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To Work

La colonna sonora de “La tela e il ciliegio” ha un ruolo fondamentale nella riuscita del documentario. Dopo le prime giornate in bottega passate ad osservare Antonio Zambrano al lavoro abbiamo capito quanto i suoni, ascoltabili in quell’ambiente in parte protetto dai rumori del paese, avessero un ruolo fondamentale nella vita dell’uomo artigiano. Nei mesi passati in bottega con lui l’ebanista ha avuto noi come compagnia. Ma nel lavoro quotidiano, per 70 anni e più passati a modellare il legno, ha avuto come voci e come risposta i rumori che ci siamo ripromessi di farvi ascoltare nel documentario. Qui potete leggere cosa ha fatto Paolo Petrella con To Work, la colonna sonora da lui creata per “La tela e il ciliegio”.
 

La musica del lavoro.  Paolo Petrella parla di “to work”

Parlare di musica è sempre difficile, se non addirittura sbagliato. Per “la tela e il ciliegio” il mio approccio è stato estremamente istintivo, il rumore del lavoro trasformato in colonna sonora del racconto del lavoro. In fin dei conti è un po’ lo stesso processo della regia.

Di per sé la vita di Antonio Zambrano è lunga 90 anni, il racconto, la regia, sceglie determinate immagini, e le mette in sequenza, a volte le trasforma. Lo stesso vale per il suono del lavoro. I suoni sono molti, e il mio lavoro consta nel selezionarli, scegliere la sequenza, a volte trasformarli. Questo riguarda in particolare il primo pezzo, analog work, che racconta il lavoro dell’artigiano e i suoi suoni.

Il secondo pezzo invece, partendo sempre dai suoni reali del lavoro di artigianato, li trasforma in suoni digitali, sfruttando i glitches, i difetti digitali degli strumenti elettronici, quelli che possiamo definire errori del sistema (A glitch is a short-lived fault in a system). Questo percorso, trasformare il suono analogico in difetto digitale, mi sembrava perfetto per raccontare la trasformazione del lavoro di artigianato reale (il legno, le schegge, il sudore) in artigianato digitale. MI sembrava perfetto per raccontare come sia cambiato il rapporto delle persone col lavoro e come, in un certo senso, sia rimasto qualcosa di simile: l’appassionarsi.

Questo credo che Alessio volesse raccontare nel suo lavoro, e questo ho cercato di sottolineare io nella colonna sonora. L’ultima traccia sovrappone le due precedenti, credo che così si raggiunga il risultato finale, la conclusione del discorso. I due modelli coesistono, uno è un modello passato e forse sta scomparendo, ma resta in qualche modo nelle modalità presenti, nelle nuove forme che il tempo necessariamente crea.

Prufessò, scusate, ma allora perché lo fate?

L’incontro a via Chiaja, qualche giorno fa. Come purtroppo mi accade sempre più sovente, non ricordo chi è né, ovviamente, come si chiama. Neppure la prima parola che dice, “prufessò”, mi  permette di inquadrarlo, alla voce “università” non ci sta bene, devo averlo per forza incrociato da qualche parte, meglio non pensarci e stare attento a non fare brutte figure.
“Prufessò, ve state facenno ‘e sorde, eh?, sono contento, ve lo meritate, siete una brava persona.  Mio padre mi racconta sempre che anche quando stavate alla Cgil eravate così”.
“Ringrazio te e tuo padre per i complimenti, ma di quali soldi parli?”.
“Prof., io vi seguo su Facebook, sono un vostro tifoso, so tutto di voi: il romanzo che avete scritto, le recensioni che state avendo sui giornali, i lettori entusiasti, tutte quelle presentazioni, e mica è una cosa brutta avere successo e mettersi in tasca un po’ di soldi”.
“Guarda che sei fuori strada. A parte che “avere successo” è una parola grossa, e che per fare soldi con i libri bisogna venderne tanti, ma proprio tanti, così tanti che tu nemmeno te lo immagini, per quanto riguarda me i soldi non li farei neanche in quel caso, perché per ragioni  troppo lunghe da spiegare non ricevo diritti d’autore.”
“Cosa vuol dire?”
“Vuol dire che dal punto di vista economico io non ci guadagno niente, indipendentemente da quello che si vende. Per dirla come va detto ci rimetto soldi miei, per viaggiare, per mangiare, quando serve dormire, le copie che regalo agli amici e così via discorrendo”.
“Prufessò, scusate, ma allora perché lo fate?”.
“Scusami, adesso non ho tempo, ho un appuntamento e sono in ritardo, sarà per un altra volta. Ciao, e salutami tanto tuo padre”.
Dite che sono stato un poco antipatico? Non sono d’accordo, e vi spiego perché:
1. L’appuntamento e il ritardo erano veri.
2. Parlare senza sapere con chi stai parlando è già complicato quando si tratta di convenevoli figurarsi quando la discussione è seria (lo so che potevo dirgli “scusa ma non mi ricordo chi sei”, a volte lo faccio, ma bisogna farlo subito, quando la discussione ha preso il suo corso fa brutto).
3. Dire che lo faccio perché credo nella possibilità che il lavoro ben fatto possa cambiare la cultura e il destino del mio Paese, che continuo ad amare nonostante tutti i contorcimenti di stomaco che mi provoca ogni giorno; perché tutto questo contribuisce a dare senso alla mia vita; perché mi piace farlo; perché in questo modo stabilisco connessioni con un sacco di bella gente in giro per l’Italia è davvero importante, molto, ma soltanto per me.
4. La ricerca che stiamo portando avanti Alessio, Cinzia, Gennaro e i maestri artigiani di Castel San Giorgio, Jepis e le band di #Cip e di  #CampDiGrano, Giuseppe e la sua pasta di Gragnano che ottiene l’IGP, le ragazze i ragazzi della Bottega Exodus Ahref di Cassino, Gennaro e il suo dromedario da corsa, Santina, Costantino, io e tante/i altre/i persone in giro per l’Italia che a citarle/i tutti ci vuole un libro, mira a dimostrare proprio che quelle/i che pensano e agiscono come noi sono tante/i, ma così tante/i che neanche ce lo immaginiamo, e che se scelgono di connettersi, raccontarsi, rappresentarsi, agire, con la testa con le mani e con il cuore possono diventare egemoni – lo posso dire?, nel senso gramsciano del termine – e cambiare l’Italia.
5. Fare bene le cose è il nostro approccio, ridare valore al lavoro e cambiare l’Italia il nostro  obiettivo.
6. Per quanto mi riguarda, spero di farcela, lavoro per farcela, ma non ho bisogno di farcela, almeno non per forza. Ci sono strade nella vita che vale la pena di percorrere “a prescindere”. Per quanto mi riguarda, questa è una di quelle.

That’s all, folks. Almeno per ora.

@leviedellavoro e #leviedellavoro

È possibile raccontare il lavoro ben fatto ovunque e in qualsiasi momento?

Abbiamo aperto un canale Instagram, che si affianca a tutti gli altri canali proprio per questo motivo. Il tema è sempre quello, il lavoro ben fatto, il racconto del vostro lavoro ben fatto, di quello in cui vi imbattete per caso ogni giorno.

Se 5 anni fa, la mattina di Santo Stefano, – ho scritto di quell’incontro decine di volte – avessi avuto uno smartphone non mi sarei lasciato sfuggire la possibilità di fotografare il caffè fatto da quel barista che mi disse che il suo compito non era fare il caffè, ma svegliare la città.

Potete taggare i vostri scatti su Instagram con il tag #leviedellavoro o indirizzarceli scrivendo @leviedellavoro. Poi scrivete quello che volete, una frase, un’idea, il vostro racconto.

Il 30 aprile 2014 ci sarà “La notte del lavoro narrato” (A proposito firmate la petizione, è importante). Dove? Ovunque vogliate che ci sia. Basta organizzarsi. E durante quella notte, mentre ascolterete o racconterete le vostre storie, qualcuno con un smartphone potrà raccontare quel momento.

Mentre aspetto le vostre, la prima foto su #leviedellavoro la metto io. È un fotogramma tratto da “La tela e il ciliegio“. Quale? Correte su Instagram!

Cip e stracci di lino

No, no, questa volta la “h” non me la sono dimenticata, volevo scrivere proprio cip, non chip. Mentre scrivevo la storia di Duccio, e della sua Ape, ‘o trerrote, che avevo deciso di ambientare a Caselle in Pittari, perché volevo raccontare anche se in forma romanzata un pò delle cose che stanno avvenendo da quelle parti, mi è venuto spontaneo chiamarla in questo modo, Cip, che gli acronimi quasi sempre sono brutti anziché no, ma non in questo caso, che Cip mi fa pensare alla versione made in Italy del cinguettio, del tweet, che magari prima o dopo qualcuno lo inventa cipper  che ci permetterà di postare con 210 caratteri che tanto si sa che noi italiani siamo meno sintetici degli inglesi.
Gli stracci di lino sono invece quelli che venivano usati mille anni fa per fare la carta e che hanno dato a Luigi Nicoletti lo spunto per dare il nome alla sua bella cartolibreria a Sapri.
Perché vi racconto tutto questo? Perché sabato 6 aprile, proprio nella suddetta cartolibreria con Luigi e Giuseppe Jepis Rivello, Antonio e Rossella Torre,  Antonio Pellegrino e Margherita, Cinzia e Angelo e un bel pò di altra bella gente abbiamo presentato Testa, mani e cuore.
E’ stata una serata bella bella, ve ne potete fare un’idea guardando il video, che di certo ci sono un po’ troppo io, lo dico davvero, che Giuseppe, Antonio e Angelo hanno raccontato cose straordinarie anche se poi per amicizia si sono tagliati loro e hanno lasciato me, però non da solo, perché le cose che hanno detto Annamaria e Lorenzo a me hanno riempito il cuore di gioia, perché se uno scrive un romanzo e due persone che non ha mai visto prima ne parlano come ne hanno parlato loro quello che ha scritto il romanzo è veramente felice. Dice ma sono “solo” due. Potrei rispondere che possono diventare due milioni, dico invece che in queste faccende qua anche una sola persona vale come l’umanità intera.

La giornata di ieri l’abbiamo passata invece a Cip, con Giuseppe e Antonio e il resto della band, con le interviste agli artigiani di Cip che poi Giuseppe pubblicherà su Timu e dunque non vi anticipo niente qui, con i progetti per il futuro prossimo venturo, con il pranzo da zì Filomena e la chiacchiere di cibo e di scienza con Mario Pellegrino, il titolare che tu lo vedi e capisci che anche lui tiene la testa dove tiene le mani e le mani dove tiene il cuore.
Comunque adesso tutto tutto non ve lo posso raccontare, piuttosto guardatevi il video che a Cip ci torneremo presto. A proposito, stasera assieme ad Alessio Strazzullo, che ancora sta dispiaciuto che l’influenza lo ha tenuto lontano da Cip e da Sapri,  saremo a Castel San Giorgio, a Villa Calvanese, presenteremo il libro e soprattutto proietteremo  il film di Alessio, La tela e il ciliegio, che se non  l’avete visto ancora non ve lo perdete.

Buona la prima

Confermo, sono un uomo fortunato. Ieri sera poteva finire veramente male, della serie gente poca e frustrazione tanta, e invece no, gli amici, e le amiche, si sono mobilitati, la famiglia pure, c’erano anche gli amici degli amici, e così la sala era bella piena, Costantino, Sergio, Alessio e Gianluca sono stati dei complici meravigliosi, e così la presentazione è scivolata via leggera fino al momento ogni volta emozionante delle dediche sulle copie acquistate.
Certo che se non ci fosse stato lo sciopero del trasporto pubblico locale poteva andare ancora meglio, molto meglio, e però dato che lo sciopero c’è stato poteva andare anche peggio, molto peggio, e poi come si diceva da ragazzi “si ‘o nonno teneva ‘o troll era nu tram”, quindi è inutile stare qui a giocare con i se e con i ma, che quello serve a poco o a niente.
Che cosa mi è piaciuto di più di più di ieri sera? ‘E guagliune, si, loro, le ragazze e i ragazzi, proprio loro, i giovani, ce n’erano parecchi ieri sera, perché l’Italia del lavoro ben fatto, l’Italia che mette testa, mani e  cuore nelle cose che fa è prima di tutto l’Italia loro, è un loro diritto, gli tocca. Non mi piace la retorica. Dico solo che senza la loro passione, la loro intelligenza, la loro creatività non ce la possiamo fare. E’ per questo che sono molto contento quando riesco, per il poco che posso, a creare qualche opportunità. Sapete cosa succede?  Che poi loro la moltiplicano per mille, come hanno fatto ad esempio Costantino con il suo blog su Timu o Alessio con il suo meraviglioso film.
Sì, a me “mi” piace, e mi piace raccontarlo, però adesso non ci culliamo sugli allori, che con Testa, mani e cuore e La tela e il ciliegio abbiamo appena cominciato.
Ancora grazie a tutte/i. Una/o per una/o.
 

Pronti, partenza…

Il mio amico Vincenzo, uno di quei pochi amici capace di essere amico e maestro, anzi, uno di quei pochi maestri capaci di essere amici e così generosi da accettarti come collega, è come sempre un passo avanti.

Mentre io mi scervello con Alessandro Germanò – un altro grandissimo amico e professionista che ha deciso di lanciarsi in quest’impresa con me – per mettere ogni sequenza del nostro “La tela e il ciliegio” al posto giusto,  lui avrà già scritto 15 post, 20 status su facebook e 32 tweet.

Ora, visto che a me non piace sempre essere quello che fa di meno (Vi giuro che Vincenzo è il concetto di multitasking incarnato) provo a raccontarvi cosa sta succedendo.

“La tela e il ciliegio” è in post produzione, e stiamo davvero rischiando di perdere la vista per farlo diventare ciò che vogliamo. Capirete che girare un documentario sul lavoro ben fatto, sulla dedizione e sulla passione, su un giovanissimo artigiano digitale ed un gigantesco artigiano ebanista, non è proprio un lavoretto. Ma come potrebbe essere altrimenti? Come facciamo a presentarci alle tappe della nostra tournée se in tutte le fasi del nostro lavoro non ci mettiamo tutto quello che possiamo metterci (e di più?). Insomma, siamo persone credibili e “La tela e il ciliegio” sarà presentato il 22 febbraio. Forse, se ce la facciamo. No, no, sto scherzando.

Perché un documentario? Cosa è successo ad un certo punto? Il libro lo stavamo davvero scrivendo insieme io e Vincenzo, e avevo fatto anche tutti i passaggi necessari con la Newton Compton. Perché allora, invece di concentrarmi su una delle cose che mi riescono (bene, non so, ma a riuscirci mi riesce) ho voluto complicare così tanto le cose?

No, a questo punto non vi dirò “chi me l’ha fatto fare non lo so”. Perché al di là del risultato tutto questo lavoro con i testi, le immagini, le telecamere ed i microfoni ha un senso.

Qual è il senso però ve lo dico un’altra volta.

Ps:

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