Per chi oggi ha venti anni è difficile persino crederlo. Ma i nostri nonni dovevano fare per forza un nodo al fazzoletto quando avevano qualche incombenza, lavoro, appuntamento da non dimenticare. I post-it sarebbero stati “inventati” solo molti decenni dopo. Cazzuole, zappe, chiavi semplici e doppie, a becco, ad anello, combinate, a tubo, a bussola, regolabili, snodate, a stella erano d’uso assai più comune delle penne. E coloro che erano soliti scrivere su un pezzo di carta “non dimenticare di comprare il pane” erano decisamente una minoranza. Poi arrivò László József Bíró, che osservando la scia lasciata da un pallone che continuava la sua corsa dopo essere finito in una pozzanghera ebbe l’idea della penna che ha cambiato il rapporto tra scrittura e popolo. Solo nel 1943 László József riuscirà a brevettare la biro (tra i primi a denominarla in questo modo sarà il grande Italo Calvino), ma gli elevati costi di produzione porteranno lui e il fratello György, che si era occupato della giusta viscosità dell’inchiostro (questione poi risolta grazie a Andor Goy), a vendere il brevetto al barone francese Marcel Bich. Sarà lui ad abbattere i costi del 90%, a presentare, siamo ormai nel 1945, la nuova penna, a commercializzarla in tutto il mondo e a diventare ricchissimo.
Come spesso accade a coloro ai quali la storia riserva la parte dei buoni, László morì povero a Buenos Aires il 24 novembre 1985; in compenso ancora oggi il 29 settembre, giorno del suo compleanno, in Argentina si festeggia il giorno degli inventori.
La morale della storia? Con la seconda metà del secolo breve la penna entra stabilmente a far parte degli utensili di casa. Finchè arriva Altair 8800 e comincia l’era di sua pervasività il computer, dei telefoni portatili, dei dispositivi senza fili.
Un bip per ogni occasione. SMS, chiamata, videochiamata, mail, Facebook, Skype, Twitter. Cambiano i modi di comunicare e con essi cambiano i nostri modi di attribuire senso e significato, le nostre risposte alle domande circa chi siamo, ciò che c’è, ciò che vale. Questioni di senso. Alle quali dedicheremo la nostra attenzione dal prossimo Mese.
Archivi tag: Rubrica Serendipity
Il sogno di Obama. E di Crichton.
5 novembre 2008. Chicago. USA. A cantare Sweet home Chicago non sono mai stati così in tanti. Neanche al tempo dei Fleetwood Mac, di Eric Clapton, dei Blues Brothers. La festa coinvolge milioni di persone in tutto il mondo. Barack Obama è il nuovo presidente degli Stati Uniti. Le attese sono tante. In che misura saranno soddisfatte sarà il tempo a dirlo. Ma per intanto è tornata la storia con la esse maiuscola. Scusate se è poco.
5 novembre 2008. Los Angeles. USA. Muore all’età di 66 anni Michael Crichton. 150 milioni di libri venduti. Noto anche all’amico della porta affianco grazie soprattutto a Jurassic Park.
5 novembre 2008. Kobe. Giappone. Al Riken Center for Developmental Biology Teruhiko Wakayama dirige il Laboratory for Genomic Reprogramming e grazie alla pubblicazione su Pnas (Proceedings of the National Academy of the Usa) dei risultati dell’esperimento da lui diretto riesce nella non facile impresa di conquistare uno spazio sui media di tutto il mondo. Nel giorno di Obama e di Crichton.
Cosa hanno fatto di tanto importante Wakayama e il suo team? Hanno clonato un topo estraendo il dna da una cellula di topi morti e tenuti in un congelatore da 16 anni. Il passo successivo? Provare a preservare specie a rischio. O anche ri-creare specie estinte. Come ad esempio il mammuth. Impresa teoricamente possibile da quando un team di scienziati russi ha ritrovato, l’anno scorso, la carcassa di un mammuth da poco nato conservato per 40 mila anni dai ghiacci della regione artica di Yamalo-Nenetsk.
Naturalmente la strada da percorrere è ancora lunga e difficile. Ma difficile non vuol dire impossibile. Così come non è stato impossibile clonare un essere vivente partendo da cellule surgelate abbattendo il muro dei danni prodotti dal ghiaccio sul Dna.
E se domani gli scenari fantascientifici immaginati da Crichton diventassero realtà? Saranno maggiori i rischi o le opportunità? Saprà la comunità degli uomini gestire una tale rivoluzione? Difficile dirlo. Il mio amico Alessio pensa che un post-it ci salverà. C’è scritta una frase di Stieg Larsson: “Non esistono innocenti. Esistono solo diversi gradi di responsabilità”. Io non ne sono sicuro. Ma per intanto lo faccio girare.
Persone, processi e contesti
Sono le persone, o per meglio dire i processi che esse attivano con le loro idee, il loro talento, il loro lavoro, con la loro capacità di stabilire relazioni e creare network di qualità o è piuttosto la forza e la consistenza delle strutture nelle quali esse vivono, lavorano, studiano, si divertono a determinare il carattere, i successi e i fallimenti delle organizzazioni?
La risposta di Franco Nori, scienziato con oltre 500 pubblicazioni e oltre 5000 citazioni su riviste come Science, Nature, Physical Review Letters, Nature Materials, Nature Physics, che tra tante altre cose dirige il Digital Materials Laboratory (http://dml.riken.jp) al Riken, istituto di ricerca giapponese di fama mondiale, è decisa, per certi versi persino provocatoria.
Per quanto possa essere un genio straordinario, avere una mente eccezionale, per un ricercatore che vive in Zimbawe, Botswana, Namibia sarà difficile ai confini con l’impossibile che riesca a fare scoperte scientifiche che lasciano il segno.
Al contrario anche una persona mediamente intelligente, naturalmente preparata, che lavora in un laboratorio eccezionale, con molti dati, molti esperimenti, ha parecchie possibilità di vedere il dato anomalo, di fare la scoperta importante. Un laboratorio con queste caratteristiche genera un tsunami di dati e i processi di serendipity, le scoperte per genio e per caso, sono decisamente più probabili dove accadono molte cose, ci sono molti dati, si discutono molte idee, si inseguono molte teorie, si esplorano molte possibilità.
Non è un fatto di modestia o di umiltà, insiste. È che l’ambiente, le relazioni con i colleghi, la qualità della struttura, hanno un’incidenza enorme sulla possibilità di conseguire risultati in ambito scientifico.
Naturalmente, concede infine, il segreto sta nella combinazione dei due fattori: genio e impegno delle persone, ambiente – organizzazione fertile che permette al genio e all’impegno di germogliare, di esplorare possibilità, di scoprire vincoli, analogie e legami inediti fra fenomeni precedentemente non collegati fra loro.
E voi, cosa ne pensate?
Ulisse controluce
Chi si ricorda chi è Jerry Donohue scagli pure la prima pietra. A tutti gli altri diciamo noi che si tratta del giovane cristallografo americano che da a Watson e Crick la dritta giusta per arrivare per primi alla struttura a doppia elica del DNA. Sorpassando proprio sulla dirittura d’arrivo l’uomo che aveva condotto la maratona dal primo metro, Linus Pauling, lo scienziato che se la scienza, come la vita, fosse una faccenda lineare avrebbe sicuramente meritato di vincere.
Come potè il giovane Jerry riuscire nell’impresa? Osservando che la struttura della guanina (uno dei 4 componenti del DNA) così come era rappresentata sulla monografia di James N. Davidson utilizzata da Watson presentava un errore. E che invece quella giusta era quella basata sul lavoro di June Broomfield. Pochi giorni ancora e Watson e Crick poterono presentare al mondo il loro famoso modello.
Tutto questo ci da lo spunto per parlarvi dell’importanza dell’osservazione e delle immagini nella scienza. E dunque di Ulisse. Non l’intrepido, affabulatore, polimorfo, astuto, ingegnoso, ingannatore, amatore, vendicativo eroe che siamo soliti attribuire alla fantasia di Omero. Quello magari in una prossima occasione. Ma il portale della SISSA (Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati) (http://ulisse.sissa.it) dedicato all’informazione scientifica, alla ricerca, ai suoi protagonisti, nell’ambito del quale potete per l’appunto trovare Controluce, immagini per guardare, descrivere e pensare la scienza (http://ulisse.sissa.it/controluce/index_html), l’iniziativa curata da Ettore Parizon di Immaginario Scientifico di Trieste.
Di cosa si tratta è spiegato molto bene sul sito: “Controluce è una raccolta di immagini scientifiche provenienti dai laboratori di ricerca, scelte e descritte da Ulisse con un lavoro di confronto e di dialogo con gli scienziati che le hanno prodotte”.
Cosa aggiungere ancora? Che ciascuna sezione è suddivisa in tre aree: guardare vicino, dentro, lontano; descrivere oggetti, posti, cambi; pensare elementi, relazioni, spazi. Che il sito è facile da navigare, accurato, interessante e semplice nelle spiegazioni. Che le immagini sono davvero da non perdere.
Buona navigazione.
Elogio del dubbio. E della contraddizione
“Parleransi li omini di remotissimi paesi li uni a li altri e risponderansi”.
Forse, se se ne fosse accorto, Steve Jobs avrebbe utilizzato questa straordinaria profezia di Leonardo, contenuta nel Codice Atlantico, per lanciare il suo iPhone delle meraviglie. O forse no. Il profeta della Mac generation è persona colta e sa che in realtà Leonardo non parla del telefono ma “dello scriver lettere”. E che è piuttosto nei manoscritti dove, disegnando una catena di “citofoni” per trasmettere velocemente notizie, egli scrive: “In cento miglia cento case, nelle quali stia cento guardie, che faranno per sotterranei condotti sentire una novella in tre quarti d’ora”.
Di certo per genio e per curiosità Leonardo ha potuto e saputo vedere cose che noi umani ancora oggi facciamo fatica a immaginare.
Il segreto? Il dubbio, la contraddizione e anche il caso. Proprio così. La capacità di coltivare il dubbio e di non nascondere la contraddizione sono componenti essenziali del progresso scientifico.
Emblematico il caso del chimico torinese Amedeo Avogadro (1776-1856) che vide riconosciuto solo dopo la sua morte, nel congresso di Karlsruhe del 1860, grazie a Stanislao Cannizzaro (1826-1910), il valore delle sue scoperte circa la formazione delle molecole, osteggiate dal barone Jöns Jacob Berzelius, insigne chimico svedese (1779-1848), che non aveva dubbi sulla giustezza delle proprie teorie, in realtà sbagliate.
E che dire dello stesso Codice Atlantico che, come racconta Alessandro Vezzosi (Leonardo da Vinci, Electa Gallimard, 1996), avrebbero potuto portare un ben altro contributo all’evoluzione del sapere in generale e del rapporto tra arte e metodologia della scienza e arte e metodologia della tecnica,
se fossero stati conosciuti e pubblicati come auspicava Antonio De Beatis che, a margine di un incontro con il da Vinci alla corte del re di Francia, presso Amboise, nel 1517, annotò che Leonardo ha tre quadri bellissimi (uno era La Gioconda) e i suoi codici trattano di infinite cose e saranno utilissimi.
La morale della storia? La suggerisce Cartesio: “Il dubbio è l’inizio della sapienza”. Senza dubbio.
Tutta l’importanza del contesto
L’articolo è del marzo di quest’anno. È stato pubblicato su Materials Research Innovations. A firma di Rustum Roy, M. L. Rao e John Kanzius. E ha inteso in qualche modo mettere la parola fine alle polemiche seguite alla notizia, di qualche mese prima, che il cancerologo irlandese John Kanzius, mentre cercava di desalinizzare l’acqua del mare con l’ausilio di un generatore di frequenze radio a 13.56 MHz di sua invenzione (una sorta di forno a micro onde), ha visto l’acqua bruciare e sviluppare una fiammella con annesse temperature superiori a 3000° Farhenheit.
Come spesso accade sono stati in tanti ad invocare l’ennesimo trionfo della serendipity. E a schierarsi senza esitazione nel partito degli apocalittici. O in quello degli integrati. Da una parte quelli che “l’energia necessaria per attivare la reazione è superiore a quella prodotta dalla fiammella e dunque non c’è nessuna ragione di esaltarsi”. Dall’altra quelli che “la possibilità di usare l’acqua come combustibile ci libererà finalmente dalla tirannia dei signori del petrolio”.
Niente naturalmente di paragonabile alla ferocia che contrappose i Guelfi e i Ghibellini. O alla passione che separò le schiere di Coppi da quelle di Bartali. Ma la discussione c’è. E a tratti è davvero impegnativa.
Difficile dire come finirà. Ciò che è certo è che, differentemente da come viene da più parti presentata, la faccenda ha a che fare con serendipity non per la causalità della scoperta ma per il contesto che l’ha resa possibile.
È proprio Robert K. Merton a spiegarlo. Alla fine del suo libro. Citando l’articolo nel quale John Ziman sottolinea che “il punto chiave è che la serendipity non produce di per sè scoperte: produce opportunità per effettuare scoperte. Gli eventi accidentali non hanno alcun significato scentifico in sè: essi acquistano significato soltanto quando catturano l’attenzione di qualcuno in grado di collocarli in un contesto scientifico [quanto basta per gli esprits préparés di Pasteur]. Anche allora, la percezione di un’anomalia è sterile a meno che non possa essere fatto oggetto di una ricerca”.
Il che riporta alla questione degli ambienti sociocognitivi serendipitosi. All’importanza dei “luoghi” dove si fa ricerca. Al loro rapporto con l’attivazione e lo sviluppo di processi virtuosi “per genio e per caso”.
Questioni di conoscenza
Si chiama Chun Wei Choo. Ed ha scritto un bellissimo libro. Purtroppo non ancora tradotto in italiano. Il titolo è Knowing Organization (Oxford University Press, 2006). In questo modo l’autore definisce l’organizzazione nella quale le persone, singolarmente e in gruppo, usano le informazioni per raggiungere 3 risultati principali: 1. creare identità e contesti condivisi per l’azione e la riflessione; 2. acquisire nuova conoscenza e nuove capacitazioni (secondo Amartya Sen gli insiemi di combinazioni alternative di funzionamenti – stati di essere o di fare cui gli individui attribuiscono valore come ad esempio essere adeguatamente nutriti o non soffrire malattie evitabili – che una persona è in grado di realizzare); 3. prendere decisioni che impegnino risorse e capacità allo scopo di intraprendere azioni efficaci.
Cosa c’entra tutto questo con la serendipity ve lo diciamo subito. Ricordando innanzitutto che il grande Merton aveva insistito non poco, nella definizione della sua teoria, sul fatto che il caso favorisce particolarmente le menti preparate che operano in microambienti che agevolano le interazioni socio cognitive impreviste. Ed evidenziando poi le connessioni forti esistenti tra l’aspetto soggettivo (le menti preparate) e quello intersoggettivo (le interazioni socio cognitive) della faccenda. Questioni di conoscenza, insomma, di sapere e di saper fare. Che, come ci hanno spiegato Michael Authier e Pierre Lévy (Gli alberi di conoscenze: educazione e gestione dinamica delle competenze, Feltrinelli) non sono non solo un bene personale, ma anche un bene sociale che ha la peculiarità di poter essere scambiato senza essere perduto da chi lo dona. Anche per questo occorre investire su una migliore gestione dei saperi, sulla moltiplicazione degli approcci cognitivi, sulla costruzione di legami sociali fondati sugli scambi di conoscenza, sull’ascolto e sulla valorizzazione dei singoli, sulla promozione di una intelligenza collettiva in grado di riscoprire la vitalità dell’invenzione, del pensiero collettivo, della creatività.
Innovazione e sviluppo. Appunti di viaggio
Si chiama Philippe de Taxis du Poët. È a capo del settore ricerca ed innovazione della Delegazione della Commissione Europea in Giappone. E ci racconta tante cose interessanti. Come quelle che potete leggere di seguito.
Il principale gap in Europa è la mancanza di investimenti privati in ricerca rispetto al Giappone o agli USA. Il Giappone investe in scienza e tecnologia più del 3,6 del PIL (in Europa la media è del 2%, in Italia ancora meno). E per l’80% si tratta di finanziamenti privati (il 63% dall’industria).
E poi rispetto a 5 o 10 anni fa oggi è praticamente impossibile, persino per gli USA, essere competitivi a livello globale senza cooperazione internazionale.
Oggi in California, alle giovani start-up che cercano di essere finanziate dai venture capitalist, vengono fatte tre domande: “quale è il tuo business plan?”, “quale è il tuo management plan?”, “quale è il tuo piano in termini di collaborazioni internazionali?”. E anche qui in Giappone la sfida è riuscire ad avere una maggiore cooperazione internazionale, una maggiore flessibilità nel sistema.
Per questo non basta dire, come l’Europa ha fatto troppo spesso nel passato, noi siamo aperti, se c’è qualcuno nel mondo che è interessato venga pure. Sono necessari comportamenti proattivi. Per dire ad esempio al Giappone che possiamo fare le cose insieme ed avere una situazione cooperativa di tipo win win. Ognuno può vincere. Una cooperazione di questo tipo è possibile non solo in Europa ma in tutto il mondo.
Il sistema americano cerca di attrarre lì i cervelli migliori. Ma ciò è positivo per loro ma non per gli altri paesi. Perché c’è un vincitore, gli USA, e ci sono dei perdenti. Questo non è quello che stiamo cercando di fare noi europei. Il nostro è una sorta di “approccio sandwich” che mira a fare in modo, ad esempio, che gli scienziati italiani abbiano esperienze in Francia, in USA, in Giappone. E che quelli di questi paesi vengano anche in Italia. Vogliamo attrarre in Europa più studenti e ricercatori giapponesi. È la circolazione dei cervelli, che è cosa ben diversa dalla fuga o dallo spreco. Perché l’Europa non è solo un grande mercato ma anche una grande potenza scientifica.
Ritratto di Akira Tonomura
Edwin Cartlidge, sul numero di febbraio 2008 di Physics World, ha ricordato che è uno dei 5 fisici (due dei quali Premi Nobel) ad essere stato eletto membro della Japan Academy per i suoi studi sull’olografia degli elettroni e per essere riuscito a dimostrare la veridicità del controverso effetto Aharonov Bohm (quando un fascio o “beam” di particelle con carica elettrica, come gli elettroni, viene diviso in due ed i suoi componenti vengono diretti intorno ad un tubo di flusso magnetico, tali componenti acquisiscono “fasi quantistiche” differenti che possono essere investigate mediante delle interferenze).
Fabio Marchesoni, professore ordinario di Fisica all’Università di Camerino e membro di prestigiose istituzioni scientifiche di tutto il mondo, nella Laudatio per la Laurea magistralis honoris causa in Fisica conferitagli dalla sua Università, ha citato Paolo Coelho per sottolineare la sua capacità visionaria, la sua determinazione, il suo impegno al servizio dello sviluppo scientifico e tecnologico.
Di chi stiamo parlando?
Di Akira Tonomura, una vita alla Hitachi Ltd., Foreign Associate all’Accademia Nazionale delle Scienze negli USA, Direttore del Single Quantum Dynamics Research Group al RIKEN, Giappone, Visiting Professor alla Tokyo Denki University, Membro dello Japan Science Council.
Perché vi raccontiamo tutto questo?
Perché Akira Tonomura non è solo una mente geniale. Ma anche un eccellente team manager. Uomo di scienza. E uomo d’impresa. Con una innata, coltivata, capacità di tenere assieme talento scientifico e capacità di tradurre le teorie in tecnologie, le idee in brevetti, le intuizioni in soluzioni.
Perché ciò suggerisce qualcosa di probabilmente significativo intorno alla possibilità di stabilire relazioni virtuose tra Università e impresa, di impegnare risorse per coltivare il talento e favorire lo sviluppo scientifico e tecnologico.
E perché ci piacerebbe che le storie come quelle di Akira Tonomura fossero raccontate di più nelle università italiane. Magari dagli stessi protagonisti. Che di certo potrebbero insegnare molto. Anche solo raccontando loro stessi.
Non c’è caso che vale se manca il genio
Serendipity è un termine sempre più utilizzato per definire, più o meno a proposito, tante cose diverse. Un esempio divenuto celebre al punto da essere inserito nella top ten delle scoperte serendipitose è quello del ghiacciolo. Si, proprio lui, il gelato con lo stecco per antonomasia, che una gelida mattina del 1905 l’undicenne Frank Epperson si ritrova fuori dalla porta proprio là dove la sera prima aveva lasciato una limonata in un contenitore di plastica con annesso indispensabile stecco. Frank lo chiama Epsicle (contrazione non necessariamente brillante di Epperson e icicle) e si tiene la sua scoperta per sé e i suoi compagni di scuola. 18 anni dopo, siamo ormai nel 1923, il fortunato Frank brevetta Popsicle (nome forse suggerito dai figli), il “gelato ghiacciato con uno stecco” e nel 1925 ne cede i diritti alla Joe Lowe Company di New York.
Detto che ogni anno continuano ad essere venduti più di 3 milioni di Popsicle (che nel frattempo è diventato un marchio Good Humor, a sua volta controllata da Unilever) c’è da aggiungere che nel mondo della ricerca scientifica, quella vera, dove pure gli “accidenti” serendipitosi, dalla mela di Newton alla muffa di Fleming, hanno avuto un ruolo importante, le cose non funzionano esattamente come nel mondo dei gelati, con o senza lo stecco.
La ragione? Presto detta. Nel mondo della ricerca il caso cerca, agisce, favorisce il genio. Detto con parole più appropriate, è la presenza di menti preparate che operano in ambienti socio cognitivi serendipitosi a determinare l’attivazione di processi virtuosi “per genio e per caso”.
C’è bisogno insomma di intelligenza. Creatività. Spirito di iniziativa. Capacità di innovare. Capacità di organizzare. Assieme agli scienziati e alle loro idee sono infatti molto importanti le strutture e i processi organizzativi che essi hanno alle spalle. È fondamentale la “cornice” che fa da sfondo al loro lavoro. Che li sostiene nei loro sforzi tesi ad attivare senso. A intuire scenari. A costruire opportunità. Per genio prima di tutto. E poi anche per caso.
Per genio e per plagio
Friedrich August Kekulé von Stradonitz (1829 – 1896) è stato un personaggio singolare da molti punti di vista.
Si iscrive all’Università come aspirante architetto e la lascia come chimico. Passa alla storia per la sua definizione della struttura esagonale del benzene, per la scoperta delle catene e dei cicli di carbonio formati da atomi di carbonio legati tra loro su base quattro. È con lui che la chimica organica diventa insomma quella che oggi, non sempre con il necessario entusiasmo, conosciamo.
Proprio alla struttura del benzene è legato l’aspetto più curioso della storia.
Il geniale chimico non volle infatti mai raccontare come era arrivato alla sua scoperta, che cosa lo aveva indirizzato nella sua ricerca, quale metodo aveva seguito e solo 25 anni dopo si deciderà finalmente a svelare il mistero: addormentatosi accanto al fuoco gli era venuto in sogno Ourobouros, che secondo i trattati alchimistici è il cerchio magico formato dal serpente che, unendo la testa alla coda, preserva i corpi dalla decomposizione ed esalta la circolarità del rapporto tra la vita e la morte; una notte di lavoro servì a colmare lo spazio tra il serpente e la struttura ciclica esagonale del benzene.
La leggenda si è tramandata per quasi 100 anni, fino a quando, nel 1984, i biochimici John Wotiz e Susanna Rudofsky hanno rinvenuto negli archivi di Kekulé una lettera del 1854 nella quale si citava un saggio del chimico francese A. Laurent. Trovato il saggio, scoperto il plagio: a pagina 408 il chimico francese proponeva per il cloruro di benzoile una formula di struttura esagonale.
Cosa aggiungere ancora? Due cose.
La prima. Anche i grandi scenziati, Kekulè certamente lo era, sono esseri umani. Dicono bugie. Non sanno resistere al fascino indiscreto del successo, ma sanno essere prudenti (il chimico tedesco aspettò diversi anni prima di divulgare la sua “scoperta”);
La seconda. Di tutto questo e di molto altro ancora potete leggere in Le bugie della scienza, di Federico Di Trocchio, Mondadori (1993).
Ritratto di Robert K. Merton
Sfacciata impudenza, sfrontatezza, faccia tosta. Questi alcuni significati di chutzpah, parola yiddish definita come “quella particolare qualità racchiusa in un uomo che, avendo ucciso sua madre e suo padre, si appella alla clemenza della corte perché è orfano”.
Chutzpah fa parte della classe dei prestiti linguistici, parole che per varie ragioni vengono adottate in diverse lingue. Come il francese Esprit de l’escalier (osservazione arguta che viene in mente troppo tardi per essere utilizzata). O come il tedesco Schadenfreude (gioia maligna originata dalle disgrazie altrui).
È Robert K. Merton a raccontarlo. Proprio lui. Il padre della Serendipity. E di molto altro ancora.
È lui a indicare, con le sue teorie di medio raggio, un possibile punto di equilibrio tra l’astrattezza della teoria che tutto comprende e i limiti dell’empirismo fine a se stesso. A concettualizzare la differenza tra funzione manifesta, conseguenza visibile e attesa di un comportamento sociale, e funzione latente, conseguenza non prevista e non voluta (gli indiani Hopi danzano non solo per invocare la pioggia ma anche per cementare la coesione della tribù). A evidenziare le distorsioni nell’agire sociale determinate dallo scarto esistente tra la propria situazione e quella del contesto al quale si guarda (società, sistema culturale, gruppo, etc.). A dimostrare che in contesti sociali nei quali coloro che non «riescono» si scoprono «segnati» da questa loro supposta incapacità di ottenere successo, il comportamento deviante finisce col rappresentare una modificazione dei mezzi per raggiungere gli stessi fini propagandati dalla società. A definire la relazione tra numero di individui che prevedono un fatto sociale e si comportano di conseguenza e possibilità che quel fatto sociale si realizzi adempiendo alla profezia (profezia che si auto avvera). A rielaborare il concetto di Anomia.
Che dire ancora? Che l’uomo della serendipity è stato anche un signore colto, mite, gentile. Di quelli che non ce ne sarebbero mai abbastanza e che invece ce ne sono sempre meno.
Luci nei misteri bui dell’universo
Koichi Itagaki. Cacciatore di supernove. Ha osservato l’esplosione che, a circa 78 milioni di anni luce dalla terra (un anno luce misura poco meno di diecimila miliardi di chilometri, circa 63241 volte la distanza fra la Terra ed il Sole), ha dato origine alla Supernova SN2006jc (una supernova è un’esplosione stellare che determina la formazione di una nuova stella nella sfera celeste; ha una luminosità un miliardo di volte superiore a quella del Sole e una potenza in grado di carbonizzare qualunque pianeta orbitante nei paraggi; è all’origine della formazione di cobalto, uranio, nichel, piombo, iodio, tungsteno, oro e argento nell’universo; data, grandezza, posizione, tipo di supernove scoperte a partire dal 1885 su http://cfa-www.harvard.edu/iau/lists/Supernovae.html). Come ogni scoperta, anche quella di Koichi Itagaki ha prodotto nuove domande: si è trattato di un caso? Era l’annuncio, ancora non previsto da alcuna teoria astrofisica, della fine del processo evolutivo delle stelle di grande massa? Tra coloro che hanno cercato risposte i “nostri” Andrea Pastorella e Massimo Turatto. Il primo, dopo il dottorato all’Università di Padova, lavora all’Università di Belfast e ha coordinato l’equipe internazionale di scienziati (tra i quali Turatto) che ha verificato che il lampo del 2004 è stato emesso dallo stesso corpo celeste che ha generato SN2006jc: una stella supermassiccia (60-100 volte la massa del Sole) giunta nella fase finale della sua evoluzione con un’atmosfera priva di idrogeno. Il secondo continua fortunatamente a impiegare il suo genio in Italia, all’ Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF). A giugno i risultati della ricerca sono stati pubblicati su Nature. L’idea, come ha dichiarato Turatto, è “che si possa essere di fronte ad una nuova categoria di oggetti celesti in grado di fornirci indicazioni per migliorare le attuali teorie sulle fasi finali dell’evoluzione delle stelle di grande massa”. L’auspicio è che nella corsa alla scoperta dei misteri dell’universo le nostre strutture di ricerca, e non solo i nostri cervelli, possano avere un ruolo sempre più importante.
La fabbrica dell’impossibile
179 scienziati che vi lavorano attivamente. 12 aree di ricerca attive, dai robot umano interattivi alle nanoscienze (studio di “oggetti” di dimensioni inferiori alla molecola che non seguono le leggi di Newton ma quelle della fisica quantistica). Fino all’infinito e oltre.
Di cosa stiamo parlando?
Del Frontier Research System, una sorta di avamposto estremo dei numerosi istituti di ricerca che compongono RIKEN (oltre 3.000 gli scienziati direttamente impegnati nelle diverse attività; quasi 2.550 gli scienziati a contratto; quasi 1200 gli studenti impegnati nelle attività di tirocinio; un budget per il 2007 di circa 90mila milioni di yen (550 milioni di euro).
Ma cosa vuol dire essere avamposto di un contesto nel quale operano, tra gli altri, soggetti come il RIKEN Brian Science Institute, il RIKEN Genomic Science Center, il RIKEN Discovery Research Institute, il Nishina Center for Accelerator Based Science? Dove gli scienziati sono abituati a creare campi di ricerca con le loro proposte? A “inventare” occasioni per poi afferrarle?
Vuol dire che diversamente dagli altri settori di ricerca, dove ad essere finanziati sono progetti che si muovono in direzioni in larga parte prestabilite e ci si aspetta diano i risultati attesi, al Frontier Research System la ricerca è davvero ad alto rischio, dato che sono molto alte le probabilità che non ci siano risultati, o che i risultati non siano quelli sperati.
Cose da (scienziati) pazzi? Assolutamente no.
Non solo perché quando il risultato c’è è di quelli che assicurano un vantaggio cognitivo – competitivo di grande importanza. Ma perché l’imprevedibilità ha molte facce. E le scoperte che avvengono per genio e per caso sono spesso di quelle destinate a lasciare un segno importante nel grande libro della storia.
Il senso del Frontier Research System è tutto qui. Nel suo essere un avamposto verso il futuro. Una geniale, straordinaria “fabbrica” di serendipity.
Elementare Watson!
Niente paura. Non abbiamo deciso di abbandonare la serendipity per passare al giallo. E il Watson della nostra storia non è l’alter ego di Sherlock Holmes reso immortale dalla penna di sir Arthur Conan Doyle.
È James D. Watson. Forse meno noto. Probabilmente più importante. Dato che a lui, e a Francis Crick, si deve la scoperta della struttura del DNA e la soluzione di uno dei più affascinanti misteri della scienza e della vita: in che modo le informazioni ereditarie si conservano e si trasmettono.
Perché ve ne parliamo?
Perché la vita di James D. Watson è, come quella di molti scienziati, assai ricca di avvenimenti serendipitosi, come si può verificare leggendo il suo straordinario libro di memorie (DNA, Il segreto della vita, Adelphi, € 18). Perché più d’uno di tali avvenimenti si interseca con il nostro Paese e con la sua genialità, che è tanta e ci piace ricordarla. E perché almeno uno di essi permette di aggiungere un ulteriore tassello a una storia, quella della fuga e dello spreco dei cervelli italiani, che pensiamo sia utile continuare a raccontare.
L’avvenimento in questione è quello che porta Watson a “scartare” Herman J. Muller, che nel 1946 aveva ricevuto il premio Nobel per i suoi studi sulla capacità mutagena dei raggi X, e a scegliere, per la sua tesi di dottorato, Salvador Luria, nato e cresciuto a Torino, che il premio Nobel lo vincerà “solo” nel 1969 per le scoperte fatte, con Delbrück e Hershey, sui meccanismi di mutazione e riproduzione del DNA. E ci dà l’occasione per ricordare che nel frattempo, proprio nell’anno in cui Watson arriva all’Indiana University, il 1947, Luria diventa cittadino americano.
Rewind: Salvador Luria nasce e si forma a Torino, dove ha come maestro e mentore Giuseppe Levi; si trasferisce negli USA; diventa maestro e mentore degli studenti statunitensi di Bloomington e del MIT.
Una possibile morale della storia: l’Italia investe per formare Luria e gli Stati Uniti raccolgono i frutti di tale investimento.
Elementare Watson.
Marcello Musto: un marxiano a Berlino
Redatti tra l’autunno del 1857 e la primavera del 1858. Nel pieno della crisi economica internazionale. Con la speranza di una ripresa del movimento rivoluzionario dopo la sconfitta del 1848.
Otto quaderni rimasti ignoti anche a Engels. Che costituisco la prima stesura della critica dell’economia politica, il primo lavoro preparatorio de Il capitale. Che vengono dati alle stampe a Mosca tra il 1939 e il 1941 ma rimangono pressoché sconosciuti fino al 1953, anno della pubblicazione a Berlino. Che nel 1968 vengono tradotti per la prima volta in Italia.
Di cosa stiamo parlando?
Dei Grundrisse, naturalmente. Che Eric J. Hobsbawm ha definito «la stenografia intellettuale privata» di Marx.
Perché vi raccontiamo tutto questo?
Perché i Grundrisse, con le loro numerose osservazioni relative ad argomenti che non saranno mai più sviluppati rivestono enorme importanza per la comprensione del pensiero di Marx.
Perché l’editore Routledge – Taylor & Francis Group, in occasione del 150° anniversario della loro stesura, sta per pubblicare i saggi inediti di 30 autori di 25 diversi paesi (sono già in cantiere le versioni in tedesco, Dietz Verlag, e in cinese) con la prefazione proprio del grande Eric Hobsbawm.
E perché ideatore, curatore e co-autore del volume è Marcello Musto, 31 anni, una vita passata a studiare e a scrivere tra Berlino, Amsterdam e il resto del mondo “perché lì ci sono le fonti e perchè all’estero hanno l’abitudine di leggere le cose che gli mandi, non si chiedono quanti anni hai o se sei già professore ordinario, valutano il tuo progetto e ti mettono in condizione di realizzarlo”.
Tre gli obiettivi principali di questo straordinario lavoro di ricerca:
“i) far emergere il Marx per molti verso “altro” rispetto a quello diffuso dalle correnti dominanti del «marxismo» del ‘900;
ii) dimostrare l’importanza dei Grundrisse per la comprensione dell’intero progetto teorico di Marx;
iii) evidenziare la fecondità e l’attualità del pensiero di Marx”.
Sarebbe tutto. Se non fosse che il volume non ha ancora un editore italiano. Incredibile? Vero!
Tre geni, due domande e una provocazione
I tre geni in questione sono Richard P. Feynman (1918-1988), vincitore del Premio Nobel per la fisica nel 1965; Robert K. Merton, sicuramente tra i grandi della sociologia di ogni tempo; Peter B. Medawar, premio Nobel per la medicina nel 1960.
La prima domanda è: cosa li tiene assieme in questo contesto?
Il fatto che il primo abbia ricordato (prolusione in occasione del conferimento del Premio Nobel, su Science, n° 153, 12 agosto 1966, pp. 699 – 708) che “abbiamo l’abitudine, quando scriviamo gli articoli pubblicati sulle riviste scientifiche, di rendere il lavoro quanto più rifinito possibile, di nascondere tutte le tracce, [… di non dire …] come la prima idea che si era avuta era sbagliata [… cosicché finiamo col perdere di vista …] quello che si è fatto veramente per arrivare a quei risultati”; che il secondo abbia fermato a più riprese la propria attenzione (Teoria e struttura sociale, Il Mulino, pag. 13) sullo “scoglio costituito dalla differenza che esiste tra la versione finita del lavoro scientifico così come si presenta nelle pubblicazioni e il corso dell’indagine realmente seguito dal ricercatore”; che il terzo abbia scelto provocatoriamente, era l’anno di grazia 1963, di intitolare una sua conferenza alla televisione inglese “Il saggio scientifico è un inganno?”.
La seconda domanda è: perché vi raccontiamo tutto questo?
Perché la storia della scienza ci dice che genio, caso e organizzazione sono tre fattori fondamentali per il buon esito della ricerca scientifica. E perché gli articoli, i saggi, le monografie che tralasciano di dare conto di intuizioni, false partenze, errori, conclusioni approssimative, risultati accidentali che caratterizzano il lavoro di ricerca finiscono con l’essere di impedimento al progresso scientifico.
La provocazione viene purtroppo da sé: per quali vie le patrie “università fabbriche di crediti” e “strutture di ricerca a finanziamenti limitati” potranno farsi incubatori di genialità, collaborazione, interazione, qualità, capacità, sviluppo?
Chi c’è, se c’è, batta un colpo.
Giampiero Assumma: ritratto di un fotografo
La fotografia è sempre un incontro con l’imprevisto. Quello che dà senso all’immagine che ti porti dentro. Che ti fa chiudere gli occhi. E scattare.
Giampiero Assumma è stato a lungo un ircocervo. Metà laureato e metà artista. Il lavoro di odontoiatra che gli permetteva di comprare rullini e attrezzature, viaggiare, conservare una certa indipendenza nella scelta di temi e soggetti. Tre anni fa la scelta. Alle spalle Napoli, la professione, la sicurezza economica, le vite parallele. Davanti a sé Parigi. E la fotografia.
La deindustrializzazione di Bagnoli, i viaggi della speranza a Lourdes, le feste religiose siciliane, il mondo dei bodybuilders, la caccia al pescespada, la condizione (dis)umana negli ospedali psichiatrici giudiziari italiani, le collaborazioni come fotografo di scena (per “Il regista di matrimoni” di Marco Bellocchio ha vinto il premio Cliciak Ciak d’oro – ritratto d’autore 2007) sono alcune tappe della sua ricerca intorno alle relazioni tra gli uomini e il territorio, la religione, la follia.
Se gli chiedi quando e perché è cominciato, ti risponde che il ricordo è sbiadito. Ti racconta della madre “costretta” a girare per casa tenendolo in braccio per fargli vedere e rivedere i quadri che amava. Della scomparsa prematura del padre. Dei tramonti di settembre. Del paesaggio che lentamente si rivestiva della nostalgia della perdita. Della ricerca di risposte per lui troppo grandi. Della voglia di fissare momenti di cui forse un giorno avrebbe colto il significato.
La fotografia – ti dice – permette di chiudere un cerchio magico, di recuperare un senso alle cose, di annullarsi nella scena che si presenta allo sguardo.
Se gli chiedi cosa lo ha portato da Napoli a Parigi ti risponde che considera Napoli e il Sud un luogo “visivamente” assai formativo. Che non c’è però chi organizza la fase di “postproduzione”. Che il lavoro artistico deve fare i conti con percorsi sempre troppo lunghi, tortuosi, devianti. Che in Italia la cultura non ha ancora il posto che merita.
Sarebbe stato sbagliato ritardare ancora – conclude -. Nel mondo là fuori ci sono tante cose che vale la pena raccontare.
Genio e caso: i motori del sapere
Ricomincio da tre
Piero Carninci, Antonio Esposito, Andrea Lagomarsini: chi sono costoro?
Se avete letto le loro storie su queste pagine nei mesi scorsi lo sapete già.
Perché dunque torniamo a parlarne?
Perché questo mese proviamo a tornare alla fonte. Al concetto di Serendipity. Alla possibilità che l’osservazione di un dato imprevisto, anomalo e strategico fornisca l’occasione per sviluppare nuove teorie e paradigmi (Merton R.K., 2002).
Perché raccontare di serendipity?
Perché pensiamo che l’interazione di menti preparate in ambienti socio cognitivi favorevoli possa essere un acceleratore di opportunità in tutti quei contesti – città, università, imprese, territori, ecc. – che hanno deciso di puntare sull’innovazione, scrutare i segni del tempo, conquistare nuovi spazi sociali e/o di mercato. E perché siamo convinti che essa possa rappresentare un antidoto utile al declino del “sistema Italia”. Alla mancanza di futuro per i più giovani.
L’idea è che “per genio e per caso” si possa crescere di più. Sfruttare meglio le opportunità. Affermare buone pratiche. Attrarre invece che perdere cervelli. Essere capaci di sfruttare al massimo il potenziale insito nella situazione data. Utilizzare al meglio i fattori, gli elementi, i dati disponibili.
Lo sviluppo di ambienti socio cognitivi serendipitosi, l’attivazione e lo sviluppo di processi virtuosi “per genio e per caso” richiedono intelligenza, creatività, spirito di iniziativa, capacità di innovazione, voglia di essere parte della rete dei nodi connessi di elaborazione e di diffusione dei saperi, dunque capitale immateriale, capitale intelligenza.
Qui a Serendipity ad essere protagoniste sono perciò le storie di persone che con le loro teste e le loro mani riescono a generare la realtà che interpretano. A pensare la realtà come un processo continuo di costruzione di senso. A dare significato alle situazioni che esse stesse hanno istituito e nelle quali si trovano calate.
Lo scopo? Diffondere buone idee, esperienze di qualità, casi di successo. E magari contribuire a dare senso alla voglia di provarci ancora. Qui. Ora.
Le api, l’informatica e la lingua dei sogni
“Avevo 5 anni, andavo in montagna con i miei, gridai: mamma, guarda, ci sono gli apai con le api dentro. Venti anni dopo è nata Apai (www.apai.biz)”.
Andrea Lagomarsini ha 30 anni. È ingegnere informatico. Disegna architetture software. Progetta sistemi avanzati di sicurezza.
“L’informatica è una magia che ti prende dalla tenera età e ti permette di usare i linguaggi dei sogni. Io ho cominciato a nove anni. Un pò dopo ho fatto dei tasti del PC una tastiera musicale. Oggi mi occupo di cose più strutturate e complesse ma la passione resta la stessa”.
La tua scommessa?
“Usare il linguaggio di programmazione per scrivere un codice applicativo in grado di vivere indipendentemente da me (Agenti in grado di interagire spontaneamente e di mutare il loro stato a fronte di tali interazioni) sul modello del framework (intelaiatura intorno alla quale viene progettato un software nda) Jini (tecnologia informatica che permette ad esempio di usare il cellulare o il computer per gestire frigorifero, forno, ecc. nda) realizzato da Sun”.
Quindi?
“Decisi di disegnare il mio primo progetto di vita elettronica indipendente. Una tesi scoperta per caso mi indirizzò sulla domotica (scienza che si occupa delle applicazioni dell’informatica e dell’elettronica all’abitazione nda). Insieme a 5 studenti architettai la mia Agenzia. Sembrava Alice nel paese delle meraviglie: pensare una cosa voleva dire realizzarla”.
Grande soddisfazione.
“Certo. Ma occorreva passare alle applicazioni concrete, cercare il braccio che mancava alla mente.
Non fu semplice. Molte delle tecnologie erano troppo costose. Finché non scoprii che alla Bticino c’era chi da anni si adoperava per realizzare un sistema domotico a costi abbordabili e di semplice fruizione.
Decidemmo di realizzare, a nostre spese, il primo impianto domotico Bticino Myhome (l’offerta di automazione domestica di Bticino) della nostra zona”.
E poi?
“Grazie a tanto lavoro e alla collaborazione con l’Università di Pisa e con il team di Bticino MyHome l’universo di Apai è molto cresciuto e oggi parla, vede, ragiona tramite motori inferenziali e reti neurali”.
Voglio una vita contaminata
“Era il 1994 quando al CNR di Napoli mi proposero di lavorare per un anno in Giappone. Confesso che sulle prime mi spaventai. Assai poco convinto, chiesi di limitare il viaggio a 6 mesi. Mi dissero di sì. Alla ETL di Tsukuba sono rimasto 5 anni, per 2 anni ho insegnato alla Technical University di Monaco, poi l’approdo a Ginevra, dove oggi vivo e lavoro”.
Antonio Esposito, ingegnere fisico, 43 anni, una vita da ricercatore – scienziato – imprenditore, è lì che aspetta la domanda ineluttabile: perché uno che se ne va di malavoglia dalla propria città poi non ci torna più?
“Perché conosce nuove persone e contesti; osserva storie, culture, punti di vista diversi; scopre che tutto questo gli piace; si cala nel nuovo contesto, si fa contaminare da esso e lo contamina a propria volta. E perché si ritrova catapultato in una sorta di disneyland – paradiso della ricerca a fronte di una realtà, quella del CNR, dove anche le razioni di carta e penna erano un problema”.
Non ti sembra di esagerare?
“Purtroppo no. Dieci giorni di lavoro a Tsukuba erano equivalenti a sei mesi a Napoli. Lì ho potuto ‘giocare’ con gli strumenti e i macchinari giusti, fare ricerca, sperimentare, con modalità che per quantità di risorse e qualità di risultati erano impensabili in Italia”.
Ad esempio?
“Lavoravo sui superconduttori con l’obiettivo di realizzare dispositivi ad altissima velocità, 800 GHz, mille volte più veloce di quelli in uso e mi sono accorto di aver fabbricato il film-sottile più piatto del mondo (dello spessore degli Angstrom, unità di misura che si usa al livello atomico) con una superficie regolarissima, fatta di pochi strati atomici. Insomma cercavo un dispositivo e ho trovato un nuovo materiale”.
Che serve a…?
“A tantissime cose: costruire computer davvero superveloci, rendere lo sportello della tua auto perfettamente liscio e regolare, evitare la dispersione elettrica, ecc.”
Il tuo messaggio nella bottiglia?
“La voglia di contaminare e di essere contaminato.
La micro azienda di sviluppo di alta tecnologia che ho avviato a Napoli, la INCEPT, è in fondo un modo per riportare questa esperienza di contaminazione nella mia città”.
L’ape e l’uomo: così lontani, così vicini
“L’importante è non restare abbarbicati alle proprie ipotesi, guardare a ciò che accade fuori, fare caso al messaggio nascosto”. È Piero Carninci, coordinatore scientifico del FANTOM International Consortium, il primo ospite di questa rubrica che racconterà di uomini, idee, innovazioni che hanno a che fare con la serendipity, definita da Merton come l’osservazione di un dato “imprevisto, anomalo, strategico”, che permette di sviluppare una nuova teoria o ampliarne una già esistente.
La cosa interessante è che in ambienti ricchi di interazioni socio – cognitive è più probabile che il caso favorisca nuove scoperte, come dimostra il lavoro del team internazionale di scienziati guidato da George M. Weinstock e Gene E. Robinson che ha recentemente sequenziato il genoma dell’ape.
A Carninci, che ha contribuito a identificare dove sono i geni, abbiamo chiesto di spiegarci l’importanza di tale ricerca: “L’ape ha un comportamento sociale veramente unico per complessità, nonostante abbia solo una milionesima parte dei neuroni presenti nel cervello umano. E poi è il maggiore impollinatore esistente e ha un forte impatto economico sull’agricoltura mondiale”.
Dopo gli umani, la medusa siphonophores e le formiche, gli esseri con più abilità sociale pare siano proprio le api.
“Si tratta di un fenomeno unico negli insetti ma comune nei vertebrati. Sembra che la trascrizione degli RNA dell’ape sia regolata da modifiche del DNA (aggiunta di un gruppo metile alla citosina, quando questa è seguita da una guanina), caratteristica questa di animali molto più “evoluti”. Tutto questo potrà aiutarci a capire i geni del comportamento sociale nell’uomo”.
Sequenziare il genoma dell’ape era dunque una priorità.
“È di più. È un lascito alle generazioni future, non solo per gli studi applicati, ma anche per la ricerca pura, dato che studiare gli insetti è importantissimo per capire i meccanismi molecolari dello sviluppo embriologico”.
Buona serendipity.