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Potsu-potsu

enakapata3Si scrive potsu-potsu. Si pronuncia, più o meno, po(t)zu-po(t)zu. Significa schizzechea. Cosa vuol dire schizzechea? Ma allora, come dice Riccardo, state proprio a pezzi. Ma come, c’è anche la canzone di Pino Daniele, Vorrei rubare per un’ora, qualche sorriso e qualche storia, però il tempo sta cambiando, schizzechea. Schizzechea sta per “piove rado, lentamente, piano, appena”. Ebbene si. Pare che il giapponese,  come il napoletano, sia una lingua decisamente onomatopeica.
Non lo sapevate? Neanche io e Cinzia fino a ieri sera. Quando abbiamo imparato che Vincenzo in giapponese si dice Vincenzo. Dite dove sta la novità? Ci sta, ci sta. Perché ad esempio Roberto in giapponese si dice Roberuto. Perché Vincenzo uguale e Roberto no? Perché nella lingua giapponese non esistono sillabe tronche, ad eccezione di quelle che finiscono in N. La N è insomma l’unica consonante che può rimane tronca. Vi state chiedendo se ieri sera io e Cinzia abbiamo cenato con amici giapponesi? La risposta è no. Patrizia e Roberto, che ci hanno invitato nella loro bella casa, sono napoletani doc. Così come Barbara, alla quale dobbiamo la conoscenza di Patrizia e Roberto. Il fatto è che per Patrizia, Roberto e Barbara il Giappone è passione, cultura, studio, lavoro. Il giapponese è la loro seconda lingua. Il Giappone la loro seconda casa. L’ospitalità e la cena deliziosa, la buona compagnia, le chiacchiere intorno al Giappone e alla Cina, al giapponese e al napoletano, a Froncois Jullien e a Ivan Morris, al pensiero dell’efficacia e alla nobiltà della sconfitta ci hanno consentito di trascorrere una bellissima serata.
Sarà l’età (non scatecollatevi a fare sì sì con la testa, vi potrebbe venire un dolorino dietro al collo), ma mi convinco sempre più che un bel libro, una bella chiacchierata, una bella passeggiata e una bella donna (anche un bell’uomo, of course, ma in queste faccende ognuno parla per sé) sono tutto ciò che serve nella vita per essere felici. Ci vediamo l’anno prossimo.

Zio Peppino

enakapata3[…] Luca un po’ si diverte e un po’ fa la faccia modello «pà, questa già l’hai raccontata 1387 volte». Comincio a parlare di zio Peppino, fratello di mamma, operaio alla Richard Ginori, naturalmente comunista, grande appassionato di musica lirica, di parole crociate e di Totò.
Sia chiaro. Quando dico grande appassionato voglio dire grande appassionato. Nel senso che alla terza nota era in grado di dirti di quale opera si trattava, chi aveva scritto il libretto, in che anno era stata musicata, dove era stata rappresentata la prima volta, quali erano stati gli interpreti maggiori; nel senso che partecipava e non di rado vinceva ai concorsi de «La Settimana Enigmistica»; nel senso che poteva ripetere pressoché a memoria le scene principali di tutti i film di Totò. Roba da Lascia o Raddoppia, per intenderci.
Zio Peppino non si era mai sposato e già questa, in famiglie come la nostra, in anni nei quali «essersi sistemato» equivaleva a dire aver trovato un lavoro e aver messo su una famiglia, era una stranezza. Ma la cosa ancora più strana era che proprio lui, il comunista eccetera eccetera, si era arruolato volontario. Come gli era venuto in mente? Cosa c’entrava lui con la guerra d’Etiopia? Io e i miei fratelli a zio Peppino abbiamo voluto come si dice un bene dell’anima, ma la confidenza per domandargli perché, quella no, non l’abbiamo mai avuta. Così quando zio Peppino approda al Pantheon degli uomini semplici la domanda se ne va con lui. Almeno così ho pensato per circa vent’anni. Fino a che una mia cugina, non ricordo se in occasione di un battesimo, un matrimonio o un funerale, non dice che le sorelle di casa Picano, sei in tutto, proprio come quelle della gatta Cenerentola, si sono potute sposare solo grazie a zio Peppino.
In che senso? – le chiedo. Nel senso che i nostri nonni erano talmente poveri che le figlie, nonostante fossero tra le più belle del paese, non avendo nulla che potesse anche lontanamente assomigliare a un corredo o a una dote, non si maritavano.
Fu così che zio Peppino partì per l’Africa e con i soldi guadagnati fece il corredo alle sei sorelle. Ora non sosterrò che Luca si è commosso, lui che quando gli ho detto che se mi succede qualcosa gli toccherà prendersi cura di me mi ha risposto «già il verbo è sbagliato, quello giusto non è curare, ma terminare», ma sono certo che la storia gli è piaciuta. In fondo fa lo sprucido per darsi un tono. Anche se in effetti la cosa gli riesce molto bene. […]

The face, the body, the city

enakapata3Oggi le cronache raccontano di giapponesi in fuga dall’Italia, causa prezzi troppo elevati e le troppe truffe. Pessima notizia. Dall’articolo di Repubblica di oggi un dato fa riflettere, quello che si riferisce al milione di visitatori previsti per il 2009 a fronte dei 2,17 milioni del 1997 e dei 1,47 milioni del 2007, e un dato fa sorridere, quello relativo ai commenti del Sindaco Gianni Alemanno, modello svogliata difesa d’ufficio (Roma è una città accogliente dove si può spendere poco rispetto ad altri capitali europee), del presidente della Confcommercio Cesare Pambianchi, modello addò coglio coglio tanto in Giappone chi ci è mai stato (i giapponesi vengano da un Paese che forse ha qualche mariuolo in meno, ma dei prezzi estremamente eccessivi per i turisti), dell’Assotravel-Confindustria modello e la crisi dove la mettiamo (la flessione dei turisti del Sol Levante nel nostro Paese è dovuta essenzialmente alla grave crisi economica che attanaglia da tempo il Giappone).
Per fortuna il Giappone conosce anche l’altra Italia, quella della scienza, della moda, dell’arte.
A proposito di arte ieri abbiamo raccontato di Humanized, il volto, il corpo, la città, la mostra monografica di Onze a Tokyo, dal 18 luglio al 1 agosto, nella prestigiosa sede dell’Istituto di Cultura a Kudanshita. Se siete da quelle parti è un appuntamento da non perdere. Se invece ve ne state qui in attesa di tempi (si spera) migliori, non perdete l’occasione per visitare il sito dell’autore e della mostra.
Buona visita a tutti. Quelli che stanno là. E (ahimé) quelli che stanno qua.

Penitenti, Monini

enakapata3Monica Penitenti: Ho conosciuto VIncenzo, ho visto Luca quando era piccolino una volta, adoravo nonno Moretti e ho goduto della generosa ospitalità della casa di Cellole più d’una volta quando ero poco più che una bimba. Eppure non è stato il ritrovare nel libro quei personaggi, quei luoghi o alcuni dei figuri di Secondigliano che pure incontrai, a farmi amare il vostro libro. Ho amato la tenera ipocondria, carattere di famiglia, il bisogno di un cibo conosciuto, bisogno tale da eleggere il posto “delle ragazze” a casa giapponese, l’approccio al rigore nipponico, l’interesse per la ricerca che insieme ad altre molte cose mi hanno fatto bere le pagine velocemente e lievemente. Ancora l’andamento iniziatico del viaggio di un figlio che ritrova (lo ritrova?) un padre dalle molteplici apprensioni di padre partenopeo fino al midollo…
Enakapata mi ha divertito, interessato e ispirato. Grazie per aver fatto di quel viaggio a due, un viaggio per molti di noi. Il fascino e le contraddizioni del Giappone, partendo dal citato libro di Fosco Maraini, arrivando ai classici di Tanizaki, per approdare all’estrema Yoshimoto, passando per Murakami esercitano su di me suggestioni durature. Il punto di vista partenopeo del mondo nipponico mi mancava: resterà con me altrettanto a lungo.

Barbara Monini: Caro Luca, sono Barbara (Waschimps in realtà), cara amica di Carmine Rubino e Rita Palena.
Quando vi hanno incontrati a Bologna mi hanno riportato questa meraviglia, con tanto di dedica … e mi si è appicciato il cervello. Lo hanno fatto apposta, perchè mi occupo da anni di Giappone, è una passione di vita e di lavoro. Sono molte le cose che vorrei dirvi, ma non credo che basterebbe postarle sul blog … faccio prima ad annotare il libro ad ogni pagina.
Ma soprattutto questo progetto può e deve continuare, ed ampliarsi, e sarei molto felice di potervi essere utile.
Ti aggiungo che sono di Napoli e in partenza a luglio di nuovo per Tokyo dove inauguriamo una mostra stupenda all’Istituto di Cultura. Fatemi sapere voi in quale modo eterico o spaziotemporale possiamo entrare in contatto.
Un abbraccio forte, Barbara.