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Le vie del lavoro. Rendiconto attività

17 ottobre 2011 – 9 gennaio 2012

19 partecipanti, compresi Cinzia, Alessio and me.
18 video interviste, 16 audio interviste, 29 foto e 10 documenti pubblicati su Timu, il civic media che Fondazione Ahref ha messo a disposizione dei cittadini reporter che hanno voglia di condividere un metodo, di fare inchiesta partecipata, di cambiare il proprio rapporto con la notizia, l’informazione, la conoscenza.
1 comunità, con al centro Castel San Giorgio ma che attrabersa Siano, Bracigliano, Nocera Inferiore, che attraverso la nostra inchiesta sta rappresentando la propria voglia di fare bene le cose che fa, l’approccio che spingeva gli artigiani della zona a esporre nella propria bottega la scritta “ciò che va quasi bene … non va bene”, quello stesso che muove oggi persone così uguali e così diverse come Gennaro Cibelli, Sabato Aliberti, Francesco Di Pace, nella ricerca di nuovi percorsi attraverso i quali rinnovare e rafforzare questa cultura del fare bene.
2 comunità con una storia e un presente molto forte, molto complicato, molto bello, Rione Sanità (Napoli) e Castelvolturno (Caserta), che intravedono nel nostro civic media, nelle nostre botteghe, un’opportunità intorno alla quale costruire un’altra tessera del faticoso mosaico fatto di cultura, lavoro, legalità, educazione, impresa, sviluppo che li vede impegnati ogni giorno, con passione, rigore, impegno.
Un po’ di buoni semi piantati qui e là per l’Italia, a Varese, a Gazzada (Va), a Roma, a Milano, semi che coinvolgono grandi e piccoli, scuole, università, fabbriche, uffici, media, intorno all’idea che raccontando storie di lavoro si possa raccontare e anche un po’ cambiare l’Italia, si possa ridefinire l’indice delle priorità, spostare l’ago della bussola dai soldi al lavoro, da ciò che hai a ciò che sai e che sai fare.

Sì, tutto questo mi piace. Mi piace la passione e l’impegno che ci stanno mettendo, nella forma e nei modi possibili per ciascuna/o, Alessio, Cinzia, Gennaro, Santina, Carlotta, Roberta, Sabato e tutta la Bottega de Le vie del Lavoro. Mi piace la gratitudine che sento verso Fondazione ahref e Fondazione Giuseppe Di Vittorio perché hanno creduto nell’idea e hanno creato le condizioni perché diventasse realtà. Mi piace essere consapevole della tanta strada che ancora c’è da percorrere affinché i 10 cittadini reporter che abbiamo incrociato fin qui diventino 100 e poi anche 1000. Mi piace l’idea che intorno al nostro civic media e alle nostre botteghe cresca un nuovo modo di essere cittadini e di fare informazione. Mi piace pensare che non sono esagerato se scrivo che si gioca qui, sul rapporto tra il cittadino e l’informazione, un pezzo di partita importante per la qualità e il futuro della nostra democrazia. Mi piace sentirmi fiero, sì, fiero, del fatto di esserci anch’io.
Arrivederci al 31 marzo 2012, quando scriverò il prossimo rendiconto. Spero che per allora siate davvero in tante/i sulle vie del lavoro.

Uno, doje, tre, quattro e Santina Verta

“Il viaggio  è un ritorno a sé stessi, dopo l’incontro con l’altro, ma non un  cerchio, forse una spirale da cui partire per altri incontri” ( R. Regni)

Leggo  e mi ricarico di quell’intensità  del viaggiare dentro le percezioni che intessono il racconto corale di Carmela, Daniele, Vincenzo e Viviana  e lo vivificano di una linfa che scorre da loro a noi  e viceversa.
Questo intrecciarsi di pensieri, idee, proposte, sensazioni si snoda  come un mosaico caleidoscopico, a volte ombreggiato da perplessità pensose e divergenti, oppure illuminato dal piacere dello scoprirsi, dalla correttezza del gioco, dal non soverchiare l’altro, lasciandolo respirare le sue brume e le sue spire ariose.
Questo credere possibile il gioco del conoscersi senza frapposizioni preconcette è alla base  di una concezione dei rapporti umani  improntati alla sincerità, al rispetto, alla conoscenza non di maniera.
Sento una forza captante in questo intreccio relazionale capace di far incrociare sguardi differenti intorno alla realtà, mai edulcorata.
I quattro
riescono ad intersecare i loro pensieri  anche quando sono solidificati da abitudini e stili formativi differenti, c’è una capacità di rendere vivo il limite e di andare oltre.
Anche le inevitabili percezioni  divergenti legate all’età, alla differenza di genere, alla frequentazione di panorami diversi, al modo di credere possibile il cambiamento, all’avvitamento sulle proprie certezze  o incertezze, al modo di appassionarsi alle vicende altrui, all’intuito, alla fantasia, alla passione  trovano un comune denominatore intitolato: rispetto per ogni forma di vita –  reciprocità a riconoscere le diversità – speranza nel futuro.
Credo che non si stancheremo mai di viaggiare con questi scopritore di senso, poiché, in fondo, desideriamo tutti  poter tornare alla nostra incrollabile fede verso l’essere umano.
Ma perché poi si viaggia tanto per tornare sempre a sé ?
Il viaggio è anche un gioco, un gioco serio, in cui prende consistenza la nostra libertà interiore e la nostra voglia di andare verso l’altro per scoprire le meravigliose simmetricità.
Ogni viaggio è luogo di scoperta e, a volte, di dolorose prove, è così somigliante ai riverberi di vita… è solo un cammino fatto di relazioni e di incontri.
Ma mentre le relazioni sono numerose e non lasciano il segno, gli incontri “veri” sono pochi e, quando arrivano, catturano, entrano dentro, fin nel profondo e  lasciano sempre una traccia.
Felice di avervi incontrato in Enakapata, “in questo viaggio che ci  somiglia tanto”, mi sento a casa!

I rimossi

di Santina Verta

by Sandro Fichera
by Sandro Fichera

È da giorni che penso a come fare a mantenere viva la memoria delle tante vittime innocenti spesso dimenticate o rimosse. Dimenticate o rimosse non soltanto dalla maggioranza degli italiani, ma anche da chi fa informazione e da chi amministra la giustizia.
Credo che solo ricordarle non basta, forse una rete di parole collettive, servirebbe a dare contorni meno sfumati alle tante vite spezzate.
L’elenco è troppo lungo e le parole rischiano di perdere il valore di ognuno nella banalità della normalizzazione o nell’ipocrisia retorica delle ricorrenze. Il rischio è addirittura che vengano fagocitati dallo stile dissacratorio dei politicanti di turno. Ma è necessario ricordare, è l’unico modo di dare senso a queste perdite.
Attualizziamo il valore di ogni perdita come un dovere civile impellente. Proviamoci!
Incomincio dal ricordare due reporter: Ilaria Alpi e Milan Hrovatin, uccisi in Somalia il 20 marzo 1994 che non erano in Somalia per farsi una vacanza a spese della Rai, come afferma Carlo Taormina, presidente della commissione parlamentare, ma erano in Africa per lavorare, stavano realizzando interviste e girando filmati.
Avevano, soprattutto, intercettato, nell’ultima intervista al sultano di Bosaso, un traffico di sostanze tossico-nocive e di armi che venivano trasportate attraverso i porti italiani di La Spezia, Livorno e Gaeta verso la Somalia, un paese in piena guerra civile. Le navi su cui viaggiavano questi rifiuti e questo materiale bellico erano di una società, la Shifco, che solo formalmente risultava avere l’autorizzazione a importare pesce dall’Europa. In realtà era proprietà di un noto armatore somalo che aveva addirittura ricevuto le sue navi dalla cooperazione internazionale. Il tutto si fa inquietante quando appare l’ombra lunga dei servizi segreti, i quali fanno finta di non vedere un traffico fin troppo evidente. Tutti questi fatti oggi li sappiamo perché ci sono state diverse inchieste, non solo sulla morte di Ilaria Alpi e di Miran Hrovatin.
Migliaia di pagine, di rivoli giudiziari sono stati scritti da diverse procure, da Asti a La Spezia, in Calabria. E i fatti che ne emergono parlano di una sorta di scambio tra rifiuti tossici, che venivano sotterrati o dispersi nel mare della Somalia, in cambio di armi che una volta finivano ad uno dei contendenti ed altre volte finivano al suo esatto rivale.
Un particolare inquietante: dal novembre 1996 la Procura della Repubblica di Asti, specializzata in reati come il traffico internazionale di rifiuti tossici e radioattivi in partenza ed in transito dall’Italia, ha a disposizione una copiosa documentazione che contiene nomi e fatti, ed evidenzia numerose circostanze legate a questi traffici, comprese le generalità dei faccendieri che li dirigono nell’ombra, gli intrecci con i mercanti d’armi e perfino la mappatura completa che dimostra come ai tempi dell’omicidio tutto convergesse sulla Somalia, oltre che sui territori di altri Paesi dell’Africa costiera. Questa documentazione sembra scomparsa nel nulla, forse dimenticata anche dalla stessa Commissione Parlamentare sul traffico dei rifiuti.
Ilaria Alpi era già stata in Somalia prima del 1994, e conosceva bene la situazione, ma è stata eliminata.
Se a uccidere fosse stato semplicemente la mano di un’organizzazione criminale intenta nel salvaguardare i propri meri interessi, gli assassini di Miran e di Ilaria sarebbero stati presi dopo pochi giorni.
Il problema, invece, in questa storia, è lo stesso che riguarda le vicende delle stragi in Italia da piazza Fontana a oggi: la  possibile protezione, da parte degli apparati dello Stato italiano, sui mandanti o esecutori. Quest’ombra fa sì che la verità giudiziaria, e quindi anche quella storica, tardino sempre più a venire. E nella dilatazione del tempo rispetto al momento in cui sono avvenuti i fatti, gli esecutori e i mandanti alla fine la fanno franca, perché proprio il tempo gioca dalla loro parte. Col rischio che anche la gente dimentichi.
Per tutti questi lunghi anni, i genitori di Ilaria, Giorgio e Luciana, hanno cercato di far emergere la verità e ci hanno fatto conoscere Ilaria, quello che era stata come giornalista, come donna, ci hanno restituito la sua grande umanità, la sua passione civile, il suo impegno per la ricerca della verità, il suo amore per l’essere umano, per le donne  e i bambini della Somalia.
Il papà di Ilaria, Giorgio si è spento pochi giorni fa, in questi ultimi sedici anni ha combattuto sempre a fianco di Luciana per arrivare alla verità e alla giustizia sulla morte della loro unica figlia Ilaria. Verità e giustizia che purtroppo ancora non ci sono.
Un saluto commosso a quest’uomo generoso che ha incarnato la determinazione a voler ricordare in un Paese che tende a dimenticare con troppa frequenza.

ILARIA ALPI E MIRAN HROVATIN
sono stati ricordati sabato 20 marzo 2010 nella Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime delle mafie.

Santina Verta, again

enakapata3Questo incontro”per caso” e “per fortuna” con Vincenzo e Luca Moretti mi conduce a scoprire concetti scientifici “serendipitosi” in un -viaggio- condito di concreta competenza e un pizzico di amarezza per quello che potrebbe essere la ricerca in Italia.. nello stesso tempo mi inebria del colore della nostalgia della meraviglia dei ciliegi in fiore fra templi e perfetta sincronia tecnologica. Mi arriva la percezione di suoni antichi e nuovi e ..gli incontri con persone che scandiscono il rinnovamento con modalità ritmate dal tempo delle regole condivise, danno speranza di futuro. Tutto il viaggio-diario è attraversato da un duetto padre-figlio esilarante e tenerissimo. Potrei mettere come colonna sonora…-ti invito al viaggio, in questo paese che ti somiglia tanto..( Battiato) mentre Pessoa direbbe:-“Un uomo, se possiede la vera sapienza, può godere l’intero spettacolo del mondo seduto su una sedia, senza saper leggere, senza parlare con nessuno, soltanto con l’uso dei sensi e il fatto che l’anima non sappia essere triste”.

Il filo rosso di Santina Verta

by Roberto De Pascale

Santina Verta
Caro Vincenzo,
sto trepidando con te e Luca in questo viaggio “serindipindoso”… mi fermo spesso a rileggere per le impreviste e sorprendenti sfaccettature che partendo da un’idea- desiderio, trova la strada dell’attesa/ intesa, condita da ansie e imprevisti che il nuovo impone.
Vivo con voi, ad ogni pagina, una curiosità contagiosa, ricca di emozionanti scoperte dell’evolversi dei contatti, gli attesi disagi, l’estraneità che diventa alleanza, sorrido delle parche colazioni e dei lauti pranzi, attraverso come un segugio le mappe stradali di vie ignote e misteriose… accolgo con batticuore gli intralci e i fortunosi contatti con questa umanità che si dipana come un filo d’Arianna.
Devo scrivere ora, dopo la notte con papà (73), arriverò tardi a scuola, il caffè trabocca, ma l’impeto emotivo deve trovare un freno, ci sono immagini che si sovrappongono come un caleidoscopio con la mia vita. Ti (ri) conosco nella comunanza del percorso originario, abbraccio mentalmente quel ragazzino di Secondigliano che si rispecchia negli occhi del tuo Luca: nell’orgoglio amorevole, tenero e, a volte, schivo, come sa essere chi viene da una consapevolezza vissuta con ardore.
Apprezzo questo non rinnegare da dove veniamo, anzi il rivalorizzarlo è un punto di estrema importanza, rompe quel moto di falsa modernità che ha invasato molti compagni, scambiando il nuovo con cancellazione del passato … chi rinnega se stesso lacera la storia, si nasconde sotto un manto di ipocrito non -senso di appartenenza, forse impedisce la visione d’insieme del dove siamo ora e della perdita inevitabilmente dolorosa!
Ritrovo una forza nel tuo modo di stare in contatto con gli altri che era lo status della vita di sezione, l’antico PCI, mi ha lasciato questo senso della fratellanza che ci faceva sentire potenti- capaci di scalare le difficoltà.
Crescevamo, mentre sognavamo una equità sociale, rendevamo allegre le infinite discussioni, colmandole di speranza!
Mi fermo, per ora… e spero di continuare presto questo dialogo mai interrotto.
Buona giornata a te e alla tua famiglia, Santina

Per gli esseri umani, pensare a cose passate significa muoversi nella dimensione della profondità, mettere radici e acquisire stabilità, in modo tale da non essere travolti da quanto accade-dallo Zeitgeist, dalla storia, o semplicemente dalla tentazione. Il peggior male non è dunque il male radicale, ma il male senza radici.E proprio perché non ha radici, questo male non conosce limiti.proprio per questo, il male può raggiungere vertici impensabili, macchiando il mondo intero
Hannah Arendt, Alcune questioni di filosofia morale

Maria Paraggio

Chissà perché questo post mi ha rimandato ai miei tredici anni, al ginnasio e ha riportato alla memoria giorni e accadimenti.
Nell’anno scolastico 1968-69 frequentavo la quarta ginnasiale. Venivo dalla provincia ed avevo da poco compiuto solo tredici anni ( avevo fatto la primina). A Salerno c’erano due licei: il Liceo Tasso, frequentato dal fior fiore della bella gioventù salernitana, con la sua prestigiosa sede in centro e il Liceo F. De Sanctis che era ubicato in un palazzo di cinque piani. Il mio era il De Sanctis. C’erano, rigorosamente, due ingressi, uno per i maschi ed uno per le femmine. La presidenza, strategicamente, era ubicata al terzo piano.
Quando è iniziato l’anno scolastico, il primo ottobre, portavo ancora i calzettoni (calzini alti di lana) e alcuni compagni addirittura i pantaloni corti (Così si usava). Sembravamo ancora bambini, mentre i ragazzi di città si distinguevano sia per la spigliatezza che per gli abiti alla moda. Pian piano, ci adeguammo a quel nuovo stile di vita, imparando dagli altri e trovando un nostro proprio gusto. Ben presto cominciarono a circolare volantini ciclostilati che parlavano di collettivi, assemblee, cortei, scioperi per ottenere una riforma.
Poi all’ingresso della scuola, sia all’entrata che all’uscita cominciarono a formarsi capannelli di studenti intorno a due o tre leader. Dal Tasso venivano alcuni del movimento studentesco, già vivo, e facevano opera di convincimento tra noi. Si respirava un’aria di tensione tra i diversi gruppi di destra e sinistra. Ormai il movimento si era politicizzato. Ricordo che uno studente del Tasso fu picchiato proprio davanti al nostro liceo.
Le ragazze che, per un certo tempo, si erano tenute lontane, cominciarono ad aggregarsi intorno ai leader che fecero molte conquiste femminili. Il carattere forte, la novità, gli ideali fecero più colpo  della bellezza maschile.
Assemblea era la parola che più passava di bocca in bocca. Ci furono scioperi, cortei di varie scuole che poi si riunivano al Tasso. Si passò all’occupazione, poco prima delle feste di Natale. Ragazzi e ragazze si asserragliarono all’interno dell’Istituto per circa 40 giorni. Per il timore di essere coinvolta negli scontri tra gruppi di estrema destra e sinistra, i miei non vollero che andassi a scuola per tutto il tempo. Le mie compagne mi tennero informata. Ormai si respirava un’aria di libertà, di parità di sessi, di libertà di opinione mai provata.
Tutta l’Italia studentesca era in fermento. Cominciarono ad arrivare i primi risultati. Ci fu concessa l’assemblea di istituto, l’assemblea di classe, la ricreazione. Anzi alcuni istituti ottennero mezz’ora di ricreazione e si poteva uscire e rientrare in classe alla ripresa. Noi del De Sanctis, invece, con un referendum tra alunni, scegliemmo di abolire la ricreazione e optare per un orario ridotto. Uscivamo alle 12:20 per le quattro ore e alla una 1:10 per le cinque.
A livello nazionale si ottenne l’abolizione dell’esame di ammissione dal V ginnasio al I liceo, bella conquista, soprattutto per me che avrei dovuto sostenerlo a breve, e in seguito fu approvato l’esame di stato su due materie orali e due scritte.
La conquista più grande fu però il riconoscimento della parità delle donne nel prendere decisioni importanti in tutti i campi della società, con l’abolizione di tanti tabù che l’avevano accompagnata fino a quel momento.
Dimenticavo di dirvi che in prima fila nei cortei, con megafono e una sciarpa stretta intorno al collo faceva la sua bella figura un famoso e discusso giornalista televisivo.

Foto in cerca d’autore. I racconti


Carmela Talamo

E’ vero Musa, la vita è bella, maledettamente, terribilmente, immensamente bella anche se te ne accorgi quando la senti che ti sfugge, anche quando stai per buttarla via come ha fatto “nennella” (ricordate?) è bella anche quando è fatta di poco, anche quando è fatta di niente, perchè ti basta un attimo per capirlo, come questo sole che dopo tanta pioggia comincia a scaldarti il viso e poi più giù fino al cuore e poi più in fondo fino all’anima. E’ bella perchè anche quando stai per compiere l’ultimo passo verso il nulla puoi trovare una mano che ti afferra giusto in tempo per i capelli, perchè quello è il primo giorno della tua nuova vita, perchè anche se nulla è cambiato intorno a te, finalmente qualcosa comincia a cambiare “dentro” di te e poi incontri la big band e ti rendi conto che è valsa la pena arrivare fino a qui anche solo per raccontare e ricordare e, magari, aiutando te stessa, aiuti anche gli altri. Si Musa, la vita è decisamente bella.

Daniele Riva
L’infermiera ha detto che passerà più tardi. Con le pastiglie della buona notte. E dormirò ancora e avrò altri di questi sogni chimici che mi sballottano nello spazio e nel tempo e al mattino mi lasciano uno straccio, un otre vuoto. È quello che vogliono, questa è l’igiene mentale che campeggia a grandi lettere bianche e illuminate sul muro della clinica. È strano come certi eufemismi ci lavino la bocca: sono soltanto dei modi per pulirsi la coscienza e non pensarci. Clinica. Ospedale psichiatrico. Manicomio.

Così mi si incastreranno gli eventi della giornata e le allucinazioni prodotte dai medicinali. Chissà come entrerà Vincenzo in questo sogno. Nel pomeriggio è venuto a trovarmi e mi ha portato in dono il suo libro. Ho cominciato a leggerlo. Probabilmente anche il Giappone scivolerà nel sogno con i suoi giardini di ciliegi in fiore e la perfezione tecnologica. Si miscelerà con le brutte facce di questa televisione che non riesco neanche più a guardare: volti litigiosi, veline seminude, gente che parla e apre la bocca come in un acquario, perché io non li sto più neanche a sentire.

Come la notte scorsa: c’era una donna con una foglia di vite tra i capelli serpentini, una Medusa moderna che sproloquiava in una vecchia sala d’aspetto con le panche di legno e un lattiginoso lampadario al neon. Fuori c’era il tram che mi aspettava ed erano gli Anni Cinquanta, Milano – credo fosse Milano, ma poteva essere Torino o Dresda o Buenos Aires – era una grigia periferia di opifici, ormai finita la guerra si pensava a ricostruire. I cani razziavano tra i rifiuti, un gatto pisolava su un muro di cinta. Ovunque reticolati e ciminiere. E d’improvviso, con un salto di tempo e di spazio, il tram divenne un moderno treno rosso e correva accanto a un lago. Volli scendere in una di queste piccole stazioni, mi inoltrai nel paese, dove splendevano gialli i lampioni tra le case e i campanili. I murales mi attirarono in un atelier, dove una donna bellissima dipingeva. Non era vero nulla, lo so: era l’effetto delle medicine. Ma l’Arte, l’Arte quella era vera. Come era vero quell’ometto curvo e cieco che giocava al go. Mi disse di chiamarsi Jorge Luis Borges, si teneva a un bastone e raccontava qualcosa a proposito di labirinti e biblioteche…

Ecco l’infermiera con le pastiglie in un bicchierino di carta bianco. Me le porge. Le inghiotto con un sorso d’acqua. Addio…

La Musa
Eppure, la vita è bella, come dice lieve Benigni in quella sua canzone. E’ bella? E’ quello che noi siamo, quello che diventiamo, quello che avremmo fatto e nn è stato, quello che adesso è, e va bene così. Perchè indietro nn si torna e avanti si deve procedere, finchè morte nn ci separi da lei. Pensieri melanconici, pensieri inquieti, ricordi struggenti; quello spleenetismo che avviluppa le essenze più sensibili. Nel percorso fino ad oggi, il beneficio dell’età adulta, mi ha dato la chiave di volta: ci vuole resilienza. Quella capacità che volge al positivo ogni esperienza forte, spesso traumatizzante; quell’umanità che ti fa apprezzare la compagnia, ma altrettanto la solitudine, perchè di fronte a qualunque bivio, a qualunque alternativa, a qualsivoglia intoppo, in ogni caso siamo soli con noi stessi, tanto vale accomodarsi l’idea. La vita è questo, una scheggia di luce che finisce nella notte, diceva Celine. Allora ho guardato fuori stamattina: due piccoli di merlo pigolavano festosi nel nido fra i rami di un pruno ingemmati; sulla mia rosa rampicante occhieggiano i primi teneri boccioli; il sole, riverberi di luce fra l’ondulare tenue delle foglie di bamboo. Sì, la vita è bella, come cantava lieve Benigni.

Lucia Rosas
Tutto per una promessa. Che strano nome, ma che cos’è un libro. Un discorso smozzicato come solo una chat sa fare quando ti serve. Alla fine il libro è in mano poi sul comodino in ospedale. Un fidato amico che aspetta il tuo tempo. Sono sola, mi godo il silenzio inframezzato dal campanile, dai passi felpati in corridoio dal sole primaverile alla fine di febbraio. debbo aspettare con calma un altro medico e la sua spiegazione. Nulla di grave, un polipo fuori programma mentre mi chiedo perchè l’endometriosi non si ferma e mi rende impossibile non solo programmare la giornata ma anche camminare. E’ un male sottile, subdolo, un filo di edera che ti scivola dentro dall’utero arriva all’intestino alla schiena si annida senza chiedere permesso. Si siede, dorme e quando è il momento si sveglia scoppia come polvere da sparo brucia e ti vorresti scavare le carni per farlo smettere.
Siamo rimasti soli in camera tutto il giorno prima io in attesa e lui che raccontava che esiste una cosa chiamata serendipity e tu annuisci, ci credi e sorridi in attesa che qualcosa di buono succeda.

Deborah Capasso de Angelis
Carmela ce la farà ancora e ancora e ancora.
E ce la farò io con lei, ancora, ancora e ancora. Me lo ripeto spesso perchè solo in questo modo arrivi al controllo successivo e aspetti i risultati. La settimana più lunga in assoluto e poi vai, da sola, perchè è una cosa solo mia. E’ la mia vita e voglio aprire io la busta. Non è stato così terribile come quello di Carmela, me la sono cavata in tempo di record e senza terapia ma, è vero, sorridi di più, ti arrabbi di meno, elimini tanta gente rubarespiro e fai entrare nel tuo mondo tante persone ossigenanti. Ci sono in tanti intorno a te ma le decisioni devi prenderle tu e certe volte avrei fatto vincere “lui” (non voglio nominarlo, non merita di avere un nome). Ho dovuto rimandare nel giardino dei mai nati il mio bambino per “lui”. Mi ha fatto male ma ora sono qui e ci sto proprio bene!

Lucia Rosas
Scrivo di getto breve spaventata senza curarmi degli errori del suono del cellulare mentre quel quadro perfora le tempie poichè rifiuto quel volto accigliato della prozia matilda. Ho deciso di abbandonare il liceo i sogni di gloria dell’università e l’amata pittura. Via dal calore opprimente di milano verso altri lidi. Lascerò in disordine come tutti i giorni come dovessi tornare sapendo di mentire. Libri abiti sgargianti cd e quanto mi lega al mio bozzolo.  Il biglietto sul bordo del tavolino scivola a terra, un refolo di vento lo ha fatto scivolare: fosse così per i pensieri ma no. Lo zaino leggero è pronto solo un paio di jeans e una felpa la kway e la macchina fotografica; tuffo al cuore album e carboncini debbono essere raccolti. Sbatto la porta quasi inciampo sulle scale saluto furtivo alla portinaia e via correre a testa bassa verso la stazione mentre il cuore in petto scoppia come la voglia di urlare libera.
Il treno per la svizzera è puntuale, ovvio, salgo rosso lucido perfetto lunga serpe verso altri lidi. Curva quasi impenna questo cavallo d’acciaio chiudo gli occhi inebetita e sempre tra il dubbio e la certezza che sia la cosa giusta.

Carmela Talamo
E’ vero, mentre sei chiusa in una camera d’ospedale a combattere contro il cancro, tutto assume una dimensione diversa, cambiano le cose, cambiano le persone, le priorità, i pensieri si susseguono così velocemente che tu stessa fai fatica a stare al passo e, inevitabilmente, ti lasci alle spalle la zavorra che hai raccolto per una vita intera.
Io ero praticamente sigillata in camera, completamente sola ed isolata, chiusa ermeticamete dall’esterno con una porta blindata, sorvegliata perennemente da una telecamera (ho avuto anche io il mio Grande Fratello).
Terapia radiometabolica con iodioradio 131 è così che la chiamano, si pratica dopo che ti hanno asportato la tiroide con il suo bel carcinoma, serve a distruggere qualsiasi residuo di tiroide e, quindi, previene il riformarsi del cancro in qualsiasi frammento d’organo superstite. Devi solo ingerire una pillola e diventi radiottiva per un pò di giorni e resti lontana dal mondo finchè non smaltisci le radiazioni. E allora che fai? Pensi  e pensi e pensi… a tua figlia che si è appena affacciata alla vita, a tua madre che invece la sta lentamente abbandonando perchè un’altro signor cancro ha deciso che se la vuole portare via e, infatti, di lì a poco ci riuscirà, e pensi pensi pensi… che se ne esci viva nulla sarà più come prima, ed infatti non lo è, né peggio né meglio ma molto diverso, niente più fronzoli, persone inutili, niente più idiozie, solo quello che conta veramente, solo quello che mi va, niente più cose da fare perchè si deve ma solo perchè ti va, fanculo tutti quelli che non ti servono, se il cancro ha avuto un senso allora la mia anima deve crescere fino a farmi scoppiare di essenza. E poi passano gli anni e tu ce l’hai fatta (forse), si susseguono i dolori e i lutti devastanti e tu ce l’hai fatta ancora. E forse tutto questo aveva un senso, forse il senso era semplicemente portarmi qui adesso, per il momento mi basta e se domani ci sarà dell’altro io … ce la farò ancora, ancora ancora…

Maria Paraggio
Quel tavolino, il libro, l’acqua mi fanno tornare in mente giorni in cui mi sono trovata a riconsiderare la mia vita e le cose importanti che avevo messo da parte per dare priorità ad altro. Ci sono momenti in cui, come un flash ti passano davanti anni ed anni e ti rendi conto di quante occasioni sprecate, quanto tempo non vissuto in pieno ed allora vorresti anche solo un giorno in più per non guardarti indietro ed avere rimpianti. Questo pensavo nella mia camera d’ospedale, con monitor vari, fili, un tavolino girevole, un libro e una bottiglietta d’acqua a farmi compagnia e a ricordarmi l’infelice condizione in cui mi trovavo. Da quei momenti nacquero i seguenti versi:
“Vorrei ritrovare il sentiero perduto
seguendo le tracce
delle mie ambizioni passate
Camminare con il vento in faccia
senza paura, liberata dai lacci delle aspettative di altri
che decidono per te, che scelgono per te, senza parlare
senza ordinare, senza persuadere,
con la scusa di amare.
Quante volte ho ripercorso a ritroso la mia vita.
molti gli errori, tanti gli eventi assistiti come dal balcone.
Dall’angolo più alto assistere impotente al progressivo e
inevitabile annullamento e tutti intorno indaffarati a riportarti
là dove volevi scappare.
Consapevolezza della propria stoltezza
Amara verità che ancora non ha imparato ad accettare la sconfitta”.
(Penombra mattutina, pag 16)
Invece non ho accettato la sconfitta. La vita mi ha dato un’altra opportunità ed altro tempo. Tante le cose lasciate incompiute ed ora portate a termine e parte del merito va al mio caro Prof. Moretti e alla prof. Massa.

Viviana Graniero
Mettiamo insieme il treno sul fiordo e il biglietto per un’imprecisata destinazione e quella che viene fuori è una storia realmente accaduta. A me, per fortuna!
Uno degli ultimi viaggi io e mio marito (che all’epoca lo era da appena una settimana) lo abbiamo fatto in Scandinavia… lo sognavamo da tanto e abbiamo approfittato delle ferie matrimoniali per organizzare un lungo giro, di circa 16 giorni. Prima tappa: la danimarca. Copenhagen. E poi in giro per la costa danese, con i suoi meravigliosi castelli e tutt’intorno un’aria da favola di Andersen.
Seconda tappa: la Norvegia. E qui comincia la storia.
Dopo due giorni meravigliosi a Bergen, un paradiso tra i fiordi del sud, avevamo tutto prenotato per raggiungere Oslo facendo ancora una gita in nave tra i fiordi e poi un tratto in treno. La mattina della partenza pioveva a dirotto, in pieno stile norvegese. Le valigie e la pioggia hanno rallentato la nostra corsa verso il pulman che avrebbe dovuto portarci al paesino dal quale partiva la nave. Tre minuti di ritardo (e dico 3 davvero), il pulman è già partito, lo abbiamo perso. Per i primi 5 minuti ci prende il panico, tutto già pagato e organizzato e adesso che si fa? Come ho detto il panico dura 5 minuti, in fondo siamo alla stazione qualcosa si farà. E così con il nostro inglese di bassissimo livello cerchiamo di spiegare l’accaduto alla biglietteria, speriamo che ci convertano i biglietti della gita in 2 per un treno diretto ad Oslo. Niente da fare, sono biglietti di un tour operator, alla stazione non possono far niente. decidiamo di comprare due biglietti per una tappa intermedia e di lì cambiare per Oslo. E quella che ci era sembrata una sfortunitissima situazione si trasforma in una delle cose più belle che abbia mai visto e vissuto, che ricorderò per sempre. Prendiamo un treno che passa attraverso il paese delle meraviglie e mentre fuori diluvia (e tutto sommato, pensiamo, che cosa avremmo potuto vedere da una nave con quel tempaccio?) noi siamo incollati ai finestrini, incantati da montagne, cascate, fiumi, mari e laghi… un trenino che sembra quello dell’edenlandia per quanto è lento, ma scopriamo che è fatto apposta per farti ammirare il tratto di ferrovia più bello del mondo. Sfoglio la mia inseparabile guida del National geographic e scopro che quel tratto è segnalato, che è imperdibile se sei in Norvegia perché non lo scorderai mai più. Vero. Assolutamente. Ti sembra di essere in un documentario, ad un passo dalla perfezione assoluta. E’ più di un semplice paesaggio, è un mondo apparte… come in un film, come in un romanzo d’avventura. Ridi o ti commuovi, apparentemente senza motivo, non puoi farne a meno… è intenso. Vorresti che la stazione di destinazione non giungesse mai, è come avere a che fare con il “per sempre”, ci credi. Esiste qualcosa di eterno e tu l’hai visto, anzi, ne sei stato parte.
Alla fine arriviamo ad Oslo con il sorriso stampato sul volto e mille emozioni che restano dentro, nel silenzio trovano la loro espressione migliore. Abbiamo scordato completamente di averci rimesso circa 200 euro e la gita in nave e corriamo in albergo a posare le valigie, pronti per il resto dell’avventura, che si concluderà la settimana seguente a Stoccolma, ma che ancora è vividissima nel nostro ricordo.

Santina Verta
Vedi Napoli e poi muori“. Me lo disse il nonno della signora Rosa, di Maiori, che abitava nel mio vicoletto calabro. Napoli, la prima città vista, ero affascinata da tutto, che ricordo elettrico,  “Marò, quanto mi è piaciuta sta città!”. Era, ohi la memoria … era fine terza media, aspetta che conto; estate ’64.
Un insieme di flash nitidi e offuscati dall’eccitazione di una prima uscita da casa, ospite da estranei … timidissima … un solo vestito fatto fare per l’occasione. Tre giorni di curiosità  e quel timore del detto dell’accoglienza … non capivo la morte abbinata alla bellezza, mi impensieriva.
Sarei tornata a Napoli nel ’74, pretendendo di studiare e fare anche la mamma, ma la precarietà economica, sempre quella dannata, mi bloccò al quinto esame di lettere moderne, ma intanto avevo avuto l’impatto  escludente con Milano, ma ora  è  Napoli e la sua bellezza che si impenna!
Due giorni ospite da Amica, per caso parente,  ‘ncoppa o Vomero, mi permettevano di passare gli esami in università e poi gironzolare per scoprire parti della città.
Riecheggiano le parole di mia madre “Statt’accorta, a Napule rubbano“, ma io ho sempre avuto coraggio! Ma, quella volta, invertii numero di tram e finii a san Martino, poi al Cardarelli e ripensandoci, mi vien da ridere, non osavo entrare in un bar e telefonare all’amica Annalisa, né tantomeno entrare per un caffè, le parole della mamma … ma   le ore passavano, così la fatidica telefonata: “Annalì, mi signu persa” e lei invece di spiegarmi … chiamò tutta la famiglia e ridevano  e ridevano. “Io nu ci puzzu penzà“, ero già sotto casa loro!
Altra cosuccia di cui ridiamo quando ci ritroviamo  è stata la sorpresa  di vedere scritto vicino  al suo palazzo “Parco Aldebaran” io vedevo un solo Albero recintato e dissi: “Ma Annalì, a Napuli  chiamate parco un albero! E lei: “dai moviti, u parco so i case“!

Stefania Bertelli

Io partirei dal biglietto del tram. Perché a casa mia i trasporti pubblici occupano un ruolo importante. Mio marito ne è responsabile presso il comune di Venezia e si nutre e ci nutre costantemente dei suoi problemi. Tutti i nostri viaggi sono caratterizzati da tappe presso stazioni di autobus, gite in tram, percorsi in metropolitana…su e giù per le città. Per non parlare dei parcheggi scambiatori, per i quali mio marito ha un’insana venerazione: se li vede è capace di inchiodare l’auto, per andarli a fotografare. Detto questo, non è per fare la vittima, ma anche in uno di momenti più importanti della nostra vita Franco non ha voluto derogare. Il giorno che ho partorito per la prima volta, molto inesperta, non ho riconosciuto i primi segni delle contrazioni; allora, informata mia zia del mio stato, lei ci ha intimato di muoverci velocemente… e così ci siamo avviati verso l’ospedale. Essendo io impossibilitata ad andarci a piedi, mio marito ha rifiutato il suggerimento della zia di chiamare un’idroambulanza ed ha sentenziato: si va in mezzo pubblico!
La sfortuna ha voluto che fosse la domenica della Regata storica, la prima di settembre, una delle feste popolari cittadine, quando il traffico acqueo si paralizza; morale… ho dovuto attendere pazientemente presso l’imbarcadero dei vaporetti l’arrivo del mezzo, quando mi si son rotte le acque, … quando sono arrivata finalmente in ospedale, medico e infermiere mi hanno guardato con gli occhi fuori dalle orbite e mi hanno catapultata in sala parto.
Vorrei aggiungere, a questo proposito che, in questo periodo, stanno costruendo dei vaporetti proprio a Napoli. Mio marito è venuto a definire i lavori ed è tornato con pastiere, sfogliatelle e dolci vari, che i soci della cooperativa gli hanno suggerito.

Foto in cerca d’autore

L’autore da trovare non è quello della foto, che c’è già, è in realtà un’autrice da queste parti assai nota, Lucia Rosas. La foto, con mio grande piacere, me la sono ritrovata sulla bacheca di Facebook qualche giorno fa. Naturalmente ho ringraziato Lucia con i mezzi che sono disponibili da quelle parti e così, chattando chattando, è venuta fuori l’idea, più sua che mia, di provare a raccontare storie a partire dalla foto.
Lucia si è entusiasmata un bel pò, io ho fatto la parte di quello che butta acqua sul fuoco. Questa faccenda delle storie a volte funziona e a volte no -le ho detto-, comunque possiamo provare. Lei ha detto proviamo, ed eccoci qua.
La parola, anzi il post, passa a noi, gli autori. Se abbiamo voglia di farci trovare, of course.

Lucia Rosas
io non sono nota, io approfitto di una amicizia virtuale che, su una piattaforma vituperata rivela invece un’anima e una possibilità di essere ed esserci in modo vitale. io chatto perchè la mia voce è questa, io sono e vivo qui.
avevo scommesso di resistere alla nostalgia di uno schermo spento, di staccarmi dalla tecnologia armata di sms e un libro. è possibile e, paradossalmente ti fa desiderare di sentire il suono di quelle voci, di incontrare quegli altri che frequenti x il piacere di farlo, quando te la senti, quando hai da dire qualcosa di vero e tuo e dove distanze e credo si possono abbattere. ho sempre creduto ai libri come mondi possibili e che incontri le persone nei momenti + impensabili che ti piombano addosso con il loro vissuto, sono libri parlanti sono occasioni che non puoi perdere sono … il resto delle parole arriva durante dopo arriva. sempre.

Questo ce lo metto io
Con Lucia Rosas abbiamo pensato che un tavolino, due bottiglie d’acqua, un libro, una penna, un telecomando e una busta forse sono un pò poco per costruire una storia. Scrivete gli altri elementi, personaggi, soggetti che vorreste nella storia, mandate foto o disegni (purché fatte da voi o in ogni caso non soggette a diritti d’autore). Arrivati a 20 ci fermiamo e cominciamo a scrivere le storie con tutti o anche solo alcuni degli elementi a disposizione. Pronti? Via!

La Musa
Un gatto e un pc.

Vincenzo Moretti
Il Piacere di Matteo Arfanotti

Laura Marchini
Sedie di legno come quelle di una volta… fogli molti, sparsi sul tavolo, un pò di confusione….
e una luce! non sò se un lampadario oppure una luce da tavolo accesa: perchè la luce è importante, apre una “porta”, un pensiero….

Felicia Moscato

Concetta Tigano




Viviana Graniero

Daniele Riva
Un paio di biglietti del tram o della metro, senza specificare la città…

Santina Verta

Una tavola da Go e alcuni proverbi.
Perdi le tue prime 50 partite più in fretta possibile.
• Usa il Go per farti nuovi amici.
• Non seguire i proverbi.


Giappone.
Il gioco si svolge su una tavola di legno chiamata Goban (ban vuol dire tavola in giapponese) su cui è disegnata una griglia di 19×19 linee ortogonali. I due giocatori usano delle pietre bianche e nere che posizionano nelle intersezioni del Goban. Il nome del gioco vuole dire qualcosa come “pietre che si circondano” ed illustra lo svolgersi del gioco: entrambi i giocatori cercano di fare punti circondando territorio (zone vuote del Goban, ogni interesezione è un punto) e pietre avversarie (quando vengono catturate ognuna è un punto).

Le regole del Go sono poche e semplici: quelle fondamentali sono 3(+1) e le rimanenti servono per chiarire alcune situazioni che possono crearsi raramente.
• Inizia sempre nero, si gioca uno per volta e le pietre una volta collocate sul Goban non si spostano.
• Una pietra, od un gruppo di pietre contigue (lungo le linee, non in diagonale), ha tante libertà quante sono le intersezioni vuote adiacenti ad essa. Quando rimane senza libertà la pietra è catturata e viene rimossa dal gioco lasciando spazi vuoti al suo posto. Nell’mmagine la 1° pietra ha 4 libertà, la 2° ne ha 3, la 3° ne ha due. La 4° pietra ha solo una libertà, è in Atari, e se bianco gioca nella posizione segnata dal quadrato la pietra nera verrà catturata e rimossa.

• Ad ogni suo turno un giocatore può giocare una pietra o, se ritiene di non avere nessuna buona mossa da giocare, passare. Se entrambi i giocatori passano consecutivamente la partita è finita, si contano i punti e si determina il vincitore.
• Segnalo in questo breve riassunto come 4° regola quella del Ko senza approfondirla: possono esistere delle situazioni in cui il gioco potrebbe entrare in stallo ed esistono delle regole per impedire quasi tutti questi casi.

Normalmente il Go viene giocato su un Goban di 19×19 intersezioni, ma si gioca anche in Goban più piccoli come 13×13 o 9×9. Questi Goban ‘minori’ vengono usati per partite veloci, per introdurre i principianti al gioco e ‘tanto per giocare in modo diverso’. Una cosa interessante da notare è che nel Go c’è un sistema di graduatoria ‘naturale’: se due giocatori di differente abilità si incontrano il più capace concede all’altro il nero (che incomincia per primo) e, nel caso, pietre di vantaggio. In questo modo si può sempre giocare una partita equilibrata e divertente, mentre in altri giochi il giocatore più forte vince sempre (o almeno dovrebbe)
Buon gioco!

Paola Bonomi

Maria Paraggio
In provincia di Salerno c’è un paese molto suggestivo, Ottati. E’ una galleria d’arte a cielo aperto. Artisti provenienti da ogni dove hanno realizzato murales bellissimi. Sono circa un centinaio. Percorrere le strade del paese è come visitare una galleria d’arte. Ne sono rimasta affascinata. Sulle pareti di antiche costruzioni si possono ammirare delle vere e proprie opere d’arte.

Piccole Storie Crescono S3-1


INCIPIT
No, non è un attacco di napoletanità.

2. Deborah Capasso de Angelis
E’ solo che quando incontri persone così il tuo cervello si aziona in dialetto! Non ci sono parole in italiano per definirle, devi per forza usare un vocabolario ricco di termini “sfiziosi” come il napoletano. Guardate che alcuni termini racchiudono in un solo suono tutta una costellazione di significati che è impossibile tradurre in un’altra lingua.
Si, ci vuole proprio una parola di quelle…..

3. Carmela Talamo
Di quelle tipo “tien a capa pe spartere  ‘e recchie” oppure “staje fore comme a n’antenna” oppure “tu nun si scemo tu si proprie scemo” e ancora “ma chisto addò è asciuto“, “ma tu si proprio nu quequero” ed altre cose del genere “nicchinnella” e penso che se ci fosse zia Tittillona (Carmela all’anagrafe, ma chi se ne ricorda più) saje quante ce ne cunsignasse.

4. Adriano Parracciani
Ufff…ecco che ci ricasco. Meno male che ci pensa Massimo Troisi a tirarmi fuori da questa attacco di magone. “Ancora co sta storia che Napoli nun a da cagna, ancora con il sole, a pizza, il mandolino”. Si, mi sovviene la scena quando Massimo parla con Funnuculi Funniculà che prima gli fa il test di napoletanità, “cantame a palomma” e poi lo uccide perchè non lo passa. No! non è un attacco di napoletanità.

5. Daniele Riva
È proprio quell’essenza che la città ti lascia addosso, il suo dialetto, il suo mare, l’odore che si respira… Sono lontano migliaia di chilometri e mi sorprendo a canticchiare “Napule e’ nu sole amaro… Napule e’ addore ‘e mare…” Come si chiamano? Radici. Inutile negarlo. SOno napoletano fino al midollo e no, non è un attacco di napoletanità. È napoletanità.

6. Santina Verta
“Vedi Napoli e poi muori” me lo disse il nonno della signora Rosa, di Maiori che abitava nel mio vicoletto calabro.Napoli, la prima città vista, ero affascinata da tutto, che ricordo elettrico–  marò, quanto mi è piaciuta sta città!  Era ,ohi la memoria… era fine terza media, aspetta che conto; estate ’64.
Un insieme di flasch nitidi e offuscati dall’eccitazione di una prima uscita da casa, ospite da estranei… timidissima… un solo vestito fatto fare per l’occasione  . 3 giorni  di curiosità  e quel timore del detto dell’accoglienza… non capivo la morte abbinata alla bellezza, mi impensieriva.
Sarei tornata a Napoli nel ’74, pretendendo di studiare e fare anche la mamma ..ma la precarietà economica, sempre quella dannata, mi bloccò al quinto esame di lettere moderne…ma intanto avevo avuto l’impatto  escludente con Milano, ma ora  è  Napoli e la sua bellezza che si impenna!

Due giorni ospite da Amica,per caso parente- ‘coppa o Vomero- mi permettevano di passare gli esami in università e poi gironzolare per scoprire parti della città—  riecheggiano le parole di mia madre” Statt’accorta a Napule rubbano”ma io ho sempre avuto coraggio! Ma , quella volta, invertii numero di tram e finii a san Martino…poi al Cardarelli e ripensandoci , mi vien da ridere, non osavo entrare in un bar e telefonare all’amica Annalisa,ne tantomeno entrare per un caffè, le parole della mamma… ma   le ore passavano, così la fatidica telefonata.._ Annalì mi signu persa” e lei invece di spiegarmi…chiamò tutta la famiglia e ridevano  e ridevano..—Io nu ci puzzu penzà.. ero già sotto casa loro!
Altra cosuccia di cui ridiamo quando ci ritroviamo  è stata la sorpresa  di vedere scritto vicino  il suo palazzo..”.Parco Aldebaran” io vedevo un solo Albero recintato e dissi..Ma Annalì a Napuli  chiamate parco un albero!— e lei -dai moviti… u parco so i case!-