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Lo strano caso dell’umile converso

Giancarlo Ioriodi Giancarlo Iorio

Quando, nell’autunno del ’79, fui assunto nella Casa di Cura Ave Gratia Plena, specializzata nella terapia delle malattie neurologiche e psichiatriche, dovetti trasferirmi a S. Apollonia, ventimila abitanti, seicento metri sul livello del mare, distante meno di quindici chilometri dalla costa.
Mi ambientai bene nel giro di pochi mesi. Avevo scoperto abitanti gentili e pervasi da un sottile spirito epicureo, amanti della musica, della buona cucina e della cultura.
Il posto, oltre che per la clinica, era conosciuto nel circondario anche per un rinomato complesso sinfonico, davvero qualcosa di più di una banda musicale, che, tra l’altro, si esibiva solennemente in occasione della festa della Santa Patrona, il 13 marzo.
In quella ricorrenza l’orchestra, diretta dal baffuto maestro concertatore prof. Anselmo De Donatis, suonava brani di musica classica e lirica su un palco ottagonale, pennellato di bianco, con fregi azzurri e dorati.
Ritratti di musicisti famosi, tra cui Donizetti, Puccini, Verdi, Bellini, Schubert, Mozart, Rossini ornavano gli spicchi del soffitto e sorvegliavano l’esecuzione. Alle arcate portanti erano avvitate mille lampadine che diffondevano una luce intensa e calda. Il maestro De Donatis, virtuoso del violino, concludeva quasi sempre la serata con “il volo del calabrone”, scatenando entusiastici consensi anche tra gli spettatori più tiepidi.
Non lontano dalla Casa di Cura, in via Ugo Foscolo, l’altro motivo per cui quella città era famosa: “Da Santino”, un raffinato ristorante, in equilibrio fra tradizione e innovazione, dove si preparava, tra l’altro, un risotto di vialone nano, tirato con il brodo di frutti di mare e mantecato, rigorosamente fuori dal fuoco, come precisava l’autore, con spuma di crostacei. L’effetto consolatorio di quel piatto era tale che noi, nelle frequenti riunioni conviviali l’avevamo ribattezzato “Soma e Psiche” e qualche collega lo proponeva come cura alternativa agli antidepressivi.
I menu erano vergati a mano da Fra Guglielmo, il miniaturista dell’Abbazia Benedettina di sant’Erasmo, che distava dodici chilometri dal centro abitato.
Carta pergamena, inchiostri di china, caratteri gotici, ogni capolettera era una miniatura. Il risvolto di copertina recava una massima attribuita a Epicuro: “La sazietà è nemica del piacere”.
Santino approfittava spesso della nostra presenza per chiedere un consulto:
“Dottori, spiegatemi perché, se non posso avere sempre il meglio per il mio ristorante, mi viene l’ansia”. Fingevamo una confabulazione seriosa e poi rispondevamo un po’ a turno:
“Santino, questa non è una malattia… Tu hai la sindrome del Dom Perignon, solo il meglio… In fondo tutti i grandi cuochi, come i grandi artisti, sono dei perfezionisti”.
“Ho capito, ma allora dovrei aumentare i prezzi, così quasi ci perdo, la cucina e il servizio sono da Gran Vefour e il prezzo da normale buon ristorante cittadino”.
Non ero d’accordo sulla sindrome del Dom Perignon, il famoso champagne preferito da James Bond.
Santino non voleva il meglio per sé, come 007. Offriva il meglio ai suoi clienti, sperando di guadagnare la loro stima e benevolenza. In un certo senso l’opposto.
Comunque nessuno di noi lo avrebbe curato, poiché il suo disturbo ossessivo di personalità era il suo stile di vita e aveva il merito della bontà dei suoi piatti. D’altra parte avremmo continuato a frequentare quel luogo di delizie, anche se i prezzi fossero raddoppiati.
Comunque per quanto la città fosse tendenzialmente gaudente e invitasse a un simile stile di vita, lavorare si lavorava.
Eravamo più di venti specialisti senza contare gli psicologi e i consulenti esterni e, pur con qualche crisi personale e qualche sporadica caduta di rendimento, curavamo con grande attenzione e dedizione i nostri pazienti.
L’attività culturale preferita poi era la discussione dei casi clinici.
Mi ero appassionato a questo esercizio fin da studente, con la lettura di Tempo Medico, che nelle pagine centrali, illustrate da Crepax, vedeva un professore di clinica medica discutere con l’aiuto Attilio e con qualche fascinosa assistente, di complicati casi clinici che alla fine riusciva brillantemente a risolvere. Naturalmente avrei voluto essere come lui.
Anche per questa ragione avevo stretto amicizia con il consulente internista della clinica,
Luca Franceschi, fisicamente il gemello di Oliver Sachs, stesso barbone, stessi occhiali, stesso sorriso, dotato di raro acume e di vasta e profonda preparazione, dalla cardiologia all’endocrinologia. Lo stimavo e lo consideravo un eccezionale diagnosta.
Forse fu per questo motivo che quella mattina del maggio dell’ottantuno, quando mi venne a cercare in reparto e, battendomi una mano sulla spalla scandì col suo vocione:
“Ho un caso clinico da risolvere, ho bisogno di un tuo consulto”, caddi dalle nuvole.
“Eh, se…”, dissi, meravigliato e compiaciuto.
“Si tratta di una consulenza che l’abate in persona mi ha chiesto domenica scorsa dopo la messa”.
Luca, nonostante l’aspetto da sessantottino era un fervente cattolico.
“E’ per… un monaco, quindi dobbiamo andare all’abbazia”. Non volle anticiparmi altro.
Concordammo di vederci alle sedici del giorno dopo davanti al monastero.
Attraversammo il chiostro per giungere nell’ampia sala dedicata alla vendita al pubblico dei prodotti erboristici, dove ci attendeva il vice-priore.
Aveva incarico di condurci nell’ufficio dell’abate, padre Dom Ugo Clementi.
Questi ci salutò cordialmente e si disse grato per la nostra disponibilità.
Era un uomo più alto della media, magro, energico, il volto chiaro, quasi diafano, su cui spiccava la puntinatura nera della barba, nonostante la perfetta rasatura, capelli neri, lisci, mortificati da una chierica perfettamente rotonda. Mio padre, che, quando ero alle medie mi spiegava le parole difficili, lo avrebbe portato come esempio di figura ieratica.
La stanza dove ci aveva ricevuto era sobria ma non spartana. I mobili erano antichi e di eccellente fattura, alle pareti delle pergamene policrome e dipinti di soggetto religioso.
“Attribuito alla Scuola del Tiepolo”, disse soddisfatto, sorprendendomi a indugiare con lo sguardo su una “Madonna con Bambino”, affrescata alle sue spalle“.
Forse il figlio del maestro, Giandomenico… voi sapete che gli affreschi dell’abside della basilica sono del maestro in persona, 1750-51 circa, dopo l’incendio che annerì tutta la chiesa. Mentre il padre decorava da par suo la basilica, il figlio si dedicò ad affrescare alcune stanze e le cappelle interne. Questa stanza una volta era una chiesetta per i frati più anziani, non lontana dalle celle”.
Si capiva che avrebbe preferito parlare d’arte, di cui si sapeva che era un grande appassionato, ma subito dopo cambiò espressione e iniziò:
“Noi abbiamo sempre cercato di essere il più possibile autosufficienti ed è perciò che abbiamo anche un allevamento di animali da cortile e di maiali.
A occuparsi del nutrimento dei maiali è frate Onofrio, un laico, una persona semplice, cui il buon Dio, per sua imperscrutabile decisione, ha fornito una notevole forza fisica ma un intelletto non altrettanto robusto”.
“Ah, un converso!…” esclamai, contento di mostrare una certa competenza.
Sapevo di questa figura non tanto per aver studiato il monachesimo, quanto per i racconti di mia madre su Suor Maria Crocifissa, una nostra prozia ottocentesca, priora di un convento di clausura a Napoli e la sua conversa, che aveva acquisito fama perché bravissima nel confezionare i dolci di pasta reale. Il converso o la conversa erano persone di servizio, uomini di fatica o, nella migliore ipotesi, artigiani o dame di compagnia. In un certo senso la prova che l’egalitè non aveva espugnato i monasteri o semplicemente che una società ideale resta un’utopia.
Finalmente ora stavo per conoscerne uno dal vivo.
“Un converso, sì…” confermò l’abate con un lieve imbarazzo, “la famiglia ha voluto affidarlo a noi perché non aveva un lavoro vero e proprio, aiutava in campagna, ma i coetanei lo prendevano in giro a causa della sua ingenuità e… innocenza e, dopo la morte del padre, lui era diventato rissoso, si stava sbandando e… così… è qui da cinque anni”.
Dopo un lungo sospiro l’abate allargò le braccia e poi le richiuse come in dominus vobiscum.
“Mi dicono i confratelli che negli ultimi tempi, quando frate Onofrio porta il cibo ai maiali, si siede vicino alla mangiatoia ed emette degli strani singhiozzi o dei suoni gutturali anche per un’ora di seguito. A volte si prende la testa fra le mani e a volte solleva il capo al cielo. A volte alterna ai singulti dei veri e propri ululati. Se qualcuno dei frati si avvicina, appare come inebetito e, dopo un po’, il suo singhiozzare e il suo ululare si attenuano, fino a cessare. Se lo si interroga non risponde. Guarda a terra e non parla”.
Non seppi fare a meno di chiedere se solo in quella occasione il converso singhiozzasse e ululasse.
“Un confratello, che dorme vicino alla sua celletta, dice di averlo sentito qualche volta anche di notte”.
Il collega Franceschi mi guardava sperando che io avessi una risposta o almeno un’ipotesi, per tranquillizzare il prelato.
“Sarebbe bene ascoltarlo” dissi “ e anche visitarlo”.
L’abate si strinse un po’ nelle spalle, poi fece cenno di sì col capo.
“Temo” aggiunse “che non vi dirà molto. Anzi ho paura che non dirà neppure una parola”.
Ci recammo nell’infermeria dove il frate addetto ci accolse con tutti gli onori e quando ci fummo sistemati ci portarono frate Onofrio.
“ Buona sera frate Onofrio, accomodatevi”.
Il paziente, ancora sulla porta si girò a cercare rifugio nella tunica del confratello che lo accompagnava. Aveva un aspetto corpulento, ma il viso rotondo di un bambino.
Lo fecero sedere davanti a noi, ma alle mie domande non rispondeva. Guardava a terra come chi viene colto in fallo e rimproverato. Ogni tanto mi rivolgeva lo sguardo e una sola volta accennò a un debole sorriso. L’esame neurologico era negativo per deficit focali, ma era evidente una discreta microcefalia. Sicuramente, il frate era un minus habens, come dicevano allora gli psichiatri di grido, ossia era poco dotato sul piano dell’intelletto. Egli aveva una discreta intelligenza pratica, ma non sarebbe stato capace di formulare un concetto astratto.
Quando Luca Franceschi ed io fummo di nuovo soli mi inoltrai in un tentativo diagnostico differenziale:
“Mi è capitato una volta qualcosa di simile, una sindrome ticcosa con emissione soltanto di suoni gutturali, simili a grugniti o a singhiozzi, senza movimenti ticcosi, nel fratello di un paziente con sindrome di Gilles de la Tourette, oppure… potremmo pensare a una forma di epilessia parziale, secondariamente generalizzata, con emissione di vocalizzazioni, ma è una forma rara e poi… non mi tornano i conti. La crisi dura troppo…ma tu a che pensi?”.
“Da internista ho osservato il collo di frate Onofrio e allora darei uno sguardo anche alla tiroide, un deficit precoce potrebbe aver dato i suoi frutti”, disse Luca.
“Oppure sta diventando psicotico, potrebbe trattarsi di una sindrome d’innesto…” dissi riservando poca attenzione all’osservazione endocrinologica del mio collega.
Decidemmo che frate Onofrio sarebbe stato indagato in day-hospital, dove avrebbe praticato l’elettroencefalogramma, alcuni esami radiologici e neuroradiologici, alcuni test adatti alla sua età mentale e gli esami di laboratorio, compresi quelli per la tiroide.
Dopo circa 15 giorni avevamo i risultati che però non erano affatto illuminanti.
Non confermavano, ma non escludevano le diagnosi ipotizzate.
Prescrissi allora al converso una terapia sintomatica, blandamente sedativa, con piccole dosi di farmaci neurolettici e del triptofano e inviai una breve relazione all’abate, per informarlo della negatività degli esami e della necessità di attendere almeno quattro settimane per poter verificare gli effetti della terapia.
Non passarono neppure otto giorni, invece, che l’abate mi telefonò e mi fece capire che i farmaci non stavano dando miglioramenti, anzi. Gli ululati si erano fatti più lunghi e strazianti.
Alla fine della telefonata mi accennò, discretamente, alla sua ipotesi diagnostica.
“Dottore la cosa sta portando scompiglio nel monastero… non dovrei parlarne per telefono, ma se proprio la medicina non può far nulla… è tradizione che almeno uno dei confratelli si occupi… di… esorcismo e nel nostro monastero abbiamo frate Adelmo, che ha risolto molti casi, che da tempo mi chiede di intervenire… dice che forse la vicinanza con le bestie immonde…”.
Non commentai in nessun modo ciò che l’abate mi andava dicendo e a lui quel silenzio dovette sembrare piuttosto eloquente.
“Capisco che sto entrando in una sfera che voi laici… che gli uomini di scienza… oltre tutto i familiari hanno saputo qualcosa e ora vogliono essere informati sulle condizioni di salute del congiunto”.
Dissi educatamente che non era il caso di esorcizzare frate Onofrio e che avrei visto di nuovo lui e i familiari nel mio studio il giorno dopo.
Infatti, alle diciannove del pomeriggio seguente ero seduto di fronte al frate con i familiari in sala d’attesa.
Mi stavo giocando una carta importante. Mi dissi che, come nelle versioni di greco più incomprensibili, anche quel mistero doveva avere un senso.
“Onofrio, ricordate qualcosa di quando vi viene quella crisi? Vi succede di avere una specie di bolla nello stomaco? Avete mal di testa? Vi si abbaglia la vista? Vedete per caso cose strane?”
Mi sembrò che il povero frate si mettesse finalmente nei miei panni, capiva che ero nei guai per lui e che avrei dovuto dir qualcosa alle sorelle, alla madre e allo zio.
Fece passare un tempo che mi sembrò lunghissimo, poi bisbigliò qualcosa, sempre guardando a terra.
“Come? Non ho sentito”.
A quel punto mi guardò fisso mentre allungavo il collo e tendevo le orecchie per non farmi sfuggire neppure una sillaba e, al tempo stesso abbassavo lo sguardo verso il piano della scrivania, per non intimidirlo.
“Ce vulesse n…n…na femminuccia…p…p…però!” disse con voce bassa ma, questa volta, perfettamente comprensibile.
In quell’istante si aprì davanti ai miei occhi la voragine dell’ovvio. Come avevo potuto non pensarci. Avevo dato per scontato che il poveretto avesse una malattia, solo perché l’abate aveva questa implicita teoria su di lui, sostituita più tardi da quella della possessione.
Sia io che il mio collega eravamo caduti in un grave errore di metodo. Avevamo dato per certo ciò che non lo era affatto. Avrei dovuto ricordarmi che “La certezza è nemica della verità”, ma soprattutto avrei dovuto applicare questo insegnamento di Popper e invece io ero diventato subito certo dello stato di malattia del frate. Mi sentii un vero idiota e mi chiedevo chi tra noi due fosse il minus habens.
Non c’era diagnosi, semplicemente perché non c’era malattia. Ma quale sindrome ticcosa, epilessia parziale, innesto psicotico o possessione! I singulti e gli ululati erano dovuti a desiderio d’amore e nessuno di noi aveva pensato che anche una persona così semplice e innocente potesse soffrirne.
Ci misi quindici secondi per pensare tutto ciò. Quando alzai lo sguardo mi resi conto che Onofrio non era più disperato, si era liberato di un grande peso e sapeva che lo avrei aiutato.
Lo capii, al di là di ogni ragionevole dubbio, perchè sul viso rotondo dell’umile converso, ancora vestito da benedettino laico, era stampato il più complice e impertinente dei sorrisi.

Lo strillone dalla voce roca

Giancarlo Ioriodi Giancarlo Iorio

Decidere un giovedì sera del giugno del ‘74, dopo un pomeriggio trascorso sulle sferocitosi ereditarie, di andare al cinema a vedere “Dove osano le aquile”.
Le ragioni del no: l’avevo già visto due o tre anni prima, non era il tipo di film di guerra che mi piaceva, non rispettava la storia e non era realistico, insomma un fumettone con un titolo enfatico, anche se con interpreti eccellenti, inoltre avrei dovuto attraversare piazza S. Maria La Scala alle 20 e avrei potuto trovarmi tra i piedi un alessandrino in avanscoperta.
Le ragioni di Giovanni: I grandi film di guerra si possono vedere anche tre volte, al Tiberio si paga poco, cast stellare, che ti frega del titolo.
Il bonus era poi la proposta della margherita finale.
Finii per cedere alle sue ragioni, anche perché, l’alternativa era pastina al burro e Rischiatutto in bianco e nero.
Il mio collega aveva visto “La grande fuga” 14 volte, conosceva i prezzi di tutti i cinema e di tutti gli spettacoli e al Tiberio riusciva anche a farsi fare lo sconto, corteggiando la cassiera, che aveva avuto lo zio ricoverato nel reparto dove lui era interno.
Quando uscimmo gli alessandrini misuravano il marciapiede di fronte all’ingresso del palazzo. Erano due o forse tre, ma, per fortuna non attraversavano allo scoperto quasi mai a quell’ora.
Sono topi di fogna col muso a forma di piramide tronca gli alessandrini, padroni assoluti della piazza dalle 23 in poi, l’ora in cui saremmo tornati dal cinema.
Assalivano i sacchi dei rifiuti, depositati accanto al portone, e sarebbe stato un problema entrare.
Al Tiberio si arrivava dopo Salita Sanfelice, si girava a sinistra e ancora duecento metri.
Il locale allora aveva un aspetto deprimente: luci al neon, sedute di legno, pubblico di studenti, disoccupati, venditori ambulanti… con qualche eccezione quando il film era di qualità, ma quasi mai esemplari di pubblico da Filangieri o da Metropolitan.
Passava Agostino per le bibite e i pop corn: “Aranciate, Coca, chi beve. Maasticate la gomma!”.
Qualcuno, ispirato dalla pettinatura, dalle movenze e dalla voce lo chiamava Agostina, con fare caramelloso, ma lui non si offendeva, anzi era compiaciuto.
A un certo punto, un altro personaggio sembrava comparire dal nulla: il venditore di giornali.
Capelli neri, che ricoprivano la testa e anche tutta la fronte, fino agli occhi di colore verde chiaro, faccione carnoso con barba di due giorni e figura appesantita, un camice grigiofumo ormai nero lungo ben oltre le ginocchia, respiro asmatico, la voce arrochita dalle nazionali esportazione.
Alcuni locali a Napoli conservavano ancora la vecchia usanza di far vendere i giornali prima dell’inizio dello spettacolo e nell’intervallo.
Lo sentivi arrivare perché pubblicizzava la sua mercanzia annunciando i titoli con fare professionale e in italiano:
“Assassinata minorenne nel bagno di casa, sospetti sul cognatooo…”
Poi allegramente traduceva:
“E’ stat chillu scurnacchiato do cainato… tutti i particolari… Cronaca Vera… Crimèn”.
La traduzione incrementava di molto la vendita.
La prima volta che l’avevamo visto, Giovanni aveva scommesso che si chiamava o Ciro o Gennarino, così quando fu a due file di distanza: “Ciro! Ciro mi dai la Gazzetta?”
Ne era seguito un chiarimento,
“Mio fratello più piccolo si chiama Ciro, io mi chiamo Raffele” disse, mentre porgeva la Gazzetta dello Sport a Giovanni:
“Gesù, tuo fratello si chiama Ciro e tu non ti chiami Gennarino!”.
“Io Gennaro mi dovevo chiamare, ma… quando sono nato io… mio padre aveva litigato co’ nonno e così per dispetto mi chiamò Raffele, che a me questo nome non mi piace, chi è po’ stu Rafele”
Punto sul vivo perché mio padre si chiamava Raffaele, il mio maestro si chiamava Raffaele e mio figlio, quando lo avrei avuto, si sarebbe chiamato Raffaele…
“Un angelo” dissi, £un angelo mandato da Dio. Raffaele significa mandato da Jahvè”.
“N’ angelo?” disse con la voce di cartavetro. Si fermò, guardò a terra come per prendere fiato o per trovare le parole e poi in perfetto italiano: “Sentite, io vi devo essere grato che mi dite così, ma… mi avete visto bene…”.
Poi continuò: “I’ so chiatt, tengo i denti guasti, tengo pure i bronchi asmatici e ‘o fegato… e po’ vedete come sto vestuto, cu stu camice niro che ce dormo pure a notte. Se propio mi doveva mandare, il padreterno mi poteva fare nu poco chiù accunciatiello”.
Fece un’altra pausa: “A Napoli ce stanne i Rafele ma… vulite mettere”.
Non aveva aspettato una replica e aveva ripreso il suo giro con passo da podagra: “Crimèn… Cronaca Nera.. i meglio muort accisi, giornali!”.
Ogni tanto promuoveva anche le testate sportive: “Tutto sul calcio a zona di Viniciooo! Il Napoli vincerà lo scudetto?”.
La versione vernacolare era: ” ‘O aizammo o no sto commò?”
Da quella sera, quando ci vedeva, si fermava e puntualmente chiedeva al mio collega: “Allora Gazzetta o Guerino?”.
Poi rivolto a me:
“Volete un giornale o volete dire qualche altra stronzata”. In genere prendevo una copia di Paese sera e lui se ne andava sorridendo all’aria.
Siccome stavo frequentando le lezioni di psichiatria, mi ero convinto che Raffele era una personalità bipolare e che, di volta in volta, avremmo potuto trovarlo depresso e malinconico o euforico ed espansivo.
Per chiarire ciò che successe quella sera di “Dove osano le aquile”, è necessaria una premessa. Circa venti o trenta giorni prima si era verificato un delitto che aveva fatto molto scalpore.
Una donna dall’apparente età di trenta anni era stata trovata morta in riva a un fiume, trafitta da venti coltellate e decapitata, l’identificazione non era ancora avvenuta e la polizia stava controllando alcune testimonianze.
Circa venti anni prima Nel 1955 a Castelgandolfo c’era stato un delitto analogo ed era stato denominato “La decapitata del lago”.
Era rimasto impunito ed era entrato nella leggenda.
Quella sera Rafele, cominciò a passi misurati per non avere il fiatone, il giro che precedeva lo spettacolo e annunciò in italiano: “Il mistero della donna del fiume! Ancora si cerca la testa della donna! tutti i particolari sul Mattino di oggi!”.
E dopo un respiro: “Ma a capa nun se trovaa, a capa nun se trova!”.
Nelle file centrali pochi istanti prima che si spegnessero le luci erano andati a sedersi quattro spettatori di mezza età, capelli più o meno brizzolati, molto eleganti, vestiti di scuro e con la cravatta.
Date queste premesse nessuno si aspettava quello che stava per succedere.
Appena si accese la luce dell’intervallo si sentì Rafele: “S’è truvata a capa! S’è truvata a capa”. Tutti si girarono a guardarlo.
Uno degli eleganti fece segno che voleva il giornale. Raffele glielo portò con la solita camminata lenta e sofferente.
Quello lo aprì e cominciò a leggere, poi sfogliò di nuovo da cima a fondo le pagine.
Infine chiamò ad alta voce Raffele e chiese sempre ad alta voce:
“Scusi, ma quale capa s’è trovata?”.
Raffele si sentì come il capocomico a cui viene preparato il terreno per la battuta finale, non avrebbe dovuto, forse, ma non seppe trattenersi, anzi gli dovette sembrare che quel signore facendogli la domanda stava ubbidendo al copione e quindi si sentì autorizzato a rispondere:
“S’è truvata a cap’e cazz che s’accattat ‘o giurnale”.
A questo punto si fermò atteggiando il faccione a sorriso, convinto che l’uomo elegante, che non sembrava di Napoli, avrebbe riso anche lui per quella splendida trovata.
Ma non fu così. Quello lo guardò gelido e dopo aggiunse: “Ma questo non è serio, lei, lei è uno scostumato, lei dovrebbe cambiare mestiere! Voglio parlare con il direttore”.
Raffele capì che le cose non erano andate come lui si sarebbe aspettato, si fece cupo e disse:  “Scusate ma a voi chi ve l’ha promessa tutta questa serietà, a noi ci piace stare allegri e non stare seri, se a voi non vi piace… un’altra volta non ci venite!”.
“Questo è troppo io la denuncio!”.
A quel punto Raffele, da serio divenne furibondo e disse con voce chiara, per niente roca:
“A-mi-co! O vuò capì o no che cà amm campà tutti quanti!”.
Nelle sue ultime parole c’era lo stesso furore con cui il cane difende il territorio.
Poi girò le spalle e, lentamente, come si era avvicinato, si allontanò.
Quando si chiuse il sipario nessuno ebbe il coraggio di applaudire.