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La condivisione necessaria

Di comunicazione. Di controllo. Di decisione. Di fiducia. Di partecipazione. Di programmazione. Di rendicontazione. Di responsabilità. Di trasparenza. Di tutto questo e di molto altro ancora si può leggere acquistando “Fiducia e responsabilità nel governo dell’ente pubblico” (un titolo che forse non rende del tutto giustizia alla ricchezza delle idee, della metodologia, dei casi di studio, delle indicazioni che in esso sono presentate).
Come spiegano Cristiana Rogate e Tarcisio Tarquini nell’introduzione, nei cinque capitoli  che compongono il volume sono introdotte le idee guida fondamentali della responsabilità e della rendicontazione sociale, viene approfondito nei suoi diversi aspetti e per le sue molteplici implicazioni (direttiva Funzione Pubblica, riforma degli enti territoriali, ecc.) il tema rendicontazione nell’ambito pubblico, viene indicata ed esplicitata, con l’ausilio di diversi esempi, la metodologia adottata, sono presentate le storie di caso relative a due regioni, una provincia e tre comuni, vengono declinate alcune possibili ulteriori articolazioni della rendicontazione sociale, come ad esempio il bilancio ambientale, di sostenibilità, di genere, partecipativo, Agenda 21.

A fare da filo conduttore c’è l’importanza del “rendersi conto per rendere conto”, come scrive Leonardo Domenici, Presidente ANCI, nella sua presentazione. Con il loro lavoro Rogate e Tarquini parlano infatti al management, a quelli che l’ente pubblico (o l’impresa privata) hanno necessità di conoscerlo per definire strategie, per prendere decisioni, per ridurre il più possibile il divario necessariamente esistente, nei nostri controversi, ambigui mondi a razionalità limitata, tra ciò chi ci si prefigge di fare e ciò che effettivamente si riesce a fare; parlano a quelli che nell’ente pubblico (o nell’impresa privata) lavorano, cercano motivazioni, consapevolezza, senso per assolvere meglio al proprio compito, per coniugare soddisfazione, efficacia, efficienza, per dare valore al proprio lavoro; parlano a quelli che, per variegate ragioni e in contesti differenti (utenti, clienti, partner, finanziatori, in una parola gli stakeholder), con l’ente pubblico (o l’impresa) interagiscono, e che in tale interazione possono tanto più attivare e incontrare percorsi virtuosi quanto più possono condividere dati, informazioni, consapevolezza, conoscenza.

Ma non finisce qui. Perché il lato buono della forza di questo volume, l’ulteriore lato buono, sta a nostro avviso nel suo background connettivista, nell’idea che sono le persone, con la loro capacità di apprendere, di comunicare, di strutturare comunità di interazione, a creare conoscenza, a rendere riconoscibili le organizzazioni che dirigono, nelle quali lavorano, con le quali interagiscono e che dunque le organizzazioni (enti pubblici, associazioni non profit, imprese, etc.) hanno l’interesse a favorire contesti e percorsi di condivisione, di partecipazione, di sviluppo delle conoscenze, delle competenze, della creatività dei singoli per sviluppare idee, per creare valore, per essere coerenti con la propria mission, per rendere trasparenti e verificabili i risultati conseguiti.

Sta qui a nostro avviso un ulteriore importante valore aggiunto del libro. Che per questo non è solo un volume specialistico. Un saggio da leggere o da studiare se si intendono percorrere le vie della rendicontazione sociale. Una guida per tutti quelli che hanno già avuto esperienze in questo ambito e vogliono migliorare il proprio approccio, la propria possibilità-capacità di raggiungere gli obiettivi programmati. E per tutti quelli che di rendicontazione sociale hanno solo sentito parlare e hanno voglia di saperne di più.
“Fiducia e Responsabilità nel governo dell’ente pubblico” è anche, per taluni versi soprattutto, una straordinaria operazione di sensemaking, un tentativo molto ben riuscito di focalizzare questioni e opportunità che le organizzazioni incontrano mentre operano, di conferire senso e significato a un processo, quello della rendicontazione sociale, che non può rimanere nei confini della sperimentazione, della decisione di classi dirigenti e leadership illuminate, ma deve diventare norma, “pratica usuale di un paese normale”. E se è vero che lo spazio di intersezione tra i processi di   creazione di senso e i processi di organizzazione si fanno sempre più ampi, ecco che tale “pratica” può dare un contributo davvero importante all’affermazione di un agire sociale basato sulla responsabilità, sulla partecipazione, sulla costruzione di un contesto condiviso per l’azione.
Chi pensa che l’Italia non ne abbia bisogno scagli pure la prima pietra.
Buona lettura.

Cristiana Rogate, Tarcisio Tarquini
Fiducia e Responsabilità nel governo dell’ente pubblico
Maggioli Editore
Pagg. 382
Euro 38.00

Rispetto. Citazioni e note a margine dal libro di Richard Sennett

21. IL RISPETTO NON COSTA NIENTE?

30. lo sviluppo di un qualsiasi talento porta con sé un elemento fondamentale di ogni arte e mestiere: fare qualcosa per il solo piacere di farlo bene, ed è questo aspetto della professionalità che garantisce all’individuo un senso profondo di stima di sé.

42. la sensazione di essere risucchiati da un vortice in cui tutte le realtà e tutti i valori sono annullati, esplosi, decomposti e ricombinati; un’incertezza di fondo riguardo a cosa sia fondamentale, a cosa sia prezioso, persino a cosa sia reale. [Marshall Berman, l’esperienza della modernità, Il Mulino, 1999, pag. 154].

43. Pico della Mirandola [Sulla dignità dell’uomo] e l’uomo artefice di sé stesso 43. HILLMAN E DAIMON

44. Riesman era ossessionato dal senso di responsabilità, era mosso da questa sua sensibilità.

47. nessuno può costruirsi un futuro solido odiando il proprio passato.

57. come dice Adam Smith, provare simpatia spesso significa immaginare falsamente come propria la sofferenza di un altro.

65. c’è reciprocità nel termine riconoscimento. Fu il filosofo Fichte il primo ad inserire la parola riconoscimento nel linguaggio giuridico, esplorando come le leggi possano essere strutturate in modo che la costituzione riconosca le esigenze di stranieri e migranti. Rousseau aveva ampliato il dibattito in senso democratico, vedendo nel riconoscimento reciproco un problema di comportamento sociale, così come di diritto. Negli scritti di John Rawls, riconoscimento significa rispetto per le esigenze di chi è diverso da noi; negli scritti di Jurgen Habermas, riconoscimento significa rispetto per coloro che sono portati a dissentire in base ai propri interessi.

68. DIGNITA’ DELLA PERSONA E DIGNITA’ DEL LAVORO

69. esiste un divario enorme tra il volere agire bene nei confronti degli altri e il riuscire a farlo.
69. UNA COSA E’ CONOSCERE LA VIA E UN’ALTRA E’ PERCORRERLA (MATRIX).

73. ci sono tre vie per conquistare rispetto:
attraverso la crescita personale, in particolare sviluppando abilità e competenze;
attraverso la cura di sé;
dando agli altri.

85. ogni essere umano possiede una “motivazione alla riuscita”, la spinta a fare bene qualcosa. [David McClelland].
Nel lavoro come nell’istruzione, il giudizio “tu non hai potenzialità” è devastante come mai potrebbe esserlo un’osservazione del tipo “hai fatto un errore”.

90. la competenza può essere posta al servizio del mestiere, oppure al servizio della padronanza sugli altri.

93. il mestiere, dice Thorstein Veblen, porta l’artigiano al rispetto di sé ma, bisogna aggiungere, non necessariamente al rispetto per gli altri.

95. negare o nascondere l’influenza di coloro grazie ai quali si è cresciuti fa sì che la forza e la capacità di un individuo sembrino qualcosa di totalmente proprio.

101. ci sono una varietà di cose che gli individui possono fare anziché perdere tempo in continui confronti [Howard Gardner, formae mentis: saggio sulla pluralità dell’intelligenza, Feltrinelli, 2000]

104. LA PROFESSIONALITA’ PRODUCE RISPETTO DI SE’

105. INDIPENDENDENZA E CONDIZIONE ADULTA.

111. servitù volontaria: “vorrei comprendere come è possibile che tanti uomini, tanti borghi, tante città, tante nazioni sopportino talvolta un tiranno solo, che non ha forza se non quella che essi gli danno, che ha iil potere di danneggiarli unicamente in quanto essi vogliono sopportarlo, che non potrebbe far loro alcun male se essi non preferissero subirlo invece di contrastarlo …. E’ il popolo che si fa servo, che, potendo scegliere se esser servo o libero, abbandona la libertà e si sottomette al giogo: è il popolo che acconsente al suo male o addirittura lo provoca. [Etiene de La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria, Torino, La Rosa, 1995].

114. CON LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE L’ADULTO RISPETTATO E’ L’ADULTO CHE LAVORA.

115. da Locke in poi l’infanzia si amplia e poi nasce l’adolescenza.

118. l’adulto che ha coscienza del legame ancora esistente con il bambino che fu ha una comprensione più profonda del suo presente. [Freud]

119. la trasgressione produce colpa, l’insufficienza produce vergogna (chi copia un esame si può sentire colpevole, chi non lo passa prova vergogna).

119. “c’è qualcosa di ostile in noi stessi che impedisce all’amore di completarsi e raggiungere la perfezione” [Hegel]. Gerhart Piers parla della vergogna come un senso profondo di incompletezza, anche di fronte a chiare prove di realizzazione o gratificazione; la persona che non riesce a provare questo senso di compiutezza immagina ci sia qualcosa di sbagliato dentro di sé.
Le esperienze concorrenziali dell’economia di mercato alimentano il senso di colpa nei lavoratori adulti; la sconfitta sul mercato provoca la perdita della stima di sé. [Adler]

120. LA DISEGUAGLIIANZA ERODE IL RISPETTO.

121. si prova vergogna quando qualcuno viene reso visibile pur non essendo pronto ad essere visibile.

122. spesso i problemi diventano evidenti solo dopo essersi trasformati in errori. Nel sistema politica come nelle aziende si parla del bisogno solo dopo che sono capitati i guai.

123. autonomia come un processo di conversione della necessità in desiderio [Erik Errikson]; autonomia come capacità di trattare gli altri inn quanto differenti da sé; una forza di carattere basata sulla percezione degli altri; essa cioè istituisce una relazione fra le persone, anziché sancire una differenza che le isola. [Winnicott]

125. autonomia come accettazione della possibilità di non riuscire a capirsi.
Autonomia significa accettare dell’altro quello che tu non capisci, un’eguaglianza opaca. Nel farlo, tratti la realtà della sua autonomia al pari della tua. Naturalmente il rapporto prevede reciprocità.

125. Il popolo deve avere fiducia nei suoi governanti; se ha fiducia, accorda loro una libertà di azione senza sentire bisogno di consultazioni, monitoraggi e supervisioni costanti. Se non godesse di questa autonomia, il governante non potrebbe mai fare una mossa. [Locke]
BERLUSCONI SEGUACE DI LOCKE?

127. c’è bisogno di coesione sociale perché una persona ha sempre bisogno dell’altra per raggiungere un senso di completezza [Emile Durkheim].

132. INSEGNARE A PESCARE E NON REGALLARE IL PESCE.

137. COMPASSIONE E SOLIDARIETA’

141. lo scopo della protezione sociale è di occuparsi del bene dell’assistito, e dovrebbero essere del tutto irrilevanti i sentimenti dell’assistente sociale. Assistere senza compatire è il principio base per qualsiasi tipo di welfare state laico. [Harendt]

146. LA SENSIBILITA’ (SOLIDARIETA’) E’ FEMMINA?
RISPETTARE SENZA AMARE [SOLIDARIETA’ FRA ESTRANEI]

150. la carità implica sottomissione; la pietà produce disuguaglianza.

161. la deistituzionalizzazione del welfare è indice di un più ampio mutamento in corso nella società contemporanea: un attacco alle istituzioni rigide del mondo del lavoro e della vita politica. In un caso come nell’altro, si sta affermando la convinzione che le comunità possano rispondere ai bisogni sociali delle persone meglio delle burocrazie.

161. LO SCRIVANO BARTEBLY.

162. Julien Sorel, protagonista de “Il rosso e il nero”, impara ad adattare velocemente il suo comportamento, le sue espressioni, nonché il vestito, ogni volta che sale un gradino della scala sociale e tuttavia si accorge che si tratta solo di apparenze e dunque soffre di anomia (Durkheim).

164. in uno stato moderno il potere reale, che non si esercita né né nei discorsi parlamentari né nelle enunciazioni dei sovrani, ma nell’uso quotidiano dell’amministrazione, è necessariamente e inevitabilmente nelle mani della burocrazia. Della militare come della civile. [Max Weber]

176. l’autonomia, lo abbiamo visto, non è semplicemente un agire; essa richiede anche una relazione nella quale una parte accetta di non essere in grado di comprendere qualcosa dell’altro. Tale accettazione garantisce l’eguaglianza nella relazione. L’autonomia presuppone connessione ed estraneità, vicinanza e impersonalitàà.

177. CAPIRE DI COSA HANNO BISOGNO GLI UTENTI E ASCOLTARE IL LORO PARERE.

180. ORGANIZZAZIONI PIATTE E CORTE.

181. alla IBM nel 1965 esistevano 23 anelli gerarchici che separavano il vertice dalla base; nel 2000 soltanto 7.

182. nel 1965 gli investitori tradizionali tenevano le azioni in media per 46 mesi; nel 2000 per 8 mesi.

183. WINNER TAKE ALL – CHI VINCE PIGLIA TUTTO.

183. la rivoluzione informatica permette all’unità centrale operativa un colpo d’occhio istantaneo sull’organizzazione nel suo complesso.

184. l’organizzazione flessibile riesce a funzionare come istituzione totale più della piramide burocratica tradizionale.

185. oggi nessuna nuova azienda può essere creata sul principio dell’impiego a vita. L’azienda flessibile è divenuta un modello per il welfare.

185. welfare flat. Welfare piatto. Welfare short. Welfare corto.
185. mentre il prezzo resta il riferimento principale per il mercato dei beni di consumo, il costo da solo non è un indice di qualità in materia di istruzione o sanità.

186. gli utenti del welfare non possono essere considerati dei clienti qualsiasi di un mercato qualsiasi: essi hanno bisogno di consigli disinteressati e in un mercato i venditori o chi offre servizi non sono disinteressati.

187. WELFARE: DA DIRITTO PER TUTTI I CITTADINI A BONUS AUTOFINANZIATI PER I RICCHI E CARITA’ PUNITIVA PER I MENO ABBIENTI.

187. nel mondo degli affari, l’eccesso di domanda rispetto all’offerta aumenta i profitti; nel welfare state, la domanda superiore all’offerta produca miseria.

190. ASSOCIAZIONE E COMUNITA’ GESELLSCHAFT E GEMEINSCHAFT.

193. COFFEE HOUSES – FACCIA A FACCIA – LLOYD’S.

194. NON CONFONDERE AIUTO E AMICIZIA. + ANZIANI E – GIOVANI VOLONTARI.

196. bonding (tessere legami – interno – identità) e bridging (gettare ponti – esterno – pluralità sociale).

198. architettura della simpatia: movimento che va dall’identificazione con persone che si conoscono all’identificazione con sconosciuti.

198. sono molto soddisfatto quando risalgo la strada che ho appena fatto e la vedo pulita, senza i mucchi di spazzatura che la ingombravano.
LO SPAZZINO INTERVENTISTA DI VIVIANI.

200. l’importanza dell’abilità nel lavoro utile separa l’assistenza dalla compassione, impedisce che la pietà sommerga la relazione.

207. il rispetto è un modo di esprimersi. Vale a dire, trattare gli altri con rispetto non è una cosa automatica, anche con la migliore volontà del mondo; portare rispetto significa trovare le parole e i gesti che lo rendano convincente.

209. LA ZIA SORDA DI TALLEYRAND

214. un uomo o un gruppo che riesca a donare collanine di conchiglia obbliga chi le riceve; in futuro costoro dovranno rendere il dono, ribaltando le parti della cerimonia. Nel frattempo, però, ognuna delle parti rimane legata all’altra dal vincolo di reciproca assistenza. Questo scambio trasforma i nemici in amici.
CHI RINGRAZIA ESCE FUORI DALL’OBBLIGO.

215. le relazioni mettono radici solo se lo scambio non è equivalente. Lo scambio asimmetrico socializza [Marcel Mauss]
216. il welfare state deve all’individuo qualcosa di più del semplice ritorno monetario dei contributi versati.
“Il lavoratore ha dato lla sua vita e la sua opera alla collettività e ai suoi datori di lavoro …. Coloro che beneficiano dei suo servizi non possono pensare di assolvere il proprio debito nei suoi confronti semplicemente pagandogli un salario. Lo stato stesso, come rappresentante della collettività, gli deve, come gli devono i suoi datori di lavoro, e anche con il suo concorso, una certa sicurezza nella vita, contro la disoccupazione, lla malattia, la vecchiaia e la morte.”[Marcel Mauss]

216. l’’asimmetria tra lavoro e protezione sociale è il socialismo come lo intendeva Mauss.

217. la reciprocità sta a fondamento del mutuo rispetto. … il donatore restituisce qualcosa alla società.

218. uno scambio economico è una transazione breve; le nuove forme istituzionali di capitalismo sono particolarmente brevi.

219. SCAMBIO CAPITALISTICO: SIMMETRIA E SCARSITA’ DELLA RISORSA TEMPO.

221. esiste una tensione fra rispetto di sé e rispetto reciproco.

222. gli scambi rituali costruiscono il rispetto reciproco; lo scambio porta la gente a esteriorizzare, e ciò è necessario per lo sviluppo di qualità relazionali.

225. la questione è come aprirsi all’esterno mantenendo un solido senso sé.

226. troppa rigidità = troppa fragilità [Lévi-Strauss]

227. l’antropologo chiama bricolage il processo di smontaggio di una cultura in pezzi e il suo allestimento eri il viaggio. Lévi-Strauss chiama “meteci” (métics) coloro che praticano il bricolage, trasformando l’accezione classica del termine greco per indicare gli stranieri nell’idea di gente che può ricordare da dove proviene anche sapendo di non poterci più vivere; questo genere di viaggio egli lo chiama “meticciato” (métissage), un percorso lungo il quale c’è un cambiamento ma non la perdita della memoria. Il viaggiatore, quindi, conserva un certo grado di sicurezza e fiducia in sé mentre fa fronte, e accetta, la diversità e l’incoerenza della nuova situazione.

228. l’importanza del passaggio da una conoscenza tacita a una conoscenza esplicita.
TACITO – ESPLICITO – TACITO COME TESI – ANTITESI – SINTESI

230. il filosofo Michael Polanyi dice che l’ambito del tacito racchiude ciò che sappiamo più che ciò che possiamo dire.
Michail M. Bachtin e il primato del contesto sul testo.
Maurice Merleau-Ponty e la sicurezza ontologica.
Freud sostiene invece che il sapere tacito e la sicurezza ontologica diano un falso senso di sicurezza.

234. LA RESA DI DEWEY E LA RINUNCIA TEMPORANEA AL CONTROLLO DI SE’ E DELL’AMBIENTE CIRCOSTANTE. LASCIARSI ANDARE.
POSARE LO SCUDO.

236. è necessario che cambi qualcosa nel profondo dell’individuo. Rivolgersi verso il mondo esterno significa che il prigioniero riforma anziché essere riformato.
SENNET E RORTY

236. divario fra linguaggio e realtà.
Secondo Daniel Kahneman l’assunzione di rischio ispira depressione e ansia anziché speranza; la gente si concentra su ciò che deve perdere piuttosto che su ciò che può guadagnare; i lavoratori si sentono giocati, non giocatori. Ne risulta quella che Albert Hirschman chiama mentalità di defezione piuttosto che di protesta.

237. IL RISCHIO SENZA POTERE GENERA DEPRESSIONE

238. PRIMA CAMBIAMO POI CE NE ACCORGIAMO

241. per trattarsi con reciproco rispetto le persone dovrebbe fare a pezzi i presupposti taciti e le visioni condivise del mondo.
ROMPERE PER COSTRUIRE

247. fin dall’inizio della sua carriera mio zio fu convinto che il capitalismo, insistendo unicamente sulla condizione materiale e sul prestigio degli individui, non fosse in grado di superare il divario della disuguaglianza.

249. ogni scambio positivo con il nemico rischia di indebolire la coesione di classe.
COSCIENZA DI CLASSE E RAPPORTO PARALIZZANTE FRA SE’ E IL MONDO.

254. la buona volontà unita all’improvvisazione – il jazz sociale – non crea vincoli.

255. i 3 codici moderni del rispetto: realizza te stesso in qualche modo; prenditi cura di te; aiuta gli altri.

255. “il compito di una società civilizzata è di eliminare quelle diseguaglianze che trovano la loro origine non nelle differenze individuali, bensì nell’organizzazione sociale.
SALVATORE VECA E LA SOFFERENZA SOCIALMENTE EVITABILE.

Il vino dei mietitori

Franco Araniti, poeta che scrive nel dialetto dei “quadarari”, gli stagnini di Dipignano, nelle serre cosentine calabresi; Emilio Argiroffi, medico, poeta, pittore, sindaco di Taurianova, Senatore della Repubblica; Giuseppe Coniglio, poeta dialettale, bracciante agricolo, mastro costruttore di muri a secco; e poi ancora Adele Pantuso di Verzino, insegnante, Bruno Pierozzi, pittore, Oreste Lupi, capitano nei mari del mondo, sindaco di San Donato Milanese.

Si chiamano così le donne e gli uomini, le persone, protagoniste delle “Dissestate Rime” di Sandro Taverniti, calabrese, dirigente della CGIL (Federbraccianti, Confederazione, SPI, attualmente segretario regionale dello SPI Molise), da sempre “costretto” a fare i conti con “una strana voglia di scrivere / quasi una pena sottile / scoprendo sotto la coltre / degli anni ormai numerosi / le opposte e uguali paure / di vivere e di morire”.

È una strana voglia che chi ha letto “Quando Maria Cantava”, il volume di racconti pubblicato qualche anno fa, conosce bene. È la strana voglia che siamo certi attraverserà “Nel paese dei due Re”, il volume di prossima uscita che racconta la “sua” Calabria. È una strana voglia che in questa sua raccolta di poesie si presenta con particolare forza e intensità.

In parte contribuisce in questo senso il carattere stesso della poesia, il suo essere, fin dai tempi antichissimi dei canti a batocco dei contadini e dei racconti dei cantastorie, significato, suono, ritmo.

Ma ciò che davvero colpisce è la sensibilità, l’appassionata semplicità, il sapore autentico delle “Dissestate rime / per vecchi brindisi/ d’uomini di fatica/” attraverso le quali Taverniti racconta i suoi stati d’animo, i volti, le storie, i luoghi della sua terra.

Nelle poesie di Taverniti i luoghi hanno un’anima anche quando “tutte le braccia sono ormai ferme / muti i canti delle vendemmie / e i sudati mietitori coi rimbrotti / dalla massaia più non pretendono / l’apro vino dalla verde borraccia”.
Nel giocare con le parole e con le rime egli non esita a scrivere “nel sacchetto del vomito / dell’aereo nella tempesta / così per dissimulare la paura / Parole senza cura”.

Il fatto è che Taverniti è una persona vera. Che scrive di persone vere. Di quelle che sarebbero balzate in piedi per applaudire la grande Anna Magnani che, al truccatore che la stava preparando per una scena, disse “Non mi togliere nemmeno una ruga. Le ho pagate tutte care”. Di quelle senza effetti speciali. Nel cuore, talvolta, soltanto un rimpianto. O una spina.

La critica inconsapevole dei marxisti

Si può ritenere Karl Marx “un autore misconosciuto, vittima di una profonda e reiterata incomprensione”?
A leggere l’introduzione di Marcello Musto, curatore di questo interessante, rigoroso, sorprendente, volume, sì.
A suo avviso Marx è stato tale “nel periodo durante il quale il marxismo era politicamente e culturalmente egemone, tale rimane ancora oggi”, e le cause principali di tale paradosso sono “il tortuoso processo della diffusione degli scritti di Marx e l’assenza di una loro edizione integrale, insieme con la primaria incompiutezza, il lavoro scellerato degli epigoni, le letture tendenziose e le più numerose non letture”.

La questione è di quelle destinate a lasciare il segno. Nella storia e nel futuro del pensiero socialista. Nella conoscenza di questo straordinario filosofo, economista, storico, saggista, editorialista. Nella testa e nel cuore di chi legge il libro.

Non si può negare un certo sconcerto di fronte ad affermazioni, convincimenti, demarcazioni, del giovane e bravissimo curatore, che in maniera tanto netta evidenzia gli abusi e i sorpresi perpetrati ai danni del grande vecchio di Treviri; quando si vede minacciato l’impegno e la passione con il quale ci si è misurati con il suo pensiero; quando ci si ritrova a pensare che tutti quei libri così gelosamente custoditi, salvati dal riflusso, dal reaganismo, dal craxismo, dal berlusconismo, dalla critica roditrice dei figli (che sa essere più feroce di quella dei topi), sono in buona sostanza dei falsi.

Eppure mano a mano che si procede nella lettura, lo sconcerto lascia il posto alla scoperta, alla voglia di ricominciare, alla speranza che quello che anche i più ottimisti hanno ritenuto un pensiero straordinariamente nobile ma altrettanto datato e male applicato, possa tornare a essere attuale, a essere utile per l’oggi e per il domani.

Sta qui a nostro avviso il valore straordinario di questo volume, che si articola in quattro sezioni che raccolgono i saggi presentati nel corso di una conferenza internazionale svoltasi a Napoli nella primavera del 2004.
La prima sezione, per chi scrive quella più appassionante, è dedicata alla nuova edizione storico – critica della Marx Engels Gesamtausgabe (MEGA 2, 114 i volumi previsti, quasi la metà quelli già pronti, diretta dalla Internazionale Marx – Engels – Stiftung, pubblicata dalla Berlin -Brandenburgische Akademie der Wissenschaften), con interventi e saggi, tra gli altri, di Manfred Neuhaus, Gerald Hubmann, Izumi Omura.
La seconda sezione si sviluppa intorno al pensiero del Marx giovane, dalla dissertazione di laurea alla critica della politica, e propone tra gli altri interventi di Giuseppe Cacciatore, Marcello Musto, Stathis Kouvélakis.
La terza sezione analizza quella che molti hanno considerato l’opera più importante di Marx, Il Capitale, con interventi tra gli altri di Roberto Finelli, Geert Reuten, Christopher J. Arthur.
La quarta sezione propone infine le ragioni e i caratteri dell’attualità del pensiero marxiano, e presenta tra gli altri contributi di André Tosel, Domenico Losurdo, Alex Callinicos.

La lettura, per quanto impegnativa, risulta sempre non solo interessante ma anche scorrevole e ricca di sorprese. Sapete ad esempio che attraverso la banca dati elettronica dell’Università Tohoku, è possibile visionare le prime edizioni di alcune delle più importanti opere di Marx con note e dediche scritte a mano dall’autore? O che Marx e Engels sono stati per lungo tempo editorialisti del New York Tribune, al tempo il più importante quotidiano del mondo?

“Sulle tracce di un fantasma” è insomma un libro da non perdere, soprattutto per chi ritiene che la possibilità di “un nuovo accesso post-ideologico all’opera e al pensiero di Marx”, e dunque di una sua nuova modernità e attualità, possa mostrarsi ancora oggi una prospettiva utile, realistica, credibile, concreta nelle quotidiane fatiche per la conquista di un mondo almeno un po’ più eguale e meno ingiusto.

Sulle tracce di un fantasma
L’opera di Karl Marx tra filologia e filosofia
A cura di Marcello Musto
Manifestolibri
Pagg. 392
Euro 30,00

La retorica. E le opportunità

In maniera estremamente lucida e documentata, De Biase racconta in questo suo testo gli anni della follia e della depressione dell’economia digitale. Le speranze e le illusioni che hanno alimentato. Senza rinunciare a indicare i percorsi che possono aiutare a riprendere il filo dell’innovazione e dello sviluppo. Il leit motiv che attraversa il libro è, come si evince fin dal titolo, il rifiuto di ogni forma di fondamentalismo. Compreso quello digitale. Perché i fondamentalismi partono da presupposti sbagliati. Non aiutano a capire. Portano a scelte quasi sempre disastrose.

Non è vero, ci ricorda De Biase, che ogni nuova versione di un prodotto è migliore di quella precedente; ogni nuova tecnologia è una soluzione in cerca di un problema da risolvere; la domanda di nuovi prodotti è così infinita. La faccenda riporta alla mente le stupende pagine nelle quali Isaiah Berlin demolisce il mito platonico secondo il quale tutte le domande autentiche debbono necessariamente avere una sola risposta vera, c’è sempre una via sicura per arrivare alla verità, tutte le risposte vere debbono per forza essere coerenti tra loro (Isaiah Berlin, Il legno storto dell’umanità, Adelphi).

Il libro di De Biase sottrae finalmente la discussione sulle prospettive della società digitale alla furia immaginifica dei profeti “a prescindere” della nuova economia. I protagonisti tornano a essere l’innovazione tecnologica e i mutamenti economici e sociali che essa porta con sé. E l’obiettivo, lo sviluppo di un’economia nuova perché fondata su regole più chiare. Perché orientata a offrire maggiori opportunità ad un numero più vasto di persone. Perché lontana dalle follie delle bolle speculative.

La riflessione che De Biase ci propone con il suo libro è insomma assai interessante da più punti di vista e in particolare perché insiste su un tema che continua a essere assai rilevante: il rapporto tra regole, innovazione, cambiamento sociale, sviluppo.
Vista da Sud, a mio avviso la questione è interessante proprio per questo. Perché su questo asse – regole, innovazione, cambiamento sociale, sviluppo – il Sud può avere un ruolo davvero importante.

L’Università di Catania, con 162 progetti depositati, è il secondo ateneo in Italia, dopo il Politecnico di Torino, per realizzazione di brevetti europei. E tali progetti sono stati realizzati con la St Microelectronics, azienda leader nei semiconduttori, che nel 2002 ha investito a Catania oltre 91 milioni di dollari in ricerca e formazione. E non è certo un caso che la St Microelectronics sia diretta da un uomo del Sud, Pasquale Pistorio. Così come meridionali sono Renato Soru e Pierluigi Crudele, i capi di Tiscali e Finmatica, due delle realtà più importanti della nuova fase. Così come sono del Sud le 12mila donne che hanno risposto al bando sull’imprenditoria femminile promosso dalla Regione Campania.

È insomma innegabile il fatto che il Sud sia cambiato. Stia cambiando. In un modo per molti aspetti significativo. Eppure, com’è noto, tutto questo non elimina le distanze. Gli squilibri. I dualismi. I ritardi. E soprattutto non riesce ad assumere carattere e valore generale. A fare cultura. A determinare svolte. Da un lato c’è un Sud sicuramente cresciuto, nel quale non mancano esperienze e realtà positive. Dall’altro un Sud che nel suo complesso non riesce a innovare comportamenti, strategie e politiche. E che dunque continua a essere artefice, prigioniero e vittima della consistenza e della profondità dei propri problemi storici, continua a rimanere lontano dai livelli di sviluppo e di qualità della vita centro-settentrionali, continua a non valorizzare adeguatamente il proprio capitale umano e sociale.

Come sempre in questi casi, la domanda canonica è: che fare? Per quanto mi riguarda, continuo a pensare che il quadro potrebbe farsi più accettabile, o anche solo meno ingiusto, se sul piano nazionale e locale si adottassero, sulla base di criteri di sussidiarietà e responsabilità, scelte e iniziative mirate a coinvolgere i diversi attori sociali, economici e politici presenti sul territorio, così da definire un’agenda delle priorità, perseguire con sufficiente determinazione gli obiettivi individuati e raggiungerli almeno in parte (quella che di volta in volta sarà consentita dalla quantità e dalla qualità delle risorse umane, organizzative, finanziarie disponibili; dalla capacità, la coerenza e l’impegno di ciascuno; dalla contingenza).

E per quanto sia del tutto evidente che nell’agenda politica ed economica del paese questa esigenza non è, si può dire, all’ordine del giorno, non si può a mio avviso rinunciare, in primo luogo dal Sud, a lavorare per mantenere aperta questa prospettiva. Favorendo a ogni livello percorsi di educazione alla legalità e al rispetto delle regole. Investendo in socialità e formazione. Promuovendo lo sviluppo di reti sociali e tecnologiche. Diffondendo l’esperienza dei distretti. A partire dall’emersione e dalla valorizzazione di quelli esistenti. Riducendo il costo del denaro e attivando nuovi strumenti di sostegno finanziario con l’obiettivo di favorire e accompagnare lo sviluppo di imprese innovative. Per fare il definitivo salto di qualità il Mezzogiorno deve insomma allargare la propria capacità “di pensarsi a livello sociale come parte di una rete dinamica di eventi interconnessi in cui nessuno è fondamentale e ciascuno dipende dalla qualità e dalla coerenza delle relazioni con gli altri. Di pensarsi in un contesto nel quale l’insieme delle connessioni determina la qualità della struttura dell’intera rete”.

In questo senso le nuove tecnologie possono davvero fornire nuove e importanti opportunità. E sarebbe colpevole non coglierle. Prima di tutto dal Sud.

Luca De Biase
Edeologia. Critica del fondamentalismo digitale
Roma-Bari, Laterza, 2003
pp. 160, 12 euro

Della connessione

Devo confessare che i miei amici più cari mi hanno insistentemente consigliato di starmene zitto questa sera. Non essendo un filosofo, ed essendo l’oggetto della discussione la presentazione del volume “Dell’Incertezza” di Salvatore Veca, sarebbe stato sicuramente saggio da parte mia seguire il loro consiglio. Tuttavia, per essere saggi bisognerebbe essere almeno un pò filosofi, e non essendo io né l’uno né l’altro, finisco sempre per fare di testa mia.

Ho cominciato a leggere “Dell’Incertezza” con curiosità e, perché no, con il piglio di chi sente che la presentazione di un libro, e l’amicizia e il rispetto nei confronti dell’autore, al quale tutti noi di Austro & Aquilone siamo riconoscenti per l’attenzione e la disponibilità che a più riprese ha dimostrato nei nostri confronti, vanno presi molto sul serio.

“Dell’incertezza” è un libro che ho trovato estremamente interessante anche se, non lo dico per mettere le mani avanti, complesso. Non è stato facile capire quello che sono riuscito a capire e, ovviamente, non ho capito tutto. Ma devo dire che più andavo avanti, più avevo la voglia ed il piacere di leggere.

Credo che sia di quei libri, anche questo è forse un segno della sua importanza, che si possono leggere in molti modi, soffermandosi, di volta in volta, sugli argomenti che appaiono più importanti o che risultano di più difficile comprensione.

È stata la maniera nella quale ho proceduto in una prima fase, fino a che mi sono reso conto che ciò che guadagnavo in profondità lo perdevo in capacità di cogliere il senso generale di ciò che leggevo. Cosicchè mi sono posto l’obiettivo di leggere prima tutto il libro (avevo comunque fatto in tempo a concludere la lettura della prima meditazione, quella su “ciò che vi è”) e di ritornare dopo su singoli aspetti, augurandomi, come effettivamente è poi accaduto, di trovare in corso d’opera le chiavi per comprendere ciò che in prima battuta non mi risultava chiaro.

Devo dire che mi ha aiutato molto la “scoperta” che “Dell’Incertezza” è un libro che si può leggere anche come un ipertesto. Basta guardare al modo in cui Veca usa le parentesi. Credo che una delle chiavi di lettura del libro sia proprio nelle cose che l’autore mette tra parentesi. E’ uno dei motivi che mi hanno fatto pensare all’ipertesto.

Se si decide di sottolineare con un evidenziatore tutti i punti in cui Veca dice: “La mia tesi è”, e li si mettono assieme, si ottiene un altro percorso di lettura. E così accade se la stessa operazione, magari con un evidenziatore di un altro colore, la si fa con tutte quelle parti del libro in cui Veca usa richiamare l’attenzione del lettore con la formula “Si consideri”. Se uno segue il libro attraverso i “Si consideri”, a mio avviso, trova ancora un’ulteriore via tra le diverse e molteplici di cui si compone il libro. Giocare con i colori, con le sottolineature, per cogliere al meglio i vari livelli di significato: credo si possa rivelare un esercizio molto utile.

Chi ha già comprato o letto il libro sa che la prima delle tre meditazioni verte sulla importanza del linguaggio, sulle ragioni per le quali i cambiamenti nei e dei modi di comunicare producono disagio, esclusione, solitudine (con una immagine letteraria, Veca ci ha ricordato, in un’altra occasione, il disagio che Proust provava quando si ritrovava in stanze d’albergo arredate in maniera per lui non abituale).

Devo dire che ho trovato in tutta questa parte molti punti di convergenza con le cose di cui anche Austro & Aquilone si occupa. Tutta questa vicenda che definiamo “rivoluzione telematica”, questa nuova fase dello sviluppo tecnologico, è fortemente caratterizzata dalla velocità, anche visiva, del cambiamento. E tutto questo avviene mentre, come Veca ci ricorda nel libro, abbiamo la storia alle calcagna.

Viviamo dunque questa fine del secolo breve avendo da una parte la storia alle calcagna e dall’altra i cambiamenti tecnologici che giorno dopo giorno, certe volte addirittura momento dopo momento, producono mutamento, e dunque producono incertezza. Da qui l’esigenza di riattrezzarci per riarredare il nostro armamentario di credenze, di modi di vedere e di interpretare il mondo in cui viviamo. Da qui soprattutto l’esigenza di condividere con altri il disagio rispetto all’incertezza. E gli sforzi per limitarne gli ambiti, la portata. Non è un caso che il linguaggio si ripresenti in qualche modo nella seconda e terza meditazione come quadro di riferimento per valutare sia “ciò che per noi vale”, sia “chi noi siamo”.

Devo dire che se avessi avuto qualche potere nella scelta del titolo del libro di Veca, potere che per ovvi motivi non ho, e se contemporaneamente non avessi avuto la preoccupazione di apparire un seguace “tardo” del Paolo Conte che parla della genialità degli elettricisti in “Gelato al limone”, io questo libro lo avrei chiamato “Della connessione”, piuttosto che “Dell’incertezza”.

“Della connessione”, cioè dell’importanza delle cose connesse ad altre cose. Così l’importanza del linguaggio appare evidente mano a mano che Veca argomenta le ragioni che lo spingono a confutare sia quella che egli chiama “la fallacia onnilinguistica”, sia il riduzionismo di coloro che sembrano non voler riconoscere l’importanza del linguaggio. Sembra un gioco di parole ma il linguaggio è importante proprio in quanto è riferito a ciò che non è linguaggio.

Questa ricerca delle connessioni percorre tutto il libro: negli argomenti a favore della tesi che a dare importanza alla vita è la morte, o che l’importanza delle ragioni è data dal loro rapporto con i sentimenti.

Ad un certo punto Veca scrive testualmente: “In conclusione, parlando di ragioni e di emozioni, possiamo dire che la capacità o la proprietà di essere razionali, la nostra razionalità non può essere considerata una capacità o una proprietà a sé presa, in isolamento e in modo indipendente dalla sua connessione con altre capacità ed altre componenti del resoconto su chi noi siamo”. Credo che proprio per sottolineare questo aspetto, quando parla delle dieci proposizioni, quelle che verso la fine del libro presenta come il suo primo punto di sintesi, le chiama “dieci proposizioni connesse”. E la stessa sensazione ci assale quando leggiamo che chiedersi quale sia il significato di qualcosa equivale a chiedersi come questa cosa sia connessa con le altre.

Trovo questo punto della connessione, per la sua connessione, per l’appunto, con ciò che faccio, con le cose che a me interessano, con ciò che per me vale, assai importante. Per molti versi passa di qui il mio modo di contribuire con il mio piccolo mattone a fare in modo che il mondo sia un posto, come scrive Veca, meno intollerabile per chi ci vive. E trovo molto legato a questo aspetto della connessione, della capacità di avere relazioni, gli sforzi che con altri penso di poter fare per contribuire a ridurre l’incertezza.

Lavoro alla CGIL, e mi trovo spesso a ragionare, da meridionale, di cose che di volta in volta, insieme ad altri, chiamiamo comunità di condivisione, classi dirigenti, persone che dal Sud si costruiscono da sé il proprio destino.

La costruzione di relazioni, di rapporti, di comunità di condivisione; l’avere il senso delle cose che si fanno; non accettare l’idea che se non si è D’Alema o Berlusconi non c’è nessuna possibilità di contare, di decidere, di partecipare; non rassegnarsi a quella che un altro nostro amico, Riccardo Terzi, ha definito “deriva autoritaria” e pensare invece che la democrazia sia fatta di più punti, di più posti nei quali si partecipa e si decide; contribuire a realizzare cose, anche piccole, che in rapporto ad altre cose possono diventare più grandi: molto di quello che dà un senso alla mia vita (che devo dire, nonostante i mille problemi di chi vive da queste parti, mi piace molto), l’ho trovato nel libro di Salvatore Veca, da cui ho ricevuto ulteriori stimoli, ulteriori motivi per approfondire, per capire, per fare.

Provare a capire altre cose, provare a dare altre prospettive alle cose che ciascuno di noi pensa, provare a realizzare con altri pezzi delle cose in cui si crede a me continua a sembrare una prospettiva importante.

Mi fermo qui, sperando di aver raggiunto sostanzialmente i miei due obiettivi: mostrare, attraverso “Dell’Incertezza”, l’affetto e la gratitudine che provo nei confronti di Salvatore Veca ed evitare che i danni che gli ho prodotto con questo mio intervento siano troppi consistenti.

Delle Connessioni

Devo confessare che i miei amici più cari mi hanno insistentemente consigliato di starmene zitto questa sera. Non essendo un filosofo, ed essendo l’oggetto della discussione la presentazione del volume “Dell’Incertezza” di Salvatore Veca, sarebbe stato sicuramente saggio da parte mia seguire il loro consiglio. Tuttavia, per essere saggi bisognerebbe essere almeno un pò filosofi, e non essendo io né l’uno né l’altro, finisco sempre per fare di testa mia.
Ho cominciato a leggere “Dell’Incertezza” con curiosità e, perché no, con il piglio di chi sente che la presentazione di un libro, e l’amicizia e il rispetto nei confronti dell’autore, al quale tutti noi di Austro & Aquilone siamo riconoscenti per l’attenzione e la disponibilità che a più riprese ha dimostrato nei nostri confronti, vanno presi molto sul serio.
“Dell’incertezza” è un libro che ho trovato estremamente interessante anche se, non lo dico per mettere le mani avanti, complesso. Non è stato facile capire quello che sono riuscito a capire e, ovviamente, non ho capito tutto. Ma devo dire che più andavo avanti, più avevo la voglia ed il piacere di leggere.

Credo che sia di quei libri, anche questo è forse un segno della sua importanza, che si possono leggere in molti modi, soffermandosi, di volta in volta, sugli argomenti che appaiono più importanti o che risultano di più difficile comprensione.
E’ stata la maniera nella quale ho proceduto in una prima fase, fino a che mi sono reso conto che ciò che guadagnavo in profondità lo perdevo in capacità di cogliere il senso generale di ciò che leggevo. Cosicchè mi sono posto l’obiettivo di leggere prima tutto il libro (avevo comunque fatto in tempo a concludere la lettura della prima meditazione, quella su “ciò che vi è”) e di ritornare dopo su singoli aspetti, augurandomi, come effettivamente è poi accaduto, di trovare in corso d’opera le chiavi per comprendere ciò che in prima battuta non mi risultava chiaro.

Devo dire che mi ha aiutato molto la “scoperta” che “Dell’Incertezza” è un libro che si può leggere anche come un ipertesto. Basta guardare al modo in cui Veca usa le parentesi. Credo che una delle chiavi di lettura del libro sia proprio nelle cose che l’autore mette tra parentesi. E’ uno dei motivi che mi hanno fatto pensare all’ipertesto.
Se si decide di sottolineare con un evidenziatore tutti i punti in cui Veca dice: “La mia tesi è”, e li si mettono assieme, si ottiene un altro percorso di lettura. E così accade se la stessa operazione, magari con un evidenziatore di un altro colore, la si fa con tutte quelle parti del libro in cui Veca usa richiamare l’attenzione del lettore con la formula “Si consideri”. Se uno segue il libro attraverso i “Si consideri”, a mio avviso, trova ancora un’ulteriore via tra le diverse e molteplici di cui si compone il libro. Giocare con i colori, con le sottolineature, per cogliere al meglio i vari livelli di significato: credo si possa rivelare un esercizio molto utile.

Chi ha già comprato o letto il libro sa che la prima delle tre meditazioni verte sulla importanza del linguaggio, sulle ragioni per le quali i cambiamenti nei e dei modi di comunicare producono disagio, esclusione, solitudine (con una immagine letteraria, Veca ci ha ricordato, in un’altra occasione, il disagio che Proust provava quando si ritrovava in stanze d’albergo arredate in maniera per lui non abituale).
Devo dire che ho trovato in tutta questa parte molti punti di convergenza con le cose di cui anche Austro & Aquilone si occupa. Tutta questa vicenda che definiamo “rivoluzione telematica”, questa nuova fase dello sviluppo tecnologico, è fortemente caratterizzata dalla velocità, anche visiva, del cambiamento. E tutto questo avviene mentre, come Veca ci ricorda nel libro, abbiamo la storia alle calcagna.

Viviamo dunque questa fine del secolo breve avendo da una parte la storia alle calcagna e dall’altra i cambiamenti tecnologici che giorno dopo giorno, certe volte addirittura momento dopo momento, producono mutamento, e dunque producono incertezza. Da qui l’esigenza di riattrezzarci per riarredare il nostro armamentario di credenze, di modi di vedere e di interpretare il mondo in cui viviamo. Da qui soprattutto l’esigenza di condividere con altri il disagio rispetto all’incertezza. E gli sforzi per limitarne gli ambiti, la portata.
Non è un caso che il linguaggio si ripresenti in qualche modo nella seconda e terza meditazione come quadro di riferimento per valutare sia “ciò che per noi vale”, sia “chi noi siamo”.

Devo dire che se avessi avuto qualche potere nella scelta del titolo del libro di Veca, potere che per ovvi motivi non ho, e se contemporaneamente non avessi avuto la preoccupazione di apparire un seguace “tardo” del Paolo Conte che parla della genialità degli elettricisti in “Gelato al limone”, io questo libro lo avrei chiamato “Della connessione”, piuttosto che “Dell’incertezza”.
“Della connessione”, cioè dell’importanza delle cose connesse ad altre cose. Così l’importanza del linguaggio appare evidente mano a mano che Veca argomenta le ragioni che lo spingono a confutare sia quella che egli chiama “la fallacia onnilinguistica”, sia il riduzionismo di coloro che sembrano non voler riconoscere l’importanza del linguaggio. Sembra un gioco di parole ma il linguaggio è importante proprio in quanto è riferito a ciò che non è linguaggio.

Questa ricerca delle connessioni percorre tutto il libro: negli argomenti a favore della tesi che a dare importanza alla vita è la morte, o che l’importanza delle ragioni è data dal loro rapporto con i sentimenti.
Ad un certo punto Veca scrive testualmente: “In conclusione, parlando di ragioni e di emozioni, possiamo dire che la capacità o la proprietà di essere razionali, la nostra razionalità non può essere considerata una capacità o una proprietà a sé presa, in isolamento e in modo indipendente dalla sua connessione con altre capacità ed altre componenti del resoconto su chi noi siamo”.
Credo che proprio per sottolineare questo aspetto, quando parla delle dieci proposizioni, quelle che verso la fine del libro presenta come il suo primo punto di sintesi, le chiama “dieci proposizioni connesse”. E la stessa sensazione ci assale quando leggiamo che chiedersi quale sia il significato di qualcosa equivale a chiedersi come questa cosa sia connessa con le altre.

Trovo questo punto della connessione, per la sua connessione, per l’appunto, con ciò che faccio, con le cose che a me interessano, con ciò che per me vale, assai importante. Per molti versi passa di qui il mio modo di contribuire con il mio piccolo mattone a fare in modo che il mondo sia un posto, come scrive Veca, meno intollerabile per chi ci vive. E trovo molto legato a questo aspetto della connessione, della capacità di avere relazioni, gli sforzi che con altri penso di poter fare per contribuire a ridurre l’incertezza.

Lavoro alla CGIL, e mi trovo spesso a ragionare, da meridionale, di cose che di volta in volta, insieme ad altri, chiamiamo comunità di condivisione, classi dirigenti, persone che dal Sud si costruiscono da sé il proprio destino.
La costruzione di relazioni, di rapporti, di comunità di condivisione; l’avere il senso delle cose che si fanno; non accettare l’idea che se non si è D’Alema o Berlusconi non c’è nessuna possibilità di contare, di decidere, di partecipare; non rassegnarsi a quella che un altro nostro amico, Riccardo Terzi, ha definito “deriva autoritaria” e pensare invece che la democrazia sia fatta di più punti, di più posti nei quali si partecipa e si decide; contribuire a realizzare cose, anche piccole, che in rapporto ad altre cose possono diventare più grandi: molto di quello che dà un senso alla mia vita (che devo dire, nonostante i mille problemi di chi vive da queste parti, mi piace molto), l’ho trovato nel libro di Salvatore Veca, da cui ho ricevuto ulteriori stimoli, ulteriori motivi per approfondire, per capire, per fare.

Provare a capire altre cose, provare a dare altre prospettive alle cose che ciascuno di noi pensa, provare a realizzare con altri pezzi delle cose in cui si crede a me continua a sembrare una prospettiva importante.
Mi fermo qui, sperando di aver raggiunto sostanzialmente i miei due obiettivi: mostrare, attraverso “Dell’Incertezza”, l’affetto e la gratitudine che provo nei confronti di Salvatore Veca ed evitare che i danni che gli ho prodotto con questo mio intervento siano troppi consistenti.