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Fare il napoletano stanca

enakapata3Sabato 24 aprile. Ore 6.10 a.m. Esco di casa diretto al bar Luciano per il quotidiano cornetto e caffè. Anche il sabato? Anche il sabato. Anche perché, da quando ho deciso di prendere un solo caffé al giorno, soffro di crisi di astinenza, nonostante abbia avuto cura di ridurre gradualmente la dose (da 6 o 7 caffé al giorno a 3 o 4 prima, da 3 o 4 a 1 poi). Il sabato è diverso perché non devo andare né a Fisciano, né a Roma e dunque sono in versione comoda e lite. Comoda perché non mi faccio la barba neanche se è già lunga di due giorni. Lite perché non ho com me lo zaino con il Mac. Perciò di solito scendo, mangio il cornetto, prendo il caffé, prendo la funicolare centrale, la prima corsa, quella delle 6.30, salgo al Vomero, faccio un giro, ritorno a casa a piedi per via Palizzi e mi metto a lavorare.
Sabato no. Perché alle 6.30 la funicolare era ancora chiusa. Alle 6.32 è sceso dall’autobus l’addetto di turno (che fortuna, ho pensato, e se l’autobus si fosse rotto o fosse passato più tardi?). Alle 6.35 si ferma la funicolare al Corso V.E. ma non apre le porte. A mia precisa richiesta il conducente mi dice che quella è la corsa di prova. Corsa di prova? Ma se è in ritardo rispetto alla prima corsa ufficiale? C’è stato un problema – è la risposta-. La funicolare che sale va, arriva quella che scende e si ferma. Qui ci sono molte persone a bordo. In salita era la corsa di prova e c’era il problema. In discesa no.  A Napoli abbiamo  inventato la funicolare con problema alternato.
Se state pensando “ma perché non dormi il sabato mattina invece di cercare rogne” vi dico subito che io non cerco niente. Che il mio giro per il Vomero me lo sono fatto così come la passeggiata per via Palizzi con vista su Capri, Posillipo, Sorrento. E aggiungo che ho aspettato anche qualche giorno per vedere se mi passava. Non mi è passata. Sarà perché lì con me c’era Ciro, che incrocio ogni  sabato e nell’occasione ho scoperto che lavora per le poste,  che era giustamente nero per il cazziatone che si sarebbe preso dal capo, più obbligo di recuperare alla fine della giornata il tempo perduto, per responsabilità certamente non sue.  Sarà per l’anziana insegnante che doveva arrivare a Casoria e che era preoccupata di arrivare in ritardo. Sarà perché sulla funicolare delle 6.45 c’erano almeno altre 15 persone nella prima delle tre carrozze, quella dove sono salito io, che stavano andando a lavorare e che in vario modo si lamentavano che la prima corsa della funicolare, in particolare al sabato, da tempo non era più puntuale.
È proprio vero. Fare il napoletano stanca. Hai voglia a provare a fare il giapponese. Ci vuole in Giappone. Ma pare proprio che non siamo capaci di meritarcelo.

p.s.
Il titolo me lo ha sparato in faccia un manifesto che annunciava il concerto  di Federico Salvatore al Teatro Delle Palme di Napoli il 29 aprile 2010. Non me lo sono lasciato scappare.

p.p.s.
per favore risparmiatevi la petizione, la protesta e compagnia cantante. Le persone che prendono la funicolare delle 6.30 il sabato per andare a lavorare non hanno tempo per queste cose. Si, sono stanche, hanno poca fiducia e tanta rassegnazione. Ma poi perché se la prima corsa della funicolare è prevista alle 6.30 bisogna fare una petizione perché la prima corsa della funicolare si faccia alle 6.30?

I poppisti

enakapata3Di Totonno qualche volta vi ho parlato. Alto, robusto, forzuto, simpatico, atteggiato, ignorante q.b., in un mondo in cui tutti avevano prima un “soprannome” e poi un nome e cognome – Peppe ‘a lenta, Pippone, Gennaro Topolino, don Peppe Testolina, Gigino schifo d’ommo e così via -, a lui era stato affibiato quel “tre palle” che si portava appresso con ostentato orgoglio, come a imperituro acclarato riconoscimento del fatto che quando il gioco si faceva, per così dire, duro, potente come lui non c’era nessuno.
Se fosse stato uno Jedi sarebbe stato il suo lato buono della forza. Quello che gli permetteva di parlare di politica senza capirci niente, tanto lui era rivoluzionario come Cè Gaetano. Quello che quando provavi a dirgli che era Che Guevara, gli  faceva rispondere “e che differenza c’è, conta quello che ha fatto non come si chiama”. Quello che gli aveva  permesso di coniare il termine “poppista” per definire me, Salvatore ‘o beat, Tonino Parola e tutto il resto della band.
Poppista, cioè seguace della musica pop, nella sua Weltanschauung una sorta di poveraccio che perde tempo appresso a Joan Baez, Crosby, Stills, Nash & Young e similari quando ha in casa dei come Mario Merola e Pino Mauro.
A raccontarle tutte ci vorrebbe un libro intero, vi dirò per questo solo della sera in cui  nel bar di don Peppe mi si avvicinò con fare comprensivo, mi mise una mano sulla spalla, mi disse oggi ‘e fatt l’ommo venenno cu chelli ddoje guaglione, pure se erano nu poco brutte. A proposito, ma pecché ‘e poppiste so tutte brutte? Cercai di spiegargli che non erano brutte, che si vestivano da maschio,  che non si truccavano, mi avete sentito voi?, lo stesso lui.
Lo ametto, dovevo capire e non capii, ma a quei tempi si usava. Si usava cosa? La cosa che dissi a Totonno: e poi si proprio ‘o bbuò sapé, ‘e poppiste so belle dentro.
Mi guardò con comprensione. Di più. Preoccupato. Ancora di più. Al punto da non profferire ulteriore parola. Con l’esperienza di oggi ne  avrei approfittato, avrei preso le mie due buste di latte e me ne sarei tornato a casa. Allora invece no.  E gli dissi che d’é, nun parli cchiù? Viciè – mi rispose -, io stavo parlann ‘e femmene e tu me parli ‘e trippa.
Sono passati 40 anni. Ma quando ci penso sento ancora i pugni sul flipper do ricciulillo e la risata con il risucchio di Peppe ‘a lente che a momenti rischiamo di perderlo per sempre. Sono andati avanti per un bel pò a sfottermi: Viciè, è bella dentro, ma ‘a fora nun se pò guardà. E’ la legge del chi sbaglia paga. Non è la peggiore, volendo si impara anche. Le leggi brutte, quelle brutte assai, sarebbero venute dopo. Ma di questo stasera non voglio parlare.

Orrait

E ’nguaiato tutta ’a grammatica: la condanna era definitiva, la colpa il non avere fatto una cosa come diceva lui. La possibilità di farla come l’avrebbe fatta lui? Semplicemente non era prevista. Un pò perché nel fare le cose lui era davvero come l’amico della porta accanto di Massimo Troisi, un mostro, nel senso che era un “mastro” in tutto o quasi. Un pò perché anche se una cosa la facevi benissimo lui ci trovava sempre un difetto, la sbavatura che si poteva evitare, il particolare che si poteva curare meglio.
Lo vogliamo dire? E diciamolo. Quando faceva così non ce la facevi a sopportarlo. Di più. Ti levava la salute di dosso. Ancora di più. Era comme ’a morte ’ncoppa ’a noce do cuollo.
Vi state chiedendo se tutto questo ha inciso su di me?  E perché mai avrebbe dovuto? Io non ho mai saputo fare niente di pratico. E soprattutto non ho mai voluto imparare a fare niente di pratico. Il saper fare comporta aspettative. Genitori, mogli, figli, sorelle, fratelli che si aspettano che tu aggiusti cose che loro non sanno aggiustare. E ti criticano fino alla ferocia se non lo aggiusti nel modo in cui loro ritengono vada fatto. Manco ai cani. Certo ho rischiato. Come quella volta che ho fatto venire mio fratello Gaetano da Secondgliano al Vomero, roba da due ore e mezzo anche tre di traffico tra andata e ritorno più la “mission impossible” finale, trovare un posto dove parcheggiare a via Palizzi, più un paio d’ore buone con pinze, cercafase, cacciaviti, prima di accorgersi che la lampadina sul comodino che non riuscivo ad accendere da due mesi era semplicemente svitata.
Dite che doveva accorgersene subito? E perché? Gaetano è un uomo razionale. Pensa che qualunque persona normale prima di mettere in moto un meccanismo infernale controlla se la lampadina è svitata o è fulminata.
Dite che così facendo riconosco di non essere normale? Potrei rispondere “e chi lo è?”. Preferisco definirmi un sincero keynesiano.
Non funziona lo scaldino? Chiama l’idraulico e fai circolare la vil moneta. La moneta non è disponibile? Chiama un parente o un amico. L’amico non ce l’hai? Ti rimane l’opzione “impresario di Shakespeare in love”: Si risolve, come?, non lo so, è un mistero!
Dite che sono una persona impossibile? Lui lo era più di me. Eppure è stato molto amato, dalla famiglia, dagli amici, dai colleghi di lavoro, dai conoscenti. Sapete che anche io mi arrangio? Deve essere una questione di simpatia. Come faceva quella canzone che a lui piaceva tanto? Orrait, i song veri nais, che ci posso fà.

No, a Maronn ’e ll’Arco no

È stata la mia giovane amica Maria Clara Esposito a lanciare, su Facebook, il grido di dolore: “No, a Maronn ’e ll’Arco no”. E all’amica che le scrive “Alle prese con le feste di paese? Io sono stata svegliata dalla banda per la festa di un certo Sant’Antuono!”, risponde “non si tratta di festa di paese … magari! c’è questa specie di setta di “devoti” della Madonna dell’Arco in tutta la provincia di Napoli, che da gennaio fino a Pasqua, ogni domenica mattina girano per le strade della città urlando e strepitando canti e preghiere che dovrebbero invocare la Madonna. La cosa brutta è che si fingono fedeli, ma vanno solo a caccia di soldi. È un fenomeno curioso e avallato da cammorristi e delinquenti locali. Pensa che tra i doni che si fanno alla Madonna spesso ci sono siringhe e pistole d’oro”.
Immagino che voi vi sareste scandalizzati, incazzati, indignati. Io  no. Io ho pensato Maronn, e mò chi c’ho dice a Maria Clara. Chi le dice cosa? Che papà è stato fujente, cioè devoto della Madonna dell’Arco, uno di quelli che andava in giro, scalzo, vestito di bianco, fascia azzurra, statua della Madonna in spalle, che urlava, strepitava canti e preghiere, agitava il fazzoletto bianco con le monete per invogliare i passanti a lasciare il proprio obolo alla Madonna. Chi le dice di quella vecchia foto nella quale siamo ritratti io, Antonio e Gaetano, Nunzia non ancora ancora nata, mamma e la nonna nella parte posteriore di una vecchia Ape Piaggio che papà si era fatto dare in prestito, con i cappellini con in punta la spilletta della Madonna dell’Arco, sorridenti, felici di aver visto la festa del lunedì in Albis al santuario della Madonna dell’Arco, orgogliosi del fatto che quando papà era più giovane anche lui era entrato vestito di bianco in chiesa e si era buttato faccia a terra. Chi le dice che a casa nostra quando papà metteva dopo il mannaggia la Madonna dell’Arco (non ne vado fiero, of course, ma la verità è che la bestemmia da noi era di casa; talvolta ho pensato fosse “solo” un intercalare, altre volte un modo per invocare e manifestare affetto ai santi, altre volte addirittura il pretesto per creare situazioni paradossali, come quando papà giocava a carte – ho detto giocava, dunque niente soldi in palio -, scopa a 11 e pizzico a 21, con il suo amico Cosimo Pellecchia e ad ogni pigliata dell’altro bestemmiava avendo in risposta un immediato “sempre sia lodato”) era il terrore, perché significava che papà era davvero arrabbiato nero e ci avrebbe in ogni caso punito, fosse anche solo per l’oltraggio che aveva fatto alla Madonna di cui era devoto. Chi le dice della mia gioia quando, dopo le abiure della mia piccola grande rivoluzione culturale post 68, studiando antropologia all’università, ho potuto ridare dignità, senso, cultura a una parte della mia vita che tenevo accuratamente nascosta.
Lo so che vi sembra troppo, ma sapete com’è, a pensarlo non è come a scriverlo, basta un attimo. E dopo? Dopo mi sono detto che Maria Clara ha ragione. Mi sono sentito triste. Mi sono detto per fortuna che papà questa se l’è risparmiata. Poi mi sono come ribellato: No, a Maronn ’e ll’Arco no.
Il controllore mi ha guardato. Ho messo in tasca l’Iphone. Ho assunto l’espressione “aggiate pacienza”. Gli ho dato il biglietto. L’ha timbrato e ha girato le spalle, lo sguardo fisso modello “ma vedite nu poco”. Per fortuna la fermata dopo era la mia.

Gente di Secondigliano | Nennella

Nennella penso di averla vista l’ultima volta che aveva 7 – 8 anni. La volta precedente neanche la ricordo più. Per genitori due splendide persone. Lui con i suoi turni in fabbrica, lei ogni mattina lì, nel bar di fianco alla salumeria di don Alfonso.
Gli anni si sono succeduti ad uno ad uno, poi a dieci a dieci, ma io non ho mai smesso di parlare di Nennella. Non che ci fosse una ragione. Così,  come tributo alla Secondigliano che non mi sono mai voluto togliere di dosso.
L’amicizia con il fratello Rosario. La straordinaria gentilezza del padre, don Gaetano. Gli inviti domenicali a pranzo. Le mangiate  maccheroni, ragù, carciofi fritti, contorno, frutta e per finire “ò spasso”. Nennella che a due anni mangiava piattoni di pasta che adesso a “noi” del Vomero ci bastava per due e volendo anche per tre.
Luca prima e Riccardo poi Nennella l’hanno conosciuta senza averla mai vista. Era lì con noi ogni volta che a tavola facevano i capricci. “Se qui ci fosse stata Nennella”. “Se vi vedesse Nennella”. Fino al fatidico “papà ce fatto ’a palla tu e Nennella”.
Da una settimana Nennella al gioco della vita non ci gioca più. A neanche quarant’anni le è bastata la sua voglia matta di volare giù.
Hanno dato la colpa alla depressione. Acqua. A Secondigliano per morire ci vuole di meno, di più.  Rassegnazione? Ancora più acqua,  se Nennella avesse  saputo cos’è la rassegnazione sarebbe ancora qui. Disperazione? Poteva essere, se però non avesse avuto quel figlio di dieci anni da lasciare solo. Liberazione. Si, liberazione. Mi sembra la parola giusta. Liberazione.

Gente di Secondigliano | Antonio Gravina

A sentirlo sembra un personaggio da “La leggenda degli uomini straordinari”. E in fondo anche a conoscerlo con quel look modello Steve Jobs e gli occhi profondi non lo vedresti male a fianco di Sean Connery. È un imprenditore ma non ti dice di capitale. Piuttosto dell’importanza di avere ogni tanto la testa sgombra, di riprendersi un pò del proprio tempo, di leggere per ritrovare i propri pensieri. È un imprenditore ma non ti dice di profitto. Piuttosto delle idee che lo ispirano e gli danno l’energia positiva per fare quello che vuole fare nella maniera più straordinaria possibile. Sulle tracce dei migliori. Qualunque cosa facciano. In qualunque parte del mondo lo facciano. È un imprenditore. Alle prese ogni giorno con faccende di capitali e profitti.
Antonio Gravina è fatto così. Nessuna via di mezzo. L’eccellenza per scelta. La curiosità per destino. Bracciata controcorrente. Come quando lascia la scuola contro il volere dei genitori. Sentivo di poter fare qualcosa di meglio lavorando – racconta -, anche perché, stupidamente, avevo scelto un istituto per geometra che non mi stimolava abbastanza. So che non sta a me dirlo, ma ero bravo, mi piaceva studiare,  apprendevo facilmente, e quel tipo di scuola mi annoiava.
Visto da un certo punto di vista, diresti ancora oggi che nel cambio ci ha perso. Comincia vendendo biancheria. Calzini. Libri. Abbigliamento again. Il servizio militare. Poi l’approdo nel suo attuale universo.
Ho cominciato in uno scantinato come Steve Jobs – mi dice mentre sto lì a congratularmi con il mio quinto senso e mezzo -, ci sono dieci anni di lavoro prima di arrivare a Bespoke.
La stessa filosofia nel lavoro e nella vita: conoscere le cose direttamente, da vicino; confrontarsi con persone ed esperienze di ogni parte del mondo;  non fermarsi ai “si dice”; cercare sempre un punto di vista originale.
Mi dice che il mondo trabocca di persone interessate, superficiali o anche solo distratte che mentre cercano di imitarti ti spiegano che quello che vuoi fare tu loro già lo fanno o lo hanno fatto meglio di come lo potresti fare tu senza essere riusciti a cavare un ragno dal buco.
Il ritornello è sempre lo stesso, non si può fare. La mia esperienza, le mie letture, i miei viaggi dimostrano che invece si può. Si può cosa – gli faccio -.  Si possono fare cose belle che ti fanno stare bene in maniera semplice – risponde-.
Londra è la capitale della moda, anche nel nostro settore, da molti decenni, e quando ci sono stato la prima volta ho visto parrucchieri fare cose che noi italiani neanche immaginavamo. Lamentandocene.
Adesso ti metti a citare anche Blade Runner – gli faccio -. Lasciami finire – mi fa -.
La prima, semplice, domanda che mi sono fatto è stata: perché parrucchieri che vanno a Londra da molti anni prima di me, e hanno visto quello che ho visto io, non hanno trasferito in Italia quel modello vincente, smettendo di lamentarsi, facendo qualcosa di innovativo, conqistando maggiori opportunità, soddisfazioni guadagni? Lo so che tu stai pensando che la stessa cosa vale per la ricerca, l’impresa, la politica, ecc., ma io preferisco rimanere sul punto.
Un punto che tu chiami isomorfismo, io benchmarking e che in estrema sintesi si può ridurre al rifiuto dell’idea che da noi non si può fare.
Va bene, è difficile, ci si mette lo Stato, la burocrazia, le tasse, la cultura, i concorrenti, i mille altri piccoli grandi impedimenti, ma si può fare.
Si può fare a patto di smontare tutto il sistema di credenze preesistenti, di rinunciare alle nostre piccole certezze, di ribaltare l’approccio che abbiamo ereditato da persone valide ma cresciute in anni in cui invece di sognare ci si arrangiava. Io non mi accontento di sembrare un vip con una bella automobile, delle belle vacanze, una o più belle case di proprietà. Io sono un imprenditore. Dunque un innovatore. E il cambiamento non lo aspetto. Lo realizzo ogni giorno.
Questo è quanto, più o meno, mi ha detto Antonio un paio di settmane fa. Quello che gli ho detto io glielo ho detto ieri sera. A voi ve lo racconto domani. Magari dopo che mi avete detto quello che gli avreste detto voi.

Riccardo e il ritratto del nonno

Riccardo ha appena compiuto 14 anni. Una settimana fa l’ho trovato a casa mia che guardava il disegno a matita del nonno e scriveva. Gli ho chiesto cosa stesse facendo. Un ritratto del nonno, mi ha risposto.
Il suo ritratto del nonno è questo:
Quell’oscuro abisso era costeggiato da un contorno ondulato di ciglia lunghe e sottili, sotto cui si ergeva come un monte solitario quel suo enorme naso, forse un pò goffo, ma pieno di espressione. Sotto, una bocca lunga e sottile era contornata da qualche ruga appena accennata. Sopra gli occhi, si estendeva una pianura rosa costeggiata ai due lati da due boschi bianchi come la neve.
Il punto, almeno il mio, non è né la somiglianza né, tantomeno, la qualità letteraria  del ritratto. Il punto, almeno il mio, è la motivazione. Quella che l’ha portato a casa mia. Ad osservare il disegno del nonno. A scrivere il suo ritratto.
Riccardo frequenta il primo liceo scientifico. L’altro giorno ha avuto la pagella del primo trimestre. Sua madre, da sempre più presente di me in queste faccende, è andata a scuola per ritirarla e per parlare con i proff.
Quando sono passato il giorno dopo, ho saputo che Riccardo e la sua classe erano andati al cinema e che la prof. che li aveva accompagnati era tornata superarrabbiata perché  i ragazzi avevano lasciato di tutto per terra. Dopo di che aveva  rimarcato l’esigenza di parlarne nelle sedi d’istituto, aveva ribadito che una cosa del genere non poteva essere lasciata passare in silenzio e aveva concluso sottolinenando che era stato solo grazie a Riccardo, Francesco e Alessio, che avevano raccattato tutto quanto era possibile raccattare, che era stato possibile non sprofondare per la vergogna.  La cosa ha avuto un seguito già il giorno successivo in classe quando un’altra prof. ha  voluto fare personalmente i complimenti a Riccardo, Francesco e Alessio per ciò che avevano fatto.
Il punto, almeno il mio, non è quello di raccontare quanto sono bravi ed educati Riccardo,  Francesco e Alessio. Sia perché in fondo hanno fatto soltanto ciò che andava fatto , sia perché messa così la faccenda fa fatica ad avere un valore generale.
Il punto, almeno il mio, è che ancor più dei ragazzi che hanno  avuto un comportamento responsabile sono stati le proff. che, valorizzando tale compertamento, hanno posto le basi per l’attivazione di circuiti virtuosi, di buone pratiche, di processi di isomorfismo.
Il punto, almeno il mio, è che deve essere conveniente essere educati, rispettosi, responsabili affinché si diffonda la cultura dell’educazione, del rispetto, della responsabilità. E che nella determinazione di questa convenienza sono decisive le motivazioni delle persone. E, ancor di più le azioni delle famiglie, delle scuole, delle imprese, dei governi a ogni livello.
Elementare. Ma niente affatto semplice. E questa volta non c’entra il mio punto di vista. Basta guardare a casa Italia.

Zia Concetta e papà

L’effetto “livella” della morte l’ho imparato da piccolo, alla morte di un mio vecchio zio, mezzo alcolizzato, nulla facente (anzi nò, qualcosa la faceva, ogni tanto picchiava moglie e figli)  grazie a un bel manifesto listato con su scritto “dopo una vita dedicata alla famiglia e al lavoro, serenamente come visse si è spento eccetera eccetera”.
Dite che così non vale? Non lo so. Quello che so è che mia zia per anni ogni domenica è andata al cimitero con la sua brava sediolina pieghevole e ha allietato il deceduto consorte con ingiurie, sberleffi e anatemi di ogni tipo.
Dite che così non serve a niente? Non lo so. So che a un certo punto la zia l’abbiamo soprannominata Highlander. E che è stata l’ultima dei Moretti della sua generazione a morire, quando i 90 anni li aveva già lasciati alle spalle da un pezzo.
Zia Concetta era un personaggio unico e con le sue sotrie di vita si potrebbe scrivere un’enciclopedia. Con papà, il più piccolo dei fratelli, (è quello che vedete nel disegno), c’era stato una volta un siparietto tragicomico di quelli che sembrano usciti dalle commedie di Eduardo.
Scena. Letto di morte di zia Maria. Personaggi. Papà che piange inconsolabile la sorella a cui era particolarmente legato. Zia Concetta. Che arriva claudicante. Abbraccia papà. Piange. Lo abbraccia più forte. Gli dice “Pascà, simme rimasti io e te, mò devi morire solo tu”. Papà che la spinge via, si tocca là dove non batte il sole e le risponde “Cuncé, ma pecché, nun può murì primme tu, ca tieni vintanne cchiù é me?”.
Se avesse potuto, credo che anche zia Maria sarebbe scoppiata a ridere. Di certo non se la prese per la risata che si propagò presenti.
Perché vi racconto tutto questo? In primo luogo per ricordare papà, che era davvero una grande anima anche se io non l’ho mai capito fino in fondo fino a quando non c’è stato più. E poi perché questa storia a Natale in un modo o nell’altro in famiglia ce la raccontiamo sempre. E quest’anno mi piace raccontarla anche a voi. Tanto, se non la volete sapere, potete anche cliccare da un’altra parte. Tanto io non mi offendo. Noooo.

Leggerlo Enakapata. Regalarlo nù capatone

A Natale regala Enakapata. E’ un libro, e tra una papaccella e un pezzo di baccalà un pò di cultura non guasta. Costa poco, e con la crisi che c’è qualche risparmio da investire in Bot (ti) fa solo piacere. E’ bello, come disse la mamma guardando lo scarrafone suo. Leggerlo Enakapata. Regalarlo nù capatone.
Queste le quattro righe quattro con le quali da qualche giorno ho lanciato Natale Enakapata, ‘a Befana nù capatone, la campagna natalizia per quelli che hanno già letto Enakapata e per quelli che invece no.
In queste ultime settimane mi sono chiesto spesso se non sia ora di smetterla di fare viaggi, di spendere tempo e  soldi, di dare fastidio ai miei amici su Facebook, per promuovere Enakapata. Perché non lo faccio? Perché per ora mi piace più di quanto mi stanchi, anche se mi stanca molto. Perché una ragione ci deve essere se più della metà delle persone che vengono alle presentazioni comprano il libro. E perché spero che un giorno o l’altro il passaparola l’abbia vinta sui distributori che non lo pubblicizzano e sui librai che non lo ordinano.
La morale della storia? Fino a quando ce la faccio, vado avanti, nonostante Luca che quando non lavorava non mi aiutava senza sensi di colpa (per fortuna li ho io quelli di tutta la band) e adesso che lavora non mi aiuta e basta.
Su Flickr troverete perciò le nuove foto (e le vecchie di Noyori, Tonomura, Nori e Carninci nello stesso album).  Su Scomunicando il resoconto della presentazione a Brolo. Per le prossime news, incluse quelle relative alla traduzione del libro in giapponese, bisogna aspettare ancor un pò. Speriamo.

Il turnista. Ovvero: Vicié, ‘e figlie sò figlie

Settimana Enakapata quella che comincia oggi. Mercoledì presentazione del libro a Caserta, alle 17.00, alla Libreria Pacifico, in Piazza Vanvitelli, con la partecipazione ormai straordinaria di Moretti il giovane, perché lui lavora a turno, per 5 ore al giorno, 6 giorni su 7, ed è per un puro colpo di fortuna che mercoledì alle 14.00 finisce e può raggiungermi a Caserta (continuate a leggerci, prometto che vi farò sapere in anteprima l’ora e il giorno in cui lo strozzo :D). Sabato invece, alle  17.30, presentazione a Brolo, provincia di Messina, nella sala multimediale Rita Atria, rigorosamente da solo, perchè turno o non turno “lui” non può  venire certo fino laggiù di sabato per tornare la domenica sera (e se lo avessi già strozzato? It’s impossible. Come direbbe Filumena Marturano, Vicié, ‘e figlie sò figlie :D). Vuol dire che mangerò tanti di quei dolci siciliani che solo a raccontarglielo gli farò venire un attacco di bile, senza parlare del salame di maiale nero di Brolo di cui mi ha detto il mio amico Gianni Bombaci.
Questa settimana diventerà più intensa anche la “campagna” Natale Enakapata ‘a Befana è nu capatone (vedi già tremare i miei 633 amici di Facebook Planet).
Il messaggio è per Natale regalate Enakapata. E’ un libro, e tra una papaccella e un pezzo di baccalà un pò di cultura non guasta. Costa poco, e con la crisi che c’è qualche risparmio da investire in Bot(ti) fa solo piacere. E’ bello, come disse la mamma guardando lo scarrafone suo.
Buon pacchetto a tutti.

Uno di due

enakapata3 Ebbene si, si ricomincia.
Il prossimo appuntamento è per il 7 novembre a Capo Miseno, dove  la presentazione del libro sarà il pretesto per ragionare di università, di ricerca scientifica, di innovazione, magari con qualche raffronto  tra Giappone e Italia.
Il 25 novembre sarà invece la volta di Caserta, dove invece il tema scelto dagli organizzatori è lo scambio culturale tra le generazioni.
Ecco, tra le cose che continuano a piacermi di tutta questa storia ci sono sicuramente le diverse angolazioni con le quali si può leggere Enakapata. La scienza. Il rapporto tra padre e figlio. Secondigliano e Tokyo. L’umanità di magliari e Nobel Prize.
La cosa che mi piacerà di meno sarà ritrovarmi a discutere senza Moretti il giovane. Se siete frequentatori abituali già sapete che da qualche setimana ha un lavoro. E se non lo siete non perdetevi d’animo, appena un pò di scrolling e avrete modo di sapere tutto  ma proprio tutto su questa grande novità.
Lo so che ci voleva. Il titolo del post l’ho scritto io, non voi. Ma se e quando accadrà mi mancherà tantissimo. Enakapata è il nostro viaggio. In ogni caso vi farò sapere. Promesso.

p. s.
Prima che me lo chiedete voi, ve lo dico io. I turni di Moretti il giovane lo impegnano 6 giorni a settimana, cosicché incastrare la sua agenda con la mia e con quelle di coloro che organizzano le presentazioni è un’impresa titanica. Senza bisogno di dircelo abbiamo deciso di dare priorità al libro, e ogni volta che abbiamo una data si va comunque. Naturalmente lui conta sul fatto che tanto sono io quello che sta sempre in mezzo. Vorrei sfatare questo mito. C’è qualcuno che mi aiuta? Io sono certo che Moretti il giovane da solo se la caverebbe benissimo. E voi?

Cornuti e mazziati

enakapata3 Ci credete che questi viaggi in giro su e giù per l’Italia per raccontare Enakapata mi piacciano un sacco? Immagino di si. Farete molta più fatica a credere che sono anche molto faticosi. Impegnativi (anche, per il mio livello di reddito, dal punto di vista economico). E’ una delle grandi tragedie della mia vita. Ma di che ti lamenti, in fondo fai le cose che ti piacciono. Assolutamente vero. Ma per farle faccio tanta fatica. Sì, vabbé, ma in fondo ti diverti. Assolutamente vero. Ma ciò non toglie che … Basta ci rinuncio. Tanto, come diceva mio padre, alla fine si finisce sempre  cosi. Cornuti e mazziati.
A proposito di divertimento, quest’ultimo viaggio a Sarzana è stato non solo estremamente interessante, bello, gratificante, ma anche l’occasione per sperimentare un nuovo futuro per i Moretti&Moretti.
Di cosa si tratta? Non ve lo dico, of course.  Al massimo posso darvi un assaggio di com’è dura la vita di un padre che, per genio e per caso, si è ritrovato a scrivere un libro insieme al figlio.

2 Ottobre, in treno da Roma verso Firenze:
V.: … Bisogna che aumenti la presenza di Enaapata nelle libreria. Mi dovrò inventare qualcosa.  Non c’è niente da fare, bisogna stare sempre sul punto. Non so come fai tu a vivere senza pensare a nulla.
L.: Niente di meno! Non vedi tu come stai combinato e al contrario io come sto bene? Immagino che adesso col lavoro cambierà molto ma per i miei primi 26 anni ho cercato davvero di avere un approccio taoista nei confronti della vita.
V. Adesso mi butto giù dal treno. Anzi butto giù te.
L. Siamo sui treni ad Alta Velocità. Non è tecnicamente possibile. Senza contare che hai giurato che per rispetto ai pendolari se ti suicidi non lo farai mai buttandoti sotto a un treno.

2 Ottobre, in treno da Firenze verso Sarzana
V.: L’altro giorno a Roma in Cgil ho rivisto A. R., è stato affettuoso, effervescente, pirotecnico come al solito.
L.: Sarà che quello di sindacalista è un lavoro usurante, ma dei tanti sindacalisti che ho conosciuto nella mia vita non ce n’è ancora uno normale. Sì, sarà che il lavoro è usurante.

3 Ottobre, in albergo a Sarzana
V.: Mannaggia, ho perso l’orologio!
L.: Pà, come hai fatto a perderlo, ieri sera tardi ce l’avevi, guarda bene.
V.: Ho guardato dappertutto.
L.: Guarda meglio.
V.: No, l’ho perso. No, l’ho trovato. Nella tasca laterale della giacca. E’ che io la giacca non la porto quasi mai.

3 Ottobre, in treno da Sarzana a Firenze
V.: Mannaggia, ho perso il telefono!
L.: Pà, come hai fatto a perderlo, in stazione ce l’avevi, guarda bene.
V.: Ho guardato dappertutto.
L.: Guarda meglio.
V.: No, l’ho perso. No, l’ho trovato. Nella tasca laterale della giacca. E’ che io la giacca non la porto quasi mai.
L.: Pà, ma quale giacca, telefono e portafoglio! Tu é perz a capa. Ma da un sacco di tempo.

That’s all, folks! Se decidete di scrivere un libro, e decidete di farlo con vostro figlio, preparatevi.  Tanto alla fine si finisce sempre così. Cornuti e mazziati.

Sarzana, tre anni dopo

enakapata3 Sono passati 3 anni, ma voi questo lo sapete già. Ma nonostante i problemi, le difficoltà, la crisi, la banda Apai non ha rinunciato al suo evento, ma di questo potrete leggere domani su Nòva 100.
Quello che ci piace raccontarvi adesso è che a Sarzana, nell’ambito di Tecknos Duepuntozero ci saremo anche io e Luca, e naturalmente Enakapata e Tokyo e la serendipity e Secondigliano e il ramen e ancora tante altre delle cose che abbiamo fatto e visto in Giappone.
Ma Enakapata a Sarzana non sarà solo un viaggio verso ciò che è già stato. Non solo perché con Andrea Lagomarsini,  Laura  Marchini, Marco Marchi e company non è possibile guardare solo al passato. Ma perché Tecknos è davvero un evento serendipitoso, che favorisce naturalmente e piacevolmente l’incontro di menti preparate capaci di cogliere il dato anomalo, imprevisto e startegico e dunque in grado di realizzare connesioni e creare valore per genio e per caso.
Non ci credete? Seguiteci e vedrete.

Palermo mia cara

enakapata3 L’ultima volta a Palermo? Una vita fa. Naturalmente l’ultima volta che ci sono stato veramente, con la testa e col cuore, e non l’ultima volta che ci sono passato da turista. Era il giugno 1992, un anno difficile da dimenticare. 36 giorni prima, l’eccidio di Capaci era costato la vita a Giovanni Falcone, a sua moglie, agli uomini della scorta. Eravamo arrivati da Napoli, nonostante il mare forza nove, per partecipare alla manifestazione promossa da CGIL, CISL e UIL, “L’Italia parte civile”. Ricordo la città partecipe e solidale invasa da decine di migliaia di persone giunte da ogni parte d’Italia. Ricordo l’amarezza con la quale l’avevamo lasciata. La manifestazione appena conclusa. Il nostro ingresso nel bar. Il giovane proprietario che ci chiede i motivi della nostra presenza nell’isola. La fierezza della nostra risposta. La sfida nei suoi occhi. Lui che a Napoli ci viene ogni anno. Ma per cose serie. Come la partita della Juve allo stadio San Paolo.
Questa volta no. Questa volta è stato tutto bello. Dall’inizio alla fine. Certo Enakapata. Ma non solo quello. Anzi neanche soprattutto.
Non ci credete? E allora provate voi ad arrivare in una soleggiata giornata palermitana dopo una notte assolutamente tranquilla nonostante la Tirrenia non fosse attrezzata per farci vedere via satellite Inter Barcellona. La sera prima si era abbattuta su Palermo una vera e propria bufera? Noi neanche lo sapevamo, almeno fino a quando non hanno cominciato a squillare i maledetti cellulari. E questo è niente. Perchè nonostante l’evidente disappunto di Moretti il giovane comincio a chiedere ai passanti di una buona pasticceria e a una buona pasticceria, che dico, ottima, arriviamo davvero, e in meno di 10 minuti. Pasticceria Mazzara, dal 1909, provare per credere. Mangiamo dolci che è una meraviglia, le persone sono tutte attente e gentili, paghiamo poco più di 11 euro per 6 dolci, 3 caffè, 1 latte freddo, 1 succo di frutta (al tavolo, a Napoli in un posto equivalente ce ne sarebbero voluti 30). E non finisce qui. Perché ci mettiamo a chiacchierare e scopriamo che il simpatico signore che ci serve i dolci si chiama Franco Di Modica e scrive testi per cabarettisti siciliani. Gli regaliamo il libro, ci invita a tornare e ad assistere al nuovo spettacolo, da gennaio ad aprile 2010.
Morale della storia? In 2 giorni alla Pasticceria Mazzara ci siamo tornati 5 volte, e ne è sempre valsa la pena.
E poi, e poi? E poi i giri per i mercati a caccia di storie e di spezie. E poi Enakapata e Antonio e Francesco e Teodoro e Lia e Roberta e… E poi le strade e le chiese. E poi le sarde, la frittura  e gli involtini di pesce spada. E poi il ritorno e la Via Lattea. E poi un padre e un figlio che diventano sempre più amici. Lo so che lo sapete già. Ma Enakapata è nà capata soprattutto per questo.  Nonostante la fatica, le corse, le spese. E’ così bello che mi sembra un sogno. Anzi no, come diceva l’Ernesto? E’ un sogno quando sogni da solo. Quando sogni con gli altri è realtà.

Riegler, Pagano

enakapata3Siglinde Riegler: Magari sono una che si entusiasma facilmente, ma leggere Enakapata mi ha fatto intravedere aspetti sorprendenti del Giappone, lasciandomi un po’… invidiosa? Forse. Un esempio? Il concetto di “kyoiku”, educazione intesa come cultura di rispetto delle regole … l’idea che ci sia un paese che “predilige i toni bassi, la modestia, l’understatement (…) che investe con forza e ad ogni livello sulla cultura e sulla valorizzazione del merito nonostante continui a considerare importante l’anzianità, la famiglia, il clan”.
Un altro mondo è possibile? Pare proprio di sì! Dove trovo il modulo per chiedere asilo politico al Giappone.
Altro aspetto che mi ha colpita: le riflessioni sul concetto di “serendipity”…che mi piacerebbe approfondire! Un elemento di leggerezza (non di superficialità) che permette di fare inaspettati balzi in avanti…il contrario del cocciuto accanimento sterile, pesante ed ottuso!
Ed infine: in Enakapata ho trovato degli spunti interessantissimi di riflessione sulle organizzazioni. A proposito della creazione di senso, della condivisione dei valori, della necessità che il genio individuale venga sostenuto dall’impegno delle organizzazioni affinché i saperi e il saper fare non vadano perduti; a proposito del bisogno di una continua azione di retrospezione attraverso la quale il gruppo che lavora insieme per un obiettivo definisce e rafforza la propria identità confrontandosi su ciò che si è fatto e sui risultati…riassumendo: l’importanza di dare valore alle regole, alla responsabilità, al rispetto, al Lavoro. In tutti i contesti in cui viviamo, per viverci meglio! Ecco, credo che in Enakapata si racconti di ricerca, ma si parli, in fondo, di vita, di come si potrebbe viverla meglio.
In Giappone, dopo 54 anni di opposizione, hanno vinto i democratici: sarà forse un caso?

Alessandra Pagano: Ieri ho cominciato a leggere il diario che ha scritto insieme a suo figlio e devo dire che veramente “ENAKAPATA”!
Banale forse come complimento ma io che ho sognato per una vita di visitare il Giappone e che ho avuto la possibilità di andare lì solo due anni fa ho rivissuto, attraverso le parole di suo figlio, quelle stesse emozioni.
Già la foto di copertina mi ha fatto riascoltare come per magia la vocina della metropolitana che avvisa i viaggiatori di trovarsi a Roppongi.
A breve arriverò alla fine e ho già deciso di comprare una copia per una mia carissima amica che, per coltivare appieno la sua passione per la ricerca, ha lasciato questa “povera patria”.
Spero di non essere stata troppo invadente con questo messaggio.

P. S.
Troppo forte anche il suo riferimento a Casperia dato che, pur essendo nata a Napoli e avendo avuto la geniale idea di tornarci a vivere da sola all’eta di 23 anni, ho trascorso a Rieti tutta la mia infanzia assieme alla mia famiglia!
A presto.

‘E sbagliat palazz

enakapata3 Ieri mattina. sabato. Ore 12.00. L’appuntamento è alla Feltrinelli Libri e Musica di Piazza dei Martiri. Io e Luca arriviamo 10 minuti prima. Moretti il giovane deve comprare dei regali. Facciamo un giro. Prende Ti racconto il 10 maggio e Juve – Napoli 1-3, la presa di Torino di Maurizio de Giovanni (Edizioni Cento Autori) più Seventies, una raccolta in 3 cd di grandi successi anni 70. Poi si mette in fila per pagare mentre io esco fuori per vedere se è arrivato. Antonio Gravina c’è. Si rivela subito una persona molto particolare. Ma di questo avremo modo di parlare altre volte. Passano pochi minuti e arivano la moglie Trudy e il figlio Francesco. Entriamo. Riusciamo a sederci al bar mentre prendiamo bibite e caffé. Un’ora di straordinario piacere. E Trudy che ad un certo punto dice “questa storia è cominciata con un parrucchiere che ha sbagliato palazzo e ha bussato per caso alla nostra porta”.
Il déjà vu è inesorabile. Secondigliano. Mio padre. Il suo “guagliò, se pienze ‘e fa ‘e capa toia cu mmé ‘e sbagliat palazz”. La discussione che vorrebbe finisse lì. Il tempo che  ridefinisce i poteri e le possibilità.
Enakapata è nà capata anche per questo. Per le facce e le storie che mi sta facendo incontrare. Per il tempo e i ricordi che mi sta facendo ritrovare.  Se spero che tutto questo duri per sempre? A volte. Mentre mi organizzo per il prossimo viaggio.

Dampyr a Palermo, tra qanat e nà kapata

enakapata3Forse ve l’ho detto già che sono anche un vecchio napoletano superstizioso. O forse ve lo sto dicendo adesso. Ma vi assicuro che quando stamane mi sono accorto che il numero di settembre di Dampyr, il  fumetto edito dal mitico Sergio Bonelli che ha preso nel mio cuore il posto di Dylan Dog che aveva preso il posto di Tex Willer (naturalmente non tutto il posto, solo il primo posto), è ambientato a Palermo, non vi nascondo che ho provato un attimo di sincera felicità. Enakapata e Dampyr nello stesso mese a Palermo. Buon segno. Direi ottimo. E poi come ogni volta accade con le storie di Dampyr si imparano un sacco di piccole, grandi cose.
Ad esempio tutto le volte che sono stato a Palermo  nessuno mi aveva mai parlato dei qanat: “costruiti dagli arabi con tecniche proprie dei persiani, sono delle strette gallerie sotterranee scavate dai muqanni, “maestri d’acqua”, con delle semplici zappette”. Continuo? Non sapevo che i regali ai bambini non arrivano a Santa Lucia né a Natale ma nel giorno dei morti. Nè che nella lingua palermitana il verbo declinato al futuro non esiste.
Sapete che vi dico? Chiamo il mio amico Antonio Riolo e gli chiedo se trova il modo di farci farci fare un giro nel qanad del gesuitico basso, che pare sia il più bello e il più facile da visitare.
Dite che sono esagerato? Che Antonio ha già fatto tanto per la presentazione di Enakapata a Palermo? Ma no.  I siciliani in quanto ad ospitalità non temono confronti. Io comunque ci provo. Nel caso vi faccio sapere.

Ho visto robot che voi giovani neanche immaginate. Firmato: il nonno

enakapata3Lo vogliamo dire? E diciamolo. E’ per me motivo di soddisfazione la frequenza con la quale Google Alert mi segnala notizie riguardanti il Riken. Tra le ultime ricordo i Display OLED destinati a costare come stampare un giornale, RIBA, il robot che si prende cura degli anziani (segnalatomi anche dalla mia amica Alessia Cerantola direttamente dal Giappone), i cacciatori di raggi cosmici.
Dite che io non ho nessun merito? Vero. Ma solo in parte. Perchè sono stato tra i primi (forse il primo, ma come si fa a dirlo?) a scrivere dell’organizzazione di questo istituto, dei processi di competizione collaborazione che contraddistinduono le sue attività, dell’importanza che in esso viene assegnato al merito.
Tornato in Italia, sembravo un marziano. Il Ri che? Il Riken, signori, una straordinaria  fabbrica di scoperte scientifiche, per genio e per caso.
Meditiamo gente, meditiamo.

Gravina

enakapata3Antonio Gravina: Ho letto il vostro libro che ha cambiato la mia vita. Mi piacerebbe comunicare con voi, senza disturbare volevo conoscervi se mi si è concesso, sono un piccolissimo imprenditore napoletano a cui piace viaggiare soprattutto in Asia, mi lascio molto influenzare dalle culture e cerco di portare un piccolo contributo delle mie conoscenze nella nostra città.
Il concetto di serendipity è la versione più bella di collaborazione costruttiva che abbia mai potuto pensare o scrivere o raccontare … l’ho usato in un meeting interno con 30 persone che sono rimaste estasiate. Complimenti!!

P. S.
Sono di Secondigliano … ma adesso vivo al centro di Napoli e lavoro nel sud Italia.
A presto.

Gaetano, Gaetanoooo, Gae-tano, Gae-tà

enakapata3[…] Eppure qualcosa non torna. Sono come preso da un attacco di mancata fisicità. Com’era diverso a Secondigliano. Se si stava a scuola, bene. A lavoro, anche. Ma in tutti gli altri casi la parola d’ordine era una sola: stare tutti assieme.
L’appuntamento era al bar di don Peppe «Testolina», di fronte a casa mia, a fianco della merceria gestita dalla signora Carmela, la mamma di Tonino Parola. Se qualcuno mancava? Facile. Si passava a prenderlo a casa.
Due le possibilità. La chiamata via citofono, modello classico. Oppure la chiamata a cappella, modello Lello. Chi è Lello? Lello Sodano, quello che all’inizio di Ricomincio da tre inizia a gridare Gaetano, Gaetanoooo, Gae-tano, Gae-tà, e non smette fino a quando l’amico non scende.
L’aspetto positivo della faccenda è che si riusciva a sopravvivere anche senza i telefonini. Quello negativo è che talvolta si esagerava con lo spirito di gruppo.
Ci ripenso e comincio a ridere da solo. No, non sono impazzito. Almeno non ancora. Si tratta del giorno in cui mi sono fidanzato. Il 6 settembre del 1976. Un lunedì. L’appuntamento con lei è per le 10.30 alla Mostra d’Oltremare, dove da qualche giorno è cominciata la Festa Nazionale dell’Unità. L’anno prima Maurizio Valenzi è stato eletto sindaco di Napoli. Un sindaco comunista, in realtà del Pci, per una città che ha dovuto fare i conti con Lauro, con i Gava, con il colera.
L’atmosfera è decisamente di festa, l’attesa per il comizio conclusivo di Enrico Berlinguer già enorme. Sto per uscire di casa quando mi chiama lui, uno dei pilastri della Secondigliano Band, per dirmi che ha deciso di venire con me.
La cosa mi sorprende non poco. Lui è persona informata dei fatti. E sa che vado alla festa per lei. Glielo ricordo ancora. Risponde offeso che lui non sarà certo un problema. Non ci resta che andare. Alle 10.20 siamo sul posto. Appena qualche minuto e arriva lei. Non so cosa pensate voi del fatto che io non fossi solo. So che mi ci è voluta mezza giornata buona prima di riuscire a prendere per mano lei e a seminare lui. Complice lo stand con i libri di Brežnev e di Kim Il Sung.
Lui non se lo aspettava. Lei invece sì. Non riesco a dire quello che volevo dire come lo volevo dire. Per fortuna l’amore non è solo cieco. È anche sordo. Lei mi dice sì. E io riesco ad evitare ancora per un’ora lui. Il resto del pomeriggio assieme. Ma ormai è andata.
È sera quando ci ritroviamo io e lui senza lei alla stazione della metropolitana di Campi Flegrei. Destinazione casa. Sono felice. E la felicità può giocare brutti scherzi. Farfuglio che mi dispiace di essere scomparso e che spero che lui mi possa capire. Mi conferma che lui mi capisce. Ma aggiunge che anch’io devo capire lui. Che si è annoiato. E ci è rimasto anche un po’ male. Rimango senza parole. Anzi no. Gli dico a muso duro che no, io non lo capisco. Che lui là non ci doveva proprio venire. Lui sta per arrabbiarsi. Io di più. Facciamo prima a scoppiare a ridere.

Gaetano

enakapata3Lo vogliamo dire? E diciamolo. Noi ci siamo piaciuti. E  non sempre accade. Telefonate e messaggi sms lo hanno “soltanto” confermato.
Non ci credete? Ascoltate il podcast su RAI Radio 3. E se poi vi piace giurate che lo fate girare. Come disse Zia Concetta a mio nipote Davide (lei si riferiva ai Moretti) fatelo crescere e moltiplicare.
Ciò detto, la porzione Enakapata del mio cervello è già proiettata sulla prossima tappa del viaggio, quella che il 17 settembre ci porterà a la Feltrinelli Libri e Musica di Palermo.
Anzi no. Rewind. C’è tempo per parlare di Palermo. Oggi il post di Enakapata è dedicato a Gaetano. Il terzo dei miei fratelloni. Che sta attraversando un momento di quelli tosti davvero. E che ieri ha chiuso il suo messaggio a me e Luca con un “sono contento e fiero di voi” che mi ha commosso. Dite che è  la vecchiaia che avanza? Dite pure. Per una volta non me ne importa niente.

Zio Peppino

enakapata3[…] Luca un po’ si diverte e un po’ fa la faccia modello «pà, questa già l’hai raccontata 1387 volte». Comincio a parlare di zio Peppino, fratello di mamma, operaio alla Richard Ginori, naturalmente comunista, grande appassionato di musica lirica, di parole crociate e di Totò.
Sia chiaro. Quando dico grande appassionato voglio dire grande appassionato. Nel senso che alla terza nota era in grado di dirti di quale opera si trattava, chi aveva scritto il libretto, in che anno era stata musicata, dove era stata rappresentata la prima volta, quali erano stati gli interpreti maggiori; nel senso che partecipava e non di rado vinceva ai concorsi de «La Settimana Enigmistica»; nel senso che poteva ripetere pressoché a memoria le scene principali di tutti i film di Totò. Roba da Lascia o Raddoppia, per intenderci.
Zio Peppino non si era mai sposato e già questa, in famiglie come la nostra, in anni nei quali «essersi sistemato» equivaleva a dire aver trovato un lavoro e aver messo su una famiglia, era una stranezza. Ma la cosa ancora più strana era che proprio lui, il comunista eccetera eccetera, si era arruolato volontario. Come gli era venuto in mente? Cosa c’entrava lui con la guerra d’Etiopia? Io e i miei fratelli a zio Peppino abbiamo voluto come si dice un bene dell’anima, ma la confidenza per domandargli perché, quella no, non l’abbiamo mai avuta. Così quando zio Peppino approda al Pantheon degli uomini semplici la domanda se ne va con lui. Almeno così ho pensato per circa vent’anni. Fino a che una mia cugina, non ricordo se in occasione di un battesimo, un matrimonio o un funerale, non dice che le sorelle di casa Picano, sei in tutto, proprio come quelle della gatta Cenerentola, si sono potute sposare solo grazie a zio Peppino.
In che senso? – le chiedo. Nel senso che i nostri nonni erano talmente poveri che le figlie, nonostante fossero tra le più belle del paese, non avendo nulla che potesse anche lontanamente assomigliare a un corredo o a una dote, non si maritavano.
Fu così che zio Peppino partì per l’Africa e con i soldi guadagnati fece il corredo alle sei sorelle. Ora non sosterrò che Luca si è commosso, lui che quando gli ho detto che se mi succede qualcosa gli toccherà prendersi cura di me mi ha risposto «già il verbo è sbagliato, quello giusto non è curare, ma terminare», ma sono certo che la storia gli è piaciuta. In fondo fa lo sprucido per darsi un tono. Anche se in effetti la cosa gli riesce molto bene. […]

From Porto Cesareo to Fahrenheit

enakapata3Molti di voi (forse) lo sanno già. Il prossimo appuntamento è per il 31 Agosto. Dalle 17.00 alle 17.30.  Quando Enakapata sarà ospite di Fahrenheit, programma cult di Radio 3. L’auspicio è, naturalmente, che siate in tanti a sintonizzarvi e ad interagire, ma su questo avremo modo di tornare nei prossimi giorni.
Oggi vi diciamo invece che la presentazione  al
BeB A Casa di Margherita è stata un successone. Non ci credete? E allora leggete qui: una trentina di partecipanti,  una bellissima discussione, 14 copie del libro vendute,  uno splendido concerto jazz, una magnifica mangiata di triglie fritte, cocomero, fichi d’india e sangria a volontà (e vi assicuro che di volontà ne abbiamo dimostrato tutti tanta).
That’s all, folks. Per ora.

Truffi, Rossi

enakapata3Corrado Truffi, again: Per continuare nella critica, “poco interessante da fuori” vuol dire che certe pagine di diario con la cronaca pura e ripetitiva della giornata non servono e un po’ annoiano. Se privato doveva essere, sarei stato più curioso di capire meglio la vita a Secondigliano e gli amici, o qualcosa di più sul Giappone di Luca… e meno dettagli “quotidiani”.
Sulle “cose illuminanti”, oggi mi è capitato di leggere qualcosa che mi ha fatto scattare dei link con Enakapata, e ne ho scritto sul mio blog.

Bernardo Rossi: Avete scritto il libro assoluto vagheggiato da Mallarmé, la recensione è più lunga del previsto, ma arriverà presto.

Corrado Truffi: Ci sono alcune cose davvero interessanti ed illuminanti, in questo libro. Ma la forma di doppio diario privato è spesso troppo ripetitiva e poco interessante da fuori.

Serendipity Lab

enakapata3Chi non ha letto il libro e se lo ricorda (anche chi lo ha letto?) lanci pure la prima mail, ma il serendipity travel di Enakapata non comincia domenica 2 marzo 2009, giorno della nostra partenza per Tokyo, destinazione Riken, ma venerdì 25 ottobre 2005, quando su La Stampa.it pubblico l’articolo che parla di Piero Carninci e delle sue scoperte.
Da lì in poi è stato tutto un susseguirsi di eventi serendipitosi, a partire da quelli che portano me e Cinzia Massa ad intervistare Piero per il numero di Gennaio Febbraio 2006 di Technology Review.
La cosa bella (almeno dal mio punto di vista), è che il viaggio continua. Naturalmente attraverso questo blog. Poi ancora sul terreno delle idee, com epotete leggere ad esempio su Nòva Review. Da qualche giorno con un vero e proprio Serendipity Lab, che speriamo da settembre, anche con il vostro aiuto, di far diventare un luogo dove confrontare idee e progetti nati per genio e per caso, grazie al talento e all’organizzazione.
In attesa di più connessioni ed interazioni più fresche e riposate, buona lettura.

Ciuccio ’e fuoco

enakapata3Me lo disse papà che ero ancora bambino. La chiamavano «Ciuccio ’e fuoco» per quella sua innata tendenza ad attaccar briga, per quel suo carattere ribelle, per quello che una donna poteva ribellarsi ai suoi tempi. Io però la ricordo soprattutto per il suo affetto. Per l’uovo di papera a zabaione con “una” goccia di marsala che mi preparava quando passavo per casa sua prima di andare a scuola alla Masseria Cardone, (sarà stato l’uovo, lo zucchero o il marsala a “gocce”, ma i miei professori delle medie si sono ricordati per un pezzo della mia, chiamiamola così, “vivacità”). O per la visita del 5 aprile, giorno di san Vincenzo, quando affrontava un viaggio a piedi di quasi 3 km, lei sempre più anziana e claudicante, io sempre più vicino al traguardo dei 18 anni, per portarmi in regalo un pacco di biscotti, perché il “Santo va rispettato” e perché, come quasi tutti i miei coetanei primogeniti, portavo il nome del nonno.
Era famosa anche per i suoi modi di dire, quelli ufficiali, come «’e sfuttute vann ’mParavìso», e quelli fatti in casa, come «’e figlie quanno se fanno gross addeventano parient laschi» o, rivolto a Davide, figlio di mio fratello Gaetano, che non vedeva da tempo «ah, tu sì nù Moretti, bravo, crescete e moltiplicatevi».
Un esempio puro di comicità il «Pascà, mò è murì solo tu» con il quale abbracciò piangendo mio padre il giorno della morte dell’amata sorella Maria, che le valse il gesto prosaicamente scaramantico di papà e il secondo e definitivo soprannome di  «Highlander» (ne resterà una sola). Per non parlare delle visite domenicali al cimitero con regolare sediolina pieghevole nel corso delle quali prendeva in giro fino all’irrisione e oltre il marito morto che l’aveva tormentata per una vita intera.
Lei era fatta così. Prendere o lasciare. C’è che nella mia vita è stata una persona importante. E mi piace ricordarla qui.

p.s.
Se avete letto il libro lo sapete già, lei è, era, Zia Concetta.

Combattente, Grazioli

enakapata3Ettore Combattente: Diversamente da Alessio Strazzullo che ha scritto una bella recensione del libro dei Moretti, dico che la mia amicizia con Enzo c’entra e c’entra direttamente in quel che penso del libro. Sono amico e rifletto per questo sull’amicizia, un libro nato su un’amicizia in tempo di  globalità; un’amicizia che si evolve in  rapporti fraterni, leali, disinteressati, che vanno oltre il comune interesse intellettuale.
E’ questa  una capacità umana di Enzo, io che l’ho incontrato per contingenze politiche e ci siamo conosciuti come amici e compagni, lo testimonio con “interesse”. Mi diceva che suo padre soleva dirgli “fattell’ cu’ chi è meglio e’ te’ e fance’ e’ spese”. “Meglio” in senso metaforico, come  sapere, cultura, professionalità. Infatti come si può diventare amico di uno scienziato bio – fisico italiano emigrato in Giappone, per l’attrazione  del valore del merito che vige in in quel paese, alla distanza di migliaia di chilometri attraverso la posta elettronica? Per un cultore di scienze sociali con una  lunga esperienza nel mondo sindacale? Ed entrare in una comunità intellettuale attraverso  l’intelligenza dell’epistemologia? Enzo Moretti ci è riuscito. Ed ha scritto  un libro su quest’ amicizia e insieme a  Luca di tante altre nate da un viaggio in quel paese.
Enakapata  ha aperto a lui e a noi un mondo  lontano dalle nostre  frequentazioni giornaliere  dalla spasmodica  tensione  ad avere ragione, direbbe l’appassionato di Totò , a “prescindere”.

Daniela Grazioli: Mi son presa ‘na kapata: letto con interesse, stupita e divertita per l’alternanza delle due penne  (attualizzate in computer) ed intrigata dall’oscillazione tra serio e faceto. L’ho già consigliato a Simone ed amici. Grazie.

Manfredi-Gigliotti, Masera

enakapata3Giovanna Manfredi-Gigliotti: Enakapata ha accompagnato le mie notti di qualche mese fa. Mi ha colpito lo stile semplice ed efficace. Mi piacciono le scritture a quattro mani, perchè offrono una focalizzazione doppia degli eventi.
Non è il solito diari di viaggio, anche se ce ne sono stati di celebri e pregevoli (penso a Goethe o Guicciardini per esempio). Mi sono piaciute persino le citazioni musicali, come “Luci a San Siro”, che io adoro. Penso sia fondamentale riflettere sia sulle scoperte (ed “Enakapata” risulta interessante anche per questo), sia e soprattutto sull’ambiente che le rende possibili. Basti pensare alla “legge di campo”.
Purtroppo non capiamo quanto sia importate premiare e sostenere il merito, quanto sia essenziale la creatività, non solo il nozionismo. Forse, avendo messo tante volte da parte il merito, non riusciamo, nel nostro Bel Paese, neanche ad arrivare al nozionismo. Ma l’amore per la cultura si può trasmettere solo ad opera di chi vive la cultura. Certo “restare” è un grande merito e costa un doppio amore, per ciò che si fa e per il proprio Paese, che riesce ad “umiliare” costantemente chi cerca di rispettare tutte le regole per servirlo e rendergli onore.
Sono d’accordo con Quasimodo quando diceva che una terra è i suoi uomini  e anche che “la poesia deve rifare l’uomo”. Senza spirito non si conquista alcunchè ed il rispetto delle regole, che è la prima forma di rispetto verso la legalità, cioè verso sè e gli altri, non confligge con la creatività.
Molto interessante è anche il discorso sulla “seredipity”, che a mio umile avviso si può riscontrare anche nella più semplice vita quotidiana; io la chiamavo “frecciolina”, “luce”, e ad essa devo le mie scelte più felici.
Ci sono molti spunti di riflessione nel vostro romanzo che vanno oltre il pur pregevole diario, che si fa leggere ben volentieri, e quindi lo rendono fruibilie a molti livelli e su diversi piani di lettura.

Anna Masera: … L’ho finalmente rivisto in occasione del tour per il lancio del suo libro scritto a quattro mani con il figlio musicista Luca, Enakapata (=”È ‘nà capata”, in napoletano, che dalle mie parti si dice “è una figata”, o “è geniale”): un diario-blog di viaggio e lavoro che vede padre e figlio napoletani in Giappone, incontro-scontro di culture diverse, “lost and found in translation” da Secondigliano all’istituto di ricerche genetiche Riken di Tokyo raccontato con intelligenza e ironia…
Leggi l’intero articolo su LaStampa.it

Carlossito’s spot

enakapata3Lui si chiama Carlos Gonzalez y Reyero. È mio nipote. Studia a un tecnico alberghiero. Ma se lo cercate adesso lo trovate a Procida,  in missione per conto del lavoro. Un giorno mi ha scritto su Facebook “zio, che ne dici se scrivo qualcosa per fare pubblicità a Enakapata?”. È un piacere, gli ho risposto. Questo che potete leggere di seguito il suo spot. Mi sembra carino. Estivo. Di quelli che si possono ascoltare per radio. Sulla spiaggia. Ma se decidete di farlo non dimenticate di contattarlo. Pare che nella sua vita precedente, quella brasiliana, abbia avuto modo di imparare pratiche Voodoo :->.
Sognate di intraprendere un viaggio meraviglioso, straordinario, avvincente alla scoperta di nuove culture? Non perdetevi Enakapata. È ‘nà capata.
Enakapata è un modo di essere. È un modo di vivere. È il buon ramen preparato da Luca. È la capata data da Vincenzo all’uscita della metropolitana di Ikebukuro.
Avvertenze: Il viaggio di Enakapata può dare assuefazione. Una volta partiti non si riesce a smettere. Sono stati registrati casi di svenimento. Tenere rigorosamente fuori dalla portata dei lettori a bassa pressione.

Penitenti, Monini

enakapata3Monica Penitenti: Ho conosciuto VIncenzo, ho visto Luca quando era piccolino una volta, adoravo nonno Moretti e ho goduto della generosa ospitalità della casa di Cellole più d’una volta quando ero poco più che una bimba. Eppure non è stato il ritrovare nel libro quei personaggi, quei luoghi o alcuni dei figuri di Secondigliano che pure incontrai, a farmi amare il vostro libro. Ho amato la tenera ipocondria, carattere di famiglia, il bisogno di un cibo conosciuto, bisogno tale da eleggere il posto “delle ragazze” a casa giapponese, l’approccio al rigore nipponico, l’interesse per la ricerca che insieme ad altre molte cose mi hanno fatto bere le pagine velocemente e lievemente. Ancora l’andamento iniziatico del viaggio di un figlio che ritrova (lo ritrova?) un padre dalle molteplici apprensioni di padre partenopeo fino al midollo…
Enakapata mi ha divertito, interessato e ispirato. Grazie per aver fatto di quel viaggio a due, un viaggio per molti di noi. Il fascino e le contraddizioni del Giappone, partendo dal citato libro di Fosco Maraini, arrivando ai classici di Tanizaki, per approdare all’estrema Yoshimoto, passando per Murakami esercitano su di me suggestioni durature. Il punto di vista partenopeo del mondo nipponico mi mancava: resterà con me altrettanto a lungo.

Barbara Monini: Caro Luca, sono Barbara (Waschimps in realtà), cara amica di Carmine Rubino e Rita Palena.
Quando vi hanno incontrati a Bologna mi hanno riportato questa meraviglia, con tanto di dedica … e mi si è appicciato il cervello. Lo hanno fatto apposta, perchè mi occupo da anni di Giappone, è una passione di vita e di lavoro. Sono molte le cose che vorrei dirvi, ma non credo che basterebbe postarle sul blog … faccio prima ad annotare il libro ad ogni pagina.
Ma soprattutto questo progetto può e deve continuare, ed ampliarsi, e sarei molto felice di potervi essere utile.
Ti aggiungo che sono di Napoli e in partenza a luglio di nuovo per Tokyo dove inauguriamo una mostra stupenda all’Istituto di Cultura. Fatemi sapere voi in quale modo eterico o spaziotemporale possiamo entrare in contatto.
Un abbraccio forte, Barbara.

Sud, nuje simme d’o Sud

enakapata3Nord batte Sud 3 a 2. Naturalmente mi riferisco al tour di presentazione di Enakapata che ha fatto tappa finora a Napoli, Bologna, Milano, Benevento e Torino. Perché se invece guardiamo alle questioni vere il distacco è molto più netto. Il Nord sempre più solo al comando. Il Sud che domina nelle classifiche della camorra, della mafia e della ndrangheta. Non solo quelle dei morti ammazzati. Ma anche quelle del controllo delle borse e di molti degli imperi finanziari del Nord. Per il resto? Ultimi posti nelle classifiche relative al livello di vivibilità. Veri e falsi disoccupati. Poche opportunità. Scarso senso civico. Meglio non parlare dell’efficacia e dell’efficienza delle istituzioni.
Che fare? Se si escludono gli approcci tipo Arma letale, Terminator, ecc. c’è ancora qualche altra possibilità?

p.s.
Il 21 agosto presentiamo il libro al Bed and Breakfast a casa di Margherita, a Porto Cesareo, e il 17 settembre alla Feltrinelli Libri e Musica di Palermo. Nel pianeta Enakapata il Sud si appresta dunque a fare il sorpasso. Ma purtroppo quello non conta. Purtroppo è solo un gioco.

Ruggiero, Cati, Stazi, De Luca

enakapata3Antonio Jr Ruggiero: Cartoni animati cruenti, pesce crudo da mangiare e il Karate di Bruce Lee (che, tra l’altro, era di origini cinesi): gli stereotipi nostrani sulla terra del sol levante sono più o meno questi; come accade da altre latitudini, quando, pensando a noi italiani, parlano di pizza, spaghetti e mafia e la cosa non ci fa tanto piacere. Il libro “Enakapata – da Secondigliano a Tokio”, scritto a quattro mani dagli autori partenopei Vincenzo e Luca Moretti, racchiude in sé tanti significati, tra questi, anche l’intento di approfondire nel migliore dei modi la conoscenza di una cultura tanto lontana e tanto etichettata dagli occidentali. […]
Leggi su Futura l’intero articolo  di Antonio Jr Ruggiero

Sergio Cati: Enakapata è un libro che si legge con grande piacevolezza e che mi ha ricordato i miei viaggi a Osaka.

Danilo Stazi: Caro Enzo, sono in aereo, riparto per l’India mentre leggo, interessato e onorato, il vostro libro. Ci sentiamo presto.

Valentina De Luca: Ho letto il vostro libro che mi sembra vi somigli molto: è  serio e divertente, fuori dalle righe. Soprattutto interessante la capacità di mettersi a nudo, cosa che nessuno fa più, terrorizzati come siamo dalla possibilità di scoprire il fianco.

La terrazza

enakapata3Le foto della terrazza della mia amica Anna Masera non ci sono più. O, per meglio dire, le foto con Francesco, Luca, Alessia, Giorgio, Cinzia, me e Anna sulla terrazza di Anna non ci sono più. Forse per la vendetta di un tabaccaio. Di certo senza nessuna conseguenza.
La serata è stata bellissima. Di più. Leggera. Ancora di più. Supercalifragilistiserendipitosa. Di quelle che nascono così, per genio e per caso. Di quelle che le vivi così e ne hai un piacere strepitoso.
Non ci credete? Allora state a sentire.
Sulla terrazza di Anna venerdì sera non ci saremmo arrivati senza Giorgio Fontana. Che fino a quella sera Anna la conosceva di nome, ma non di fatto. Li ho presentati io qualche ora prima. Io che Giorgio fino a quella sera lo conoscevo di nome ma non di fatto.
Dite che non è possibile? E che comunque detto così non ci si capisce nulla?
Allora ricomincio da Giorgio. Che è uno dei miei 523 amici sul pianeta Facebook. Che un giorno mi scrive e mi chiede se sono disponibile a presentare Enakapata a Torino. Che mette in moto la macchina che porta me, Luca, Cinzia e Francesco alle Librerie.Coop di Torino venerdì 5 aprile.
Con Anna invece siamo amici sul pianeta Terra da quasi 20 anni. Per un po’ di anni ho anche collaborato con la Stampa.it, il quotidiano online che lei dirige con eccellenti risultati (naturalmente è la “mia” opinione, ma ci tengo a sottolineare che è l’opinione del lettore e non dell’amico). Eppure sono quasi 10 anni che non la vedo (Anna). Sarà questa la volta buona? Pare di si. Anna c’è. Assieme a Giorgio. Al mio amico Sergio Negri, dirigente della Cgil piemontese. E ad Alessia Cerantola, govane studiosa e profonda conoscitrice della lingua, della letturatura e della società giapponese.
Alla presentazione non siamo in tanti. Ma questo già lo sapete. Quello che ancora non sapete è che si discute di lavoro. Di ricerca. Di raccolta della “monnezza”. Di cucina. Di serendipity. Di responsabilità. Di educazione civica. Visti dall’Italia e dal Giappone. Che la discussione a chi c’era è piaciuta molto. Che tra oggi e domani chi ha tempo e voglia potrà scaricarla su queste stesse pagine.
Tra i saluti e due dediche (due di numero, non due per modo di dire ☺) chiedo ad Anna di restare a cena con noi. Dice di sì. Di più. Dice di andare tutti a cena da lei. I magnifici sette. Sulla magnifica terrazza che affaccia sul Po. Mi ricordano abbastanza perspicace già da bambino. Ma alla mia età ci metto davvero poco a capire quando mi fanno una proposta che non si può rifiutare. Aperitivo al bar preferito da Cesare Pavese. Approccio fast da parte di Anna e di Luca, i nostri inviati al supermercato e poi a casa che se vuoi mangiare qualcuno deve pure cucinare. Slow quello del resto della Kapata Session, con fermata intermedia per comprare il gelato (come ogni napoletano che si rispetti, considero disdicevole presentarmi a casa di un amico/a a mani vuote; le sfogliatelle avrebbero fatto un altro effetto, ma anche  il gelato non era male) e passeggiata lungo Po. Poi finalmente a casa. Si, avete letto bene. Non ho scritto a casa di Anna anche se eravamo a casa di Anna. È che io mi sono davvero sentito come a casa mia. E di ciò sono davvero grato alla mia mitica amica.
Considero la cura dell’amicizia una delle caratteristiche più belle del nostro essere “umani”. Di più. Lo so. Ancora di più. Ne ho fatto una scelta di vita. Eppure è sempre bello. Bello come rivedere una persona cara dopo più di 10 anni e sentirti come a casa tua. Bello come condividere uno sguardo o una confidenza. Bello come una serata supercalifragilistiserendipitosa. Bello come la voglia di ritornare ancora.

Don Peppe detto Testolina

enakapata3Io speriamo che me la cavo: è stato l’ultimo esorcismo lanciato via Facebook poco prima della partenza per Torino.
Volete sapere come è andata? Venerdì notte le mie 5 ore le ho dormite benissimo. Il che significa che sono andato a letto contento. In pace. Soddisfatto. Sabato mattina sono rimasto sveglio a letto dalle 5.30 alle 7.20 senza battere ciglio. (Quasi) immobile. Per non svegliare Luca. Il che significa che mi sono svegliato contento. In pace. Soddisfatto. E mentre scrivo in questa declinante domenica di afa e silenzio (il silenzio esiste anche a Napoli, a patto naturalmente di abitare sulle scale) sono contento. In pace. Soddisfatto.
Tutte queste storie per dire che è andato tutto bene, che è venuta un sacco di gente, che si sono vendute tante copie del libro? Niente affatto.
C’erano poco più di 10 persone. Si sono vendute una copia di certo e un’altra forse. Non abbiamo fatto i video. La card memory nuova di zecca si è rivelata difettosa e abbiamo perso tutte le foto a parte le 6-7  (erano sulla card in dotazione con la macchina fotografica) che potete vedere cliccando su Flickr. Mi chiedo se non sia stata la forza del destino. Se non sia stata un’intrepida vendetta. Quarantanni dopo le scorribande torinesi di don Peppe detto Testolina, lui che era capace di raccogliere un sasso da Piazza Vittorio e rivenderlo come Pietra del Vesuvio, un’audace tabaccaio torinese rifila un pacco a chi ha osato raccontare in un libro le beffe perpretate a loro danno.  Ma torniamo al punto. Luca ha fatto un numero dei suoi perchè davanti ad un negozio di cappelli ho osato dire che ne  avrei volentieri comprato uno (chi ha letto il libro lo sa, quando vuole riesce ad essere odioso, nel caso specifico con argomenti tipo “è assurdo anche solo pensare di spendere 130-150 euro per comprare un cappello quando poi non risolvi niente, non avrai mai fascino, non ti  può abbellire, non ti sta bene, ecc.”). L’aereo del ritorno ha fatto 2 ore di ritardo. E a Capodichino abbiamo perso l’autobus per mezzo minuto (accade anche a Napoli che partono in orario; quando tu sei in ritardo).
Ma allora sei scemo, direte voi. Come si dice a Napoli dove la “appoggi” questa tua contentezza e soddisfazione? Come fai a essere in pace con te stesso?
Questione di relazioni. Di rapporti umani. Di connessioni. Che sono la cosa più importante per esseri come noi.
Proprio così. La presentazione di Enakapata a Torino è stata una straordinaria occasione di sensemaking. Grazie innanzitutto ad Anna Masera, Alessia Cerantola e Giorgio Fontana. Ma per questo ci vuole un post a parte.

La Stampa.it, Cimmino

enakapata3La Stampa.it: È un racconto di parallelismi: un diario di viaggio e lavoro, di leggerezza e contenuto. Padre e figlio, raccontano in maniera leggera e accattivante, a tratti commovente, della controversa periferia napoletana e dell’organizzazione scientifica in Giappone, di luoghi e volti della capitale nipponica appena incontrata e dei suoi paesaggi metropolitani stupefacenti, di serendipity, ramen e shinsetsu, di operai e magliari, in un alternarsi e incrociarsi di voci, sensibilità, generazioni.

Titti Cimmino: Enakapata: ma che senso ha? E’ stata la domanda che mi ritornava tra una pagina e l’altra. E’ un diario, mi rspondevo. Eppure la risposta non mi soddisfaceva. Comunque, leggo … e sempre ritorna quel “dove sta il senso” ma al tempo stesso maggiormente dalla scoperta, dalla lettura, che non il cntrario, come accade quando di solito, non si attende (abbiamo perso la capacità di aspettare?!) … non so spiegare meglio.
Il senso sono la forza  e l’emozione, il credo che metto nelle azioni (per citare Emerson) che ritorna, imperativo categorico, a plasmare la mia quotidiana ricerca del senso,  del sistema che funzioni, dell’efficacia … della qualità a 360 gradi coniugata. Ecco ciò che m’ha lasciato questo “viaggio” attraverso un tradimento, il vostro, attraverso la scoperta di due Anime, di due Persone della “mia” Terra.
Ma andiamo per ordine: dalla fine!
Come un taglio di Fontana sulla tela, così mi ha inciso lo stomaco e poi su, sino al cuore, quella frase di Luca “la certezza che all’estero le opportunità di dare un senso alla propria vita sono maggiori”. Mi sono chiesta perché … perché dovesse un giovane  tornare in patria con l’amarezza dentro e la tristezza fuori quando gli si tuffano negli occhi il quartiere, i tassisti, i soliti (ig)noti che s’avvedono all’aeroporto anche se un pò in ritardo di non trovarsi di fronte a turisti ma a conterranei. Non so perché, forse sarà l’amore sì, che mi lega alla mia terra … e il senso di appartenenza forte all’Umanità. Il senso di appartenenza, perché c’è uns enso in questa nostra terra e lo scopri quando “muori”, in senso lato, cioè quando la lasci, o quando vi ritorni come se fossi stato su Marte ed invece sei (solo) stato a Kyoto o a New York … e ti chiedi erché qui quelle opportunità manchino.
Qui, a Napoli, per gradire, mancano perché quel sensemaking in realtà non è making: forse nemmeno ce lo si chiede il senso quale sia e dove sia … noi napoletani siamo troppo presi dal “tirare a campare”, a pensare al presente “vid ‘o ciel che te mena” mentre, voi ce lo avete scritto, “in Giappone quando fanno una cosa pensano al futuro” … noi no. E lì non si sta ad attendere nell’incertezza o nella precarietà, ma ci si “organizza”, nell’accezione principale del termine. E l’organizzazione si fonda sulle regole, sulla qualità dei legami, dei “link” (ti confesso, Vincenzo, che ho sorriso quando per la prima volta hai mutuato questo termine informatico per descrivere un “legame” umano … ma mò che ci penso preferisco il tuo link a questa mia pessima espressione :-)).
Rispetto, il “peso del rispetto”. Quel rispetto che da noi viene a mancare a meno che tu non appartenga al “Sistema”.
Sistema è invece ben altro dall’accezione che qui attribuiamo al termine (Gomorra docet, mi si perdoni il riferimento a vicende poco edificanti ma quanto mai reali e vicinissime).
Eppure ci sono da noi menti eccelse, e ce ne sono state di Persone che la nostra terra ha partorito, ma le menti da sole non bastano. Convengo, cari Vincenzo e Luca, “la priorità va assegnata all’ambiente, alle relazioni con i colleghi, alla qualità della struttura”.
Titti il senso? Dove sta il senso di questo diario? E ritorna la domanda.
A tratti un déjà vu: Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta. Anche lì un viaggio, anché lì il padre e il figlio, anche lì una trama da superficie, un diario “appunto”.
Ma “le parole sono pellicola su acqua profonda” diceva Wittegenstein, e qui a profondità sta nel senso: per serendipity l’ho scovato. Sentirsi parte di un’unica struttura … ma sentirsene responsabili. Ne rispetto e nella ricerca costante tesa al bene comune. Una sola parola mi viene come allegoria, “sakura“: ecco come descrivo tutti e ciascuno di noi, da soli, mente illuminata o no, non si è nulla. In un sistema complesso ma organizzato nel rispetto e nella competizione sana puntando alla ricerca con l’efficacia a fare da scudo. E allora è na kapata ravvedersi che occorerebbe pensare l’occasione: quel kairòs, quel momento opportuno in cui intraprendere un’azione, quel momento opportuno che hai colto tu Vincenzo quando hai inviato il tuo primo link chiosando … “se son rose fioriranno”, quel momento in cui hai scelto, con Luca complice, di “partorire” a quattro mani quest’avventura di parole. “Fare le cose con le parole”, appunto, oltre che f”arle per bene perché è cosi che si fa”.
Il senso Titti? … Eccolo ancora … E lo esprimo con il meglio che la lingua delle origini ci  abbia lasciato: la “metis“, il fiuto che hai avuto. Nello scoprire cioé i fattori portanti: organizzazione, efficacia relazioni.
E qui cnclud capovolgendo un punto di vista (a una matematica napoletana – viva – come me si puà perdonare?): ma ci pensate al Dna senza il contributo del “trascrittoma” Rna? Dovremmo imparare dall’ambiente che ci nutre, che ci ha trasformati da embrioni in Uomini.
Domani a pranzo preparerò per la prima vlta il ramen … la ricetta l’ho scovata in calce ad un diario … E’naKapata!!!

Tomo, Bombaci

enakapata3Gianni Tomo: Un libro da leggere tutto d’un fiato, un racconto fatto di tanta cultura e che accompagna il lettore verso tante riflessioni …
Leggi l’intera recensione su Il Denaro

Gianni Bombaci: Enakapata è stato per me un vero e proprio coup de foudre, libro di un viaggio da Secondigliano a Tokyo e al Riken, istituto di ricerca tra i più importanti del mondo, attraverso alcune stazioni: da quella del genoma dell’ape che, come afferma il pluricitato Piero Carninci, è “l’insetto più sociale che esista”, alla “fermata” degli RNA, produttori di proteine, e poi la trascrizione dei geni, Franco Nori, il Kabuki, le dimensioni delle camere d’albergo e delle case a Tokio che “Andrebbero bene per Cucciolo e Pisolo dato che tutti e sette i nani non ci vanno”, la numerazione dei piani delle case (il piano terra in Giappone si chiama primo, come a Messina), il papà di Vincenzo, il premio nobel Noyori, il caffè dalle ragazze, i terremoti che sono all’ordine del giorno (e della notte), la differenziazione della monnezza, gli effetti opposti che si ottengono chiedendo quattro cappuccini e un tè, se ci aiuta, per farsi capire, con le dita.
Il racconto adotta  lo stile del diario, con l’innovazione del duo, quasi musicale, attraverso un dialogo non solo generazionale ma innestato su diversi approcci stilistici, direi quasi differenti poetiche e diversi retroterra, dei due scrittori (tra l’altro padre e figlio), che trovano nel libro una mirabile sintesi e costanti punti di incontro e di confronto.
Questo diario (come due vite parallele) si fonda sul viaggio (altro genere che ha attraversato metà della letteratura conosciuta). Qui verrebbe facile parlare dei grandi scrittori che hanno percorso questo luogo letterario. Da Omero fino a Calvino, attraverso Stendhal, Salgari, due grandi bugiardi gli ultimi due, il primo per omissioni crescenti, il secondo perché ha fatto conoscere a più di una generazione le avventure di mondi abbastanza sconosciuti, senza mai alzarsi dalla scrivania. Viaggiatori totali comunque.
Ma cos’è il viaggio? Il procedere “turisticamente” con la guida con la bandierina (o altro) visibile in alto, il seguire libretti turistici, che probabilmente mai si seguirebbero nella propria città o nel proprio paese, o è il soffermarsi sulle sensazioni, sull’osservazione stupefatta, “natale” oserei dire, sulla meraviglia spesso non spiegata (e che non si tenta neppure di spiegare, pena l’annullamento del viaggio stesso)? Cos’è che fa la differenza tra viaggiatore e turista?
Il viaggio di Enakapata si muove su tre piani principali: gli incontri scientifici e di ricerca con grandi ricercatori e scienziati giapponesi e italo-giapponesi (se così si può dire), il dialogo costante tra due generazioni (padre e figlio, talvolta in filigrana, tal’altra in netta evidenza), il percorrere un terreno assolutamente sconosciuto (il vero viaggio!), senza lingua e senza cibo amico. Con il principe De Curtis come nume tutelare e saldo riferimento culturale.
Ma il viaggio in due con l’uso di una tastiera a quattro mani non è esercizio usuale e usato. Mi sbaglierò di certo, ma non riesco a trovare precedenti in letteratura.
Addirittura nel libro appare una facilitazione (ad usum lettore) “semeiotica”, non subito, nelle premesse napoletane, ma dopo, quando i due arrivano in Giappone: Vincenzo (il padre) inizia le sue considerazioni cronologico-diaristiche con l’uso costante del procedere “europeo-italico”; Luca (il figlio) le fa precedere da caratteri giapponesi (kanji).
Un viaggio vero, non quello turistico, è fatto di richiami, non nostalgie. E che richiami!
Pag. 40: Ricomincio da tre …”L’appuntamento era al bar di Don Peppe “testolina”, di fronte a casa mia, a fianco della merceria gestita dalla signora Carmela, la mamma di Tonino Parola”. Pensate: dettagli, personaggi, nomi e cognomi. “Se qualcuno mancava? Facile. Si passava a prenderlo a casa. Due le possibilità. La chiamata via citofono, modello classico. Oppure la chiamata a cappella, modello Lello. Chi è Lello? Lello Sodano, quello che all’inizio di Ricomincio da tre inizia a gridare , Gaetanoooo, Gae-tano, Gae-tà, e non smette fino a quando l’amico non scende.”
Il viaggio a due è fatto (e che viaggio vero!) di ansie unilaterali e senza davvero ombra di senilità precoce generazionale. Due pagine di poesia pura intitolate “Una domenica bestiale”. Vincenzo e Luca si lasciano con, a detta del padre, la promessa da parte di Luca di farsi vivo al ritorno a casa sua (i due vivono separati a Tokio per la scelta, correttissima, di non mischiare lavoro (di Vincenzo) e svago (di Luca) . Luca non mantiene, a detta del padre, la promessa.
“Mi sento con Valerio Orlando. Lo incontrerò al mio ritorno. L’Inter gioca contro il Palermo. Ma Luca non si fa vivo. Mi ripeto un minuto e un altro pure che è adulto e vaccinato. Che posso tranquillamente seguire la partita e poi andarmene a letto. Ma rimane il fatto che si sarebbe fatto vivo per il ritorno. Che è una persona affidabile. Che mi conosce”.
Jazz, scrittura sincopata!
“Tergiverso ancora un po’. Poi mi dirigo verso casa di Luca.
E’ passata la mezzanotte ma lungo la strada che collega Wako a Narimasu, qui alla periferia di Tokio, incontro una ragazzina di 16-17 anni che torna tranquilla a casa. Due o tre persone anziane che vanno in bicicletta. Tanti giovani di varia età fuori dai locali e per la strada. Lo so che anche in Giappone non mancano problemi, tensioni, contraddizioni. Ma mi viene un po’ tanto il magone a pensare a casa Italia. Ai luoghi comuni, alle ansie, ai pregiudizi che siamo riusciti ad addensare alla voce “sicurezza”.
Vincenzo arriva, dopo considerazioni politico-tranquillizzanti, a casa di Luca. “Busso. Non risponde. Busso e chiamo. Niente. Lo faccio ancora. Il cuore in gola. La porta si apre. Mi guarda. Mi dice “sei incredibile”.
E Luca figlio, sulla sua tastiera di pianoforte-diario annota “Torno a casa e scopro che è saltata la connessione,
“Miii! Non ci posso credere”, deve essere un avvenimento storico. Dovevo sentirmi con papà su Skype, se ne parla domani. Per stasera non mi resta che dormire. E’ passata da poco la mezzanotte quando bussano. Ci metto un po’ a svegliarmi, apro ancora mezzo addormentato, tutto bene, è papà. Non sentendomi mi aveva dato per disperso. Non importa quanti anni hai, che tipo sei, se hai viaggiato o no. I genitori sono apprensivi di natura.”
Jazz, poesia, interplay: ecco il libro Enakapata.
“Proviamo a suonare solo le note necessarie” dice Joao Gilberto in un dialogo con Enrico Rava nelle notti newyorkesi dei primi anni settanta; proviamo a togliere peso alle parole, come ha fatto per una vita intera Italo Calvino. E aggiunge Luca “ci abbiamo provato con tutte le nostre forze. A suonare solo le note necessarie. A togliere peso al racconto.”
Ce l’hanno fatta davvero, Luca e Vincenzo. Cento racconti possono nascere da questo libro, con le sole note necessarie richiamate da Joao, con il  “napoletano” in salsa giapponese minimalista.

Titti and me

enakapata3L’arbitro aveva dato il fischio di inizio già da qualche minuto (a proposito, abbiamo avuto ragione io – quando una squadra supera le semifinali pareggiando al 93° poi vince la coppa – e Mou – Manchester sicuro finalista ma la coppa è della vincente tra Chelsea e Barcellona – ) quando ho scritto a Titti Cimmino via Facebook “mi mandi qualche riga su enakapata?, naturalmente quando finisci di leggerlo. e se ne hai voglia. un saluto affettuoso. a prescindere”.

Dopo pochi minuti la risposta, che ho letto solo stamattina nonostante sia riuscito a perdermi la diretta del primo gol del Barca.
“Ciao Vincenzo, a prescindere, ti avrei scritto qualche riga. E sarà fatto.
E’ un NonDiario … la prima “capata” è stata la foto sulla prima di copertina: è stato come sfondarmi l’immaginazione … uno stare al di quà di quelle vetrate che mi spingeva di là.. e il desiderio è stato di affacciarmi sul Centro Direzionale … poi, sforzandomi e forzando l’immaginazione a farsi reale, ho visto che al di là c’era un altro mondo … un Altrove .. .quell’Oriente che stiamo lasciando nella corsa affannosa (verso dove cosa?) e nella razionalità dei conteggi (di link e denaro e di popolarità) fatti di somme (mentre dovremmo sottrarre) senza accorgerci che al tavolo c’è Chi a tempo debito “farà Banco”.
E  per serendipity ho trovato in quel nonDiario qualcosa che non riesco ancora a decifrare ma che “mi chiama” … continuo il mio “viaggio” tra le vostre pagine … Un diario fatto di pagine scritte talvolta a distanza di molti mesi.  Pagine che come calamita mi costringono ad entrare in ogni periodo, ogni parola … forse a voler cercare il “sistema organizzativo”, forse a voler ostinatamente scoprire ciò che invece viene da sè … per serendipitty.
ti scriverò presto. un caro saluto a te.
Titti

Cosa aggiungere ancora?
Che già così mi sembra bello e incredibile. Così come mi sembra incredibile che persone che ancora non ho conosciuto “realmente” siano così gentili e disponibili. Persone come Titti. O come Giorgio Fontana. Che ha pensato e organizzato la presentazione di Enakapata  a Torino. Di Giorgio vi racconterò presto. Per adesso grazie di cuore Titti.

Gnerre, Potecchi, Pirone, Casillo

enakapata3Edmondo Gnerre: Complice l’essere fresco di un viaggio a Tokyo, la lettura di Enakapata  è stata estremamente interessante. L’ho acquistato dopo la presentazione fatta a Benevento e l’ho letto tutto d’un fiato in poche ore: prima a Milano durante l’attesa per il rientro a Napoli (con due ore di ritardo), poi al mare, sulla spiaggia di Paestum. Ho apprezzato soprattutto la freschezza del linguaggio e l’acuta osservazione del Giappone, che è davvero un altro pianeta!

Alessia Potecchi: Ho trovato Enakapata interessante, fresco e originale. Non soltanto per i contenuti ma anche per la stesura grafica di diario incrociato e alternato, dove si intersecano molto bene le diverse esperienze dei due autori durante il viaggio in Giappone: quella di Vincenzo, incentrata sul discorso professionale e quindi legata alla ricerca, e quella di Luca, che ci fa immergere nella storia e nella cultura nipponica con una descrizione di storie e luoghi visti con gli occhi da ragazzo.
Un diario giapponese che riesce a fondere originalità ed intelligenza, situazioni e personaggi creando pagine che attirano, coinvolgono, stupiscono, fanno vivere  in prima persona il viaggio dei protagonisti.
Nel titolo, originalissimo, è racchiuso gran parte del significato di questa pubblicazione: “Enakapata” una parola nippo-napoletana, inventata dagli autori, che vuol dire “una capocciata”, una cosa da urlo, che stupisce e che è fuori dall’ordinario. Proprio partendo dal titolo vorrei analizzare alcuni aspetti che ho trovato belli ed interessanti.
Come dicevo, lo stupore che accompagna questo viaggio è di due tipi:
il primo, di carattere scientifico e tecnologico, ci permette di conoscere la realtà di questo super-centro di ricerca, il Riken, dove si è a contatto con gli strumenti e macchinari giusti per fare ricerca con una quantità di risorse e una qualità di risultati impensabili qui da noi in Italia. Lascia davvero a bocca aperta l’organizzazione giapponese in materia di ricerca: rispettare le regole, privilegiare la qualità, l’autonomia, la capacità di assumersi delle responsabilità importanti e premiare il merito ad ogni livello della scala gerarchica, insieme al confronto, al gioco di squadra di chi ha la capacità di collaborare ed interagire con altri team. Una realtà che ci stupisce e che dà una grande lezione al nostro paese ma anche all’Europa per quanto riguarda le risorse e gli investimenti dedicati alla ricerca. Incredibili le interviste fatte da Vincenzo per i contenuti, la descrizione di scenari lontani anni luce da noi e dalle possibilità così poco incoraggianti date ai nostri giovani ricercatori che, pur essendo spesso molto bravi, sono costretti a cercare lavoro all’estero. Segnalo inoltre la storia della Serendipity cioè dell’importanza del dato imprevisto e anomalo che diventa strategico nel progresso scientifico, proprio come racconta Carninci in una delle interviste.
Poi c’è l’altro tipo di viaggio, la “capocciata” di Luca che va alla scoperta delle meraviglie e delle curiosità della cultura giapponese. E ancora una volta lo stupore, il fatto straordinario, ci fa vivere la storia del Giappone anche qui con i suoi aspetti e le sue realtà così distanti dai nostri luoghi a dal nostro quotidiano. Belle e intelligenti le descrizioni della vita in Giappone, dei suoi monumenti e tesori ricchi di arte e storia millenaria. Ma anche molto coinvolgenti e divertenti gli aspetti che riguardano i negozi, lo shopping e la cucina giapponese.
Trovo poi che nel libro ci sia molto, anzi moltissimo, di Vincenzo, della sua storia personale, della sua esperienza professionale e del suo impegno nel sindacato.
Trovo che questo aspetto sia molto bello; quando in un libro come questo, che descrive un viaggio, emerge così bene e così forte la storia di chi scrive vuol dire che il lavoro è un lavoro ben fatto, fatto e scritto con il cuore, come tutto quello che Vincenzo fa. Ne esce uno spaccato di vita e storia personale dove c’è un grande amore per le proprie origini e per la propria terra. La sua Secondigliano che porta sempre con sè. E poi la sua famiglia, molto commovente quando parla di suo padre e dei suoi insegnamenti. Viene poi fuori il Vincenzo sindacalista che ha a cuore il lavoro e la condizione dei lavoratori proprio a partire dalla realtà della sua terra. Ci viene qui in mente, visto che Vincenzo dirige un’importante sezione della Fondazione Di Vittorio, proprio Giuseppe Di Vittorio e il suo insegnamento. Nella sua lunga militanza e nel suo impegno che lo hanno portato ai vertici del sindacato non ha mai dimenticato, nei suoi scritti e nella sua azione, la sua terra del Sud dov’è nato e cresciuto e non ha mai dimenticato la sua gente, l’ha sempre portata con sè. Accanto a questo aspetto ho ritrovato poi nel libro l’ironia bellissima di Vincenzo, la sua semplicità e modestia e poi una caratteristica importante che ci accomuna: il tifo sfrenato per l’Inter.
Questo è quello che io ho colto in questo libro, viaggiando con gli autori pagina dopo pagina.

Francesco Pirone: Un diario di viaggio doppio, nel senso che il libro, scritto a quattro mani, alterna le pagine dei diari di viaggio dei due autori, padre e figlio, che vivono insieme. I diari iniziano dal difficile quartiere di Secondigliano a Napoli, per poi svilupparsi attraverso il racconto dell’esperienza di viaggio in Giappone che per Vincenzo, il padre, è l’occasione per raccogliere materiali per uno studio sociologico sull’organizzazione di un centro di ricerca d’eccellenza mondiale – il Riken – dove lavora il premio Nobel per la chimica Ryoji Noyori. Per Luca, il figlio, invece, è l’occasione per approfondire il suo interesse per la cultura giapponese e per supportare, moralmente e soprattutto praticamente, il padre nella sua impresa. La redazione del diario diventa l’occasione, attraverso il tipico sguardo comparativo dei viaggiatori, per riflettere e mettere a confronto la terra di partenza – Napoli e l’Italia – con quella d’arrivo – Tokyo e il Giappone. Ma il libro offre di più. Propone un doppio sguardo, parallelo, che è indicativo non solo di un diverso interesse verso la cultura nipponica, ma forse anche di una diversa sensibilità generazionale: da una parte il figlio che, da cultore della civiltà nipponica, si sofferma sulle tradizioni e sulle pratiche di vita contemporanee che osserva nei diversi ambienti di Tokyo; dall’altra parte, il padre che, da ricercatore sociale, osserva il Giappone soprattutto attraverso il filtro della sua ricerca sull’organizzazione dei centri di ricerca d’eccellenza e sul ruolo che in essi ha la serendipity. Nel racconto, tuttavia, emergono le personalità dei due autori, la loro umanità e il loro modo di approcciare il viaggio e il confronto, non sempre facile, con la propria e le altre culture, in una narrazione della vita quotidiana dove si evidenzia chiaramente la centralità di internet, sia per le pratiche di lavoro, sia per la cura dei rapporti personali.
on Quaderni d’altri tempi

Antonio Casillo: Un racconto di parallelismi. Un diario di viaggio e lavoro. Di leggerezza e contenuto. L’Italia e il Giappone, Secondigliano e Tokio. Padre e figlio, l’integrazione e la sorpresa. Sparta e Atene, ma anche l’essere ed il poter essere. La ricerca e la scoperta serendipitosa. Collaborazione e competizione.
Enakapata è un continuo incitare al nesso. Alla ricerca dell’insight, del collegamento illuminante, che si svela senza mai preavviso, ma solo a chi lo cerca con caparbietà e lucidità. Con intraprendenza, ma con organizzazione.
Chi nun tene curaggio …

Milano, 14 Maggio 2009

enakapata3A Milano in treno ci sono andato l’ultima volta con Salvatore, e in fondo sono sopravvissuto. E poi anche oggi sono previste due tappe. La prima con partenza alle 7.54 a.m., destinazione Roma. La seconda con partenza alle 11.30 a.m. da Termini e arrivo prevsto a Milano alle 3.29 p.m..
Durante le 4 ore di viaggio qualche chiacchiera, una ricca provvista di noia e 3 cose da segnalare:
il racconto di un operaio che lavora sulla linea dell’alta velecità tra Firenze e Bologna. Sta sulla macchina che trafora. 6 turni di notte, 6 turni di pomeriggio, 6  turni di mattina, 3 giorni a casa, giù in Basilicata. Baracca singola con bagno e parabolica. Rumeni e marocchini visti come il fumo negli occhi;
la scoperta, complice la mia spilletta logo quadrato rosso rigorsamente CGIL, che quel signore che continua a gridare a telefono da quando è salito a Bologna è il fratello di un mio amico diregente del sindacato scuola in Sicilia;
la telefonata di Gianni (il mio amico che ha organizzato il tutto) che mi avvisa che cause di forza maggiore gli impediranno molto probabilmente di partecipare alla presentazione. Conoscendolo so che alla Società Umanitara sarà comunque tutto a posto ma rimane il fatto che la notizia non è decisamente di quelle migliori.
La mia testa decide che a Bologna sono stato troppo agitato. E che stasera come va va. Non ci crederete eppure funziona. Mi calmo. Ha ragione Osvaldo. ‘A capa é na sfoglia é cipolle.
Alla stazione troviamo Ciro Russo. Sono emozionato. Mi ha pescato su Facebook qualche mese fa. Alle scuole medie dfacevamo coppia fissa. Sono 40 anni che non lo vedo. Meglio di Carramba che sorpresa.
Stasera rivedrò anche Cristina. Con lei sono almeno 15 anni che non ci si vede. Incredibile ma vero. E poi arrivano mio cugino Romeo, i miei amici Antonio e Vincenzo, Loredana l’amica di Alberto, i librai della Feltrinelli con il libro. E poi ci sono Alessia Potecchi e Luca De Biase, e poi arriva l’eroico Gianni.
Chissà la folla, starete pensando. E invece no. Perchè oltre a loro ci saranno state altre 9-10 persone.
Il giorno dopo Gianni lo definisce un flop. Io nn sono daccordo. Non solo perché mi è capitato molto di peggio al tempo de “la Casa dei diritti”, a Genova in 3 a presentarlo e in 2 a partecipare. Ma perchè c’è stata una bella discussione. Ho rivisto un pò di amici. Ho stabilito link con bella gente che non conoscevo. Ho trascorso una bellissima serata con amici vecchi e nuovi.
La mattina dopo Reggio Emilia. Riunione di lavoro e poi  pranzo con pasta con le cozze e paranza fritta con persone straordinarie modello Amici miei. Ma questa è un’altra storia. Che forse un giorno vi racconterò.

Bologna, 23 Aprile 2009

enakapata3Come molte delle cose che mi accadono anche questa comincia un pò per genio e molto per caso.
Nel corso dell’ultimo anno Sergio l’ho incrociato più volte e sulle “principali” l’ho trovato tranquillo, per certi versi persino rilassato. Forse Bologna la rossa e fetale non lo ha amato come merita. Forse è stato lui che non ha saputo farsi amare di più. Ma in fondo io devo soltanto chiedergli se gli va di presentare il libro.
Ne parlo con Angelo Lana. Mi dice che l’idea non gli dispiace. Mi dico che è difficile che mi ricapiti la fortuna di un editore così. Chiedo il numero alla mitica Magda. Chiamo. Gli dico che ho scritto assieme a mio figlio Luca un libro che racocnta la nostra esperienza in Giappone. Gli chiedo se ha voglia e tempo di presentarlo. Mi dice subito si. Aggiunge che le Librerie Coop  gli sembrano il posto giusto.
Metto in moto la macchina. Fila tutto liscio. Fino ad una settimana prima della presentazione. Quando mi viene in mente che lui è il Sindaco di Bologna. Che per quanto il libro sia bello  io e  Luca a Bologna non siamo certo delle celebrità. Che se non viene nessuno alla presentazione faccio una pessima figura.
Scatta il Piano Plus. Coinvolgere mio fratello Antonio, che a Bologna vive da più di 30 anni.  Torturare la mia amica  Roberta Della Sala, che a Bologna ci è arrivata da un anno  per la laurea magistrale dopo la laurea triennale a Salerno. Chiedere aiuto a tutti gli amici reali e virtuali che in qualche modo hanno o hanno avuto a che fare con Bologna. Una per tutti. Cristina Zagaria. Che prima di approdare a la Repubblica Napoli ha lavorato alla redazione di Bologna. Per aiutarmi invia mail e mette annunci su Facebook. Mi sembra incredibile e invece è vero.
Nel treno verso Bologna continuo a ripetermi che funzionerà, ma il fatto che me lo ripeta non serve certo a tranquillizzarmi. Sento Cinzia. Lei  e Luca sono già in albergo. Li raggiungiamo. Mettiamo via i bagagli. Andiamo a fare un giro in centro. Incontro Roberta. Poi Alessandro Pecoraro di Oltregomorra, con il quale conto come Fondazione Di Vittorio di organizzare una serie di iniziative sul tema legalità, lavoro, diritti. Parliamo di un sacco di cose. Ma io penso sempre alla stessa cosa.
Piove. Facciamo un giro. Non piove. Ancora un giro. Piove ancora. Meglio andare in libreria.
Non c’è ancora nessuno per la presentazione, ma manca ancora mezzora. Cinzia e Roberta chiacchierano. Io vado avanti e indietro come un carcerato.
Mi maledico e poi mi maledico ancora. Mi ripeto che le presentazioni dei libri le devono fare gli scrittori veri, quelli che loro arrivano, fanno i tipi “sostenuti”, firmano autografi, trovano tutti là che pendono dalle loro labbra, non come me che a momenti devo preparare anche il tavolino con le sedie mentre Luca già da 3 giorni mi ha comunicato che lui quello che poteva fare l’ha fatto e non ha nessuna intenzione di farsi trascinare in questa overdose di ansia da presentazione. Giuro che mi ha detto più o meno così. Giuro che se fosse davvero possibile odiare i propri figli queste sarebbero le occasioni nelle quali ci riuscirei alla grande.
Esco. Ritorno. Riesco. Ritorno. Lo facico ancora. Miracolo. Lo spazio che ci è stato assegnato è pieno di sedie e di persone. Merito di Roberta e di Antonio. Merito di Sergio. Merito della libreria. Non importa.
La discussione fugge via piacevolissima.  Il Sindaco che non fa il sindaco ma il curioso, l’amico,  il lettore, l’intervistatore. L’abbraccio affettuoso con Carmine Rubino e Gennaro Pastore, amici amici amici della Secondigliano della mia gioventù. Le dediche, ebbene sì, ai lettori conquistati.  La foto ricordo che mannaggia mi sono dimenticato di chiamare tutto il resto della Band. La cena, le chiacchiere e il vino con Angelo, Cinzia, Antonio, Stefano e Luca.
Domani si ritorna a casa. Anzi a lavoro. Ma stanotte la testa sul cuscino la metto felice.

Ricomincio da tre

enakapata3 NapoliRomaMilanoReggioEmiliaNapoli. Tutta una parola. Tutto in 2 giorni. Tutta in treno. Il bellissimo libro di Weick che ho portato con me, Senso e significato nell’organizzazione, non l’ho neanche aperto. In compenso Luca mi ha raccontato un pò di cose di sè. Delle cose che ha in mente di fare. Accade quando abbiamo un pò di tempo per stare da soli assieme. E come sempre quando accade sono contento. Di più. Sono felice. Ancora di più. Mi vengono idee.
L’idea è il viaggio di Enakapata  che continua. Nel senso che andando in giro per presentarlo continuiamo a incrociare persone e storie che meritano di essere raccontate. E poi mi piace l’idea di utilizzare questo blog per ridarvi indietro, attraverso il racconto, almeno un pò dell’affetto che ci dimostrate leggendo il nostro libro e scrivendo le vostre impressioni, idee, recensioni. Stamattina ne ho parlato con Luca, gli ho detto cosa intendo fare, ho precisato che naturalmente lui è libero di partecipare oppure no e con mia grande sorpresa, a quell’ora del mattino la percentuale di rischio che ti bocci qualunque proposta è tra il 98 e il 99%, ha fatto un cenno con la testa, penso volesse dire che gli  sembrava  una buona idea.
Mah. Si vedrà. Per intanto anch’io ricomincio da tre.  Dalle presentazioni di Napoli, Bologna e Milano. Cercherò di fare in fretta. Perché il viaggio continua. E lunedì è già Benevento.

p.s.
il primo che indovina a che ora del mattino ho parlato con Luca vince una copia omaggio di Enakapata con dedica da ritirare durante la presentazione nella sua città.

Borrelli, Rotella, Malafronte, Ferrante, Lorusso

enakapata3Marika Borrelli: L’ho letto in tre ore, l’altro ieri sera tra un po’ di Barcellona-Chelsea e il letto.
Ne ho fatto indigestione. Infatti, ho sognato il Riken, il ramen, il bar delle “ragazze”, tutto assieme, preoccupandomi se poi la Fender di Luca sia mai arrivata a destinazione.
Mentre leggevo – conoscendo già il contenuto del libro perché il prof. Moretti ne distribuisce camei su FB ogni tanto – mi è venuto in mente un documentario visto su Discovery Channel: True Tokio, o una cosa così. E ho cominciato a fare automaticamente paragoni tra il diario di Moretti&son e la descrizione (agrodolce) del tipo che a Tokio ci lavorava e viveva già da un po’.
Lo dico perché Enakapata – come il documentario – è soprattutto la proiezione di vite su un luogo diverso da quello quotidiano. Ed è la diversità del luogo che cambia la ricostruzione di un ricordo e lo ricompone. Vincenzo ci racconta della sua famiglia e Luca ci racconta del padre, stimolato dagli eventi che in quei desueti luoghi accadono.
Un diario a due voci, svelto, appetibile (molti riferimenti gastronomici, siamo italiani! Ed a Tokio si può anche mangiare male), dettagliato come per sistematizzare due esistenze per un mesetto sradicate da quell’humus vischioso e bellissimo che è Napoli, nonostante tutto. Con la meticolosità di Moretti father alle prese con un sistema cognitivo (quello dei nipponici) inverso: vedi il metodo di contare sulle dita, per esempio!
E con il rammarico di fondo dell’impossibilità per noi Italiani di avere una ricerca universitaria degna. Ci prova, Vincenzo, a descrivere il Riken, tempio pressoché perfetto per scienziati e ricercatori, evidenziando il coraggio dei nostri compatrioti a trasferirsi agli antipodi, lui con il rimpianto della pastiera.
Ma cosa mai potrebbero pensare i giapponesi di noi, se leggessero questo libro che li descrive e descrive due napoletani alle prese con Tokio? Sembra l’analisi di Las Meninas che ne fece Focault: un gioco di rimandi iconici il cui differenziale era il prodotto di una proiezione, appunto.

Mauro Rotella on Tesionline.it

Assunta Malafronte: Da qualche giorno ho terminato la lettura del vostro libro. Avvincente. La cosa che mi è piaciuta di più è l’aver alternato la “pancia” (le storie di vita) alla “testa” (la ricerca), rendendo la lettura scorrevole ed interessante. Non ho mai visitato il Giappone e prima di leggere il libro nemmeno ci avevo mai pensato. Però, prima di partire, farò un bel corso di inglese e  appena arrivata andrò a mangiare dalle ragazze!

Tommaso Ferrante: Na capata … ò sasiccio… le prime 40 pagine so state peggio di una palillata in fronte. Le ho lette almeno 3 volte per comprenderei qualcosa :-). Sembra il libro per l’esame di teoria dell’informazione e telecomunicazione. Ti farò sapere alla fine. Un abbraccio.

Rosa Lorusso: Sono pienamente d’accordo con l’idea che non si può prendere senza lasciare, né chiedere senza dare, ma aggiungerei che non si può dare se non si è a propria volta ricevuto.
Prescindendo dai nostri valori e orientamenti possiamo arricchire la nostra vita e la vita altrui, convinti che più si condivide più ci si arricchisce.
L’aggettivo che a mio parere meglio racchiude quest’opera è coinvolgente. Chi possiede la speciale abilità di renderti partecipe nella relazione del sapere riesce a farti entrare in un interessante vortice comunicativo che incoraggia la voglia di contribuire alla costruzione di questo meraviglioso e mai terminato edificio della cultura.
Mi sono sentita particolarmente coinvolta in questo viaggio; a volte mi sembrava di essere lì con i protagonisti di quest’avventura.

Della Sala, Orlando, Lagomarsini, Gianfagna, Asfoco, Conforti

enakapata3Roberta Della Sala: Ieri pomeriggio a Bologna presso la libreria Coop Ambasciatori è stato presentato un anomalo e originale testo, o meglio, un diario di viaggio che percorre due binari paralleli che hanno imparato ad incrociarsi: la scienza e la città.

Leggi l’intero articolo su Alter-Azione

Valerio Orlando, again: Caro Vincenzo, ho finalmente (ma ero dispiaciuto come accade quando viene il tempo di separarsi dalle cose amate) terminato di leggere il tuo libro. Di nuovo complimenti. Credo sia un documento importante che spero possa trovare massima attenzione sia negli ambienti che decidono/programmano il futuro della ricerca in questo paese, sia semplicemente (serendipity) tra qualche giovane che possa cosi trovare un’occasione per sognare. Spero di sentirti presto. Valerio.

Andrea Lagomarsini: Vincenzo non ti smentisci mai.. il libro è bellissimo.. una commistione di pezzetti che all’unisono conducono al risultato .. un onore avere un angolino di spazio.. quando riusciremo a organizzare la presentazione.. e purtroppo penso andremo a ottobre visto che giugno è martoriato dalle elezioni… Porta anche TUO FIGLIO!

Andrea Gianfagna: Dear Vicienz’, ho letto con interesse e piacere il Diario che hai scritto together tuo figlio Luca, sulle esperienze del vostro viaggio in Giappone. Complimenti. Mi è venuto  in mente un proverbio di Campanasce, leggendo la tua interpretazione, molto accattivante, della serendipity.
Il proverbio recita: “la vecchia nun vulea murì pecché autre cose vuleva verè (dove veré sta per scoprire)”, mi sembra che in questo proverbio ci sia, in nuce, lo sviluppo della teoria della serendipity.
Ma veniamo a noi. Sono stato in Giappone nel 1968 per oltre 20 giorni a Tokyo, Kyoto, Nara ed Osaka e devo dirti che condivido molte delle tue valutazioni sui giapponesi e sul sistema Giappone, anche con le relazioni che tu fai, confrontandole con ciò che avviene in Italia.
Volevo tuttavia dirti che la cosa più importante che mi è capitata nel viaggio in Giappone in compagnia di Julien Livi (fratello di Yves Montand) e segretario del Sindacato Alimentaristi della CGT, è stata la presa di coscienza che il mondo si deve valutare non solo con i criteri europei ed americani, e che l’Asia, il Giappone richiedono altro. Il tuo diario conferma. Domo arigato per il tuo lavoro ed auguri, affettuosamente.

Sabrina Asfoco: Ciao Moretti senior, ho letto il tuo libro e l’ho trovato divertente e leggero. Si, sei riuscito a parlare di scienze e tecnologia con leggerezza. Bravo anche Luca. Un abbraccio.

Antonio Conforti: […] E’ il Vincenzo che parte da Secondigliano e senza più parlarne esplicitamente, traccia lungo tutto il libro un filo invisibile di napoletanità e di tradizione popolare, alla quale non rinuncia comunque, anche se fra mille contraddizioni.
E’ il fiume carsico dello stesso Luca, molto più giovane e strutturato verso una valorizzazione del “nuovo”, che tenta di portare indietro,verso il luogo d’origine, i simboli del mondo visitato, dalla cucina al gadgets, perché si sedimentino nella comunità alla quale appartiene come ulteriore patrimonio di ricchezza.
E’ la pervicace, spettacolare ritrosia a comunicare nell’inglese universale che hanno quasi tutti i giapponesi, che sembrano rifiutare così l’omogeneità imposta dall’esterno. […]

Leggi l’intera recensione

Annibale, Maxtraetto, Orlando, Ugolini, Pennone, Potecchi, Splendore

enakapata3Vincenzo Annibale: Fino al 10 marzo è una chicca. Avevo deciso di piegare le pagine interessanti per poi commentarle. Fino ad ora ho fatto una novantina di “orecchie”. Dopo il 31 marzo mi mancherà il giappone (è anche un invito al visitarlo insieme a tante altre affascinati cose, che poi dirò tutte insieme). C’è da sperare che socializzi altri viaggi.

Maxtraetto: Il fil-rouge sella serendipità è la vera capata che sconvolge le mie sinapsi da un po’ di tempo. Destino, fato, caso, dharma, coincidenza, occasione, opportunità, parole che all’inizio credevo sinonimi di serendipità. Se non accompagnate da: attenzione, apertura mentale, storia, organizzazione, desiderio, potrebbero esserlo ma la capacità di mettersi continuamente in gioco è l’anello mancante. Con l’umiltà di chi apprezza gli insegnamenti e con la voglia di affrancarsi da pensieri che si ritengono fondamentali. Per me bella la coincidenza dell’arrivo del vostro libro con le riflessioni che stavo facendo intorno a “carpe diem”.
Un abbraccio.
http://solchi.blog.dada.net/

Valerio Orlando: Carissimo Vincenzo, solo per dirti che mi porto il tuo libro (e di tuo figlio!) in giro per Roma e per il mondo. Bello. Bellissimo. Cerco di non leggerlo con gli occhi di chi sa. E mi riesce facilissimo. Ma più che i contenuti e i luoghi che conosco e riconosco, mi godo proprio la scrittura. Quell’insieme di riverberi che rivelandosi o celandosi, raccontano ora l’uomo e ora l’artista. Spero di sentirti presto. Un abbraccio. Valerio

Bruno Ugolini on l’Unità del 6 Aprile 2009

Domenico Pennone: Da non perdere. Il viaggio che tutti vorremmo fare. Portandosi dietro molto passato e tanto vissuto, cercando quello che altrimenti non potremmo nemmeno immaginare. Enakapata, il libro di Vincenzo e Luca Moretti, padre e figlio è tutto questo e tantissimo altro ancora. Un viaggio cosi bello, così avvincente che fatichi a non pensare che sia finto. E invece è tutto vero, raccontato con passione ironia e a tratti anche con un pizzico di sana malinconia.
MetroMagazine

Alessia Potecchi: Cari Vincenzo e Luca, sono contentissima di partecipare alla presentazione del vostro libro a Milano, la mia città, e vi ringrazio molto per avermi invitata. Ho trovato la vostra pubblicazione molto affascinante e nello stesso tempo fresca e originale. Leggendo sembra di compiere il vostro viaggio e ci si trova immersi nella cultura giapponese scoprendo tanti aspetti sociali e culturali che fanno riflettere a confronto con il nostro quotidiano. Trovo che il libro offra diversi spunti di riflessione e sia un’ottima lettura che incuriosisce sempre di più strada facendo…..Tanti tanti complimenti, vi auguro un grosso successo e sono sicura che sarà così! A presto.

Nunziante Splendore: Cosa ha spinto un sociologo napoletano a lasciare per un mese il suo lavoro, le sue abitudini, i suoi affetti più cari per trasferirsi in Giappone ad intervistare, a scoprire, ad annusare, condividere e integrarsi in un mondo completamente diverso dal suo? La risposta in questo libro, Enakapata, scritto da Vincenzo e Luca Moretti, padre e figlio. Già ma cosa vuol dire enakapata e perché? Enakapata è un verso nippo napoletano inventato dagli autori, che vuol dire è una capocciata, una cosa da urlo, uno sballo qualcosa di diverso dall’ordinario, qualcosa che ti fa capire quello che avevi sotto il naso ma non avevi mai riflettuto. Ne esce fuori un diario, il racconto di una vita, un grido di dolore, un grido di conforto e di smarrimento e di ritrovamento, quasi un urlo di speranza verso il futuro. Ho intravisto un doppio livello di lettura in questo libro: il primo come fanno gli scienziati a scoprire l’imponderabile, il secondo livello è solo vivendo intensamente che possiamo realizzarci. Il professore Moretti ci rassicura e ci tranquillizza. Tutto funziona per genio e per caso. L’importante è capire, dare un senso ad un insieme di flussi che ci travolgono, ci invadono ci sfiorano, ci arricchiscono. Un po’ come vivere in un ambiente straniero ostile e completamente diverso dal nostro e dare un senso a ciò. Il libro ci indica due vie la prima razionale la seconda ancora da studiare: imparare l’inglese e scoprire che non è di grandissima utilità per la vita quotidiana giapponese, la seconda aiutarsi con il genius napoletano, il tutto condito con un metodo di lavoro straordinario: 17 ore filate di lavoro come un vero giapponese. Tutto ciò si scopre leggendo Enakapata, storie di strada e di scienza da Secondigliano a Tokyo. Alla fine del libro due domande: la prima: che tipo di diario poteva scrivere un ipotetico scienziato giapponese in missione in un centro di ricerca napoletano; la seconda: Paghiamo per dieci anni una ventina di alte teste giapponesi pensanti e mettiamoli al servizio della ricerca italiana ne uscirà qualcosa di diverso oppure no?

Iucci, Zagaria, Romano, Iossa, Strazzullo, Gonzalez, Comunitàzione, Di Domenico, Vesupreme, Lieto

enakapata3Stefano Iucci: Dunque, non voglio buttarla giù troppo pesante, ma nei Ricordi di egotismo di Stendhal c’è scritto che l’unica giustificazione per… scrivere di Sè è quella di essere assolutamente sinceri. Ecco io credo che uno dei pregi di questa kapata sia la sincerità degli autori nel raccontare le proprie esperienze (comprese difficoltà, paure, incomprensioni). Non è un giudizio psicologico o moralistico, nel senso che questa sincerità si fa scrittura. E’ insomma una sincerità letteraria, l’unica possibile in un libro.

Cristina Zagaria: È  stata ’na kapata!!!!!!!!!! … Funziona … l’ho letto … senza fatica in un giorno … è un libro diverso … e questo credo sia un grande pregio, con diversi punti di interesse … e questa è la sua forza …
Riassumendo le mie tre pagine di appunti, la prima cosa che mi ha colpito è lo stile. Il libro è scritto come fosse un continuo scambio di mail. Ci sono anche alcune parti in inglese. Moretti è un blogger appassionato e si vede. La sua scrittura è veloce, moderna, fresca.
E poi c’è la teoria della Serendipity, non vorrei sbagliarmi, perché vado a memoria e cerco di semplificare, ma è quel modello scientifico secondo cui partendo da un dato anomalo si arriva ad elaborare una nuova teoria o ad ampliare una teoria già esistente, stravolgendo il punto partenza (non è fantastico!!!! Non dico solo nella scienza o nella sociologia, ma anche nella vita).
Attenzione, però, il diario non è assolutamente un trattato scientifico, io direi piuttosto che è un’avventura, sul cui sfondo si delinea anche il bellissimo rapporto tra padre e figlio.
Vincenzo, infatti, lo sa, le pagine che più ho adorato del diario sono quelle scritte da Luca, studioso di cultura giapponese, che riesce a portare il lettore a passeggio nelle vie di Tokyo, tra presente e passato, tra realtà e leggende. […]
Leggi l’intero articolo su Voltapagina

Antonella Romano: Ho appena finito di leggere Enakapata (troppo curiosa per aspettare la presentazione). Mi è piaciuto molto. Sembra contenere tutto. Due punti di vista (padre e figlio) che si intersecano. Due culture (Occidentale e nipponica) a confronto. Il Suo diario è stato a tratti esilarante (la testata, l’ambasciata e la storia di “ammazzarli quando sono piccoli”etc… comicità allo stato puro); a tratti istruttiva (parte scientifica); senza fare a meno dell’approccio sociologico (deformazione professionale). Quanto alle pagine di Luca, è riuscito ad unire storia e descrizione dei luoghi con molta cura per i dettagli (sembrava quasi di esserci). Troppo spesso è difficile parlare di storia, tradizioni o narrare di luoghi senza annoiare. E “il suo erede” ci è riuscito. Mi è venuta voglia di andarci in Giappone (anche se un mese senza pasta e pizza…ecco forse due settimane possono bastare!). La saluto. A domani. Complimenti e in bocca al lupo.

Luisa Iossa: Di mestiere faccio la libraia, e dovrei quindi esprimermi come tale…ma con il tuo libro proprio non ci riesco…come amica e persona che ti vuole bene dico che è semplicemente “tutto te stesso”. Ti ritrovo in ogni rigo, mi sembra anzichè leggere di ascoltarti, per non parlare di Luca che si è già confermato figlio di tale padre (e direi tale nonno).La vera scoperta per me è proprio Luca, ed è a lui quindi che faccio i miei in bocca al lupo, ma so già che questo può solo farti felice…Enakapata Forever!

Alessio Strazzullo on Ciò che penso e qualche volta scrivo

Irene Gonzalez: Cmq è trooooooooooooooopp bell!!!

Red on Comunitàzione, Il punto di incontro per la comunicazione e il marketing

Salvatore Di Domenico: Caro Enzo, sai il bene che ti voglio, ma non è questo il motivo per cui ti scrivo. Stamattina appena sveglio poso lo sguardo su Enakapata e incomincio a leggere. La posizione dove mi sono trovato a leggere non era tra le più comode. Ma nonostante tutto mi sono fermato solo quando le gambe hanno iniziato a   farmi male e ho pensato che le pagine del tuo libro sono come le patatine fritte e i pistacchi… quando inizi non è facile smettere. P.S. scusa per il paragone Salvatore

Red on Vesupreme, storie di eccellenze napoletane

Antonio Lieto on Marketing Media Comunicazione Innovazione

Mai dire mai

enakapata3Per Luca è la prima volta. Lui fino ad oggi ha litigato più con le note che con le parole. Per me no. Io sono Moretti il vecchio. E non mi ricordo neanche più da quand’è che faccio a pugni con i pensieri.
L’affettuosa complicità di amici come Sabato Aliberti, Salvatore Casillo, Sergio Cofferati, Luca De Biase, Biagio De Giovanni, Rosario Strazzullo, Riccardo Terzi ha permesso ai miei libri di finire sugli scaffali e a me di imparare molte cose. Ma è inutile negarlo. Questa volta è diverso. Speciale.
Quando ho chiesto a Luca di venire con me in Giappone ho pensato che per lui potesse essere un’esperienza importante. Gli piace viaggiare, studia giapponese,  ama le culture orientali, gli piace persino cucinare giapponese,  quale occasione migliore?, mi sono detto. E poi avevo un bel ricordo del nostro viaggio in Australia, nel 2000, in occasione delle Olimpiadi. E poi ero terrorizzato dal mio pessimo inglese e dalla mia scarsa capacità di sopravvivenza. E poi ai tipi che fanno, per scelta e per caso, la vita che faccio io, fa un gran bene stare per un pò assieme ai propri figli. E poi potrei dire di altri mille e poi. Ma mai e poi mai avrei pensato di scrivere un libro insieme a mio figlio. E invece eccoci qua. Cosi insieme e così diversi.
Perché le cose che ha raccontato lui io non avrei mai potuto raccontarle. Perché mentre lui faceva il turista io lavoravo. Perché senza quelle sere passate assieme a leggere, rileggere, correggere non sarei tornato a Secondigliano, alle mie radici, là dove per me tutto è cominciato.
Anche per questo Enakapata non è solo un diario. Ma anche un gioco. Un tradimento. Una prepotenza. Un augurio.
Il diario dà conto di come è nato e di cosa è stato il viaggio a Tokyo e al Riken, istituto di ricerca tra i più importanti del mondo. Dove io e Luca siamo rimasti dal 3 al 30 marzo 2008. Dove continuiamo a tornare con il pensiero. Il discorso. L’immagine. La posta e la chiacchiera. Elettronica e no.
Il gioco consiste nella contrazione giapponesizzazione di un’espressione assai di moda nello slang under 30 dalle parti del Vesuvio, «è ’na capata», letteralmente «è una testata», in senso figurato «è in», «è una cosa che colpisce», «è qualcosa di straordinario». Il resto lo scoprirete leggendo il libro.
Chi lo ha letto lo ha trovato bello, ma su questo conviene che io taccia. Mio padre avrebbe detto “Ogni scarrafone è bello ‘a mamma soia” o anche, meglio, “Acquaiuò, l’acqua è fresca? Manco ‘a neve“, e tanto basta.
Posso dire invece che spero che lo compriate. Di più.  Che vi piaccia a tal punto da indurvi a consigliarlo agli amici. A regalarlo. Ancora di più. Io ci credo. E voi?
Buona lettura.