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Libreria d’agosto

Sì, sono stato contento quando ho letto il post nel quale il mio amico Tarcisio Tarquini ha scritto che la Feltrinelli libri e musica di Piazza dei Martiri è una delle ragioni per cui viene volentieri a Napoli. Sono stato contento per la mia città e perché quel posto lì l’ho visto nascere, mi ci sono abituato con fatica, accade sovente con le cose nuove, mi ci è voluto tempo prima di poter cliccare su “mi piace”.
Mi piace chiacchierare dell’ultimo libro che mi ha preso il cuore, mi piace scoprire che Dudù, Frank e Ciccillo saranno prossimamente sui nostri schermi, sì, sta per uscire “Operazione San Gennaro” in dvd, mi piace incrociare gli amici per affinità e per caso. Per certi versi la cosa mi ricorda la Secondigliano dei miei quindici anni, quando per giocare a pallone non dovevi affittare il campetto e per incontrare gli amici bastava andare al bar di don Peppe Testolina o raggiungerli sotto casa, ignorare il citofono che tanto gli sms neanche esistevano e partire con la chiamata a cappella modello Lello Sodano, quello che in “Ricomincio da tre” grida Gaetano, Gaetanoooo, Gae-tano, Gae-tà fino a quando Gaetano – Massimo Troisi non scende. E poi vuoi mettere la saggezza del “vigile” Luigi che ti racconta del medico che ha “sclerato” e va in giro col pigiama raccattando cibo tra i rifiuti nonostante il lussuoso appartamento di proprietà e l’ottima pensione solo per dirti che “a cerevella è ‘na sfoglia ‘e cipolle” e che “bisogna non perdere mai la modestia, ché da un momento all’altro può cambiare tutto nella vita”. E l’imbarazzo di essere avvicinati da un distinto, anziano, signore che ti dice: “lei è Vincenzo Moretti, lo scrittore?” e tu gli rispondi: “No!”? “Come no, io l’ho vista in tv parlare del suo libro”. “Sì, quello che ha scritto il libro sono io, ma non sono uno scrittore”. “E perché io che progetto edifici sono architetto e lei che scrive libri non è scrittore?”. Già, perché? L’arrivo del mio amico Enzo, il vicedirettore, mi dà il pretesto per scusarmi, salutare, scappare, ma la domanda la porto con me: scrittore, chi è costui? Quello che vende così tante copie dei suoi libri da poterci vivere? Mah, a vedere le classifiche qualche dubbio ti viene. Quello che vince i premi letterari? Meglio lasciar perdere, terreno scivoloso anche questo. Mentre voi continuate a pensarci io vi dico che quando la sera ho ripreso a leggere “America amore” di Alberto Arbasino, ero a metà delle 800 e più pagine che compongono il volume, mi è bastata mezza pagina per dirmi “Arbasino è uno scrittore”. No, il perché non ve lo dico. Lo avete letto “America amore”? Fatelo. Il resto viene da sé.

Il Blog di Montaigne

“La sua esistenza era un dolce fluttuare sopra un tappeto di benevola ottusità”: diciamo la verità, detto così non è che sembri proprio un complimento, insomma uno di quei pensieri che vorresti tanto che qualcuno un giorno dedicasse a te. Se vogliamo dirla tutta ai tempi della mia Secondigliano artigiana, operaia e magliara persino uno come Pasqualino ‘o Ricciulillo, addetto al confezionamento in un calzaturificio di Casavatore dal lunedì al venerdì e aiuto pizzaiolo il venerdì, il sabato e la domenica sera, se gli dicevi una cosa così un pugno e anche due te li mollava volentieri. E avrebbe avuto torto. Perché avrebbe perso la possibilità, possiamo immaginare irripetibile nella sua onesta, prevedibile, esistenza, di essere accomunato nientepopodimeno che a Michel de Montaigne. Sì, perché quello dell’esistenza che fluttua è proprio lui, o almeno così ci viene raccontato da Sarah Bakewell in un splendido volume. (Montaigne, L’arte di vivere, Collana Campo dei Fiori, Fazi Editore).

Vi state chiedendo perché l’esistenza di un uomo di cotanto senno fluttua in questo modo? Ve lo dico subito: pare che Montaigne avesse scarsissima memoria e la cosa secondo la Backwell ha prodotto alcuni effetti collaterali di non poco conto: il nostro era un uomo propenso alla sincerità (l’arte di dire bugie richiede una memoria di ferro), aveva una mente così “meravigliosamente vuota che nulla poteva ostacolare il suo ragionamento”, “si dimenticava facilmente delle offese ricevute e dunque serbava meno rancori”, era capace di recuperare le sensazioni più profonde delle sue esperienze, quelle che poi ha raccontato nei suo Saggi, proprio perché era preda di quella memoria “involontaria” che tanto fascino avrebbe esercitato su Proust, sì, proprio quella memoria che all’improvviso ti riporta alla mente un volto, un gusto, un odore che pensavi ormai di aver perso per sempre.

Ora voi non provate a domandarvi perché la mancanza di memoria nel mio caso produce come effetti collaterali soltanto ombrelli persi e telefonini lasciati nei posti più improbabili, perché la mia reazione sarebbe pari a quella di Pasqualino ‘o Ricciulillo; chiedetevi piuttosto in che senso e perché Montaigne non è stato soltanto l’ideatore del “saggio”, ma anche il primo blogger della storia. No, il perché non ve lo dico, dovete leggere il libro che tanto poi me ne sarete grati. Piuttosto provate a immaginare in quanti avrebbero cliccato su “mi piace” se Montaigne avesse scritto su Facebook e non su una nota a margine, parlando dell’amico La Boétie sconfitto dalla peste, “se mi si chiede di dire perché l’amavo, sento che questo non si può esprimere che rispondendo: “Perché era lui, perché ero io”.

La sindrome di Stradivari e la regola dell’accesso

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Se vi racconto come li ho messi assieme la faccio troppo lunga, perciò vi dico che all’inizio, questo inizio, ci sono Karl Popper e Richard Sennett, da un lato l’idea che “se non vogliamo ragionare in circolo, dobbiamo assumere un atteggiamento altamente critico verso le nostre teorie, l’atteggiamento consistente nel cercare di confutarle”, dall’altro le ragioni per non finire vittime della sindrome di Stradivari, quella strana malattia che prende il tecnico, l’esperto, che ritiene di avere competenze così irripetibili da non poter essere tramandate, proprio come nel caso del leggendario liutaio di Cremona. E dato che tutto ciò che ha un inizio ha anche una fine, talvolta anche un fine, vi anticipo che tutto questo ci condurrà in vario modo alla voglia di fare bene il proprio lavoro, all’etica nel lavoro, ai pericoli connessi all’accumulazione egoistica delle competenze.

Mi spiego con un esempio, anzi due. Il primo si riferisce al Goodwork Project diretto da Howard Gardner, Università di Harvard, al caso di corruzione a carico di alcuni giornalisti del New York Times. La colpa? Secondo i ricercatori dell’istituzione, nel senso della presunzione di sentirsi “il” Nyt, lo stradivari dell’informazione, un giornale che non ha bisogno di comunicare esplicitamente quali sono i suoi standard e per questa via crea il contesto nel quale giornalisti senza scrupoli possono piegare l’istituzione ai loro scopi. L’antidoto? Secondo Gardner quel particolare tipo di trasparenza basata su criteri che definiscono il lavoro ben fatto in un linguaggio chiaro e comprensibile ai non addetti ai lavori.

Il secondo si riferisce al progetto di citizen journalism che sta portando avanti la Fondazione Ahref che non solo definisce ed esplicita i criteri che ritiene debbano essere rispettati perché l’informazione possa essere definita di qualità, ma tende a fare di questa qualità la cornice cognitiva, il presupposto, a partire dal quale i cittadini diventano reporter che promuovono e realizzano le loro inchieste.

Nel caso di La scuola abbandonata, la prima inchiesta di Fondazione Ahref, abbiamo perciò raccontato passo passo come ci siamo mossi, abbiamo definito una metodologia (Regola dell’A.C.C.E.S.S.O.: A come artigiano, C come cittadino, C come conservare, E come errore, S come storie, S come serendipity, O come organizzare) e l’abbiamo condivisa con l’auspicio che sia di aiuto per i futuri cittadini reporter. È un gioco solo in parte nuovo, però è un gioco che può cambiare le regole del gioco in un settore strategico come quello dell’informazione. Cliccate su “mi piace” e giocate anche voi.

Festival dell’economia, da Trento al Rione Sanità

L’edizione 2011 del Festival dell’economia di Trento (http://2011.festivaleconomia.eu) si presenta con due anteprime che dicono un mondo: la prima, il 26 Maggio a Trento, in collaborazione con la Federazione trentina della cooperazione, avrà come protagonista Amartya Sen, premio Nobel per l’Economia nel 1998, che terrà una lezione sul tema del Festival: “I confini della libertà economica”; la seconda, il 28 maggio a Napoli, in un posto di una bellezza indicibile, incredibile, commovente, Basilica e Catacombe San Gennaro Extra Moenia, al Rione Sanità, ci sarà una giornata ricca ricca di incontri intorno al tema: “Il sommerso e l’economia da svelare” (http://www.ahref.eu/it/events/notizie-dal-sottosuolo), a cura della Fondazione Ahref (http://www.ahref.eu) e in collaborazione con Fondazione per il Sud (http://www.fondazioneperilsud.it).

Se giuro che ho ancora tutte le mani morsicate perché sono stato invitato alla lezione di Sen e non ci posso andare, mi concedete il beneficio dell’obiettività se vi dico che l’evento di Napoli è particolarmente significativo? Lo è, significativo, per la qualità dei temi in discussione e per l’autorevolezza dei partecipanti; e tutti questi link così brutti da vedere nella pagina ve li ho messi apposta, perché ve ne possiate rendere conto senza che io debba propinarvi un elenco interminabile di titoli e di nomi. E naturalmente il valore dell’appuntamento sta anche per il posto che è stato scelto (ma questo ve l’ho già detto). E se ancora non vi basta, aggiungo che è importantissimo che, nell’anniversario dei 150 anni dell’Unità d’Italia, il Festival dell’economia da Trento si estenda fino a Napoli.

Detto tutto questo sottolineo anche che nella scelta del posto ci vedo una questione di significato nel senso letterale del termine. Sì, perché da quelle parti, al Rione Sanità, intorno a padre Antonio Loffredo, che potrete ascoltare la mattina del 28 maggio nel corso dell’incontro coordinato da Luca De Biase, sta crescendo, è cresciuto, un laboratorio di rinascita civile e sociale che ha come parole chiave “giovani e lavoro”. Proprio così: nella pancia di questa Napoli sempre più improbabile e complicata, al Rione Sanità, intorno al lavoro e ai giovani, alla bellezza e alla cultura, alla dignità e al rispetto si sta cercando di azzannare il futuro contando prima di tutto sulle proprie forze. Presto ne leggerete delle belle: ma di questo ne parliamo un’altra volta.

Spettatori, dunque complici

Vi ricordate Per un pugno di dollari? La parte in cui Joe (Clint Eastwood) dice a Silvanito (Enzo Petito) “I Baxter da una parte, i Rojo dall’altra e io nel mezzo?”. E se provassimo a fare lo stesso gioco?
Da una parte Honoré de Balzàc (La Commedia Umana), l’idea che è la società che fa gli uomini diversi “a seconda dell’ambiente dove si svolge la sua attività”. Dall’altra James Hillman (Il codice dell’anima), l’idea che sia invece il daimon, la ghianda, a determinare sin dalla nascita la nostra essenza, il carattere, a indicarci la strada, a determinare le scelte che facciamo. In mezzo noi, che modestamente suggeriamo che contrapporre daimon e struttura, individuo e società, non è necessariamente una buona idea; che una società meno ingiusta, che favorisce l’abilitazione di diversi prospetti e ideali di vita, che sostiene coloro che si trovano senza averne colpa ad essere svantaggiati, è anche una società meno esposta a fenomeni di anomia, di perdita di identità e di ruolo sia delle persone che delle strutture.

L’idea è insomma che il vero antidoto all’impoverimento democratico sia nell’esercizio consapevole della responsabilità da parte di ciascun cittadino
e che oggi è quanto mai decisiva la voglia e capacità di non rinunciare a esercitarla, questa responsabilità.  Sì, non è obbligatorio rassegnarsi. In democrazia esiste per definizione un’ulteriore possibilità. Ad esempio quella che ci consente di mettere in campo con altri, idee, comportamenti, azioni in grado di cambiare le cose. Quella che ci fa ritenere affascinanti le sfide nelle quali ci scopriamo impegnati e ci fa sentire impellente il bisogno di vincerle. In fondo è così che si conquista la democrazia, la si merita, giorno dopo giorno: partecipando, schierandosi, assumendosi l’onere di rendere esplicito, e dunque criticabile, il proprio punto di vista.

Erich Fromm ha scritto che “il problema non è che la gente si occupa troppo del suo interesse, ma che non si occupa abbastanza dell’interesse del suo vero io; il fatto non è che siamo troppo egoisti, è che non amiamo noi stessi” (Etica e psicanalisi).
È accaduto più volte nel corso della nostra storia, troppo spesso abbiamo tentato di perseguire il nostro interesse senza amare noi stessi e, dunque, senza amare le nostre città e la nostra Nazione. Tra un po’ si vota su e giù per l’Italia, chissà se ci ricorderemo di non fare lo stesso errore. Buona partecipazione.

Benvenuta RisorgItalia. Buon compleanno Italia

Il tema è di quelli a cui tengo di più. Il rapporto tra élites, classi dirigenti e cittadini, le culture, i modi di essere e di fare che fanno grande, o piccola, una comunità, un paese, una nazione.
Ne ho scritto ancora di recente ricordando che Seiji Maehara, 48 anni, Ministro degli Esteri giapponese, si è dimesso per una donazione di 440 euro. Che Karl Theodor zu Guttenberg, Ministro della Difesa tedesco, 39 anni, si è dimesso per aver copiato la tesi di dottorato in giurisprudenza. E che Silvio Berlusconi sembra aver deciso invece di fare del suo destino e di quello dell’Italia una cosa sola. Però poi non ci ho messo il punto, eh no, sarebbe stato troppo comodo. Ho ricordato Edgar H. Schein e la sua idea che per comprendere un’organizzazione bisogna comprendere la sua cultura. Ho aggiunto che una nazione è anche un’organizzazione, ha una sua cultura e classi dirigenti che di fatto, ci piaccia o no, la rappresentano. E che forse bisognerebbe approfittare della importante ricorrenza dei 150 anni del nostro Paese per riflettere più a fondo su cosa non va nella nostra cultura e nelle nostre classi dirigenti. Sul “che fare” per avviare un cambiamento profondo. Nostro. E delle nostre classi dirigenti.
Lo stesso giorno il mio @mico Massimo Melica (amico con la chioccioletta perché ci conosciamo solo nel mondo dei social network) mi scrive per chiedermi se voglio aderire al progetto RisorgItalia (www.risorgitalia.it). Clicco sulla pagina, leggo in alto a sinistra Patrioti Digitali e mi piace un sacco, così come “iniziativa non commerciale”. Non mi piace invece la scritta “iniziativa non politica”, immagino stia per “iniziativa non partitica”, perché se non è politica l’idea che “l’Italia non è solo una Nazione: l’Italia siamo Noi”, un progetto culturale “che si propone come primo obiettivo quello di celebrare il centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia”, l’impegno a “riportare alla luce ciò che si è perso negli scorsi decenni: l’orgoglio e la gioia di essere italiani”, la voglia di contribuire a “un nuovo Rinascimento di coscienze, cultura ed ideali”, allora cos’è “politica”?
Decido che RisorgItalia mi piace, perché mi piace “un’idea della politica che da Aristotele a Hanna Arendt è un’idea fatta di partecipazione, di cui non è sufficiente ricercare il fine o lo scopo, ma a cui occorre dare un senso” (D’Orsi, 1995). Sì, mi piace un sacco l’idea di abituare le persone a rafforzare la democrazia, a migliorare le sue qualità, portando ciascuno il proprio mattone. Benvenuta RisorgItalia. Buon compleanno Italia.

Centimetro dopo centimetro

E certo che ci sono andato, e come potevo non andarci con un titolo così, “Se non ora, quando?”, e in momento così, di quelli che come dice Brecht “discorrere di alberi è un reato?”.
Ho incontrato donne, donne, donne, naturalmente. Tantissime. E assieme a loro non solo quelli della serie “siamo tanti siamo sempre qui”, ma anche quelli che non vedevo da una vita, quelli come Ciro, ex delegato oggi in pensione della ex Società Italiana Ossigeno che il nome nuovo me l’ha detto ma in quella bolgia chi se lo ricorda, o come Armando, che ha diretto con me per un po’ di tempo la categoria dei chimici in Campania e adesso vive ad Avellino, o come Michele, che mi ha raccontato che anche se a 35 anni alla fine si è laureato e anche se si sente un pò in colpa ha deciso di raggiungere il fratello in Inghilterra che qui da noi se anche trovasse da lavorare con la laurea da ingegnere meccanico guadagnerebbe di meno del suo salario da operaio.
Il sole, i sorrisi, i saluti, e a un certo punto “Ogni maledetta domenica”, il film diretto da Oliver Stone che mi si accende nella mente. Eccolo lì, Tony D’Amato (Al Pacino) mentre parla alla sua squadra, lo potrei citare a memoria, lo faccio vedere ogni hanno ai ragazzi che seguono il mio corso sul sensemaking.  Eccolo lì, mentre insiste sulla necessità di lottare centimetro dopo centimetro per conquistare la meta, sull’importanza di essere uniti, di sentersi ed essere una squadra. Una squadra, un Paese, mi sono detto, e sì, qui bisogna stare sul punto, conquistare centimetro dopo centimetro, non ci si può tirare indietro.
Certo che lo so che non sarà facile, che non c’è solo una questione di leadership e di governo, che c’è anche una questione di cultura, di modi di fare, di valori da recuperare, di alibi e giustificazioni da rifiutare, di regole da rispettare a prescindere, tutti, sempre. Ma in fondo tutto questo accade quando un Paese individua una concreta possibilità alternativa di vedere soddisfatta la propria utilitas, come avrebbe detto Spinoza, nell’ambito di un sistema fondato sul rispetto delle leggi e delle regole politiche, economiche, istituzionali e perciò non ne fa più solo una questione di sensibilità, di solidarietà, di civiltà, ma anche, soprattutto, una questione di razionalità, di convenienza, di interesse.
L’interesse di chi sa che in un mondo tanto interdipendente sarà sempre meno possibile far finta che l’altro non esiste. L’interesse di chi, come l’Ulisse di Shakespeare, sa che “[…] nessuno è padrone di nessuna cosa, per quanta consistenza sia in lui o per mezzo di lui, finché delle sue doti non faccia partecipi gli altri: né può da sé farsene alcuna idea, finché non le veda riflesse nell’applauso che le propaga”. L’interesse di chi non intende fare a meno dello streben, l’agire e tendere alla meta, che consente a Faust di salvarsi. L’interesse di sa che la meta si conquista tutti assieme. Centimetro dopo centimetro. Ogni maledetta domenica.

Elogio della cicala

Va bene, facciamo finta che non abbiate mai detto a vostro figlio, o anche solo a un amico più giovane, “non fare come la cicala, sii laborioso e previdente come la formica”. La mia domanda è: ma vi siete mai chiesti che lavoro fa la cicala?. Io no, mi ci ha fatto pensare Gennaro Pasquariello quando mi ha chiamato per parlarmi del festival da lui ideato e giunto quest’anno alla quinta edizione: “L’abbiamo chiamato il Festival della Cicala perché in qualche modo ci siamo voluti ribellare al luogo comune, diventato celebre grazie a Jean de la Fontaine, per il quale chi, come la Cicala, canta o suona, va considerato un perditempo. Ma lo sai Vincenzo quanta fatica c’è nella vita di un musicista?”.
Sì, questo la so. Tanta.

È un attimo, e mi ritorna in mente Il resto è rumore, il bellissimo libro di Alex Ross che racconta il secolo breve attraverso la musica, quando dice di Arnold Schoenberg, dei genitori di condizioni modeste che non potevano permettersi un pianoforte, della sua gavetta come componente di una banda militare che suonava nei caffè di Vienna, dello studio delle forme strumentali attraverso un’enciclopedia, dell’attesa dell’uscita del volume “S” prima di poter comporre una sonata.
E poi, ancora, mi torna in mente il maestro Antonio De Santis; lo incontrai che insegnava teoria e solfeggio al conservatorio S. Pietro a Maiella di Napoli, negli anni 70 aveva fondato con Giuseppe Di Giugno il gruppo di elettroacustica presso il dipartimento di fisica sperimentale dell’Università di Napoli. Era un personaggio incredibile, sembrava uscito da un romanzo di Kerouac, ti stordiva, ti affascinava mentre ti spiegava che “le note sono assi cartesiani”, che “Bach è l’anticipazione del computer”, che “quando avremo un computer con un’interfaccia geniale come il manico di una chitarra o di un violino sarà una rivoluzione”, che “Wagner con il suo teatro totale è l’inventore della multimedialità”, che “come ha scritto Prigogine la musica è l’unico paradigma della scienza moderna”.

È un attimo, e mi accorgo che Pasquariello mi guarda, sembra attenda domande, nel frattempo mi dice che il Festival della Cicala è itinerante, porta la musica, i musicisti e il loro lavoro nelle scuole, che bisogna insistere sulla formazione e sulla professionalità perché l’arte non basta, meno che mai a Napoli, che i ragazzi fanno parte anche delle giurie che valutano i brani presentati al concorso nelle due sezioni, Didattica (brano edito) e Artistica (brano inedito).
Mi chiede se serve altro. Gli rispondo che va bene così. Per questa volta viva la cicala.

Viva l’Italia

Rosa, 25 anni, mi scrive da Milano, anche se nell’era della posta elettronica New York o la stanza a fianco per noi pari sono diventate. Mi dice che alla fine un lavoro l’ha trovato, che esce alle 7.30 di mattino e torna alle 8.00 di sera. Che le danno la bellezza di 300 euro al mese. Di mio aggiungo che Rosa si è laureata con 110 e lode, laurea magistrale, in Scienze della Comunicazione e che può vivere questa “esaltante” esperienza perché si “appoggia” alla sorella che è a Milano.

Mario, 19 anni, lo incontro a Napoli un sabato fa. Funicolare centrale, prima corsa, quella delle 6.30. Io che da tempo ho rinunciato a fare a botte con il sonno sono appena uscito dal bar, lui che si reca come ogni mattina al lavoro. Mario non lo conosco, gli sento dire che la sera precedente a scuola prima si è fatto interrogare poi si è addormentato. Gli chiedo che fa, mi spiega che lavora in un bar del Vomero, ore 7.00 – 17.00, 7 giorni su 7, per 100 euro a settimana. Aggiunge che al padre ha detto che ne guadagna 120 e che già così, al padre, sembrano troppo poche, e che lui nel frattempo dopo 3 anni è tornato a scuola, economia aziendale, si è reso conto che è importante, che deve prendere il diploma.

Antonio, 72 anni,
lo conosco da una vita, e da una vita mi racconta di quando nelle fabbriche i vecchi operai “passavano le consegne” ai giovani che avevano varcato per la prima volta i cancelli, di come attraverso la trasmissione delle esperienze, delle conoscenze formali e informali, si creava un ponte tra passato e futuro, tra il “vecchio” e il “nuovo”, che si basava certo sulla preparazione tecnica e professionale, ma che finiva fatalmente per investire i rapporti umani e sociali tra persone di generazioni diverse. I vecchi lasciavano tracce che aiutavano i più giovani a formarsi ed essere autonomi. Vecchi e giovani davano senso al loro lavoro e ciò incrementava il loro capitale di fiducia, conferiva significato non solo alla loro dimensione lavorativa, ma anche a quella esistenziale, familiare, sociale.

Perché vi racconto tutto questo? Perché penso che Rosa, Mario e Antonio dovrebbero essere trattati da questo paese molto meglio di come vengono trattati. Perché penso che prima lo capiamo e meglio è, non solo per Rosa, Mario e Antonio ma anche, soprattutto, per l’Italia. Perché penso che dare valore al lavoro, al rispetto, al futuro sia un buon modo per pensare ai nostri prossimi 150 anni. Lo so che tra un po’ viene Natale, ma purtroppo con queste cose qua Babbo Natale non c’entra. Ci vuole una nuova classe dirigente. Paese avvisato mezzo salvato.

Fare è pensare

Antonio Pezzullo, 24 anni, maestro di chitarra, da Frattamaggiore, provincia di Napoli, la passione per la chitarra scopre di averla a 11 anni, quando il suo insegnante di educazione musicale chiede a lui e ai suoi compagni di scegliere uno strumento tra chitarra, flauto e pianola e di portarlo in classe.
Dalla scoperta alla laurea, al conservatorio Giuseppe Martucci di Salerno, dai primi concerti alle prime recensioni, la strada è stata naturalmente lunga e impegnativa, e ancor di più lo sarà quella che gli resta da fare, eppure non è di questo che intendiamo raccontarvi.

Ebbene sì. Perchè Antonio Pezzullo come musicista pare abbia un gran talento, e sia chiaro che il pare non mette in dubbio il talento ma sottolinea che chi scrive non ha competenze in campo musicale, ma l’opera che lo rende veramente unico è la sua chitarra, ad essere precisi una delle sue chitarre. Volete sapere perché? Perché se l’è costruita da solo, con la sua testa e le sue mani, ottenendo un risultato eccellente.

Antonio ha impiegato 5 mesi per costruire la sua chitarra, lavorandoci almeno un paio di ore al giorno quasi tutti i giorni della settimana e se gli chiedi perché l’ha fatto ti risponde “perchè amo troppo quello che faccio”, “perché volevo vedere se riuscivo a costruire una chitarra che suonava”, e naturalmente quando dice “suonare” intende dire suonare, una chiatarra da utilizzare anche nei suoi concerti, cosa che poi ha fatto.

Adesso qui lo spazio è tiranno e io non posso raccontarvi fase per fase come ha fatto Antonio a costruire la sua chitarra, ma il suo racconto l’ho registrato, e ho anche le foto che documentano ogni singolo passaggio, il progetto dal quale è partito, gli utensili che ha usato, magarì chiederò al direttore di darmi lo spazio per raccontarvi tutto questo in uno dei prossimi numeri, vi assicuro ne varrebbe la pena.

Quello che invece non voglio fare a meno di fare adesso è collegare tutto questo con “L’uomo artigiano” di Sennett (Feltrinelli, 2008), con le sue riflessioni sul rapporto tra l’uomo e gli utensili, sulle connessioni tra la testa e le mani. Ad un certo punto del suo libro Sennett, scrivendo degli utensili specchio, dice che possono essere di due tipi: replicante e robot, i primi imitano le nostre possibilità-capacità, i secondi le potenziano fino a farle arrivare a livelli per noi umani impossibili. Detto che sarebbe un reato raccontarvi come finisce e togliervi il gusto di leggere il libro, si può aggiungere che le persone come Antonio confermano che sono la creatività, il sapere e il saper fare che permettono a ciascuno di noi di vivire vite più degne di essere vissute. Sì, perché fare è pensare. E se non pensiamo che facciamo a fare?

Una moneta per Turing

Alan Turing, fondatore della computer scienza, matematico, filosofo, crittanalista (la crittanalisi è lo studio dei metodi per scoprire il significato di informazioni cifrate), suicida a 42 anni perché distrutto dalla persecuzione omofobica condotta nei suoi confronti. Seppure molto tardivamente, nel 2009 sarà Gordon Brown, a nome del governo britannico, a scusarsi ufficialmente così: «Per quelli fra noi che sono nati dopo il 1945 […] è difficile immaginare che il nostro continente fu un tempo teatro del momento più buio dell’umanità. È difficile credere che in tempi ancora alla portata della memoria di chi è ancora vivo oggi, la gente potesse essere così consumata dall’odio – dall’antisemitismo, dall’omofobia, dalla xenofobia e da altri pregiudizi assassini – da far sì che le camere a gas e i crematori diventassero parte del paesaggio europeo tanto quanto le gallerie d’arte e le università e le sale da concerto che avevano contraddistinto la civiltà europea per secoli. […] Così, per conto del governo britannico, e di tutti coloro che vivono liberi grazie al lavoro di Alan, sono orgoglioso di dire: ci dispiace, avresti meritato di meglio».

Perché vi raccontiamo tutto questo? Perché nel 2012, ricorre il centenario della nascita di Turing. E perché è stata promossa una petizione popolare per chiedere ai paesi europei di coniare per l’occasione una moneta commemorativa.

Promotore della petizione è Adriano Parracciani (www.adrianoparracciani.it), creativo, fisico mancato, ingegnere delle reti informatiche, che spiega così l’iniziativa:

Le monete hanno ospitato e ospitano i volti di migliaia di personaggi, rendendo omaggio al loro genio o alle loro gesta. Perchè dunque non coniare una moneta commemorativa per Alan Turing che ci ha dato così tanto, contribuendo a liberarci dal nazismo, progettando i primi calcolatori della storia, ponendo le basi dell’intelligenza artificiale? Perché i paesi europei non dovrebbero concedergli questo onore di dedicargli una moneta, una memoria metallica circolante di mano in mano, un riconoscimento per un genio che dopo aver dato così tanto all’umanità è stato costretto alla castrazione chimica perchè omosessuale e portato al suicidio? Mi sono detto che valeva la pena di tentare quello che a prima vista potrebbe sembrare impossile: la strada della petizione internazionale. Ed eccomi qui.

Cosa aggiungere ancora?
Che la petizione si può sottoscrivere qui:
www.ipetitions.com/petition/coin4alanturing/. Che sul blog Grammi di Storia (http://grammidistoria.wordpress.com) potete saperne di più. E che tra gli altri ha aderito S. Barry Cooper, Dipartimento di Matematica Pura dell’Università di Leeds, che presiede il Turing Centenary Advisory Committee, il comitato che cura la gestione degli eventi per il centenario di Alan Turing (www.turingcentenary.eu/).

Buona partecipazione.

Tecnologie dit un monde

Metti una sera a luglio. Una di quelle che per tutta il giorno hai lavorato con l’umidità al posto della pelle ma sei contento perché il treno ad alta velocità è stato degno del suo nome, del costo del biglietto o dell’abbonamento no, perché per quello ci vorrebbero carrozze e bagni puliti, aria condizionata sempre funzionante e tante altre cose ancora.

Arrivi a casa, spalanchi le finestre che se avessi le forze e un piccone butteresti giù anche le pareti, sul terrazzo di fianco la bellissima Irene – calmi calmi belli, è mia nipote -, e un pò di suoi amici suonano, chiacchierano e cantano, tu fai le cose che devi fare, poi decidi che non ti basta ancora e riavii il Mac della serie “fammi vedere su Facebook che si dice”. Detto che se l’ultima volta che ci sei passato non ti sei ricordato di “nasconderti” non fai neanche in tempo a dire A che c’è qualcuno che ti acchiappa, aggiungo che nell’occasione a vincere il premio è il mio amico Francesco Caruso. Educato e gentile, mi chiede tre volte se può disturbarmi. Certo – gli scrivo -, e lui va. Appena lui arriva alla parola università io gli propongo di spostarci su Skype. Sarà l’età, ma non ce la faccio a discutere di cose serie in chat, tic-tac-tic, tac tic tac. Parlarsi su Skype è un’altra cosa, meglio del telefono, non costa e lo vedo anche sul grande schermo del Mac.

Mentre parliamo, con la coda dell’occhio – a Napoli è obbligatorio imparare a “friggere il pesce tenendo d’occhio la gatta” -, vedo una gentile manina che dal terrazzo si agita in segno di saluto. Non vedo chi è, loro sono in penombra io ho la luce accesa, ma avverto il pericolo. Dico a Francesco di attendere, mi alzo, mi affaccio alla finestra, riconosco Carla Rovai, ricambio il saluto, spiego che il mio livello di impazzimento non è ancora giunto al punto da farmi parlare con il Mac, che dall’altra parte c’è Francesco, che sono ancora una persona normale. Carla, Irene e i loro due amici scoppiano a ridere, mi rassicurano, ritorno a parlare con Francesco che ha sentito tutto e se la sta ridendo con la moglie Viviana.

Finito di ridere direi due cose: 1. le tecnologie riarredono il mondo nel quale viviamo, cambiano le nostre abitudini, ci costringono a dare nuovi nomi alle cose, a ridefinire ciò che per noi vale e ciò che invece no; 2. va bene non farsi prendere dalla sindrome di Proust, crisi di ansia e attacchi di panico ad ogni cambiamento, ma forse qualche riflessione in più anche tra noi comuni mortali su come stanno cambiando le nostre vite, su cosa stiamo perdendo e cosa stiamo conquistando al tempo di internet non farebbe male. O no? Buone vacanze.

Tra lavoro e ricchezza non c’è proporzione

Va bene, lo ammetto, la questione è grande e vecchia quanto il mondo, come testimonia questo passo tratto dal Tao Te Ching, l’antico testo di saggezza cinese: “A corte ci sono troppe sale e scalinate, ma nei campi ci sono troppe erbacce, i granai sono troppo vuoti, ma i nobili indossano abiti eleganti e sete multicolori, portano alla cintura spade affilate, sono sazi di bevande e di cibi e possiedono ricchezza e denaro in misura traboccante. Questa è arroganza di ladri: non è il Dao davvero”. E per evitare che qualcuno pensi che si tratta di un colpo di fortuna, della classica noce che da sola nel sacco non fa rumore, aggiungo che secondo un sondaggio realizzato dalla BBC in occasione delle elezioni del maggio 2005 in Gran Bretagna, il 60 per cento degli elettori considerava il look il requisito principale dei candidati. E che tutto questo, inteso come modello sociale che considera la ricchezza come il fondamentale se non unico simbolo di riuscita sta raggiungendo nel nostro Paese livelli particolarmente insopportabili.

In un Paese in cui chi indovina il numero di fagioli o di lenticchie contenuti in un vasetto, sceglie il pacco giusto e riuscire a difenderlo fino alla fine, chi è ricco, in forma, senza una ruga, è considerato “per questo” una persona di successo più di chi di studia o lavora, come direbbe Eduardo, non c’è proporzione.

Sì, in Italia tra lavoro e ricchezza non c’è proporzione. Basta leggere i principali settimanali e tabloid, guardare alcuni dei format televisivi di maggiore ascolto, ricordare che uno scienzato come Renato Dulbecco è noto più perché ha presentato Sanremo con Fabio Fazio che perché ha vinto il premio Nobel ed ha “allevato” nei suoi laboratori altri 4 premi Nobel.

Dite che è il prezzo inevitabile da pagare alla società dello spettacolo? Rispondo niente affatto. E aggiungo che una società meno ingiusta e più inclusiva non può fare a meno di assegnare al lavoro un punteggio elevato non solo dal versante del salario, della professionalità, dell’orario, ma anche da quello della dignità, del prestigio, della considerazione sociale di cui gode chi lavora, indipendentemente dalle mansioni che svolge e dal modello di automobile che può permettersi. Perché il lavoro non è una sorta di condanna senza valore, della quale, se solo si potesse, si farebbe volentieri a meno. Strano ma vero: il lavoro vale in quanto tale, in quanto tale permette di avere consapevolezza di sé e senso di autorealizzazione, è la vera ricchezza di una nazione. Paesi come gli Stati Uniti, il Giappone, la Cina, la Germania, con le loro mille contraddizioni, lo hanno o lo stanno imparando. E noi?

Il fabbricante di ombrelli

Per il filosofo Francois Jullien la Cina è la sola possibilità di “prendere le distanze dal pensiero da cui proveniamo, […] di interrogarlo nelle sue evidenze, in ciò che costituisce il suo impensato”. Per il giovane Davide, scuola, volley, diciottanni e un sogno a un palmo di naso, è “una moltitudine di persone – formica con poca voglia di integrazione e tanta capacità di occupare ogni spazio disponibile”. Per Pietro D., il protagonista della nostra storia, padre e marito di giorno, studente di quinta liceo la sera, è un pezzo di memoria, un ricordo della vita da artigiano in quella bottega dove la sola traccia di “modernità” era un trapano verticale, realizzato da un vecchio torniere, che girava tramite la cinghia di un motorino attaccata da un lato al trapano e dall’altro al motore di una lavatrice, il tutto bloccato su un banco in legno che aveva più di 200 anni. Gli attrezzi necessari alla rifinitura? Tutti costruiti a mano e riposti nel cassetto di un banchetto, anch’esso senza età, insieme a balene (le stecche di ombrello), pezzi di legno, cacciaviti, pinze, tronchesi, martelli piccoli e grandi. Lo sgabellino dove ci si sedeva? Un reperto “storico”, sottratto ai tedeschi negli anni dell’occupazione. In tutto erano in tre, compreso il titolare, e realizzavano, rigorosamente a mano, ombrelli costruiti su legni pregiati interi (Ginestra, Malacca, Ciliegio, Corniolo, Olmo, Castagno, Frassino, Nocciolo, Bamboo), con la punta finale in corno di bue, utilizzando insegnamenti, modi, strumenti, tecniche, tramandati da padre in figlio.
I clienti? Tutti quelli che, potendoselo permettere, avevano fatto dell’eleganza il proprio stile di vita. Cinesi compresi. Perché, sottolinea Pietro, anche se i cinesi ricchi sono “pochi”, qualche decina di milioni, sono così tanto ricchi da poter cercare in ogni prodotto qualità e particolarità. Poi racconta senza fatica dell’arrivo in bottega dei clienti cinesi, della scelta accurata dei tessuti e dei legni, delle fotografie a ciascun ombrello,  tessuto, legno, così da poter controllare, all’arrivo in Cina, l’esatta corrispondenza con quanto ordinato. 120 euro più i costi di spedizione il prezzo di ogni ombrello, che ai ricchi cinesi costa tra i 250 e i 300 euro.
La storia di Pietro pare voglia dirci che “poco” e “molto” sono avverbi quanto mai indefiniti quando si riferiscono alla Cina. E che chi ha più idee, prodotti, servizi e sistemi di qualità ha più possibilità di collocarli sui mercati mondiali, Cina compresa. Dite che dobbiamo preoccuparci?

Acqaiuolo, l’acqua è fresca? Manco ‘a neve

La rivoluzione non è un pranzo di gala neppure quando è digitale. Si può emergere e stare dalla parte dei vincenti. Ma ci si può anche ritrovare emarginati, esclusi, iscritti a forza nel club sempre affollato degli svantaggiati.

Contano le opportunità. L’esperienza. Il genio. Il caso. L’intuito. Quello che ad esempio anche al tempo dei nuovi media non ti fa perdere di vista l’importanza della selezione e della completezza delle fonti. Non solo perché una società può dirsi a giusta ragione pluralista proprio se e in quanto può disporre di visioni e punti di vista alternativi. O perché oggi più che mai il potere di informare si interseca saldamente con il potere di formare. Ma perché se si sottovaluta questo aspetto si finisce come i troppi investitori che per decidere quali titoli comprare si sono accontentati delle indicazioni delle società di rating che per fare le loro costose analisi vengono pagate dalle emittenti titoli che pagano più volentieri le società di rating che considerano i loro titoli ottimi invece che quelle che li giudicano medio o bassi.

Per sottolineare che una domanda veniva fatta ad un interlocutore interessato e dunque non attendibile a Napoli da ragazzi si usava dire “Acquaiuolo, l’acqua è fresca? Manco ’a neve”. Oggi si potrebbe definirla anche una sorta di antesignana definizione di una malattia sempre più diffusa, il conflitto di interessi.

Dite che è ora di accorgersi che tutto il mondo è paese? Niente affatto. Perché nei paesi normali quando ci si accorge di essere malati non si discetta di né di persecuzioni né di investiture popolari. Semplicemente ci si cura. Scusate se è poco.

Un’agorà nel cuore di Napoli

“Qui non c’è opinione pubblica. E allora poco importa che questo quartiere rimanga imbalsamato. L’essenziale è che rimanga una sacca di voti eccezionale, una volta per l’uno, un’altra volta per l’altro candidato. Qui ci sono i deboli, e nella realtà chiunque sia al potere, di questi deboli non si ricorda più”.

Sono passati 5 anni da quando don Antonio Loffredo, parroco del Rione Sanità, mi ha detto queste parole. In cinque anni sono successe tante cose. Per lui, ma di questo a don Antonio non piace che si parli, e per il quartiere. Ad esempio nell’ottobre 2005 è nata l’associazione Onlus “L’Altra Napoli”, creata da “un gruppo di napoletani dentro, residenti e non, che condivide l’amore per la propria città natale, un forte sentimento di riscossa e la voglia di rimboccarsi le maniche”; perchè “Napoli è una città che sa dare tanto, tutto, e quando chiede aiuto non può essere abbandonata al suo destino”; perché “di questa città sul golfo potremmo lavarcene le mani, ma ci resterebbe sopra il sale”. Due anni fa il progetto “Rione Sanità ieri oggi e domani”. A settembre di quest’anno il tour “Miglio Sacro”, dalla Basilica di San Gennaro extra moenia alla chiesa di Santa Maria alla Sanità, fino alle catacombe di San Gaudioso, un percorso nella cultura per riscoprire tesori e umanità fuori dal comune.

La morale della storia? Occorre dare valore all’agorà greca, arrestare la sua privatizzazione e spoliticizzazione. È importante riprendere il discorso sul bene comune. Non rinunciare a costruire pubbliche opinioni che adottano propri criteri autonomi di giudizio intorno a ciò che è giusto e ciò che vale nell’ambito dello spazio pubblico.

Sembra facile, in particolare nell’era digitale, dove per certi versi è più difficoltoso definire il luogo dove le forze in campo si confrontano, dove avviene lo scontro politico, e dove si fa più fatica ad identificare chi sono i dominanti e chi i dominati, dove sono, in altre parole, i veri centri di gestione del potere.

La presenza delle spine non deve però farci scordare della rosa.

Alla presentazione del Miglio Sacro don Antonio Loffredo ha detto, riferendosi alla Sanità, che “questo quartiere ha fretta, questi ragazzi hanno fretta”. Fretta di liberarsi dai luoghi comuni. Fretta di formare una loro pubblica opinione. Fretta di farla contare. Fretta di comunicarla al mondo. E questo al tempo dei nuovi media è sicuramente molto più facile.

B come Benni. No, come Bugia

Sono trascorsi undici anni, sembra tre vite fa, da quando assieme al mio amico Mimmo abbiamo chiacchierato con Stefano Benni di pescatori, bugie, immaginazione. Quelli che potete leggere di seguito sono alcuni passi scelti. L’edizione integrale la trovate qui.

“I pescatori sono dei bugiardi architettonici, hanno tutta una struttura della bugia. Ho coniato apposta per loro questa famosa legge del coefficiente di retrodilatazione del pesce narrato: quando un racconto comincia il pesce è due metri, ogni minuto che passa il pesce si restringe di qualche centimetro e alla fine si ottiene un pesce di un metro. A questo punto si divide per due e quella è la reale lunghezza del pesce. È una metafora dell’immaginazione.
“Nell’immaginazione ci sono due mostri. Uno è l’Aleph. Ognuno partecipa all’immaginazione di tutti, legge libri che altri hanno scritto, ed è bellissimo poter partecipare a dei sogni che appartengono a tutti. Poi c’è l’unicità, che non è separatezza e che vuole dire che se io ti chiedo qual è il tuo Pinocchio, qual è la tua Alice nel Paese delle meraviglie, qual è il tuo Don Chisciotte, so che questo è diverso dal mio e che in quanto tale va rispettato.
“Non dobbiamo avere tutti, come fa credere la televisione, le stesse tre o quattro figure in testa. L’unicità della propria immaginazione è assolutamente un diritto dovere perché è qualcosa che ha che fare con la personalità, la capacità di scegliere, con l’autonomia come scelta culturale. E questo non coincide, tranne che in casi rari di snobismo, con una separatezza dagli altri. L’immaginazione o è nutrita dall’Aleph di tutti gli altri o si immiserisce.
“Sulla bugia mi piace ricordare un’altra cosa: gli unici che sembra non debbano dire bugie sono i bambini, e ciò la dice lunga sul fatto che la bugia è un fatto di autorità. I bambini non possono dire bugie, devono dire la verità! Poi, quando sei grande, Previti, Clinton [anno 1998, ndr …] più che bugiardo sei [considerato] furbo, astuto. Quando la bugia è “produttiva” in qualche modo è accettata: quello che ci spaventa nella bugia del bambino è l’idea che non ci dica la verità, che non riconosca la nostra autorità”.

Partecipare è giusto

Sulle strade della democrazia le scorciatoie davvero non esistono, in particolar modo quando le aspettative di futuro sembrano restringersi piuttosto che ampliarsi. Sta di fatto che mai come in questa fase l’esercizio della cittadinanza richiede responsabilità, impegno, continuità, coerenza, rispetto per le regole. Al tempo della modernità liquida non basta essere cittadini in sé, ma bisogna essere, sentirsi, diventare, cittadini per sé, possedere cioè una concezione e una consapevolezza alta dei diritti e dei doveri della cittadinanza. Proprio così. Se, come sostiene Bauman, “un punto possibile di approdo può essere quello di tornare a dare valore all’agorà greca, arrestando la sua privatizzazione e spoliticizzazione e riprendendo il discorso sul bene comune”, un primo passo nella direzione giusta è quello che, con il sostegno delle nostre parole e delle nostre azioni, ci consente un esercizio di responsabilità. E ciò suggerisce probabilmente qualcosa di importante circa la necessità di rendere ragionevole, percorribile, interessante, motivante, conveniente, la scelta di partecipare.
Fare le cose per bene perché è così che si fa; non tirarsi indietro; rinunciare ad ogni alibi o giustificazione di carattere culturale, economico, sociale; rispettare sempre e comunque, a prescindere, le regole: non è più solo una questione di sensibilità, di solidarietà, di civiltà, è una questione di razionalità, di convenienza, di interesse.
L’interesse del fornaio di Smith, che ci permette di trovare il pane caldo ogni mattina.
L’interesse dell’Ulisse Shakespeariano consapevole che “nessuno è padrone di nessuna cosa, per quanta consistenza sia in lui o per mezzo di lui, finché delle sue doti non faccia partecipi gli altri, né può da sé farsene alcuna idea, finché non le veda riflesse nell’applauso che le propaga”. L’interesse di chi non intende fare a meno dello streben, l’agire e tendere alla meta, che consente a Faust di salvarsi. L’interesse a ripristinare il dialogo, nel senso che abbiamo ereditto da Hans George Gadamer, per il quale “dialogare significa varcare una distanza, riconoscere l’altro nella sua irriducibile alterità per incontrarlo e comprenderlo”. L’interesse a farlo qui, nella ricca fetta di mondo nella quale viviamo. Ora, mentre fuori dalle nostre finestre le cose del mondo ci appaiono sempre più interdipendenti e globali.

Face Brolo Book

Fine aprile 2009. Sera. Cerco di sapere qualcosa di più su Brolo, il comune dove sono stato chiamato a partecipare, per conto della Fondazione Giuseppe Di Vittorio, all’iniziativa, promossa dal Sindaco Salvo Messina e dal consiglio comunale con la partecipazione attiva del sindacato, “1° Maggio 2009. Una festa tanto attesa”.
In casi come questi Wikipedia si rivela più utile che mai. La pagina dedicata a Brolo comincia così: “Brolo (Brolu in siciliano) è un comune di 5.646 abitanti della provincia di Messina”. Ed è così che il piccolo comune siciliano entra ufficialmente a far parte della mia geografia.
Perché vi racconto tutto questo?
Perchè quello di Brolo è stato un 1° Maggio particolare.  L’occasione da un lato per ricordare e per così dire “riabilitare”, con tanto di “revisione” degli atti processuali e di consegna agli eredi di pergamena, i quindici operai che nel 1921 vennero ingiustamente condannati per la loro partecipazione allo sciopero contro il licenziamento di un giovane operaio, finito tragicamente con l’uccisione di una bambina di 10 anni, Angela Barà; dall’altro per connettere l’importanza del lavoro, il suo valore, in una giornata emblematica come il 1 Maggio, ad un atto di riappropriazione collettiva di un pezzo della propria memoria e della propria storia.
Questione di identità. Di valorizzazione di quella risorsa preziosa che ci permette di sapere chi siamo. Questione di cerchie di condivisione. Di valorizzazione dei contesti nei quali ci riconosciamo con altri e ci sentiamo in buona compagnia.
Identità e condivisione che emergono forte dalla discussione, dalla demo di un possibile film di Italo Zeus, dalla bellissima poesia  in siciliano che il consigliere Enzo Avena ha scritto per ricordare quei fatti.
L’aspetto ancora più interessante è che per Brolo tutto questo non è un episodio ma fa parte di un progetto politico che punta molto sul rapporto tra memoria e futuro.
Nasce così l’idea di istituire una Biblioteca Multimediale, diretta in primo luogo ai più giovani, e di intitolarla a Rita Adria. Nasce da qui il progetto “Io Ci Sono”, che a partire dall’11 maggio intende “fermare” in una grande istantanea tutti le facce e dunque le storie dei brolesi residenti e di pubblicare poi le foto in un libro che il Sindaco Messina ha voluto definire la prima grande novità editoriale del 2010.
Brolo. Dove facebook diventa realtà.

Fermate il tempo, voglio scendere

Ebbene sì. Il tempo inafferrabile, che è la misura di tutte le cose, che tutto toglie e tutto dà, non è stato e non è sempre lo stesso tempo né dal punto di vista scientifico, né da quello filosofico, né, tanto meno, da quello sociale.

Basta pensare ad Albert Einstein e alle sue teorie della relatività ristretta e della relatività generale per rendersene conto. O anche ai 40 anni e poco più trascorsi da quando, era il 1967, nel corso della tredicesima Conferenza Generale dei Pesi e delle Misure, si è convenuto che un secondo è un intervallo di tempo che contiene 9.192.631.770 periodi della radiazione corrispondente alla transizione tra i due livelli iperfini dello stato fondamentale dell’atomo di cesio 133. O ancora al fatto che il tempo dei romani non è lo stesso tempo di Benedetto da Norcia, quello dei contadini medioevali non è lo stesso dei lavoratori dell’industria tessile inglese del diciannovesimo secolo, così come quello scandito dall’alternarsi del giorno e della notte non è lo dell’orologio a molla da taschino e poi da polso.

Perché vi raccontiamo tutto questo? Perché produce effetti sulle nostre vite, in particolar modo in questa fase nella quale i cambiamenti sono più veloci e radicali e il modello sociale fondato sulla stabilità – dei valori, delle istituzioni, dei rapporti sociali e umani – vive una profonda crisi.

Viviamo il tempo dei senza tempo. In cui non basta fare presto. Bisogna essere veloci. A prescindere. Sempre di più. A ogni età.

Hai già 6 anni? La scuola e i compiti, tutti i giorni; sport, teatro o ballo, due o tre volte a settimana; l’appuntamento col dentista per registrare la macchinetta il mercoledì; il cinema o la festa di compleanno di qualche compagno di classe il sabato; la domenica col papà.

Correre, correre, correre ancora. Per andare dove?

In una bellissima storia di Dylan Dog, il fumetto culto delle generazioni post Tex Willer, l’indagatore dell’incubo si trova alle prese con una categoria molto speciale di morti viventi. Diversamente dai loro colleghi dei film dell’orrore, canonicamente assettati di vendetta e di sangue, gli inquilini del cimitero di Lowhill ritornano alla vita semplicemente perché intendono recuperare tempo, quello che non hanno speso bene nel corso della loro vita, impegnati come erano a correre avanti e indietro, giorno dopo giorno, come forsennati.

E se provassimo a scendere alla fermata prima?

Un Presidente chiamato cavallo

Ci vorranno poco più di 4 anni. Quelli necessari affinché gli abitanti di Proxima Centauri, la stella più vicina al Sole, da cui dista per l’appunto 4,2 anni luce, possano leggere, grazie ai lori potentissimi supercannocchiali atermici intelligenti, i commenti seguiti alla consultazione elettorale per l’elezione del Presidente dell’isola culla della civiltà nuragica (da Nuraghes, torri in pietra di forma tronco conica risalenti al II millennio a.C.).

Di certo non rimarranno sorpresi. Loro hanno un altro modo di valutare le cose e di misurare il tempo. E poi di quel curioso Paese a forma di stivale sanno praticamente tutto. A scuola i ragazzi ne studiano la storia e la cultura e i musei sono pieni di opere d’arte che riproducono fedelmente i capolavori di Leonardo, Michelangelo, Raffaello. Che ad un certo punto ci sia stato quel Gaio Giulio Cesare Germanico, come si chiamava, Caligola, sì, lui, il terzo imperatore di Roma, quello che tra le tante stravaganze pare avesse eletto Senatore un cavallo, in fondo cosa importa. Non è stato mica l’unico scellerato comparso sulla Terra. Anche a considerarne solo il pezzetto chiamato Europa che dire di Hitler e Stalin, tipacci che al confronto Caligola è quasi un’educanda.

Eppure c’è chi giura di averli visti corrucciati. A causa di quello strano ometto che imperversa nelle Tv dispensando ottimismo a piene mani anche nelle situazioni più improbabili. Non è particolarmente importante, né lo è il suo paese. Non è neanche particolarmente alto, nonostante una comprovata abilità con tacchi e scalini. Non è particolarmente giovane o bello, nonostante il disperato feeling con il lifting. Eppure piace. Vince. Convince. Dove arriva lui tutto diventa torbido. Indistinto. Si omogeinizza. Si confonde. L’opposizione? Sbiadisce. Si smacchia. Sparisce. Nonostante laser e supercannocchiali.

Facciamo un esempio? Nell’isola dei Nuraghes lo strano ometto è riuscito a far eleggere un Signor N. N come Nessuno. Senza che nessuno si sia scandalizzato. Anzi. In molti l’hanno considerata la prova provata della sua potenza.

A Proxima Centauri ancora non lo sanno. Ma hanno deciso di fare del 2010 l’anno di George Orwell. La Fattoria degli Animali al posto della Divina Commedia. 1984 invece del Don Chisciotte. Non è che ci siano pericoli. Ma è sempre meglio ricordare.

Lo straniero

“Con questa faccia da straniero sono soltanto un uomo vero anche se a voi non sembrerà”. Il verso è di Georges Moustaki. L’anno il 1969.  “Lo straniero” il titolo della canzone, traduzione niente affatto letterale di “Le Meteque”,  primo posto nella Hit parade italiana, oltre 500 mila copie vendute in Francia.

Quello che non tutti sanno è che l’idea della canzone nasce come risposta del cantautore greco naturalizzato francese a una signora che aveva la pessima abitudine di troncare le loro conversazioni, quando le opinioni di Georges non le piacevano, con un antipatico tendente al razzista “tais-toi, tu es un métèque” (taci tu, tu sei un meticcio).

Le ragioni per le quali vi raccontiamo tutto questo sono solo in parte evidenti. Evidente, anche solo a leggere le cronache, è che la banalità del male si annida dappertutto, va contrastata colpo su colpo; che lo straniero non deve avere necessariamente la pelle nera, gialla o rossa; che ci si può sentire stranieri anche vivendo da oltre 20 anni in una civilissima città del Centro Nord, come nel caso di un dirigente della locale Camera del Lavoro che in un bar del centro si è sentito dire, in risposta ad un parere espresso sul tema immigrati e sicurezza, “tu non puoi parlare perché sei del Sud”.

Meno evidente è l’idea che, aldilà dei nostri bisogni di semplificazione quotidiana, di segregazone, di differenziazione, occorrerà immaginarci come “immigrati spinti dal caso o dal destino su un territorio che non è il nostro, come stranieri in un luogo che non possiamo dominare perché non ci appartiene”, come scrive Richard Sennett nel prologo de “L’uomo artigiano” (Feltrinelli 2008), per cambiare l’approccio con le limitate risorse del mondo e migliorare il nostro futuro.

Ma forse si può andare ancora più là. Fino a incrociare Levinas e l’idea che “l’origine dell’esistenza etica è la faccia dell’altro, con la sua richiesta di risposta; l’altro diventa il mio prossimo precisamente attraverso il modo in cui la sua faccia mi chiama”.

Io, tu, lui, noi. Con queste facce da straniero.

Anno nuovo. Elogio del vecchio

Napoli. Non solo Forcella, i Quartieri Spagnoli, Secondigliano. Anche Bagnoli. Antignano al Vomero. I Calmaldoli. Se metti per una volta da parte i problemi, anche solo come augurio per il nuovo anno, e vai in cerca di facce e voci quotidiane, ti potrà capitare di incrociare la signora che si complimenta con la giovane mamma ’e rimpetto (di fronte) dicendole “guarda a stu criaturo, me pare nu viecchio”. Dite che Napoli è una città nel bene e nel male particolare? Vero. Ma nel caso specifico non pertinente. A Milano, a Roma o a Palermo cambierebbe il dialetto ma non la sostanza. E a Londra al mio amico Fabrizio chiedono How old is he quando vogliono sapere l’età del suo Luca. E lui, ormai londinese provetto, risponde He is five years old. Proprio così. È vecchio di cinque anni.

Non ci siamo abituati eppure è vero: non è affatto inevitabile usare il termine vecchio come sinonimo di decrepito, logoro, inutile, in disuso, prossimo alla fine. Vecchio è anche ciò che dura e per questo ha valore, come dimostra il nostro interesse a visitare vecchie città, a custodire vecchi volumi, ad ascoltare vecchi long playing che girano su vecchi giradischi che si pensava sconfitti per sempre dall’avvento dei compact disc. Da vecchi, come racconta Hillman (La forza del carattere, Adelphi), portiamo a compimento il nostro carattere e  realizziamo il nostro destino. Se ancora non basta è utile ricordare che vecchio non è necessariamente il contrario di nuovo e che ciò che è nuovo non è per ciò stesso bello, desiderabile, positivo né una promessa “a prescindere” di   esiti migliori di quelli precedenti. La frequenza con la quale vengono dati nomi nuovi a contenitori, concezioni e modi di fare politica in realtà assolutamente tradizionali suggerisce a questo proposito qualcosa di significativo. Ne aveva scritto Sartori un pò di anni fa mettendo in guardia dall’insorgente novitismo, dalla ricerca ossessiva del nuovo ad ogni costo.

Fermiamo il mondo voglio scendere? Niente affatto. Si tratta piuttosto di dare valore alle cose più che ai loro nomi. Di usare le parole nel modo giusto per dare più senso e significato alle nostre esistenze. Di vivere vite con più radici, più carattere, più relazioni e dunque più futuro.