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Bella Napoli incontra il Liceo Carducci di Nola

Lettera a una Professoressa Atto Secondo

Alle ragazze e ai ragazzi del Liceo Carducci di Nola l’ho detto ma voi lì non c’eravate e perciò lo ripeto qui: il prossimo numero di “Questione di Senso”, la mia rubrica su Rassegna Sindacale, sarà dedicato a loro, al valore del loro lavoro, all’impegno con il quale hanno letto Bella Napoli, alla bellezza delle storie che hanno raccontato e che potete leggere su Timu. Quello che ci siamo detti non ve lo racconto, perché altrimenti Stefano Iucci mi ammazza, a ragione, non è che posso scrivere su Rassegna una cosa riciclata. Vi dico invece che quello che avevo scritto nel post “Lettera a una professoressa” è più che mai attuale, che raccontare il lavoro nelle scuole è un’idea che vale, che il fatto che le/i ragazze/i raccontino le “loro” storie e acquistino consapevolezza di quanto il lavoro sia importante nelle vite delle persone che hanno intorno, papà, mamma, parenti, amici, rappresenta una piccola grande rivoluzione culturale, che se diventiamo sempre più in tanti a raccontare le “nostre” storie invece di quelle, l’esempio non è a caso, che ci propina la televisione, possiamo pensarci meglio, vivere meglio, costruire un futuro migliore prima di tutto per le generazioni che verranno. Mi fermo qui, anzi no. Questa storia cominciata con Caterina Vesta e il Liceo Novelli di Marcianise e continuata con Mariagiovanna Ferrante e il Liceo Carducci di Nola non è detto debba finire qui. Voi rileggetevi la lettera a una professoressa. Io aspetto la prossima chiamata.

Caro Vincenzo ti scrivo

Foto Storiche Liceo Carducci
Foto Storiche Liceo Carducci

Vi ricordate la mia Lettera a una professoressa? Mariagiovanna Ferrante ha risposto. Stasera passo per la Feltrinelli, prendo 25 copie di Bella Napoli e domani partiranno per Nola, destinazione  Liceo Classico Giosué Carducci. Posso dire che sono contento? Che già mi emoziono al pensiero di queste ragazze e questi ragazzi che leggeranno il mio libro, e poi ne parleranno con me, e poi magari scriveranno anche loro una storia di lavoro, di passione e di rispetto? Non sono contento, sono felice, oltre naturalmente che grato a Giovanna, alle/ai suoi colleghe/i, al dirigente scolastico Francesco Sepe, alle ragazze e ai ragazzi della V° C che hanno pensato potesse essere interessante fare questo percorso con le loro insegnanti. Basta, mi fermo qui, che domani a Castel San Giorgio sarà un’altra bella giornata ed è meglio non emozionarsi troppo. Sì, io me ne vado, ma voi non vi perdete il racconto di Mariagiovanna.

di Mariagiovanna Ferrante

In questo nuovo anno scolastico iniziato, per noi precari, decisamente in ritardo, mi sono ritrovata a gestire anche l’insegnamento di Geostoria, una sorta di “crasi” tra Storia e Geografia che, purtroppo, rischia di diventare né carne né pesce, complice il fatto che anche i testi in circolazione non sono poi così soddisfacenti, essendo a loro volta vittima di una riduzione degli argomenti sempre più impietosa, secondo quanto stabilito dai nuovi programmi, il tutto in contraddizione con gli obiettivi che vengono indicati dallo stesso ministero. Insomma una confusione, che dico, una tristezza. Giorno dopo giorno cerchiamo perciò di integrare la lezione con notizie più interessanti rispetto alla striminzita trattazione delle singole unità didattiche, di operare collegamenti tra le due discipline “accorpate,” di lavorare su entrambe contemporaneamente per cercare di facilitare tanto l’apprendimento quanto l’insegnamento.
E l’educazione civica? Non che prima chissà quanto ce ne fosse, ma è evidente che non adesso sembra non esserci più spazio, stritolata com’è in sole tre ore settimanali tra due discipline che non è poi così facile insegnare, visto che l’apprendimento mnemonico lascia il tempo che trova.
Proprio così, è stato proprio pensando alla triste sorte dell’educazione civica che ho riflettuto sul fatto che educazione civica è anche attenzione verso la società e verso il territorio a cui apparteniamo, rispetto per e persone, per la legalità e le regole, dignità del lavoro e di chi lavora. È vero, mi sono detta, anche se in troppi se ne dimenticano, l’esplicito riferimento al lavoro nell’art. 1 della nostra Costituzione non è per stato messo lì tanto per caso, ed è cosi che si è fatto strada nella mia mente il libro di Vincenzo Moretti, Bella Napoli.
Dato che, leggendolo, emergono, intorno alle persone e al loro lavoro, temi che vanno dal microcosmo dell’esperienza personale al macrocosmo dei problemi sociali, mi sono detta: “Perché no?”, e così ho esposto la mia idea prima alla coordinatrice di classe, la collega Maria Carolina Campone, e poi al Dirigente Scolastico Francesco Sepe, subito dopo.
Qual è l’idea? Quella di far leggere le storie raccontate da Vincenzo ai miei studenti di Quinta e invitare l’autore a discuterne con loro, in un giorno di lezione. Sono stata invitata a presentare la proposta in consiglio di classe, cosa che ho fatto, non senza aver fatto prima un “passaggio” con i ragazzi, sondando il terreno per verificare se la cosa destava il loro interesse.
Come è finita? È finita che avendo incontrato positive aperture da parte di tutti, dirigente, colleghi, studenti, consiglio di classe e avuta la conferma che l’iniziativa poteva partire ho telefonato al “Prof.”, chiedendogli di procurarmi le copie necessarie.
Dove ci porterà tutto questo? Non lo so. Dentro di me sono però molto fiduciosa. Prometto che vi tengo aggiornati.

Pensavo fosse un tango

di Mariagiovanna Ferrante

Mi aveva telefonato, proprio due giorni fa.
All’inizio, leggere  il suo nome sul display mi aveva turbato: erano mesi che non ci sentivamo e quella chiamata inaspettata destabilizzava il mio equilibrio, così faticosamente conquistato e comunque poco stabile.Quando ho risposto, non ha perso tempo in frasi di circostanza: mi ha invitato a cena, a casa sua. Aveva voglia di parlarmi.La nostra storia era iniziata tre anni prima: ci eravamo incontrati in una milonga– uno di quei posti dove si balla il tango- e ci eravamo riconosciuti al primo sguardo. Eh sì, perché tra principianti ci si riconosce…

Il principiante in genere fa “tappezzeria”: è ancora insicuro, ha soggezione dei “bravi” e non vorrebbe mai sentirsi esposto al ludibrio dei maghi del boleo. Si vedeva che entrambi vivevamo la stessa sindrome: i nostri occhi cadevano sui piedi dei ballerini in pista, avidi di apprendere i segreti di quella danza così affascinante ma così piena di segreti, per noi che non osavamo staccare le spalle dalle protettive pareti del locale.Quando decidemmo di concedere una pausa al nostro studio, e di guardarci intorno, ci vedemmo.Proprio allora capimmo che non ci saremmo sentiti in difficoltà, se avessimo provato a mettere in pratica quanto appreso fino a quel momento.

Quella sera ballammo il nostro primo tango insieme. Seppi che si intitolava Oblivion, noto fra i tangueri: un pezzo struggente, sensuale, sulle cui note i nostri passi, per quanto incerti, sembrarono subito guidati da una forza irresistibile.

Immediata sincronia nel respiro. Perfetto incastro di corpi. Percepii nettamente il battito del suo cuore, che sembrava appoggiato al mio.
Mani, piedi, gambe, visi. Intorno il mondo girava. Noi eravamo lì, in una terra senza nome dove contava solo la nostra presenza. Dove il tempo pulsava.
Un sogno durato tre, forse quattro minuti, che avrei voluto protrarre all’infinito.

La fine del pezzo fu per noi il risveglio, e la realtà. Una realtà in cui ora esistevano due anime e due corpi, nel cui destino era l’inizio di un cammino lungo il medesimo tratto di strada.
Dopo quel primo incontro, seguirono settimane in cui la serata in milonga era un evento: secondo un tacito appuntamento, ci trovavamo nei locali che frequentavano i nostri compagni di corso e non perdevamo nessuna occasione di contatto. E ogni volta la magia di quel primo tango si ripeteva.

L’esigenza di rivederci divenne sempre più urgente e così ci scambiammo i numeri di telefono.
Così iniziò la nostra storia.
Il solo parlare di noi, della nostra vita, rendeva più forte la sensazione che stessimo vivendo qualcosa di speciale. Ci rendeva ancora più uniti quella crescente passione per il tango, che ci incuriosiva e ci portava in giro per l’Italia e in Europa a conoscere nuovi modi di interpretare i messaggi della danza. Non avevamo nessuna ambizione. Cioè: nessuno di noi aveva la benché minima intenzione di partecipare ai campionati o di diventare insegnante di tango. Ci stavamo amando e anche in quel modo consolidavamo il nostro crescere insieme.
Anche quando facevamo l’amore, sentivamo lo stesso: il corpo era il veicolo di una danza interiore, che si manifestava in gesti istintivi, improvvisati. Un tango, anche quello.

Dopo un anno e mezzo, l’inaspettato. Il bolero.
Una relazione clandestina, con qualcuno che aveva già una sua storia, e dei figli.  Il tango cedeva il passo a qualcosa di più turbolento, di più…violento, e io mi dovetti piegare alla necessità dell’abbandono. Tornò il vuoto e tornò il silenzio, intorno a me.
Per diverso tempo, ho vissuto come se fossi in una stanza piena di ovatta, muovendomi come alla ricerca di un oggetto prezioso irrimediabilmente smarrito. Poi, lentamente, ho ripreso il mio cammino solitario e da allora la mia vita non è cambiata.
Sveglia al mattino presto, ufficio, qualche happy hour, qualche film. Nessuna relazione.

Il tango? Non più.
Almeno fino a ieri.
Quando ho bussato al campanello di casa sua, i pensieri che avevano accompagnato lo squillo del telefono erano ancora lì. Sapevo, però, che nel corso della serata avrei avuto tutte le risposte che cercavo.
È venuta ad aprire quasi subito. Era bellissima: l’abito rosso che indossava si appoggiava sui fianchi e ondeggiava ad ogni suo movimento. Mi sembrava più pallida del solito, ma non ho voluto dirle niente, pensando piuttosto che fosse stanca.
Ovviamente conosco casa sua, e l’ho seguita con sicurezza in cucina. Non aveva ancora apparecchiato la tavola, ma aveva già bevuto. Del vino rosso. “Non bere da quel bicchiere, eh? È solo mio!”, mi ha detto, con un sorriso. Le ho risposto che mai e poi mai avrei osato contraddirla.

Le ho dato una mano a disporre piatti e bicchieri, riscoprendo, nella consuetudine di quei gesti, un’intimità che credo di non aver mai dimenticato.Devo ammettere di ricordare ben poco della cena, in sé. Abbiamo mangiato delle fette di arrosto, forse di maiale, e delle patate, forse al rosmarino. E abbiamo bevuto. O meglio: io ho bevuto, perché ho riempito il mio calice almeno un paio di volte. Lei, invece, avvicinava le labbra al suo bicchiere con lentezza, come se volesse rimandare il più possibile il momento in cui avrebbe dovuto riempirlo.

Mi ha raccontato la sua vita negli ultimi mesi. Lui, quello sposato, quello per cui mi aveva lasciato, era tornato dalla moglie. Anzi, non l’aveva mai lasciata. Eppure, sentiva di non odiarlo, perché era stato, per lei, un completamento. Prima che io potessi farle qualunque domanda, mi ha detto che non ero io quello incompleto, rispetto all’altro. Lo era lei. Da me aveva ricevuto il calore che aveva risvegliato il suo desiderio di amare. Un desiderio sopito da tempo, che lei aveva cercato di colmare con storie di letto prive di sostanza. Prive di amore. Ero arrivato io e l’avevo portata sul “tappeto volante”. Così amava chiamare quella sensazione di leggerezza e di benessere che solo un amore può regalare e mi diceva spesso che era bello guidare il tappeto in due, ma era altrettanto bello lasciarsi guidare, affidarsi. E lei si era affidata a me.
Ma l’altro l’aveva sconvolta, e l’aveva portata lungo le rapide di un fiume senza diga.

Impossibile frenare l’impeto della passione. I tamburi del bolero contro il bandoneòn del tango. Adesso sentiva un gran senso di vuoto, come se qualcuno, o qualcosa, avesse estirpato dalle sue budella tutto il bello di cui si era riempita negli ultimi anni.
Cosa ci facevo io lì? Aveva voglia di ballare con me.
Ha sorseggiato il suo rosso, fino a vuotare il bicchiere. Con la stessa lentezza misurata, si è alzata e ha acceso lo stereo. Si è avvicinata a me e mi ha teso la mano, facendomi alzare. Quando ci siamo trovati uno di fronte all’altra, ha chiuso gli occhi, nello stesso momento in cui partiva il “nostro” tango, Oblivion. L’ho stretta nell’abbraccio che ci era familiare, riconoscendo la morbidezza del suo corpo, il profumo dei suoi capelli, il battito del suo cuore. Era ancora lei, presente con la sua prepotente dolcezza. Non ho sentito il bisogno di virtuosismi: eravamo lì, nella nostra non-dimensione, nel nostro ritrovarci. No, non c’era nessun vuoto in lei, lo sentivo. Quello di cui aveva bisogno era ricominciare a sentire se stessa, come avevo fatto io quando se n’era andata. Quelle note…erano la nostra storia.

Avrei voluto abbandonarmi al pianto che non mi ero mai concesso, ma non era quello il momento. Quel tango ci stava dicendo che due corpi mettono in comunicazione due anime ed entrambi-lo sentivo-potevamo ricominciare a camminare. Insieme.
Dopo un paio di minuti, però, ho sentito che qualcosa in lei stava cambiando. La sentivo meno leggera, quasi affaticata. Il suo cuore ha iniziato a seguire un ritmo diverso dal solito.
Le ho chiesto cosa avesse.
“Va tutto bene, stai tranquillo”.
Ma mi ha mentito.
Sono sicuro di aver urlato il suo nome, quando il suo corpo si è abbandonato sul mio.
Signor Commissario, aveva deciso di morire tra le mie braccia.
Pensavo fosse un tango. Era il suo addio.

Il giovane Cristopher e il vecchio Cnemone

di Mariagiovanna Ferrante

Sono un’insegnante. Di Latino e Greco. Ecco qua: la vedo, la faccina Messenger che è comparsa sulle vostre teste con tanto di “mamma mia” di accompagnamento.
Però vi assicuro che non sono (ancora) vecchia, non peso cento chili e non ho i baffi.
Appartengo alla generazione masochista dei docenti precari che continuano ad amare ciò che fanno, nonostante la Gelmini e nonostante la stanchezza. Già, perché siamo stanchi. Stanchi di essere l’ultima ruota del carro, stanchi di dover sperare ogni anno di poter lavorare, stanchi di tornare disoccupati alla fine di ogni anno scolastico.
Un altro lavoro? Non mi sono mai vista in modo diverso. Cosa mi permette di andare avanti? Non certo lo stipendio!
Capita che molte volte mi interroghi sul senso dell’insegnamento di discipline come le lingue classiche, ossimoriche nell’era del Santo Web, e di Maria De Filippi, in cui i gioiosi fanciulli occupanti i banchi preferirebbero trovarsi di fronte il buon Peppe Vessicchio (con tutto il rispetto per il conterraneo) o quel bonazzo di Kledi per essere valutati in canto e danza, piuttosto che in un’esposizione su Omero o Callimaco.
Eppure … eppure capita di essere sorpresi.
Quest’anno mi è stata affidata quella che il Dirigente Scolastico ha definito una “classe difficile”: troppo vivaci, troppo rumorosi, sempre a rischio sospensione.
Io, che sono stata anche in un istituto professionale in quel di Frattamaggiore, non mi sono scomposta più di tanto, pur vedendomi costretta a indossare la maschera della prof. severa.
E in effetti sono ragazzi vivaci, ma lo sono anche intellettualmente.
Tutti, anche lui.
Il classico belloccio-ricco-figlio di papà, che ama farsi guardare e che anima la monotona vita scolastica con battute di ogni tipo (non ultima l’osservazione sul deficit visivo di Leopardi, dovuto, a suo avviso, a un eccesso di onanismo).
Il primo compito di greco è stato un disastro (“prof., nutro avversione per la versione”, mi ha detto, consapevole di giocare con gli artifici delle figure retoriche), così come la prima interrogazione.
Io so che E. non è affatto uno stupido, come vorrebbe far credere. Ma lui preferisce fare l’animatore nei villaggi turistici, esibirsi come “buffone di corte”, avere gli occhi puntati su di sé.
E allora lo sfido, sul suo stesso terreno.
“Facciamo una cosa, E. – gli dico una mattina-, la prossima volta che ci vediamo, tu vieni al posto mio e tieni una lezione su Menandro e gli autori di età ellenistica. La gestirai come meglio ti sembrerà.
E. sgrana i suoi occhioni da furbo adolescente e accetta (“a disposizione, prof.”), ma non mi chiede il perché.
Passa una settimana, durante la quale più di una volta tempo che il pargolo non si presenti all’appuntamento.
Appena entro in classe, E. è presente, pronto a tenere banco. I compagni di classe sono pronti ad assistere all’ennesimo show dell’animatore, ma io so che mi posso aspettare qualcosa di buono.
E qualcosa di buono avviene.
E., stranamente serio, mi presenta il percorso che ha deciso di seguire per studiare la Commedia Nuova: la ricerca della felicità.
E inizia ad argomentare in merito alla tematica della mancanza di felicità nell’uomo e della spasmodica ricerca di essa, riflettendo sull’evoluzione dei personaggi del teatro di Menandro e collegandosi con il percorso interiore del protagonista del film di Sean Penn, Into the wild. Lo ricorda nei minimi dettagli, e con padronanza riflette sulle differenze tra il giovane Cristopher (il protagonista del film) e il vecchio Cnemone, intorno al quale ruota la trama del Misantropo dell’autore greco. Per sottolineare, attraverso la citazione di una frase del film, che entrambi giungono a una conclusione simile: “La felicità è reale solo quando condivisa”.
Continua parlando di intrecci e di agnizioni, non trascurando l’apporto della commedia d’intreccio alle nostre soap opera, né i paragoni con il panorama musicale attuale.
Che dire?
Sorrido, e chiedo a E. se ha compreso il motivo della mia richiesta di una sua performance.
“Mah, veramente vorrei che me lo dicesse Lei”.
“Beh, E., volevo dimostrare a me, ma soprattutto a te, che non sei il cretino che ti piace sembrare. E sono convinta che ti sei anche divertito, nell’impostare la lezione così come è venuta fuori”.
“Vero, prof. Mi è piaciuto studiare così. Quasi quasi…mi metto a studiare sul serio.”
So che ci vorrà un bel po’, prima di vedere mantenute le promesse di un liceale che sembra uscito da una mini-serie per la tv. Ma mettere in luce le sue potenzialità è un risultato che incoraggia ad andare avanti nel proprio percorso. Nonostante tutto.