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Se non ora, quando?

by Adriano Parracciani

Debbo queste riflessioni alla congiunzione di una mia idea d’annata –vendemmia 1994, anno nel quale Silvio Berlusconi vince le elezioni contro Achille Occhetto e la sua  “gioiosa macchina da guerra”-,  e una domanda postata su Facebook dalla mia amica  Musa: “ma come si fa a votare per questa maggioranza?” (la domanda è in verità più colorita, ma la sostanza è questa).
L’idea, per la verità talmente semplice da rischiare la banalità, è che la politica ha bisogno di differenze. Differenze che, Before 1989, erano date dalle ideologie, dalle appartenenze, dalle identità, nel senso che dirsi comunista, democristiano, fascista significava definire i confini entro i quali ci si poteva riconoscere con altri che, come  te, condividevano miti, valori, aspettative, ceti sociali di riferimento, modi di essere, talvolta persino di fare. Persino quando i  comportamenti sono diventati simili, l’apparentenza a ideologie diverse garantiva le differenze di identità, di riconoscibilità, di aspettative, di gruppi sociali di riferimento.
After 1989 le differenze, in Italia in particolar modo dopo Tangentpoli, avrebbero dovuto essere garantite dalle idee, dai programmi, dalle modalità con cui si favorisce la partecipazione e si selezionano le classi dirigenti, dai modelli di partito e di coalizione.
Vogliamo dirlo con uno slogan? Ma sì diciamolo! Meno ideologie, più differenze. Quale strada è stata imbroccata invece? Quella dell’omologazione. Nelle piccole e nelle grandi cose.  Vogliamo fare qualche esempio?
Federalismo,
che è una cosa seria, che invece di rincorrere la Lega, per poi lasciarle la più totale egemonia culturale, poteva essere fatto vivere come solidaretà, partecipazione, responsabilità, controllo.
Legalità, che è una cosa seria, che invece di assecondare la Lega sul terreno della paura dell’Altro, meglio se extracomunitario, quasi sempre da sfruttare di giorno  e da nascondere di notte come le puttane de “La città vecchia” di De André, poteva essere fatta vivere come una questione di etica pubblica invece che di ordine pubblico, di rispetto delle regole, di tutela dei diritti, di esercizio responsabile dei doveri.
Leaderismo esasperato, vogliamo chiamarlo idolismo?, personalizzazione dei partiti come antidoto alla loro crisi,  che non è una cosa seria, e che ha portato prima alla lista Berlusconi,  poi alla lista Di Pietro, poi persino alla lista Vendola,  in mezzo tutte le altre liste, senza nessuno che dica chiaramente che di molti di questi leader si può  tranquillamente fare a meno, dei partiti no. Che è una sciocchezza  immaginare una democrazia che funziona solo con la società civile, senza i partiti.
L’elenco potrebbe continuare, fino scrivere un libro: arbitrarietà nel rispetto delle regole (primarie a volte si, a volte no, a volte strappate dal basso, altre volte imposte dall’alto), di là mettono in lista portaborse, segretari, amanti e ballerine, di qua pure, e poi clientelismo, familismo, eccetera eccetera.
E non provate a dirmi che ci sono molte persone per bene che svolgono il loro ruolo di eletti in maniera seria. Innanzitutto perché lo so. E poi perché ci stanno anche di là. Anzi mi convinco sempre più che tra le ragioni del successo della Lega stia diventando sempre più importante il radicamento territoriale, il contatto con i cittadini e con gli elettorali, insomma quella roba che una volta facevano i comunisti e i democristiani.
Visto che ci siamo, non provate neanche a spiegarmi che con tutti i difetti che abbiamo noi e loro non siamo la stessa cosa. Innanzitutto perché lo so. Poi perché non basta. Soprattutto a livello di pubblica opinione.
Cosa voglio dire in sintesi? Che fermo restando tutti quelli come noi che a prescindere stanno dall’altra parte io credo che non sia solo comprensibile, ma anche razionale che la maggioranza degli italiani votino come votano.
Che fare in sintesi? Lavorare seriamente per una prospettiva diversa.
L’ho scritto martedì 16 dicembre 2008 alle ore 18.16 (potenza del web, e chi se lo sarebbe ricordato): se continuiamo a pensare di risolvere i problemi entro la prossima elezione non andiamo da nessuna parte.
Questo paese non ha più classi dirigenti nel senso auspicato da Cuoco, da Salvemini, da Gramsci, da Dossetti, da Di Vittorio, da Dorso, da ..;. c’è scarsità di senso civico ad ogni livello; di più, si è creata, grazie ad un’azione scellerata ma scientificamente condotta dall’attuale leadership, una  convenienza-convergenza intorno a una via italiana alla sopravvivenza fatta di piccole e grandi furbizie, evasioni, illegalità.
Bisogna ritornare a pensare e a praticare la partecipazione  come fatica, continuità, impegno, perché ad ogni diritto corrisponde un dovere, ad esempio di non chiedere favori e raccomandazioni, di non fare i furbi, di non rivendicare il merito quanto tocca agli altri e l’appartenenza quanto tocca a sè stessi.
Per invertire l’ago della bussola, per cominciare a varcare la distanza tra i valori di solidarietà a prescindere, di pemessività e persino di impuntà che informano oggi il nostro paese, e i valori di responsabilità, di eguali opportunità, di valorizzazione del merito e del talento di cui c’è bisogno, ci vuole tempo.
Dite che non possiamo aspettare? Sbagliato. Mi dicevano così anche nel 1994, che se non facevamo l’inciucio con Dini, Berlusconi sarebbe restato lì per altri 10 anni. Ne sono passati 16, per ora, destinati a meno di miracoli a diventare 19.
La verità è che non possiamo aspettare senza fare niente. Bisogna cominciare subito. Ognuno dal suo “posto di combattimento”. Facendo le cose per bene  perché è così che si fa. Facendo rete tra noi. Rendendo espliciti, pubblici, gli esiti di questo nostro lavoro.
Come ha scritto Confucio, una marcia di 10mila chilometri comicia con il primo passo. E, anche senza scomodare Aristotele, rimane il fatto che la politica è ‘na capata. L’importante è cominciare. Se non ora, quando?

Paroliamo

Alternative, Ambiguità, Apprendimento Organizzativo, Aspettative, Attenzione, Leader, Azione, Coalizione, Competenza, Conformità, Contraddizioni, Costruzione del Significato, Cultura Organizzativa, Decisione, Efficacia, Efficienza, Enactment, Identità, Incertezza, Interpretazione, Leadership, Motivazione, Partecipazione, Partner, Potere, Preferenze, Problem Solving, Processo Decisionale, Regole, Retrospezione, Ruolo del dirigente, Scopo, Sensemaking, Serendipity, Sistema Qualità, Soluzioni, Team.

Giocare è facile.
Ognuna/o di voi sceglie una o più parole tra quelle che trova qui sotto e prima propone film, libri, canzoni, quadri, sculture, storie di vita, luoghi, ecc. che ritiene possano essere associate alla parola scelta e poi spiega le ragioni dell’associazione fatta.

Non ci sono limiti. Né di spazio (da 1 riga a 1 milione) né di tempo. E potete tornarci su tutte le volte che volete.
Buon apprendimento a tutte/i

Sud, nuje simme d’o Sud

enakapata3Nord batte Sud 3 a 2. Naturalmente mi riferisco al tour di presentazione di Enakapata che ha fatto tappa finora a Napoli, Bologna, Milano, Benevento e Torino. Perché se invece guardiamo alle questioni vere il distacco è molto più netto. Il Nord sempre più solo al comando. Il Sud che domina nelle classifiche della camorra, della mafia e della ndrangheta. Non solo quelle dei morti ammazzati. Ma anche quelle del controllo delle borse e di molti degli imperi finanziari del Nord. Per il resto? Ultimi posti nelle classifiche relative al livello di vivibilità. Veri e falsi disoccupati. Poche opportunità. Scarso senso civico. Meglio non parlare dell’efficacia e dell’efficienza delle istituzioni.
Che fare? Se si escludono gli approcci tipo Arma letale, Terminator, ecc. c’è ancora qualche altra possibilità?

p.s.
Il 21 agosto presentiamo il libro al Bed and Breakfast a casa di Margherita, a Porto Cesareo, e il 17 settembre alla Feltrinelli Libri e Musica di Palermo. Nel pianeta Enakapata il Sud si appresta dunque a fare il sorpasso. Ma purtroppo quello non conta. Purtroppo è solo un gioco.

Why. Perchè?

Se negare la politica vuol dire negare la possibilità che una qualunque persona, in quanto aderente a un partito, un’associazione, un sindacato, un’organizzazione, un movimento, o in quanto semplice cittadino, possa partecipare alla costruzione del discorso pubblico, possa cioè giudicare e adottare, in quanto persona titolare di diritti, criteri autonomi per definire ciò che è giusto o ingiusto, buono o cattivo, desiderabile o deplorevole e partecipare alla costruzione di cerchie di comunicazione politica alternative a quelle dominanti.

Se nonostante la globalizzazione, la drastica accelerazione da essa impressa al processo di sgretolamento dello Stato nazionale, la cattiva maestra televisione, il quotidiano tentativo di dissolvere idee, interessi, rappresentanze, vite, in una sorta di grande circo mediatico, è in quanto partecipiamo che possiamo, ancora oggi, ritenerci consapevolmente cittadini.

Se siamo cittadini in quanto persone che, disponendo di opzioni diverse, si confrontano, si battono, scelgono, si assumono responsabilità, elaborano strategie, contribuiscono all’individuazione e alla ricerca autonoma di contenuti e obiettivi politici, si danno forme e strumenti organizzativi per perseguirli in maniera efficace, verificano sul campo idee, progetti, risultati.

Se questo rapporto tra partecipazione ed esercizio della cittadinanza ci accompagna non solo quando sono in campo grandi idee e movimenti, ma in ogni momento della nostra vita pubblica, quando facciamo la fila al seggio per dare il voto al candidato del nostro collegio uninominale, così come quando partecipiamo a una manifestazione per la pace in Medio Oriente, quando interveniamo alla riunione nella scuola elementare dove è iscritto nostro figlio, così come quando firmiamo un esposto al presidente della circoscrizione per ottenere un corrimano che aiuti i più anziani a non scivolare all’uscita della stazione della funicolare.

Se la politica è il principale antidoto che ciascuno di noi ha a disposizione per provare a vivere da cittadino e non da suddito, da titolare di diritti e non da destinatario di favori, da persona politicamente libera e non da servo contento.

Perchè nei confronti della politica aumenta sempre più la disaffezione, lo scoramento, l’incomprensione, il rifiuto, il disprezzo?

About Partecipare

Ci piacerebbe discutere di politica. Delle opportunità che essa rende disponibili per sottrarsi alla dittatura della necessità e aprire la strada alla dimensione della possibilità.
Una politica fatta di passione, senso di responsabilità, lungimiranza (1), che non sia indifferente alla distribuzione della felicità, attenta a ciò che le persone riescono a essere e a fare effettivamente, capace di sostenerle nei loro tentativi di ampliare la gamma delle possibilità tra le quali possono effettivamente scegliere.
Una politica che sappia dare valore ai diritti, non sottovaluti i rischi del condizionamento sociale e dell’adattamento, non riduca la libertà a un semplice vantaggio, sappia stabilire un ordine di priorità nella definizione dei criteri che ci dicono della nostra riuscita reale e della nostra libertà di riuscire.
Racconteremo dunque di donne e di uomini che hanno a cuore un interesse personale o collettivo, un ideale sociale, un progetto di società più felice o anche solo meno ingiusta e intendono operare, per variegate ragioni e motivazioni, con aspettative, tempi e impegno diversi, per vederli realizzati.
Persone che a tale scopo cercano di stabilire connessioni con altri, come loro facenti parte di cerchie, gruppi, comunità, associazioni, sindacati, partiti e, per questa via, tentano di rendere più forti e stabili le reti sociali di cui fanno parte e, con esse, le norme di reciprocità e di fiducia che le sostengono.
Persone che non intendono rinunciare rassegnarsi all’idea della politica come pratica del meno peggio (2), che credono nella possibilità di dare agli altri senza rinunciare ad avere cura e a valorizzare sé stessi (3), che considerano il sapere non solo una delle più significative ricchezze della società contemporanea ma anche una delle opportunità più importanti a nostra disposizione per essere e sentirci liberi e per esercitare la solidarietà con altri esseri, come noi, umani (4).
In questo libro si racconta insomma di persone che in sintonia con i propri convincimenti e, soprattutto, con le proprie azioni, ritengono giusto partecipare da attori alla costruzione del discorso pubblico.
E di persone che invece no. Perché non hanno più né voglia né fiducia per fare domande alla politica. Perché se proprio sono costretti a farlo si limitano a chiedere favori. Perché vivono la politica come una sommatoria indistinta e poltigliosa di ingredienti diversi che più soggetti solo apparentemente alternativi propongono a cittadini sempre meno interessati a investire tempo, impegno, ingegno, in questa direzione. Perché ritengono che la discussione, il confronto con punti di vista diversi dai propri, lo sforzo di comprendere le ragioni degli altri, siano esercizi a volte nobili, più spesso ipocriti, sempre inutili. Perché non credono nella possibilità che le idee, le convinzioni, le azioni di ciascun individuo possano realmente incidere, nell’ambito della sfera pubblica, sullo stato di cose esistenti. Perché sono stufi di sentirsi dire che stanno per diventare tutti ricchi, soprattutto se sono percettori di reddito fisso, o che stanno tutti impoverendo, in particolar modo se fanno parte della schiera dei cosiddetti patrimonializzati. Perché non hanno più voglia di perdere tempo con gli infiniti paroloni dei teorici dell’eccellenza, e aspirano a vedere riconosciuti dal versante sociale, professionale ed economico gli sforzi di chi, come loro, punta sulla crescita di buone competenze intermedie.
Per questa via, proveremo a porci sia domande che riguardano la teoria politica descrittiva, quella che punta, per l’appunto, a descrivere come stanno le cose e non come esse dovrebbero stare alla luce di un qualche criterio, sia domande che chiamano in causa i nostri impegni normativi, i nostri criteri del giudizio politico, la nostra idea di società giusta o desiderabile.
Ci ritroveremo in questo modo a ragionare sulla natura della politica democratica, su quale ruolo o spazio essa continua ad avere nelle nostre vite. E potremo vedere come cambiano, più specificatamente nella parte ricca del mondo, i soggetti della politica democratica, come e perché cittadini e cittadine governati possono agire politicamente, nello spazio pubblico, e in che modo sono in grado di scegliere e valutare i governanti (come sappiamo, il criterio del giudizio del cittadino sulla politica è la sua prima forma di partecipazione, dato che, rinunciando a giudicare, il cittadino si tira fuori dalla vita pubblica).

Non tutto è oro su internet

Nessuno è perfetto. Neanche internet e le nuove tecnologie dell’informazione (Nti). Non tanto perché sono ancora in troppi ad associare la credibilità di un sito al suo aspetto. E tanto meno perché le conoscenze tecnologiche possono avere influenze malefiche come quelle dell’anello reso celebre da Tolkien. Ma perché nelle società moderne, più sagge e più tristi, nelle quali si riducono le reti di altruismo, si raffreddano i rapporti, si lasciano un sacco di persone escluse, la tendenza delle Nti a elevare a simbolo il confronto fra soggetti che la pensano allo stesso modo favorisce l’insorgere di forme di estremismo, disprezzo per gli altri e per le loro opinioni, a tratti anche violenza.
Facciamo un esempio? Holiwar.com. Un nome che è tutto un programma. Con link tricolore a L’Occidentale. E articoli dal titolo “Siamo tutti in guerra, ma solo in pochi se ne sono accorti”.
Ma è davvero inevitabile perdere di vista il dato semplice ma non banale che le qualità di una democrazia
sono definibili proprio a partire dalle differenze che in essa sono rappresentate?
E per quali vie le Nti possono contribuire ad ampliare le opportunità e le libertà di ciascuno, ad arginare la mutazione della democrazia in videocrazia, ad arrestare la trasformazione dei partiti in comitati elettorali?
Per cominciare si può ricordare che le libertà civili classiche – tra le quali rientrano com’è noto la libertà di espressione e la libertà da interferenze e controllo esterni – possono potenzialmente trovare nelle Nti uno strumento funzionale alla propria estensione, fermo restando l’esigenza di regolamentare la loro gestione e distribuzione. E che le libertà positive trovano a loro volta nelle Nti uno strumento potenzialmente volto ad ampliare la gamma di opportunità utili allo sviluppo delle capacità di ciascuno. Si può ancora aggiungere che, nei confini della partecipazione alla vita sociale e politica, i nuovi media rappresentano una delle risorse strategiche per un miglior accesso ai mondi della formazione e del lavoro, per conoscere i propri diritti e poterli legittimamente difendere o rivendicare. E che questo è uno degli aspetti centrali anche quando si analizza il rapporto tra Nti e mercato, dato che definire come più o meno positivo, o negativo, in termini di libertà, il risultato dell’impiego delle Nti non è possibile se non se ne analizzano le ricadute dal versante delle relazioni sociali di mercato, della produzione, della distribuzione e degli effetti sulle diseguaglianze sociali.
Una prima provvisoria conclusione potrebbe allora essere che ogni qualvolta le Nti consentono di interagire col potere politico o economico secondo schemi di comunicazione bidirezionali, che favoriscono cioè la possibilità che anche chi sta in fondo alla scala sociale può aver voce nei confronti di chi detiene l’autorità e il potere, di fatto contribuiscono ad ampliare ed estendere le libertà. E che, al contrario, esse possono essere ricondotte all’interno di logiche e schemi di controllo politico e di condizionamento dei cittadini ogni qualvolta sono impiegate esclusivamente come strumento di comunicazione dall’alto verso il basso, ogni qualvolta al cittadino non viene lasciata altra possibilità che quella di svolgere un ruolo passivo o essere sottoposto a censura.
Non a caso internet è tra i nuovi media quello che si sta dimostrando più importante anche per dare visibilità
a quelle minoranze che nei contesti nei quali vivono non avrebbero altrimenti le stesse possibilità – in termini di strumenti, di risorse, di diritti – di aver voce (il caso del movimento delle donne messicane “Mujer a Mujer”, che attraverso internet hanno acquisito informazioni per poter negoziare le condizioni di lavoro in un’impresa tessile statunitense appena installata sul territorio è emblematica anche a qualche anno di distanza). Resta il fatto che le Nti, diversamente dal mitico signor Wolf di Pulp fiction, non risolvono tutti i problemi. E che nell’ambito della sfera pubblica la questione centrale rimane quella che si riferisce al come ritrovare le ragioni che rendano realistica, oltre che razionale, la scelta a favore dell’impegno e della cittadinanza attiva, della costruzione di reti civiche larghe, di strutture sociali intermedie, di classi dirigenti.

In difesa della parola

S come Significato
Le parole sono importanti.
Riconoscere la loro importanza vuol dire in molti modi riconoscere l’importanza del rapporto che esse hanno con i significati e gli ambiti specifici ai quali si riferiscono.
Ludwig Wittgenstein, nelle prime pagine delle sue Ricerche Filosofiche, scrive che “le parole del linguaggio denominano oggetti, le proposizioni sono connessioni di tali denominazioni. In quest’immagine del linguaggio troviamo le radici dell’idea: ogni parola ha un significato. Questo significato è associato alla parola. È l’oggetto per il quale la parola sta”.
Senza le parole e i loro significati, senza il linguaggio, la realtà, questo imprevedibile e affascinante miscuglio di cose, fatti, ragioni, passioni, sentimenti, sarebbe per noi inaccessibile dato che non sapremmo come comunicarla e dunque come condividerla.

T come Terrore
Le parole vanno usate in maniera appropriata.
Come dice Michele, uno dei tanti straordinari personaggi partoriti dal genio di Eduardo De Filippo: “C’è la parola adatta, perché non la dobbiamo usare? Parliamo co’ ’e parole juste ca si no m’imbroglio” (Ditegli sempre di sì, in Cantata dei giorni dispari, Einaudi).
Usare le parole giuste è importante sempre. Certe volte lo è di più. Come ad esempio quando la parola in questione è terrore.
L’evento dell’11 settembre 2001, il crollo delle Twin Towers, l’attacco al cuore degli Stati Uniti d’America ha dimostrato non solo che non esiste più posto su questa terra che possa dirsi completamente sicuro ma anche che il terrore rappresenta un elemento costitutivo dei processi di globalizzazione così come si stanno storicamente configurando, il lato oscuro della sua stessa forza.

I come Incombente
Jacques Derrida (in Giovanna Borradori, Filosofia del terrore, Laterza) ha affermato a questo proposito che l’evento terroristico è tale non solo in quanto accade. Ma perché è senza precedenti (unprecedented). Ci sorprende. Sospende la nostra capacità di comprendere. Incombe sul futuro con il suo carico di tragedia e di morte. Lascia aperta la ferita sull’avvenire. Non si sa cos’è, non la si sa descrivere, identificare e nominare. È l’impossibile che esiste.
E’ la funesta profezia di Osama Bin Laden che si avvera: non potremo mai più dormire sonni tranquilli.
È questo ciò che rende differente il terrore come paura organizzata, provocata, strumentalizzata, dalla paura che tutta una tradizione, da Hobbes a Schmitt sino a Benjamin, considera la condizione stessa del politico e dello stato. È questo che ci fa sentire perennemente “come d’autunno sugli alberi le foglie” [Giuseppe Ungaretti, Mondadori].

C come Comprendere
Più l’evento terroristico è grave, più inibisce la nostra capacità di comprendere, determina atteggiamenti di censura, rafforza le proprie difese immunitarie.
Facciamo un esempio?
Proviamo a immaginare cosa sarebbe accaduto se dopo gli efferati, farneticanti assassinii di Tarantelli, di D’Antona, di Biagi, un qualunque quotidiano avesse pubblicato un’intervista a un leader politico o sindacale dal titolo “Bisogna comprendere ciò che è accaduto”.
Si può dire che ci sarebbe stato un terremoto politico? Che il leader in questione sarebbe stato esposto a un vero e proprio linciaggio mediatico e con tutta probabilità indicato come il mandante morale degli assassini?
A nostro avviso sta qui l’aspetto nodale della questione.
Il fatto che si dimentichi, o si faccia finta di dimenticare, che comprendere non significa giustificare, che si può condannare in-con-di-zio-na-ta-men-te un fatto o un evento senza per questo rinunciare a capire le ragioni e le condizioni che lo hanno reso possibile, testimonia di un modo insopportabile di pensare e vivere il confronto politico. È la maniera non solo più sbagliata ma anche più inefficace di affrontare la questione. È, questo sì, moralmente inaccettabile.

A come Anomia
E se le radici dell’apatia, dell’anomia, dell’autismo sociale, della violenza si annidassero piuttosto nell’omologazione? Nell’appiattimento della complessa, articolata, ricchezza del ragionamento politico sul semplificatorio, assertivo, messaggio della comunicazione promozionale? Nella scarsità di luoghi dove credibilmente partecipare alla costruzione del discorso pubblico? Nella disabitudine a farsi carico di punti di vista alternativi o semplicemente diversi?
Così sembra pensarla ad esempio Cass Sunstein, professore di Jurisprudence alla Law School dell’Università di Chicago, che a questo proposito mette in guardia dal “grande rischio che una discussione condotta fra soggetti che la pensano allo stesso modo possa alimentare una sicurezza eccessiva, estremismo, disprezzo per gli altri, e a tratti anche violenza” (Repubblic.com, Il Mulino).

D come Diversità
La nostra è in definitiva una tesi a favore dell’abbondanza, della diversità, della pluralità delle parole e delle idee. Del fatto che le libertà di ciascuno, la capacità di ascoltare, di dare valore a tesi, argomenti, punti di vista anche radicalmente divergenti dai propri, sono strettamente associate alla possibilità di essere esposti a idee, valori, questioni, opinioni diverse, non prevedibili né preordinate.
È utile ribadirlo ancora: nell’ambito dello spazio pubblico non possiamo limitarci a consumare. Se in quanto consumatori siamo orientati ad escludere dal nostro orizzonte ciò che non ci interessa in quanto cittadini la diversità ci è semplicemente indispensabile.
Rinunciare a parlare, e a pensare, non è insomma in nessun caso una buona opzione. Si può difendere stre-nua-men-te il diritto di Pietro Ichino e di chiunque altro di non vedere minimamente minacciata la propria libertà di scrivere o sostenere qualunque opinione e allo stesso tempo non rinunciare alla libertà di dichiarare il più totale disaccordo con le sue idee.
Naturalmente si può discutere usando i toni giusti. Senza demonizzare nè le persone né le loro idee. Meglio, mostrando rispetto per le une e per le altre. Ma questa è un’altra storia. Con un altro titolo: Buona educazione.

Primarie, again

Adesso che l’onda mediatica sulle primarie si è finalmente arrestata, è possibile tornare a parlarne con un pò di calma?
Io spero di sì. E perciò di seguito potrete leggere alcune riflessioni un pò più meditate sull’argomento.

La discussione pubblica, in tema ad esempio di guerra e pace, di fecondazione artificiale, di diritti delle persone, di qualità delle istituzioni che ci governano, di scuola, di immigrazione, di violenza urbana, di ricerca scientifica e tutela dell’embrione, è oggi il principale strumento a nostra disposizione per non finire preda dell’autismo sociale, per sottrarci all’ipnotico e condizionante potere di vecchi e nuovi media, evitare di essere o sentirci cittadini in affitto, come quando siamo coinvolti o chiamati a decidere su questioni assai rilevanti senza avere il modo, il tempo, le conoscenze, per poter definire un autonomo, meditato, argomentato, punto di vista.
Nulla sembra poter sfuggire alla regola, come dimostra il percorso che ha portato alla scelta di svolgere elezioni primarie per definire la leadership dello schieramento di centrosinistra.
Sottolineato che non si tratta in questa sede di mettere in discussione il valore di tale percorso o l’importanza del processo democratico messo in atto (ad altri, con l’ausilio di altri strumenti, toccherà, è toccato, fare la conta, valorizzare, evidenziare, sottostimare, a seconda del punto di vista, dell’interesse, del risultato, l’evento) resta il fatto che coloro che si erano a suo tempo preparati per partecipare alla scelta del candidato leader hanno a un certo punto letto sui giornali o sentito in tv che forse saltava tutto perché i candidati erano due invece che uno (fortunatamente alla fine sono diventati sette); che passata qualche settimana ancora dai giornali e dalle TV si è appreso che i risultati delle regionali (cosa c’entrano?) rendevano superflua la consultazione, dato che la leadership di Prodi (che in realtà non era candidato in nessuna regione) era stata definitivamente legittimata dalla consultazione amministrativa; che passata ancora qualche settimana è rispuntata la possibilità di tornare a votare per le primarie perché la Margherita ha deciso di presentare proprie liste per la quota proporzionale alle elezioni politiche del 2006 (ancora una volta, cosa c’entra?) e proprio le primarie rappresentano la mediazione per evitare la crisi dell’Unione e la scissione tra i seguaci di Prodi e quelli di Rutelli, Marini, De Mita.
Detto che quelle che avete letto tra parentesi sono alcune delle domande che immaginiamo un bel po’ di persone “normali” si saranno poste, resta l’interrogativo finale: se, come del resto è già avvenuto, in quel caso con ottimi risultati, in Puglia, vincesse (avesse vinto) il candidato di Rifondazione Comunista, lo schieramento di centro sinistra avrebbe retto alla prova?
In questo caso la morale della storia è assolutamente evidente: c’è insomma ancora molta strada da fare prima che anche nel nostro Paese la cultura delle regole possa contare su radici solide, robuste.
In Italia c’è sempre un appuntamento decisivo dietro l’angolo, non è mai il momento giusto per discutere fino in fondo, per definire preventivamente regole precise e vincolanti per tutti.
Siamo un paese a scarso senso civico, dove si fa sempre in tempo ad essere accusati di fare il gioco del “nemico”. Dove predominano culture politiche che anche se in maniera e per ragioni diverse, (si doveva salvare il Paese dai comunisti, si doveva salvare il mondo dai capitalisti), hanno tollerato e persino coltivato l’idea che il fine giustifica i mezzi, che le questioni di metodo sono le questioni di chi non ha argomenti, che le regole non sono importanti. Dove i partiti politici fanno molta fatica a rinunciare all’idea di servirsi delle persone piuttosto che essere al loro servizio. Dove persino a livello dei “fabbricanti d’opinione” quasi nessuno ha tempo e voglia di spiegare che per questa via la politica non ha futuro, indipendentemente dal fatto che a vincere siano quelli che ciascuno è portato a considerare come “i buoni” o “i cattivi”.
Detto tutto questo, rimane il bisogno semplicemente più impellente di non rinunciare a giocare la partita. Bisogna farlo però con rigore. Senza dare l’impressione che le regole possano cambiare di volta in volta, a seconda degli interessi di chi le fa.
Costruire una cultura delle regole significa anche questo. Il rispetto delle regole è oggi più che mai la premessa di ogni possibile cambiamento.

La politica e il divano

Siamo certi di non avere scampo ?
Di doverci rassegnare all’idea che il luogo della politica più amato dagli italiani sia il divano?
Che non c’è partecipazione senza telecomando ?
Che in quanto a contenuti basta e avanza il verbo irradiato via etere dai leaders?
E se invece valesse ancora la pena provare a ricostruire luoghi, forme, contenuti della Politica?
Una politica che viva di cose da fare e non solo di alleanze ? Che abbia voglia di guardare un po’ aldilà degli appuntamenti elettorali?
Fatta di rapporti consapevoli tra persone, associazioni, sindacati, partiti, istituzioni?
Che possa rappresentare, come ha scritto Hanna Arendt, la sfera dell’esistenza autentica di ciascuno di noi?
Come la penso io ve lo dico nei prossimi giorni.
E se per intanto provaste a raccontare come la pensate voi?

I bambini e le città. Così Napoli chiama Reggio Emilia

“I bambini ascoltano i diritti dei papà, i bambini ascoltano i diritti dei bambini; i papà devono ascoltare i diritti dei bambini”.
“Se gli adulti non sono intelligenti non pensano e non proteggono i bambini”.
Alla libreria Feltrinelli di Napoli a discutere de “I diritti dei bambini nelle città del futuro” sono stati invitati Marco Rossi Doria, insegnante, autore del libro “Di mestiere faccio il maestro”, Deanna Margini, pedagogista, Rachele Furfaro, Assessore alla Cultura del comune di Napoli e Sandra Piccinini, Assessore Cultura e Sapere del comune di Reggio Emilia.
E dunque  un bene che per una volta i “grandi”, gli adulti, decidano di usare le parole, i pensieri, dei bambini. Quelli che avete letto all’inizio. Che sono raccolti, assieme a tanti altri altrettanto belli, nel libro “In viaggio coi diritti delle bambine e dei bambini”, autori i bambini stessi, edito da Reggio Children.
Marco Rossi Doria lo afferma convinto: “Occorre farsi sorprendere dalle parole dei bambini, trovare un punto d’incontro, ascoltare, mettersi in discussione”.
Poi cita ancora dal libro, “se i bambini conoscono le cose non hanno pi paura, sanno anche le cose pericolose” per sostenere che i bambini hanno diritto a sentire anche le parole del dolore. “Nelle nostre città c’è un eccesso di protezione. La vera protezione sta invece nel trovare le parole giuste per dire cose difficili. Non basta l’affetto, la cura, ci vuole il ragionamento”.
Deanna Margini, pedagogista, parte dall’esperienza di Reggio Children, nata nel 1994 per valorizzare il trentennale patrimonio educativo dei nidi e delle scuole dell’infanzia comunali a Reggio Emilia, e sottolinea la “necessità di considerare l’infanzia come un soggetto forte. La collana dell’ascolto che non c’è – così si chiama il progetto editoriale di Reggio Children – intende dunque promuovere l’ascolto attivo dei bambini, perchè sostenere l’infanzia, progettare le città del futuro, vuol dire abbassare lo sguardo all’altezza del bambino”.
Tocca a Rachele Furfaro, che riesce a mettere in evidenza i piccoli grandi risultati raggiunti, a cominciare dal numero di asili nido più che triplicato dal 1993 ad oggi, senza però smarrire il senso delle tante cose ancora da fare perchè Napoli possa anche solo avvicinarsi all’idea di città a misura di bambino.
“I diritti che i bambini ci chiedono – afferma – devono avere piena cittadinanza. Perchè dando spazio e futuro ai bambini si pensa al benessere degli adulti. Perchè se riusciamo a progettare una città a misura di bambino forse riusciamo a progettare una città vivibile. Da qui la necessità di creare luoghi dove il bambino possa essere davvero libero di esplorare e portare avanti il proprio modo di essere. Senza dimenticare al contempo che i bambini hanno bisogno anche di vuoto, che non bisogna riempire troppo gli spazi e il tempo dei nostri bambini”.
E’ Sandra Piccinini a chiudere la serata. Lei è assessore in un comune che gestisce una rete di 21 scuole dell’infanzia e 13 nidi, frequentate rispettivamente da 1508 e 835 bambini, ed  convenzionato con 5 nidi, 1 servizio per l’infanzia, ed 1 nido autogestito eppure riesce a parlare soltanto di futuro, di cose ancora da fare.
“Per i bambini – esordisce – i diritti sono desideri. Se riuscissimo a progettare le città con lo sguardo dei bambini sapremmo probabilmente guardare il futuro. Perchè i bambini sono più capaci di noi di allargare la prospettiva. Da 2 anni abbiamo avviato un progetto “Reggio tutta, una guida dei bambini e delle bambine alla città”.
Sapete che hanno scritto alcuni di loro? Che il confine  è un fumo. Non lo trovate straordinario?
I bambini sono pieni di cose. Mentre spesso c’è molta povertà nei loro confronti, anche nelle città ricche.
C’è bisogno di comunità. Di identità. Non può essere la pubblicità ad interpretare il bisogno di futuro. Neanche se ha il volto dolce di Nelson Mandela”.

Le vie della rete

“Or che bravo sono stato, posso fare anche il bucato?”
Ricordate? Erano ancora gli anni di “Carosello”, e uno strano omino tuttofare faceva irruzione nelle case di milioni di italiani di ogni età, sesso e ceto sociale.
Arrivano i robot
Per molte famiglie fu probabilmente quello il primo approccio con il robot, ma di lì a poco la realtà si doveva ancora una volta incaricare di superare la fantasia, almeno quella rappresentata in quello spot pubblicitario.
Vennero così gli anni d’oro della robotica, con i suoi esperti, dominatori incontrastati di meetings e convegni di mezzo mondo.
Il Paese “dove il dolce sì suona” ancora una volta si divise. Certo non colla ferocia che contrappose i Guelfi e i Ghibellini. Né con la passione che separò le schiere di Bartali da quelle di Coppi. Ma lo scontro ci fu. Tanti lo ricordano impegnativo. E a tratti persino duro.
Tra i più ottimisti c’erano quelli che… “l’avvento dei robots avrebbe garantito un salto di civiltà e reso la vita più agevole a decine di milioni di persone in tutto il mondo”.
Al polo opposto quelli che… “tanti posti di lavoro sarebbero andati in fumo e molte aziende sarebbero state costrette a chiudere”.
Come è finita?
Come è finita? Come (quasi) sempre accade: ciò che è successo per davvero forse non ha dato ragione agli ottimisti, ma assomiglia comunque assai poco a quel che immaginavano i pessimisti cosicché, tra unione monetaria e Prospettive di guerra civile (Hans M. Enzensberger) sempre meno prospettiche e più reali, anche gli sconvolgimenti attribuiti al povero robot sono stati riportati ad una dimensione più “umana”.
Eppure, “una consapevolezza sobria e, come dire, terra terra, che la soluzione dei problemi, anche nel migliore dei casi e dei mondi possibili, ne crea semplicemente di nuovi” (Salvatore Veca), continua ad apparire assai faticosa da conquistare, e nuovi dilemmi prendono troppo in fretta il posto di quelli appena dissolti.
L’irresistibile ascesa di sua pervasività il PC, la sua capacità di dominare, e sconvolgere, ogni aspetto della vita quotidiana è oggi, tra questi, uno dei più gettonati.
Identità, modi di pensare, culture, scuola, lavoro, tempo libero: ogni cosa pare destinata ad essere riconfigurata.
Ma, in realtà, sarà proprio così? Abbiamo provato a chiedercelo. Andando in cerca di qualche filo che non ci facesse perdere tra i labirinti del cambiamento. Guardando in primo luogo alla scuola e all’impresa.
Sparigliare le carte
A livello di impresa, la cosa che probabilmente più di tutte balza agli occhi è che lo sviluppo dei nuovi media ha determinato, sta determinando, un profondo sconvolgimento delle mappe dei poteri. Dagli assetti proprietari ai processi di integrazione, dalla divisione internazionale del lavoro alla localizzazione delle diverse attività è in atto un gigantesco e multiforme tentativo di sparigliare le carte.
E’ una lotta senza esclusione di colpi. Condotta su ogni tipo di terreno, da quello geografico a quello normativo, da quello delle alleanze a quello dei prezzi.
L’obiettivo? Cercare di fare la mossa giusta. Ed indurre, se possibile, l’avversario a fare quella sbagliata.
They are the world?
Negli Stati Uniti, che hanno da tempo riconquistato la supremazia tecnologica, quasi il 50% dei nuovi investimenti sono in tecnologie della informazione e della comunicazione. I Paesi emergenti del Sud Est asiatico, e per certi versi lo stesso Giappone, sono l’officina tecnologica nel quale i prodotti hardware e software vengono realizzati. L’Europa corre il rischio di diventare soprattutto un mercato di sbocco”.
Casa Italia
E l’Italia?
Il nostro è un Paese dove fino ad oggi si sono sviluppati soprattutto i prodotti a tecnologia povera, mentre i vari servizi in rete, da quelli finanziari a quelli alle aziende, la moneta elettronica, l’home banking, lo shopping on line ancora non decollano.
Eppur si muove
Eppure, qualcosa, si muove.
Secondo un’indagine dell’ANEE l’Italia ha fatto registrare nell’ultimo anno la maggiore crescita di siti Internet e le famiglie nelle quali è ormai presente almeno un computer multimediale sono quasi 2 milioni. Si spiegano anche così i 225 miliardi di volume di affari del 1997 a fronte dei 96 del 1995 e l’aumento del 14% fatto registrare dal mercato dei cdROM.
Una crescita dal basso
La parte più significativa di questo movimento è quella che nasce dal basso. E che investe la famiglia, la scuola, le città. E’ un movimento che per svilupparsi compiutamente ha bisogno di un contesto che favorisca le relazioni e sostenga le capacità creative ed imprenditoriali che vanno emergendo in ampi strati della società. E se la strada da fare è di certo ancora tanta, per la prima volta si può dire che il vento del cambiamento, a tratti impetuoso, comincia finalmente a soffiare anche dalle parti delle istituzioni.
Scuola e didattica online
Il piano del Ministero della Pubblica Istruzione per la diffusione delle nuove tecnologie multimediali nelle scuole sembra di quelli destinati ad avere effetti importanti nello sviluppo della cultura e delle tecnologie informatiche. E il mondo della scuola è sempre più in fermento.
E’ un mondo nel quale le fila di coloro che avevano cominciato a sperimentare e a portare avanti i loro progetti, come vi abbiamo raccontato un po’ di mesi fa (www.austroeaquilone.it/scuola1.htm) sono andati diventando sempre più ingrossandosi, e che oggi sta assai naturalmente e rapidamente conquistando consistenza e spessore.
La teledidattica
Ciò che bolle in pentola non riguarda ormai più solo il fenomeno pur rilevante delle scuole in rete, ma investe il vasto e assai significativo campo dell’utilizzo delle tecnologie multimediali, e della stessa rete, a fini didattici. La teledidattica sembra da questo punto di vista destinata ad avere una importanza pari se non superiore a quella che è destinata ad avere in un altro ambito il telelavoro. E le esperienze che presentiamo nella cover story di questo numero ne sono degli esempi significativi.
Le città digitali
Così come assai significativo è quanto sta avvenendo nel rapporto tra l’Internet ed i comuni italiani, come ci dice il Rapporto ’97 sulle Città Digitali in Italia, risultato della prima indagine nazionale sulle reti civiche e i servizi telematici in rete avviati dai soggetti e dalle comunità locali, promossa da ASSINFORM, RUR e CENSIS.
“Il 1997 ha visto l’affermarsi di un interesse per Internet – un medium ormai popolare tra le giovani generazioni – anche da parte di Sindaci, Assessori e Presidenti.”.
L’importanza dei decisori locali
“A dominare quantitativamente la scena sono decine di depliant turistici riprodotti in rete, ma le migliori esperienze italiane di telematica civica – riconosciute ormai come casi di eccellenza a livello europeo – dimostrano che possono essere raggiunti risultati incisivi, se sono i decisori locali ad inserire con convinzione i servizi telematici nelle loro politiche”.
“Tali politiche possono rivelarsi ulteriormente incisive nel corso del prossimo anno, alla luce specialmente della importante innovazione introdotta dalla legge Bassanini, che ha sancito la validità legale della firma elettronica e dello scambio di documenti in rete”.
Il sud che va
“L’esistenza di casi di eccellenza anche nel meridione porta a ritenere che le nuove tecnologie rappresentino un’importante sfida soprattutto per i governi locali, che hanno ormai la responsabilità di non perdere le occasioni connesse all’affermazione della information society”.
“Nelle realtà locali dove i teleservizi sono più consolidati, già si parla di nuova micro imprenditorialità diffusa, legata alle nuove tecnologie e stimolata principalmente dalla iniziativa pubblica. Ma l’impatto più rilevante che già oggi reti civiche e teleservizi stanno portando nelle realtà locali è il cambiamento prodotto nelle strutture organizzative dei soggetti promotori, specialmente nelle Pubbliche Amministrazioni “.
Il lavoro che cambia
Ancora una volta ci sono dunque più cose in cielo ed in terra di quante la nostra fantasia potrebbe immaginare. E, tra queste, quelle che investono il lavoro, le sue professionalità, la sua organizzazione, sono tutt’altro che marginali.
Il telelavoro
C’è ovviamente questo “fenomeno” multiforme e dalle mille teste che va sotto il nome di telelavoro, del quale abbiamo diffusamente parlato nella cover story del terzo numero di A&A (www.austroeaquilone.it/aquiltree.htm), e del quale potete trovare una assai esauriente esposizione su Telelavoro Italia Web, il sito che grazie al lavoro di Patrizio Di Nicola e di un piccolo ma valoroso gruppo di suoi “discepoli”, si è conquistato sul campo una meritata fama (www.mclink.it/telelavoro).
Ma c’è anche molto altro.
Le nuove professioni
Come ad esempio strani esseri come il KIW (acronimo di Knowledge and Information Worker), flessibili, capaci di comunicare con gli altri, ai quali non si richiede lavoro manuale ma conoscenza delle tecnologie informatiche e della comunicazione, capacità di creare, elaborare e diffondere dati ed informazioni. O come gli Infobrokers, professionisti che offrono ad aziende ed operatori di diverso tipo servizi di recupero dell’informazione tramite ricerche su internet, banche dati e biblioteche online e che, in un mercato globale ed in continua e rapida evoluzione, si propongono come fattori di competitività a disposizione di coloro che intendono utilizzare al meglio le informazioni provenienti dall’ambiente esterno nell’ambito dei propri piani strategici ed operativi. O come, se si preferiscono scenari meno futuristici, gli operatori con competenze tecniche su prodotti e servizi finalizzati al marketing online, i progettisti di pagine web, i grafici specializzati nei media elettronici.
Come sarà
Ma come sarà questa società dell’informazione?
Strano, ma rigorosamente vero: questa domanda, fatta da un ragazzo poco più che sedicenne, ci ha fatto vivere momenti di puro panico.
Cercare di non dire cose banali e allo stesso tempo evitare di presagire scenari modello “Peter Pan e l’isola che non c’è” appare in certi momenti un’impresa quasi disperata. Ma la fortuna aiuta non solo gli audaci, ma anche gli scombinati, (e, soprattutto, coloro ai quali sono capitati proprio in quei giorni tra le mani degli splendidi libri) cosicché si finisce con il ricordare che in ogni situazione esiste sempre un’altra possibilità.
Che per questa volta ha il volto di un vecchio espediente retorico che ti fa affermare di non sapere come sarà ma di avere qualche idea su come ti piacerebbe che fosse.
Universalistica e inclusiva
Ti piacerebbe che fosse universalistica e inclusiva, più orientata cioè all’abilitazione, all’offerta di opportunità per un numero sempre più consistente di persone.
Ti piacerebbe che fosse un contesto nell’ambito del quale poter sviluppare la capacità di imparare, fare, creare, inventare nuove conoscenze, nuovi mestieri, nuove imprese, nuovi mercati.
Ti piacerebbe che fosse più democratica, più responsabile, con regole più certe.
Detto così, può sembrare il libro dei sogni. In realtà, assieme ai non trascurabili effetti che una tale risposta produce sulla “stima di sé”, essa può persino avere un qualche significato impersonale nella misura in cui induce a chiedersi come si possa ragionevolmente ridurre la distanza tra il come è e il come vorremmo che fosse.
Rompere le gerarchie
Forse, una strada utile è quella di provare a rompere le gerarchie che fino ad oggi hanno caratterizzato i rapporti tra forti e deboli, nord e sud, centro e periferia. Facendo in modo che da questa rottura emergano delle opportunità vere per coloro che fino ad oggi hanno fatto parte del club ad iscrizione rigorosamente involontaria degli svantaggiati. Cambiando l’ago della bilancia, come ci esorta a fare Franco Cassano nella conversazione con Daniela Binello che potete leggere su queste stesse pagine.
Ridefinendo la propria identità. Pensandosi come luogo di una straordinaria rete di relazioni, culture, socialità, opportunità di sviluppo tra l’Europa e il Mediterraneo. Avendo capacità di ascolto. Recuperando le memorie. Scommettendo sul futuro.
Questione di identità
Anche per l’Italia la scommessa sta in gran parte qui. Nella capacità, come ha scritto Pietro Barcellona, “di valorizzare le differenze e di proporre un modello anche qualitativo di produzione che abbia una sua identità; che per la collocazione geografica particolarmente felice sia in grado di creare un rapporto tra il centro dell’Europa ed il mondo mediterraneo, i paesi arabi; che sappia mettere a frutto tutto ciò che in qualche modo ha caratterizzato secoli e secoli di storia e di interscambi tra il nostro paese e l’altra sponda del mare”.
E’ una strada impegnativa. Ma anche assai interessante. Soprattutto per chi, tra l’impresa che c’è e quella che verrà, mentre prova il disagio e l’ebbrezza di chi vive in stanze che le tecnologie riarredano incessantemente, vuole imparare ad avere fiducia in se stesso.
Benvenuti sulle vie della rete dunque.
Verso coloro che decideranno di interagire, con opinioni, osservazioni, domande, non possiamo che manifestare amicizia e sincera gratitudine.
A tutti coloro che per scelta, o anche solo per caso, sono capitati da queste parti, non possiamo che augurare, come sempre, buona lettura.