volte solleva il capo al cielo. A volte alterna ai singulti dei veri e propri ululati. Se qualcuno dei frati si avvicina, appare come inebetito e, dopo un po’, il suo singhiozzare e il suo ululare si attenuano, fino a cessare. Se lo si interroga non risponde. Guarda a terra e non parla”.
Non seppi fare a meno di chiedere se solo in quella occasione il converso singhiozzasse e ululasse.
“Un confratello, che dorme vicino alla sua celletta, dice di averlo sentito qualche volta anche di notte”.
Il collega Franceschi mi guardava sperando che io avessi una risposta o almeno un’ipotesi, per tranquillizzare il prelato.
“Sarebbe bene ascoltarlo” dissi “ e anche visitarlo”.
L’abate si strinse un po’ nelle spalle, poi fece cenno di sì col capo.
“Temo” aggiunse “che non vi dirà molto. Anzi ho paura che non dirà neppure una parola”.
Ci recammo nell’infermeria dove il frate addetto ci accolse con tutti gli onori e quando ci fummo sistemati ci portarono frate Onofrio.
“ Buona sera frate Onofrio, accomodatevi”.
Il paziente, ancora sulla porta si girò a cercare rifugio nella tunica del confratello che lo accompagnava. Aveva un aspetto corpulento, ma il viso rotondo di un bambino.
Lo fecero sedere davanti a noi, ma alle mie domande non rispondeva. Guardava a terra come chi viene colto in fallo e rimproverato. Ogni tanto mi rivolgeva lo sguardo e una sola volta accennò a un debole sorriso. L’esame neurologico era negativo per deficit focali, ma era evidente una discreta microcefalia. Sicuramente, il frate era un minus habens, come dicevano allora gli psichiatri di grido, ossia era poco dotato sul piano dell’intelletto. Egli aveva una discreta intelligenza pratica, ma non sarebbe stato capace di formulare un concetto astratto.
Quando Luca Franceschi ed io fummo di nuovo soli mi inoltrai in un tentativo diagnostico differenziale:
“Mi è capitato una volta qualcosa di simile, una sindrome ticcosa con emissione soltanto di suoni gutturali, simili a grugniti o a singhiozzi, senza movimenti ticcosi, nel fratello di un paziente con sindrome di Gilles de la Tourette, oppure… potremmo pensare a una forma di epilessia parziale, secondariamente generalizzata, con emissione di vocalizzazioni, ma è una forma rara e poi… non mi tornano i conti. La crisi dura troppo…ma tu a che pensi?”.
“Da internista ho osservato il collo di frate Onofrio e allora darei uno sguardo anche alla tiroide, un deficit precoce potrebbe aver dato i suoi frutti”, disse Luca.
“Oppure sta diventando psicotico, potrebbe trattarsi di una sindrome d’innesto…” dissi riservando poca attenzione all’osservazione endocrinologica del mio collega.
Decidemmo che frate Onofrio sarebbe stato indagato in day-hospital, dove avrebbe praticato l’elettroencefalogramma, alcuni esami radiologici e neuroradiologici, alcuni test adatti alla sua età mentale e gli esami di laboratorio, compresi quelli per la tiroide.
Dopo circa 15 giorni avevamo i risultati che però non erano affatto illuminanti.
Non confermavano, ma non escludevano le diagnosi ipotizzate.
Prescrissi allora al converso una terapia sintomatica, blandamente sedativa, con piccole dosi di farmaci neurolettici e del triptofano e inviai una breve relazione all’abate, per informarlo della negatività degli esami e della necessità di attendere almeno quattro settimane per poter verificare gli effetti della terapia.
Non passarono neppure otto giorni, invece, che l’abate mi telefonò e mi fece capire che i farmaci non stavano dando miglioramenti, anzi. Gli ululati si erano fatti più lunghi e strazianti.
Alla fine della telefonata mi accennò, discretamente, alla sua ipotesi diagnostica.
“Dottore la cosa sta portando scompiglio nel monastero… non dovrei parlarne per telefono, ma se proprio la medicina non può far nulla… è tradizione che almeno uno dei confratelli si occupi… di… esorcismo e nel nostro monastero abbiamo frate Adelmo, che ha risolto molti casi, che da tempo mi chiede di intervenire… dice che forse la vicinanza con le bestie immonde…”.
Non commentai in nessun modo ciò che l’abate mi andava dicendo e a lui quel silenzio dovette sembrare piuttosto eloquente.
“Capisco che sto entrando in una sfera che voi laici… che gli uomini di scienza… oltre tutto i familiari hanno saputo qualcosa e ora vogliono essere informati sulle condizioni di salute del congiunto”.
Dissi educatamente che non era il caso di esorcizzare frate Onofrio e che avrei visto di nuovo lui e i familiari nel mio studio il giorno dopo.
Infatti, alle diciannove del pomeriggio seguente ero seduto di fronte al frate con i familiari in sala d’attesa.
Mi stavo giocando una carta importante. Mi dissi che, come nelle versioni di greco più incomprensibili, anche quel mistero doveva avere un senso.
“Onofrio, ricordate qualcosa di quando vi viene quella crisi? Vi succede di avere una specie di bolla nello stomaco? Avete mal di testa? Vi si abbaglia la vista? Vedete per caso cose strane?”
Mi sembrò che il povero frate si mettesse finalmente nei miei panni, capiva che ero nei guai per lui e che avrei dovuto dir qualcosa alle sorelle, alla madre e allo zio.
Fece passare un tempo che mi sembrò lunghissimo, poi bisbigliò qualcosa, sempre guardando a terra.
“Come? Non ho sentito”.
A quel punto mi guardò fisso mentre allungavo il collo e tendevo le orecchie per non farmi sfuggire neppure una sillaba e, al tempo stesso abbassavo lo sguardo verso il piano della scrivania, per non intimidirlo.
“Ce vulesse n…n…na femminuccia…p…p…però!” disse con voce bassa ma, questa volta, perfettamente comprensibile.
In quell’istante si aprì davanti ai miei occhi la voragine dell’ovvio. Come avevo potuto non pensarci. Avevo dato per scontato che il poveretto avesse una malattia, solo perché l’abate aveva questa implicita teoria su di lui, sostituita più tardi da quella della possessione.
Sia io che il mio collega eravamo caduti in un grave errore di metodo. Avevamo dato per certo ciò che non lo era affatto. Avrei dovuto ricordarmi che “La certezza è nemica della verità”, ma soprattutto avrei dovuto applicare questo insegnamento di Popper e invece io ero diventato subito certo dello stato di malattia del frate. Mi sentii un vero idiota e mi chiedevo chi tra noi due fosse il minus habens.
Non c’era diagnosi, semplicemente perché non c’era malattia. Ma quale sindrome ticcosa, epilessia parziale, innesto psicotico o possessione! I singulti e gli ululati erano dovuti a desiderio d’amore e nessuno di noi aveva pensato che anche una persona così semplice e innocente potesse soffrirne.
Ci misi quindici secondi per pensare tutto ciò. Quando alzai lo sguardo mi resi conto che Onofrio non era più disperato, si era liberato di un grande peso e sapeva che lo avrei aiutato.
Lo capii, al di là di ogni ragionevole dubbio, perchè sul viso rotondo dell’umile converso, ancora vestito da benedettino laico, era stampato il più complice e impertinente dei sorrisi.

Lo strillone dalla voce roca

Giancarlo Ioriodi Giancarlo Iorio

Decidere un giovedì sera del giugno del ‘74, dopo un pomeriggio trascorso sulle sferocitosi ereditarie, di andare al cinema a vedere “Dove osano le aquile”.
Le ragioni del no: l’avevo già visto due o tre anni prima, non era il tipo di film di guerra che mi piaceva, non rispettava la storia e non era realistico, insomma un fumettone con un titolo enfatico, anche se con interpreti eccellenti, inoltre avrei dovuto attraversare piazza S. Maria La Scala alle 20 e avrei potuto trovarmi tra i piedi un alessandrino in avanscoperta.
Le ragioni di Giovanni: I grandi film di guerra si possono vedere anche tre volte, al Tiberio si paga poco, cast stellare, che ti frega del titolo.
Il bonus era poi la proposta della margherita finale.
Finii per cedere alle sue ragioni, anche perché, l’alternativa era pastina al burro e Rischiatutto in bianco e nero.
Il mio collega aveva visto “La grande fuga” 14 volte, conosceva i prezzi di tutti i cinema e di tutti gli spettacoli e al Tiberio riusciva anche a farsi fare lo sconto, corteggiando la cassiera, che aveva avuto lo zio ricoverato nel reparto dove lui era interno.
Quando uscimmo gli alessandrini misuravano il marciapiede di fronte all’ingresso del palazzo. Erano due o forse tre, ma, per fortuna non attraversavano allo scoperto quasi mai a quell’ora.
Sono topi di fogna col muso a forma di piramide tronca gli alessandrini, padroni assoluti della piazza dalle 23 in poi, l’ora in cui saremmo tornati dal cinema.
Assalivano i sacchi dei rifiuti, depositati accanto al portone, e sarebbe stato un problema entrare.
Al Tiberio si arrivava dopo Salita Sanfelice, si girava a sinistra e ancora duecento metri.
Il locale allora aveva un aspetto deprimente: luci al neon, sedute di legno, pubblico di studenti, disoccupati, venditori ambulanti… con qualche eccezione quando il film era di qualità, ma quasi mai esemplari di pubblico da Filangieri o da Metropolitan.
Passava Agostino per le bibite e i pop corn: “Aranciate, Coca, chi beve. Maasticate la gomma!”.
Qualcuno, ispirato dalla pettinatura, dalle movenze e dalla voce lo chiamava Agostina, con fare caramelloso, ma lui non si offendeva, anzi era compiaciuto.
A un certo punto, un altro personaggio sembrava comparire dal nulla: il venditore di giornali.
Capelli neri, che ricoprivano la testa e anche tutta la fronte, fino agli occhi di colore verde chiaro, faccione carnoso con barba di due giorni e figura appesantita, un camice grigiofumo ormai nero lungo ben oltre le ginocchia, respiro asmatico, la voce arrochita dalle nazionali esportazione.
Alcuni locali a Napoli conservavano ancora la vecchia usanza di far vendere i giornali prima dell’inizio dello spettacolo e nell’intervallo.
Lo sentivi arrivare perché pubblicizzava la sua mercanzia annunciando i titoli con fare professionale e in italiano:
“Assassinata minorenne nel bagno di casa, sospetti sul cognatooo…”
Poi allegramente traduceva:
“E’ stat chillu scurnacchiato do cainato… tutti i particolari… Cronaca Vera… Crimèn”.
La traduzione incrementava di molto la vendita.
La prima volta che l’avevamo visto, Giovanni aveva scommesso che si chiamava o Ciro o Gennarino, così quando fu a due file di distanza: “Ciro! Ciro mi dai la Gazzetta?”
Ne era seguito un chiarimento,
“Mio fratello più piccolo si chiama Ciro, io mi chiamo Raffele” disse, mentre porgeva la Gazzetta dello Sport a Giovanni:
“Gesù, tuo fratello si chiama Ciro e tu non ti chiami Gennarino!”.
“Io Gennaro mi dovevo chiamare, ma… quando sono nato io… mio padre aveva litigato co’ nonno e così per dispetto mi chiamò Raffele, che a me questo nome non mi piace, chi è po’ stu Rafele”
Punto sul vivo perché mio padre si chiamava Raffaele, il mio maestro si chiamava Raffaele e mio figlio, quando lo avrei avuto, si sarebbe chiamato Raffaele…
“Un angelo” dissi, £un angelo mandato da Dio. Raffaele significa mandato da Jahvè”.
“N’ angelo?” disse con la voce di cartavetro. Si fermò, guardò a terra come per prendere fiato o per trovare le parole e poi in perfetto italiano: “Sentite, io vi devo essere grato che mi dite così, ma… mi avete visto bene…”.
Poi continuò: “I’ so chiatt, tengo i denti guasti, tengo pure i bronchi asmatici e ‘o fegato… e po’ vedete come sto vestuto, cu stu camice niro che ce dormo pure a notte. Se propio mi doveva mandare, il padreterno mi poteva fare nu poco chiù accunciatiello”.
Fece un’altra pausa: “A Napoli ce stanne i Rafele ma… vulite mettere”.
Non aveva aspettato una replica e aveva ripreso il suo giro con passo da podagra: “Crimèn… Cronaca Nera.. i meglio muort accisi, giornali!”.
Ogni tanto promuoveva anche le testate sportive: “Tutto sul calcio a zona di Viniciooo! Il Napoli vincerà lo scudetto?”.
La versione vernacolare era: ” ‘O aizammo o no sto commò?”
Da quella sera, quando ci vedeva, si fermava e puntualmente chiedeva al mio collega: “Allora Gazzetta o Guerino?”.
Poi rivolto a me:
“Volete un giornale o volete dire qualche altra stronzata”. In genere prendevo una copia di Paese sera e lui se ne andava sorridendo all’aria.
Siccome stavo frequentando le lezioni di psichiatria, mi ero convinto che Raffele era una personalità bipolare e che, di volta in volta, avremmo potuto trovarlo depresso e malinconico o euforico ed espansivo.
Per chiarire ciò che successe quella sera di “Dove osano le aquile”, è necessaria una premessa. Circa venti o trenta giorni prima si era verificato un delitto che aveva fatto molto scalpore.
Una donna dall’apparente età di trenta anni era stata trovata morta in riva a un fiume, trafitta da venti coltellate e decapitata, l’identificazione non era ancora avvenuta e la polizia stava controllando alcune testimonianze.
Circa venti anni prima Nel 1955 a Castelgandolfo c’era stato un delitto analogo ed era stato denominato “La decapitata del lago”.
Era rimasto impunito ed era entrato nella leggenda.
Quella sera Rafele, cominciò a passi misurati per non avere il fiatone, il giro che precedeva lo spettacolo e annunciò in italiano: “Il mistero della donna del fiume! Ancora si cerca la testa della donna! tutti i particolari sul Mattino di oggi!”.
E dopo un respiro: “Ma a capa nun se trovaa, a capa nun se trova!”.
Nelle file centrali pochi istanti prima che si spegnessero le luci erano andati a sedersi quattro spettatori di mezza età, capelli più o meno brizzolati, molto eleganti, vestiti di scuro e con la cravatta.
Date queste premesse nessuno si aspettava quello che stava per succedere.
Appena si accese la luce dell’intervallo si sentì Rafele: “S’è truvata a capa! S’è truvata a capa”. Tutti si girarono a guardarlo.
Uno degli eleganti fece segno che voleva il giornale. Raffele glielo portò con la solita camminata lenta e sofferente.
Quello lo aprì e cominciò a leggere, poi sfogliò di nuovo da cima a fondo le pagine.
Infine chiamò ad alta voce Raffele e chiese sempre ad alta voce:
“Scusi, ma quale capa s’è trovata?”.
Raffele si sentì come il capocomico a cui viene preparato il terreno per la battuta finale, non avrebbe dovuto, forse, ma non seppe trattenersi, anzi gli dovette sembrare che quel signore facendogli la domanda stava ubbidendo al copione e quindi si sentì autorizzato a rispondere:
“S’è truvata a cap’e cazz che s’accattat ‘o giurnale”.
A questo punto si fermò atteggiando il faccione a sorriso, convinto che l’uomo elegante, che non sembrava di Napoli, avrebbe riso anche lui per quella splendida trovata.
Ma non fu così. Quello lo guardò gelido e dopo aggiunse: “Ma questo non è serio, lei, lei è uno scostumato, lei dovrebbe cambiare mestiere! Voglio parlare con il direttore”.
Raffele capì che le cose non erano andate come lui si sarebbe aspettato, si fece cupo e disse:  “Scusate ma a voi chi ve l’ha promessa tutta questa serietà, a noi ci piace stare allegri e non stare seri, se a voi non vi piace… un’altra volta non ci venite!”.
“Questo è troppo io la denuncio!”.
A quel punto Raffele, da serio divenne furibondo e disse con voce chiara, per niente roca:
“A-mi-co! O vuò capì o no che cà amm campà tutti quanti!”.
Nelle sue ultime parole c’era lo stesso furore con cui il cane difende il territorio.
Poi girò le spalle e, lentamente, come si era avvicinato, si allontanò.
Quando si chiuse il sipario nessuno ebbe il coraggio di applaudire.

Giancarlo Enakapata Iorio

di Giancarlo Iorio

Caro Vincenzo,
ti voglio premettere qualche informazione sulla recensioe fotografica di ENAKAPATA.
Mi sono ispirato al concetto gramsciano di letteratura. Ho dato da leggere il libro a diversi personaggi di differente estrazione e cultura e li ho fotografati mentre, nel loro ambiente, leggono.
Le foto sono state eseguite con un apparechio digitale, perchè purtroppo non ho più la camera oscura e non potrei stampare delle foto eseguite in modalità analogica. Le foto sono a colori ma naturalmente si può visionare anche la versione in bianco e nero, specie per alcune di esse. Spero che il lavoro complessivamente non ti deluda. Qualche ritocco ancora e domani ti mando tutto
.
Ecco dunque alcuni dei “devastanti” effetti della lettura di un libro rivoluzionario!
Personalmente ho trovato prodigioso che un libro con lo stile narrativo del diario e un registro tendenzialmente giocoso e a volte scanzonato possa comunicare in modo così efficace e presentare le vite parallele (nel senso che non si incontreranno mai?) di Napoli e di Tokyo.

Angelo Michele e Tonio, zio e nipote. Il primo, 94 anni, ogni mattina muove tremila passi e li conta con una specie di corona. Vorrebbe sapere qualcosa di più sulla longevità dei giapponesi e mi chiede se è tutto merito del the. Tonio, 65 anni, (il lupo perde il pelo, ma non il vizio) vuole conoscere Kimi Matsujama.
Nina, appassionata di giardinaggio vuole trasformare il suo orto in un giardino zen

Zia Nicolina (quella che nella foto BW del balcone aveva 80 anni) ora novantatre anni, pasta in casa quasi tutti i giorni festivi, capisce la dipendenza della pasta che si fa sentire in terra straniera e solidarizza.

Iba ha scelto ENAKAPATA per perfezionare il suo italiano.
Giuseppe Storto, appassionato studioso di storia locale, produttore dell’eccellente olio “Sperone del gallo”, monovarietale, legge il libro prima di ribattezzare i suoi fichi ENAKAPATA.
Ornella, avvocato matrimonialista e housepastamaker, si chiede se nella ricetta del RAMEN i cavatelli possono sostituire i tagliolini all’uovo.

Bobo uno dei migliori cuochi molisani, cucina creativa ma legata al territorio, si chiede se la zuppa di pesce giapponese è più buona di quella termolese. Personalmente di giapponese amo Sashimi con Wasabi.

Questi giovani, universitari o laureati, hanno saputo del Riken e della tendenza dei giapponesi ad accogliere i cervelli in fuga, mi hanno chiesto come si dice in giapponese “Scusi con quale assessore bisogna parlare e che cifra si deve sborsare per potere essere assunti?” Ho avuto difficoltà a convincerli che non è così in Giappone ( e in Olanda e in America e in Germania….).

Incredibile anche questa insospettabile dote! ENAKAPATA aiuta a sbrogliare le matasse!

Flavia studentessa universitaria, barista precaria, è apparsa molto interessata alla Serendipity.

L’amico Tonino, pizzaiolo, of course, mi ha chiesto se l’autore di ENAKAPATA ha sentito più la mancanza della pastiera o della pizza Margherita.

Antonio e i suoi amici hanno cercato su ENAKAPATA la via giapponese alla perfezione nel gioco del bigliardino.

Caro Vincenzo

Questa la mail che via Facebook mi è arrivata ieri da Giancarlo Iorio, sì, proprio lui, l’autore di Bianco Nero & Click:
Caro Vincenzo,
ti voglio premettere qualche informazione sulla recensioe fotografica di ENAKAPATA.
Mi sono ispirato al concetto gramsciano di letteratura. Ho dato da leggere il libro a diversi personaggi di differente estrazione e cultura e li ho fotografati mentre, nel loro ambiente, leggono.
Le foto sono state eseguite con un apparechio digitale, perchè purtroppo non ho più la camera oscura e non potrei stampare delle foto eseguite in modalità analogica. Le foto sono a colori ma naturalmente si può visionare anche la versione in bianco e nero, specie per alcune di esse. Spero che il lavoro complessivamente non ti deluda. Qualche ritocco ancora e domani ti mando tutto
.
A lui l’ho detto già, adesso lo ripeto anche a voi, io sono semplicemente commosso da questo guazzabuglio di emozioni, idee, progetti, @micizia, amicizia, affetto che ci tiene assieme. Spero il 10 settembre a eBookFest di riuscire a trasmetterne almeno un pezzetto di tutto questo, ma intanto vi prometto che domani, non appena Giancarlo mi manda la sua recensione fotografica, io …..

Destinazione

di Giancarlo Iorio

Giancarlo IorioTornare un lunedì mattina del ‘73 a Napoli e trovare lo sciopero dei mezzi.
Da piazza Garibaldi sarei dovuto arrivare a Gradini San Liborio, dietro piazza Carità dove avevo alloggio, in una casa vecchia e fatiscente.
Le padrone, la vecchia vedova e l’anziana figlia di un odontotecnico, promosso a dentista nei loro racconti, erano così gentili da non farmi rimpiangere una sistemazione più confortevole.
I pullman sostitutivi erano quelli di linea con i sedili imbottiti e con più posti a sedere, ma con corridoi più stretti, che rendevano difficile farsi largo per scendere alla fermata giusta.
Salii sul 129 rosso, non barrato, sostitutivo, e vidi che i passeggeri erano tutti seduti.
Presi posto anch’io rasserenato che non avrei fatto tardi a lezione.
Al primo posto, vicino all’autista, si era sistemata una donna bruna, rugosa e ossuta, i capelli ricci unti di brillantina, con un rossetto vistoso che sconfinava intorno alla bocca.
Stava lamentandosi in un gramelot assolutamente impenetrabile, con voce roca e concitata. Gli occhi neri che una volta erano stati vispi e furbi fendevano il vuoto davanti a sé.
Non se ne capiva il motivo, visto che era seduta al primo posto e sarebbe potuta scendere senza problemi, il pullman era in orario e non era neppure affollato.
Forse lo sciopero in quanto tale, l’anomalìa, non così rara a Napoli, ma che si andava a sommare alle tante anomalie della sua vita, era forse il motivo delle sue rimostranze.
Seduto al terzo o quarto posto c’era un eduardo, stesso viso scavato e allungato, stessi capelli e stessi baffetti, cappotto grigio di pesante grisaglia e sciarpa di lana, sempre grigia, incrociata sul petto, che usciva due dita appena dal collo del cappotto. Guardava in silenzio serafico a destra e a sinistra, inarcando ora l’uno ora l’altro dei due sopraccigli, con una mimica del volto intensa, manifestazione di un misterioso dialogo interiore.
Ai Quattro Palazzi la signora bruna alzò di un’ottava il tono delle sue lamentazioni, che divennero più esplosive e sincopate. Era chiaramente un soliloquio, non cercava né la solidarietà né l’approvazione degli altri. Forse rispondeva alle sue voci.
Il signore che somigliava tanto a Eduardo dava infine qualche segno di intolleranza e aveva cominciato a ruotare le mani come il maestro di musica davanti a una banda quando vuole sostenere un crescendo.
Erano le otto e mezza, era uscito il sole, il traffico si stava intensificando, un’altra giornata era cominciata.
A piazza della Borsa Eduardo, senza neppure girarsi indietro, alzò la mano destra e il bigliettaio si precipitò, anzi mi sembrò quasi materializzarsi ad ascoltare le sue richieste.
“Voi mi dovete usare una grande cortesia” disse al fattorino, scandendo lentamente le parole, con un fare gentile e al tempo stesso autorevole.
“Dite!”, fece il giovane, allargando le braccia in segno di disponibilità, quasi fosse davvero Eduardo.
“ Dovete dire alla signora che lei ha sbagliato mezzo.”. Pausa. Sguardo furbo rivolto al bigliettaio.
“Lei non doveva pigliare il 129 rosso, ma il 229 rosso”.
Naturalmente non era assolutamente necessario specificare a quale signora si stesse riferendo.
A quel punto il fattorino, con i tempi e la complicità di una spalla, consumata da anni di teatro: “ E perché, il 229 dove va?”
“ A o’ manicomio!!” scandì solennemente Eduardo.
L’applauso crudele che seguì avrebbe fatto cadere il teatro.