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16 Novembre 2013. La sera del lavoro narrato. Residenza Rurale l’Incartata

incartataMichele Sica Bosconauta, con un bel post sul suo bellissimo blog, la serata l’aveva presentata così: Sabato 16 novembre inauguriamo le AppetitoseConversazioni alla Residenza Rurale l’Incartata: l’incontro tra coltura e cultura, il piacere della buona tavola, sana autentica e naturale che incontra il piacere della mente, buone letture che saziano l’anima e cambiano il mondo. […] La serata prenderà il via alle 19 con la coinvolgente e travolgente presentazione di Vincenzo Moretti e delle storie di lavoro lette dal suo romanzo, ma il lavoro ben fatto sarà narrato anche a tavola, con i piatti della nostra tradizione tutti provenienti dal nostro orto e dalla rete di contadini e pastori locali della #cumparete. Il costo della cena comprensivo di una copia del romanzo è di € 20. Gradita la prenotazione.

Strada facendo, ho pensato che tutto questo mi piaceva un sacco etmcsmall che però si poteva fare di più. Ma sì, mi sono detto, visto che non lo fai certo per denaro e che il senso di tutto questo tuo girovagare in lungo e largo per Napoli, la Campania, l’Italia sta nella voglia di contribuire con il tuo mattoncino a diffondere la cultura del lavoro ben fatto e a mettere in relazione un po’ di belle persone, di belle idee, di bei fatti, perché non cogliere l’occasione per chiedere a chi parteciperà di leggere, narrare, cantare una storia di lavoro? Qua l’ho pensato e qua mi è venuto il titolo, La sera del lavoro narrato, che poi se vogliamo può diventare anche la notte, tanto il giorno dopo è domenica, chi ci dice niente.

A proposito di connessioni, di belle persone, di cose fatte con la testa, con le mani e con il cuore: non vorrei dire, ma anche quello che potete vedere nel video qua sotto è avvenuto dalle parti di
Residenza Rurale L’Incartata. Vale quando semini grani antichi, vale quando fai il pane e vale quando racconti il lavoro ben fatto.
Ecco, vi ho detto quasi tutto, che tutto quando le cose sono così belle se non le vivi non lo puoi dire. Spero siate in tante/i a partecipare ma naturalmente spetta solo a voi scegliere. Pillola azzurra, fine della storia: domenica vi sveglierete in camera vostra e crederete a quello che vorrete. Pillola rossa, sabato ci incontriamo nella residenza delle meraviglie e vedrete quant’è profonda la tana del bianconiglio. Vi sto offrendo solo la verità, ricordatevelo. Niente di più.


Per Prenotare

Come raggiungere la Residenza Rurale l’Incartata

Prufessò, scusate, ma allora perché lo fate?

L’incontro a via Chiaja, qualche giorno fa. Come purtroppo mi accade sempre più sovente, non ricordo chi è né, ovviamente, come si chiama. Neppure la prima parola che dice, “prufessò”, mi  permette di inquadrarlo, alla voce “università” non ci sta bene, devo averlo per forza incrociato da qualche parte, meglio non pensarci e stare attento a non fare brutte figure.
“Prufessò, ve state facenno ‘e sorde, eh?, sono contento, ve lo meritate, siete una brava persona.  Mio padre mi racconta sempre che anche quando stavate alla Cgil eravate così”.
“Ringrazio te e tuo padre per i complimenti, ma di quali soldi parli?”.
“Prof., io vi seguo su Facebook, sono un vostro tifoso, so tutto di voi: il romanzo che avete scritto, le recensioni che state avendo sui giornali, i lettori entusiasti, tutte quelle presentazioni, e mica è una cosa brutta avere successo e mettersi in tasca un po’ di soldi”.
“Guarda che sei fuori strada. A parte che “avere successo” è una parola grossa, e che per fare soldi con i libri bisogna venderne tanti, ma proprio tanti, così tanti che tu nemmeno te lo immagini, per quanto riguarda me i soldi non li farei neanche in quel caso, perché per ragioni  troppo lunghe da spiegare non ricevo diritti d’autore.”
“Cosa vuol dire?”
“Vuol dire che dal punto di vista economico io non ci guadagno niente, indipendentemente da quello che si vende. Per dirla come va detto ci rimetto soldi miei, per viaggiare, per mangiare, quando serve dormire, le copie che regalo agli amici e così via discorrendo”.
“Prufessò, scusate, ma allora perché lo fate?”.
“Scusami, adesso non ho tempo, ho un appuntamento e sono in ritardo, sarà per un altra volta. Ciao, e salutami tanto tuo padre”.
Dite che sono stato un poco antipatico? Non sono d’accordo, e vi spiego perché:
1. L’appuntamento e il ritardo erano veri.
2. Parlare senza sapere con chi stai parlando è già complicato quando si tratta di convenevoli figurarsi quando la discussione è seria (lo so che potevo dirgli “scusa ma non mi ricordo chi sei”, a volte lo faccio, ma bisogna farlo subito, quando la discussione ha preso il suo corso fa brutto).
3. Dire che lo faccio perché credo nella possibilità che il lavoro ben fatto possa cambiare la cultura e il destino del mio Paese, che continuo ad amare nonostante tutti i contorcimenti di stomaco che mi provoca ogni giorno; perché tutto questo contribuisce a dare senso alla mia vita; perché mi piace farlo; perché in questo modo stabilisco connessioni con un sacco di bella gente in giro per l’Italia è davvero importante, molto, ma soltanto per me.
4. La ricerca che stiamo portando avanti Alessio, Cinzia, Gennaro e i maestri artigiani di Castel San Giorgio, Jepis e le band di #Cip e di  #CampDiGrano, Giuseppe e la sua pasta di Gragnano che ottiene l’IGP, le ragazze i ragazzi della Bottega Exodus Ahref di Cassino, Gennaro e il suo dromedario da corsa, Santina, Costantino, io e tante/i altre/i persone in giro per l’Italia che a citarle/i tutti ci vuole un libro, mira a dimostrare proprio che quelle/i che pensano e agiscono come noi sono tante/i, ma così tante/i che neanche ce lo immaginiamo, e che se scelgono di connettersi, raccontarsi, rappresentarsi, agire, con la testa con le mani e con il cuore possono diventare egemoni – lo posso dire?, nel senso gramsciano del termine – e cambiare l’Italia.
5. Fare bene le cose è il nostro approccio, ridare valore al lavoro e cambiare l’Italia il nostro  obiettivo.
6. Per quanto mi riguarda, spero di farcela, lavoro per farcela, ma non ho bisogno di farcela, almeno non per forza. Ci sono strade nella vita che vale la pena di percorrere “a prescindere”. Per quanto mi riguarda, questa è una di quelle.

That’s all, folks. Almeno per ora.

La tela e il ciliegio. Testa, mani e cuore

Il 22 Marzo 2013, alla Feltrinelli Libri e Musica di Napoli, presentiamo il mio primo romanzo, Testa, mani e cuore, edito da Ediesse. Nello stesso giorno, su Youtube, va in onda La tela e il ciliegio, il film documentario diretto da Alessio Strazzullo con Antonio Zambrano e Jacopo Guedado Mele. Nel frattempo abbiamo aperto un blog, anzi no, un cantiere, che però ha già una piccola grande storia alle spalle. Alessio and me lo abbiamo pensato per per raccontare la prossima tappa di questo nostro viaggio che speriamo più che mai di vivere assieme a voi. Speriamo siate davvero in tante/i ad avere voglia di interagire.

Le vie del lavoro a TEDx Napoli

Dedicato a Felicia

La storia, questa piccola grande storia, ha inizio qualche giorno fa quando Felicia Moscato, mia ex studentessa a Fisciano, ha pubblicato questa immagine su Facebook:

Dite che potevo sorridere o anche solo farmi i fatti miei? Potevo, ma non l’ho fatto, e ho commentato così la foto:
Felicia, non mi piace; per me come sai il lavoro va approcciato sempre con professionalità, di più, come se tu fossi il numero 1 al mondo e dovessi fare la cosa migliore del mondo. Poi, quando si arriva al risultato, si deve avere la capacità di accettarlo, e anche di imparare dagli errori. ma se fossi in te farei in modo che nessuno possa mai dirti che non hai fatto il tuo lavoro con professionalità :))))))))))))))))))))))

Felicia mi ha risposto così:
Prof. è un qualcosa di ironico questo…e credo che lei lo abbia capito benissimo…di solito cerco di non catalogarmi tra le persone che fanno qualcosa tanto per farla… :)))))))

Io, un poco imbarazzato, me la sono cavata con un “ottimo” che poi è finito sotto un commento di un’altra persona che proprio mi è sembrato orrendo ma questo in fondo non importa, le opinioni sono tutte legittime e non è che io pensi di stare lì a dover insegnare delle cose al mondo, mi piace molto di più imparare che insegnare.

Quello che importa, almeno a me, tanto, è che Felicia ieri, credo ha fatto una torta, questa:

e poi mi ha taggato in un post,  questo:
Prendendo spunto da ciò che mi ha detto qualche giorno fa; ieri mi sono vestita da professionista di dolci…. mi sono immaginata come la pasticcera migliore del mondo che dovesse confezionare la torta per l’evento più importante del mondo…a vedere il risultato mi sento molto soddisfatta…io, prof., non sono solo una futura sociologa, ma sono semplicemente ciò che oggi voglio essere…chi l’ha detto che bisogna essere una cosa sola nella vita per essere i migliori??? forse andrà contro qualche suo pensiero ma io sono dell’idea di poter diventare tutto…(ovvio, non un’astrofisica)…ci metterò più tempo degli altri ma alla fine io avrò più specialità da poter offrire al mondo…e questo per oggi mi basta….il mio sogno? essere un giorno ciò che il protagonista del film “Jerod: il camaleonte” è stato nella finzione…un sogno troppo in alto forse, irraggiungibile e impensabile, ma io fino a quanto riuscirò ad immaginare che sia possibile, voglio raggiungerlo questo traguardo…OK, SI, sono incontentabile…:)))))))

Posso dire che questo post di Felicia mi piace un sacco? Mi piace un sacco che lei sia tornata sulla questione, che non l’abbia considerata una cosa così. E mi piace ancora di più che mi abbia ricordato che “Siam molti”, proprio come nella poesia di Pablo Neruda, e che in questi molti che siamo, che è, lei ci si trova bene.
Grazie Felicia. Di cuore. Questo post è dedicato a te. Alla tua intelligenza. Alle tue passioni. Al tuo futuro.

Timu e Le vie del lavoro all’Università di Salerno

E’ stata la mia amica Bianca Arcangeli, prof. di Metodologia delle Scienze Sociali a Salerno, a chiedermi se avevo voglia di raccontare ai suoi studenti del primo anno la ricerca sul lavoro che stiamo portando avanti su Timu.
Detto che se mi chiedete cosa ho risposto vi tengo scompagne/i aggiungo che sono venuti anche un pò degli studenti del terzo anno che seguono il mio corso di Sociologia dell’Organizzazione e che il piccolo esperimento ha dimostrato, e vi assicuro che ce n’è bisogno, mamma come ce n’è bisogno, mica solo a Salerno, che studiare e lavorare assieme fa bene alla salute, degli studenti e dei loro prof.
Come provo a fare ogni volta in queste occasioni, la sera mi sono appuntato un pò delle cose dette e qualche considerazione utile per i vagabondaggi prossimi venturi; ve le segno qui, nel caso vi faccia piacere condividerle:

1. Timu e Fact Checking, le piattaforme Ahref per storyteller e citizen reporter che sulla base di un metodo condiviso decidono di raccontare storie, fare inchiesta, verificare notizie, in maniera partecipata.

2. Il rapporto tra Bella Napoli, il libro nel quale racconto la mia città attraverso la passione e il rispetto dei napoletani per il lavoro e Le vie del lavoro, l’inchiesta promossa da Fondazione Ahref e Fondazione Giuseppe Di Vittorio per raccontare l’Italia attraverso la passione degli italiani per il proprio lavoro, la voglia di farlo bene a prescindere.

3. Perché la scelta di raccontare il lavoro ben fatto. Illustrazione dell’ ipotesi di partenza (esiste in Italia il lavoro ben fatto?), del metodo utilizzato (accuratezza, legalità, indipendenza, imparzialità), della tecnica di rilevazione adottata (testimonianza guidata da tre domande: un’immagine, un ricordo, un fatto che riassume come il lavoro è entrato nella vita dell’intervistata/o; il racconto del proprio lavoro, come si svolge concretamente; perché il lavoro vale, dà significato alle nostre esistenze), dell’obiettivo finale (il racconto dell’Italia che lavora bene a prescendere come leva per il cambiamento culturale – dare più valore al lavoro meno valore ai soldi; dare più valore a ciò che sai e sai fare e meno valore a ciò che hai – di cui ha bisogno il Paese).

4. L’incidenza della serendipity, il concetto di isomorfismo, i processi di competizione collaborazione, la possibilità di dare nuovo senso e significato ai contesti nei quali viviamo.

5. Illustrazione di alcuni esempi (lavoratrici nigeriane che fanno le sarte; Enzo Paparone, parrucchiere; Antonio Zambrano, ebanista; Costantino Menna, ingegnere dei materiali; Carmine Brucale, ricamatore; Geremia Pepicelli, ingegnere elettronico).

6. In che senso e perché “fare é pensare”, la discussione tra Hanna Arendt e Richard Sennett.

7. L’invito a interagire, partecipare, contribuire con le proprie storie alla nostra ricerca.

Bottega Ahref @ Rione Sanità

Una vita da operaio. Da operaia. Naturalmente su Timu

Racconta la tua storia di fabbrica su Timu

La fabbrica è la vita
di Giuseppe Argentini

La fabbrica = la vita. La vita = la fabbrica.

Un paese in Abruzzo (la fabbrica) di circa tremila persone, su un cucuzzolo, attorno altri cucuzzoli con altri paesi simili.
Campagna, fossati, sali e scendi tutt’intorno, neve e freddo d ‘inverno caldo d’estate, abitazione, non di proprietà, come il resto, orto, animali ecc. Si dorme in uno scantinato, lenzuola umide.
Licenza di scuola media inferiore, meno male, almeno quello, anche se poco mi è servito, non per quello che ho imparato ma per il titolo. Dopo la scuola, in una bottega di falegname, imparo subito ad usare le macchine e vari attrezzi.
Di giorno si usano le macchine e al mattina presto si assemblano i pezzi, il padroncino, benevolmente per riconoscenza, lascia le sigarette nel cassetto del bancone e al mattino una pizza, dal vicino forno, con zibibbo, qualche volta al cinema, mi sentivo un pò grande, anche questo mi servirà.
Arrivo a Roma, a 19 anni, in una bottega di falegnameria, si dorme si mangia ci si lava a bottega, pochi soldi, appena basta per sfamarsi con pane e qualcos’altro.
Ero un emigrante in piena regola, mi sentivo a casa d’altri, paura di andare fuori zona, se ci andavo usavo il filo di arianna, mentalmente. Guardavo gli altri, tanta gente, ma ero solo.
Cambio lavoro. In un sottoscala vicino a Roma, grande città, poi alla periferia fuori Roma, sempre lo stesso, dormo nella fabbrichetta, grazie al padrone che in cambio mi insegna a controllare i forni elettrici per la cottura di ceramiche, spegnere il forno a temperatura giusta, non addormentarsi perché se passa di cottura si butta tutto, imparo presto per necessità, a volte mi sembra di essere necessario e avanzo qualche pretesa, qualche soldo rimane, c’è anche per il cinema, non voglio tornare al paese.
Si mangia un pò meglio, si compra una pagnotta che si riempie di pomodoro e carne in scatola, va bene per colazione pranzo e cena, la pancia si riempie, si compra qualche maglione desiderato.
Niente busta paga, niente contributi. Mai nessuno si interessa a te. Menomale. Altrimenti chissà.
Poi all’improvviso c’è un motivo per continuare, una ragazza, i problemi come la novità aumentano con passi da gigante, ha idee di sinistra, idee proprie, di un principio che non capivo, non pensavo che c’erano idee e convinzioni così diverse da quello che mi avevano insegnato a casa, a scuola di cui non si parlava mai.
Ma mi piacevano, piano piano le facevo anche mie. Ho dovuto cambiare tutto un modo di pensare. Non sapevo che dire, che fare, come comportarmi.
La prima tessera della CGIL anni 1958/59, il giornale l’Unità. Iniziavo a vedere, mentre guardavo le cose. Poi il militare, dove finalmente si mangia, la colazione, la cena. La pasta asciutta, la carne tutti i giorni, con il soldo e qualche cento lire da casa, si dorme su un letto asciutto, mi sento meglio, anche perché c’è qualcuno che mi scrive spesso e mi aspetta.
Non so come sarà il ritorno a casa. Dopo il militare con l’esperienza nei forni, trovo un lavoro in una nuova fabbrica, si fanno i turni così si guadagna di indennità, menomale c’è un vero lavoro, circa 30.000 lire al mese, ci siamo sposati, 15.000 lire di affitto. Finalmente una casa vera. Dopo un pò, ritardi nella retribuzione con continui richieste di arretrati, il padroncino a volte mi dava qualche spicciolo, diceva che se lo toglieva dalla tasca propria per darli a me, niente contributi per la pensione, dieci anni persi.
Arrivano i figli. Serve qualcosa di meglio, più soldi, specialmente con puntualità. Altrimenti sono problemi. Non si riesce a fare debiti, come tanti, si compra con quello che si ha con preoccupazione. Si parla di chiusura. Prima che la fabbrica chiude trovo un altro lavoro, un’altra fabbrica, ci vuole il patentino, ci provo faccio tirocinio, ci riesco, sono un operaio qualificato. Dopo qualche anno chiude anche questa.
Un’altra fabbrica nuova, lo stesso lavoro, l’impegno sul lavoro mi evita problemi e c’è qualche compenso in più. Ma sempre presente anche nei festivi. Dopo qualche anno le cose non vanno bene, si prospetta la chiusura. Ancora la ricerca del lavoro.
Finalmente una fabbrica medio grande, solida, farmaceutica, ancora con i turni continui, serve costanza e sacrifici per migliorare nel lavoro e ottenere qualche extra, i figli sono tre. Cercare di aumentare di livello, servono più soldi, assumersi qualche responsabilità.
Acquisto esperienza, il lavoro è impegnativo, aggiornarsi di continuo per lavorare in sicurezza, evitare incidenti. Serve continuo impegno. Bisogna muoversi con cautela, visto anche la militanza politca/sindacale, anni 1974/75. In alcuni casi c’è stato discriminazione, ripicche. Ma è necessario partecipare.
Il caporeparto, in più occasioni, quando trovava un nuovo elemento disponibile, ha provato a sostituirmi, ma un’esperienza non si improvvisa. Allora rinunciava. Mi doveva accettare, e questo per 20 anni, mi rimproverava la militanza, i consigli ai nuovi assunti, a volte la protezione.
Le assemblee, gli scioperi, i rinnovi contrattuali, le discussioni infinite erano costruttive, si doveva trovare un accordo, una soluzione, sempre attenti ai cambiamenti, pronti a recepirli.
C’è stato un cambiamento con l’automatismo dell’impianto, il computer che gestisce, ti evita i turni ma ti chiama in caso di allarme, a tutte le ore, interrompi il pranzo di compleanno del figlio, era difficile da accettare dopo 30 anni di gestione manuale.
Anno 1990. All’idea ero contrario, poi ho accettato per sfida, qualche collega ha avuto qualche problema. Momenti di sconforto, famigliari preoccupati.
Visto le conoscenze acquisite, i progettisti mi hanno chiesto di scrivere tutte le procedure che conoscevo: di avviamento, di spegnimento, di controllo, di inserire e disinserire una macchina, di tutte le anomalie che conoscevo, è stato accettato anzi ho esagerato in sicurezza e controllo dei punti di riferimento, pensando al futuro. Abbiamo inserito nuovi elementi. Cosa importante è stato l’approccio col computer. Però altri ottenevano promozioni mentre io rimanevo al mio posto forse per le idee politiche e sindacali.
La fabbrica è la vita intera. Te ne accorgi dopo, quando all’improvviso si parla di mobilità, cassa integrazione, prepensionamento. Non sai cosa pensare. Sei nella lista? Che farai? Nel mio caso mancava qualche anno alla pensione, nel lavoro di controllo impianto ero rimasto da solo con il computer, in alcune manovre manuali mi accorgevo che facevo fatica, allora ho chiesto aiuto anche in previsione di preparare un sostituto.
Le promesse c’erano ma dalle risposte tipo “abbiamo i diplomati che hanno studiato perciò sono in grado di sostituirti” capivo che non c’era volontà di preparare i futuri gestori impianti adeguatamente. Ero preoccupato per la sicurezza e visto che in 40 anni di lavoro su impianti ritenuti pericolosi, generatori di vapore, non avevo avuto nessun incidente, perché aspettare?
Ho chiesto l’inserimento alla seconda lista di mobilità, dopo un mese ero fuori dalla fabbrica.
Una nota sconfortante, avevo due scatoloni di appunti, accumulati durante le varie modifiche all’impianto, su come gestire l’impianto, varie soluzioni ecc., nessuno lo ha voluto, ho buttato tutto.
In fabbrica il mondo è migliore che fuori, con le amicizie, la collaborazione, le occasioni che aiutano anche all’esterno, sei in contatto con il mondo intero. Fuori la fabbrica c’è meno opportunità, non sai dove cercare.
Avevo deciso che andando in pensione non avrei fatto altri lavori, anche per la poca prospettiva dei giovani.
L’improvvisa uscita dalla fabbrica crea qualche problema, esci al mattino alla stessa ora con la scusa di comprare il giornale, ogni giorno non sai cosa sta succedendo, sei amareggiato. Visto che avevo un anno di mobilità mi sono offerto, al Comune dove risiedo, hanno accettato, ho fatto un pò di lavoro socialmente utile.
Comunque non andava bene, visita dal medico, con diagnosi malattia del pensionato, la soluzione era di trovarsi qualche lavoretto che ti impegna, ma avevo deciso di no, visto che già mi pagavano con la pensione. Gioco col computer ma non basta.
Ti ritrovi i vicini di casa quasi sconosciuti, amicizie sono rimaste in fabbrica, col tempo si dimentica.
Fuori la fabbrica non ho trovato nulla, non si sa a chi rivolgersi, bisogna ricominciare come il primo giorno in fabbrica. Ho cambiato di nuovo fabbrica, ma questa volta anche un nuovo lavoro che non conosco.
Ho pensato che dovevo imparare a fare il pensionato, come potevo rendermi utile. Ho iniziato con il volontariato, e venuto l’Euro bisognava informarsi, informare, portare l’Euro nelle scuole, nei centri anziani.
Ho visto che i bimbi non giocano con giochi manuali, tutto elettronico, mi sono ricordato di alcuni giochi antichi, rompicapi ecc. e con questi ho frequentato le scuole.
I bimbi li hanno apprezzato, anche gli adulti.
Ora ricopio qualche gioco, trovo la soluzione e poi li regalo. Ho imparato a fare il fannullone e lo faccio bene. Ma non so se mi piace e non posso fare altro.

Menna, chi è costui?

Dato che non lo sapete ve lo dico io: Costantino Menna, 27 anni, da Carbonara di Nola, provincia di Napoli. Si è diplomato al liceo scientifico con 100/100, si è laureato in ingegneria con 110 e lode, è PhD student del Dipartimento di Ingegneria Strutturale, ha un cv da paura per la sua età e poi gioca a pallavolo, campionato di prima divisione, ha una fidanzata splendida almeno quanto lui, esce con gli amici, perché insomma non abbiamo aperto la sezione “secchioni”, sì, “secchione” non è la parola giusta, quella giusta è  “impegno” ma su questo sapete già come la penso, basta andare alla voce “fare bene le cose perché è così che si fa”.
Costantino in queste ore sta volando verso la Pennsylvania, destinazione Penn University, su Timu nei prossimi giorni cominceremo a raccontarvi per fare cosa e perché. Sì, perché Costantino ha accettato di raccontarci la sua esperienza lì, di interagire con noi, noi nel senso di me e voi, nel senso di tutti quelli che hanno interesse e voglia di paretecipare a questo blog collettivo a cui spero daremo vita a partire daiprossimi giorni, non appena Cstantino avrà disfatto le valigie e si sarà un attimo ambientato. Sì, spero siate in tanti a partecipare, soprattutto tanti giovani, e tra i giovani i tanti Costantino, nel senso di ragazze e ragazzi normeli, brave/i e preparate/i, che sono in giro per il mondo per conquistarsi un pezzo di futuro. Partecipare è semplice, basta registrarsi su Timu, condividere il metodo che viene proposto, e postare le vostre storie e le vostre opinioni nello spazio commenti. Buona partecipazione.

 

Bella Napoli incontra il Liceo Carducci di Nola

Lettera a una Professoressa Atto Secondo

Alle ragazze e ai ragazzi del Liceo Carducci di Nola l’ho detto ma voi lì non c’eravate e perciò lo ripeto qui: il prossimo numero di “Questione di Senso”, la mia rubrica su Rassegna Sindacale, sarà dedicato a loro, al valore del loro lavoro, all’impegno con il quale hanno letto Bella Napoli, alla bellezza delle storie che hanno raccontato e che potete leggere su Timu. Quello che ci siamo detti non ve lo racconto, perché altrimenti Stefano Iucci mi ammazza, a ragione, non è che posso scrivere su Rassegna una cosa riciclata. Vi dico invece che quello che avevo scritto nel post “Lettera a una professoressa” è più che mai attuale, che raccontare il lavoro nelle scuole è un’idea che vale, che il fatto che le/i ragazze/i raccontino le “loro” storie e acquistino consapevolezza di quanto il lavoro sia importante nelle vite delle persone che hanno intorno, papà, mamma, parenti, amici, rappresenta una piccola grande rivoluzione culturale, che se diventiamo sempre più in tanti a raccontare le “nostre” storie invece di quelle, l’esempio non è a caso, che ci propina la televisione, possiamo pensarci meglio, vivere meglio, costruire un futuro migliore prima di tutto per le generazioni che verranno. Mi fermo qui, anzi no. Questa storia cominciata con Caterina Vesta e il Liceo Novelli di Marcianise e continuata con Mariagiovanna Ferrante e il Liceo Carducci di Nola non è detto debba finire qui. Voi rileggetevi la lettera a una professoressa. Io aspetto la prossima chiamata.

Le vie del lavoro. Rendiconto attività

17 ottobre 2011 – 9 gennaio 2012

19 partecipanti, compresi Cinzia, Alessio and me.
18 video interviste, 16 audio interviste, 29 foto e 10 documenti pubblicati su Timu, il civic media che Fondazione Ahref ha messo a disposizione dei cittadini reporter che hanno voglia di condividere un metodo, di fare inchiesta partecipata, di cambiare il proprio rapporto con la notizia, l’informazione, la conoscenza.
1 comunità, con al centro Castel San Giorgio ma che attrabersa Siano, Bracigliano, Nocera Inferiore, che attraverso la nostra inchiesta sta rappresentando la propria voglia di fare bene le cose che fa, l’approccio che spingeva gli artigiani della zona a esporre nella propria bottega la scritta “ciò che va quasi bene … non va bene”, quello stesso che muove oggi persone così uguali e così diverse come Gennaro Cibelli, Sabato Aliberti, Francesco Di Pace, nella ricerca di nuovi percorsi attraverso i quali rinnovare e rafforzare questa cultura del fare bene.
2 comunità con una storia e un presente molto forte, molto complicato, molto bello, Rione Sanità (Napoli) e Castelvolturno (Caserta), che intravedono nel nostro civic media, nelle nostre botteghe, un’opportunità intorno alla quale costruire un’altra tessera del faticoso mosaico fatto di cultura, lavoro, legalità, educazione, impresa, sviluppo che li vede impegnati ogni giorno, con passione, rigore, impegno.
Un po’ di buoni semi piantati qui e là per l’Italia, a Varese, a Gazzada (Va), a Roma, a Milano, semi che coinvolgono grandi e piccoli, scuole, università, fabbriche, uffici, media, intorno all’idea che raccontando storie di lavoro si possa raccontare e anche un po’ cambiare l’Italia, si possa ridefinire l’indice delle priorità, spostare l’ago della bussola dai soldi al lavoro, da ciò che hai a ciò che sai e che sai fare.

Sì, tutto questo mi piace. Mi piace la passione e l’impegno che ci stanno mettendo, nella forma e nei modi possibili per ciascuna/o, Alessio, Cinzia, Gennaro, Santina, Carlotta, Roberta, Sabato e tutta la Bottega de Le vie del Lavoro. Mi piace la gratitudine che sento verso Fondazione ahref e Fondazione Giuseppe Di Vittorio perché hanno creduto nell’idea e hanno creato le condizioni perché diventasse realtà. Mi piace essere consapevole della tanta strada che ancora c’è da percorrere affinché i 10 cittadini reporter che abbiamo incrociato fin qui diventino 100 e poi anche 1000. Mi piace l’idea che intorno al nostro civic media e alle nostre botteghe cresca un nuovo modo di essere cittadini e di fare informazione. Mi piace pensare che non sono esagerato se scrivo che si gioca qui, sul rapporto tra il cittadino e l’informazione, un pezzo di partita importante per la qualità e il futuro della nostra democrazia. Mi piace sentirmi fiero, sì, fiero, del fatto di esserci anch’io.
Arrivederci al 31 marzo 2012, quando scriverò il prossimo rendiconto. Spero che per allora siate davvero in tante/i sulle vie del lavoro.

Buon Anno


A vederlo così, con tutta quella pioggia, il buio, i cattivi pensieri, in casa io, il freddo, il mac, l’iphone, l’ipad, decisamente troppo poco per giornate così, sembrava proprio un bad day, uno di quelli che da far correre in fretta che per fortuna la sera ci vediamo per mangiare la pizza da Cinzia con Carmela, Viviana, Francesco, Pasquale and me, of course.
E invece no. Prima me ne sono andato da Riccardo, ho mangiato wafer e cioccolata con le nocciole che è la sola che quando la trovo clicco su “mi piace”. Poi sono tornato da me e su Alex mi ha detto mi ha detto che Bella Napoli era su su Ninja Marketing. Poi mi ha scritto Renato Della Corte, la sua storia la potete leggere su Timu, si intitola Della Corte San, non ve la perdete, se non vi piace poi mi citate per danni.

Renato è laureato in lingue, ne conosce una montagna, compreso il giapponese, è maestro di chitarra regolarmente laureato al conservatorio, è sommelier con tanto di diploma, ha lavorato in Giappone, in Italia e adesso lavora a Londra proprio come sommelier. Ecco cosa mi ha scritto:
Ciao Vincenzo, sono a Napoli per le feste natalizie. Ho pensato spesso a te ed ai tuoi libri mentre ero a Londra, a questa necessità di fare bene le cose, anche le più piccole, ma farle al meglio. Devo dire che più lavori a certi livelli, a livelli lavorativi elevati intendo, più notano soprattutto quelle. Sì, nel mio lavoro sono attenti anche a come va una scorza di limone nel bicchiere,  a come pieghi un fazzoletto, anche se è il tuo, quello da lavoro. Potrei farti una lista lunga ma il senso è sempre quello: bisogna amare quello che fai, bisogna farlo con la massima dedizione. Riparto il 3 gennaio, spero di riuscire a salutarti prima, intanto ti lascio gli auguri di buon anno.

Buon anno, sì. Un pò mi dispiace che ragazzi come Renato trovino il loro futuro a Londra, un pò sono contento di questa bella Napoli formato esportazione. Dite che verranno tempi migliori anche per noi. Io ci spero. E mentre spero continuo a raccontare storie continuo a cercare compagne/i di strada disposte/i a racocntarle con me. Sì, racconteremo il sogno, ma solo fino a quando non sarà diventato realtà.

Le vie del lavoro e Timu a Radio Articolo 1

Metti un pomeriggio in radio. Emiano Sbaraglia, Stefano Iucci and me. La radio ė Radio Articolo1. L’occasione ė data da Le vie del lavoro, l’inchiesta promossa da Fondazione Ahref e Fondazione Giuseppe Di Vittorio, e da Timu, il civic media a disposizione dei cittadini reporter che intendono fare informazione partecipata e di qualità.

Il risultato? Quello che potete ascoltare cliccando qui. Buon ascolto.

Citizen Reporter Generation

Non importa come comincia, importa che cominci. Al mitico Jack Kerouac piaceva raccontare che il termine “beat” l’aveva inventato lui nel 1948, quando nel corso di un intervista aveva detto “this is really a beat generation” e poi scriveva che nel 1944 era stato Herbert Huncke, hipsters di Chicago, che in Times Square, a New York, l’aveva avvicinato e gli aveva detto “Man, I am a Beat” (Emanuele Bevilacqua, Guida alla Beat Generation. Kerouac e il rinascimento interrotto), ma tutto questo chi se lo ricorda? Quello che resta è la Beat Generation, con i suoi interpreti, i suoi miti, i suoi personaggi, la sua dannazione e la sua poesia.
Adesso non pensate che io sia impazzito, perché magari ci arrivo ma ancora non ci sono, pensate piuttosto all’idea di una Citizen Reporter Generation che piano piano cresce, si consolida, si diffonde, accede alle notizie e le diffonde seguendo quelle quattro regole lì, accuratezza, imparzialità, indipendenza, legalità, che quando mi chiedono “perché”, e rispondo “perché produrre informazione in maniera partecipata con questo approccio vuol dire cambiare in profondità il concetto di informazione, il modo di farla, il rapporto tra il cittadino e l’informazione, il mestiere del giornalista e tante altre cose ancora” anche i più scettici fanno sì con la testa e mi dicono “certo, sarebbe bello”.
No, non sarebbe bello, è bello. Molto bello. Ma non basta che sia bello, bisogna che tu, tu, tu e poi anche tu e ancora tu decida di partecipare, di sperimentare questa nuova modalità di inchiesta, di contribuire al successo di questa idea.
Iscriversi è facile come su Facebook o altri social network di tipo generalista, partecipare no, ma solo nella prima importante fase, quando vi si chiede di comprendere e condividere un metodo, di adottare un approccio, di essere parte di una comunità che sceglie di fare informazione consapevole, di qualità.
Non ci sono barriere tecnologiche. Baudelaire diceva che una poesia dice un mondo, anche una foto, un breve commento, un testo, una piccola intervista audio, un breve video fatto con un telefonino.
Roberta Della Sala con un video di poco più di 1 minuto ha ripreso 3 donne nigeriane che a Castel Volturno, in provincia di Caserta, sono state tolte dalla strada, che fanno le sarte, che grazie all’opportunità data loro dalla Cooperativa sociale Altri Orizzonti hanno potuto dare una svolta alla loro esistenza,  e Gennaro Cibelli continua a documentare con belle foto le tante meravigliose attibvità che vengono realizzate nella sua cittadina, Castel San Giorgio, come ad esempio le cornici che vengono realizzate in una bottga dove vigeva una regola, scritta sulla porta, di questo tipo: “Quello che va quasi bene … non va bene, Pane e Lavoro”.
No, per me la Citizen Reporter Generation non è un sogno, non sono solo, e come diceva Ernesto Guevara, il Che, solo quando si sogna da soli è un sogno, quando si sogna in due comincia la realtà. Figuaretvi quando si sogna in migliaia. Buona partecipazione.

Dieci, cento, mille cittadini reporter che adottano la metodologia Timu e raccontano l’Italia attraverso il lavoro

Ora, se dicessi che ad Alessio Strazzullo, Cinzia Massa and me non fa piacere raccontare l’Italia attraverso il lavoro, avere tutti questi riscontri positivi (per ora più su Facebook che su Timu, ma piano piano anche questo cambierà), vedere l’interesse che cresce attorno all’inchiesta non fa piacere, non direi una cosa falsa, direi una cosa assurda. Per quanto mi riguarda, me la ricordo ancora quella gelida sera di aprile a Perugia, in occasione dell’international jornalism festival, quando ho bombardato Michele Kettmaier prima con Bella Napoli e poi con l’idea dell’inchiesta sull’Italia che nonostante le difficoltà e i problemi mette passione e impegno in quello che fa, trova soddisfazione nel  farlo bene a prescindere, dà senso e significato alla propria vita.
Ci sono delle parole che fanno da colonna sonora alle nostre vite, proprio come le canzoni,  lavoro è una di queste. Se avete letto Bella Napoli lo sapete già, altrimenti ve lo dico adesso, che per quanto mi riguarda cominciò con la distinzione che mi fece papà tra “il lavoro preso di faccia” e “il lavoro fatto ‘a meglio ‘a meglio”, intendendo nel primo caso il lavoro fatto con rigore e passione, nel secondo invece no, poi è continuato con i miei studi all’università, e poi con il mio impegno nella Cgil, e poi con i miei studenti all’università e con l’idea che “puoi fare il caffé, cucinare la pasta e fagioli o progettare il centro direzionale di Sydney, l’approccio deve essere sempre lo stesso, fare bene quello che devi fare” via via fino all’incontro con lo spazziono londinese di Sennett che il lunedì mattina ripercorre a ritroso la strada che ha polito e si copiace di come l’ha pulita bene, all’idea che “Ciò che va quasi bene … non va bene” conme era scritto nelle botteghe artigiane di Sarno fino a qualche anno fa, all’incontro con la biografia di Steve Jobs e con la frase in cui Walter Isaacson scrive “Come mi ha raccontato Jobs accarezzando le assi della staccionata, suo padre gli aveva inculcato un concetto che gli era rimasto impresso: era importante, gli aveva detto, costruire bene la parete posteriore di armadi e staccati, anche se rimaneva nascosta e nessuna la vedeva. Gli piaceva fare le cose bene. Si premurava di fare bene anche le parti che non erano visibili a nessuno”.
Ora che vi ho detto tutto questo fatemi aggiungere però che tutto questo, che per Alessio, Cinzia and me è assolutamente entusiasmante, non è la cosa più importante, nel senso che “Le vie del lavoro“, così come tutte le inchieste Timu, non è nata per farvi vedere come siamo bravi e che belle storie sappiamo raccontare, è nata per coinvolgervi, per promuovere un certo modo di fare inchiesta partecipata, per fare in modo che diventiamo in 10, in 100, in 1000, se vi piace anche in 10ooo anche se non l’ho messo nel titolo che mi sembrava esagerato, a fare inchiesta adottando la metodologia Timu, nel caso specifico a raccontare l’Italia attraverso il lavoro. Sì poerché raccontando storie ci prendiamo cura di noi, diamo senso al trascorrere del tempo, condividiamo cose fatte e da fare, contribuiamo a cambiare la cultura recente di questo Paese, costruiamo pezzetti di futuro migliori per noi, per le nostre famiglie, per le genmerazioni che verranno.
State ancora qui? Aprite la pagina Timu, iscrivetevi, e contribuite con le vostre idee, i vostri video, i tesi, le immagini, gli audio alla vostra inchiesta.
Buona partecipazione.

Castel San Giorgio, Pastificio Vicidomini

Mario Vicidomini e Cinzia Massa

Certo che lo so che non siamo a teatro, ma la prima è sempre la prima, e nel caso specifico è stata una prima senza rete.
Negli ultimi giorni, grazie alla capacità di iniziativa del nostro ospite, Gennaro Cibelli, il fondamentale artefice di questa giornata a Castel San Giorgio, le persone da incontrare, e da intervistare, sono aumentate sempre più, e solo l’affetto che Alessio e Cinzia nutrono nei miei confronti, unito alla mia prepotenza, ha fatto sì che non fossi abbandonato al mio destino. “Vincenzo, sono troppi, così non ce la facciamo”, “guarda che per fare bene le cose ci vuole il giusto tempo”, “sia chiaro che se non viene come dici tu non è colpa nostra”.
Alessio in particolare è preoccupato, mentre in auto facciamo la riunione di redazione che non abbiamo potuto fare prima mi ripete una frase sì e l’altra pure che in tre non possiamo fare il lavoro di una squadra, che gli strumenti tecnici che abbiamo a disposizione non sono adeguati alle mie aspettative, che le cose che lui si è fatto prestare per funzionare bene devono essere provate, sincronizzate, messe in condizione di lavorare al meglio.
Certo che lo so che lui e Cinzia hanno ragione, ma ho ragione anche io, l’idea è piaciuta più di quanto ci aspettassimo, e come direbbe Sun Tzu le opportunità vanno colte, perché così si moltiplicano. Dite che ho esagerato a insistere sul fatto che deve venirne fuori un film di alta qualità? Io dico di no, nell’approccio non possiamo che pretendere il meglio da noi stessi, poi rispetto al risultato dobbiamo essere tolleranti, della serie nessuno è perfetto e poi c’è il contesto e ci sono le circostanze, e rigorosi, nell’analisi degli errori commessi e nella capacità di utilizzare tutti gli strumenti che ci possono aiutare a correggerli. E aggiungo che sono le “prime” così, quelle senza rete, non senza preparazione, che affrontata con il piglio giusto ti permettono di accumulare  esperienza, conoscenza, sapere.
Poi man mano che pubblicheremo le nostre interviste voi ci direte cosa ne pensate, ma per me vale mille volta la pena gettare il cuore oltre l’ostacolo se poi Mario Vicidomini, che con il fratello Luigi e un paio di altri familiari porta avanti il pastificio, quando Cinzia mette da parte le sue preoccupazioni e gli fa la domanda che non avevamo concordato, una cosa tipo “ma possibile che da 200 anni voi Vicidomini siete tutti contenti di fare i pastai, che nessuno di voi avrebbe voluto fare altro?, risponde no, che lui un sogno nel cassetto ce l’aveva, che si era diplomato all’Isef, che voleva fare l’insegnate di educazione fisica, che all’inizio questo lavoro non era la “sua” scelta e che però la sua famiglia ha un’approccio, una cultura che l’hanno molto aiutato, e che quando si è scoperto felice perché chi comprava la sua pasta tornava e diceva che gli era piaciuta un sacco ha capito che questa era la sua strada.
Sì, la sera con Mario ne abbiamo riparlato mentre si aspettava l’inizio della presentazione di Bella Napoli, ma il superamento di una insoddisfazione personale attraverso il lavoro, il sentirsi realizzato perché chi compra la pasta che fai tu la trova buona ed è contenta di mangiarla è roba da manuali di sociologia, di psciologia, di marketing. Sì, perché il lavoro anche se costa fatica e sacrifici non è per forza alienazione e sfruttamento. Certo, ci vuole rispetto per il lavoro e per chi lavora, ci vogliono tutele, ci vuole qualità, perchè senza qualità ci sarà sempre qualcuno disposto a fare il tuo stesso lavoro per meno soldi. Sì, io ne sono convinto, è la qualità che salverà l’Italia, non lo sfruttamento. Dite che bisogna lo capiscano le nostre classi dirigenti. Sono d’accordo, ma se non lo capiscono possiamo farglielo capire noi, partecipando, stando in campo, non delegando, facendo le cose per bene. Sì, mi capiterà ripeterlo spesso nei prossi mesi, vale per Castel San Giorgio, vale per il Sud e vale per l’Italia, dobbiamo diventare il Paese dove chiunque fa qualunque cosa cerca di farla bene, sempre, e per questo è rispettato dagli altri che, come lui, cercano di fare bene le cose che fanno. Punto. Per ora.

Tra sogno e realtà

Foto di Gennaro Cibelli

Credetemi, questa volta è più difficile delle altre. No, non perché è stato meglio o peggio, quando hai passione per ciò che fai, quando riesci a viverlo fino in fondo, che non è che ti tocca sempre, a sera dallo zaino finisci per tirare fuori sempre le medesime, meravigliose, cose: l’unicità delle emozioni, la molteplicità delle esperienze, lo stupore di quelle facce fino a qualche ora prima sconosciute e che adesso vorresti ti fossero svelate come per incanto, occhio per occhio, ruga per ruga.
No, se questa volta è più difficile è perché questa volta sullo stesso palcoscenico, Castel San Giorgio, sono andate in scena più opere, diciamo almeno tre, ché se ci mettessimo di buzzo buono ne troveremmo di certo anche qualche altra: Bella Napoli, Le vie del lavoro, La storia dei luoghi come alternativa al degrado, con tutto quanto questo significa dal versante del numero dei protagonisti, della quantità di cose da raccontare, del rischio di scrivere un libro invece di un post, che poi non è detto sia una cattiva idea ma non è questo il momento e il posto giusto.
Insomma per farla breve non potendo scrivere di tutto, che poi magari è anche bello godersi le interviste video che pubblicheremo prima di quanto non vi aspettiate, mi limito per adesso a segnalare due cose, anzi tre:
la prima è che sono d’accordo con il mio amico Francesco Di Pace, se ci si mette assieme realizzare un sogno è meno difficile; propongo anzi, sono certo che a Francesco farà piacere, di adottare una frase di Ernesto Che Guevara, che più o meno diceva così: quando si sogna da soli è sogno, quando si sogna in due ha inizio la realtà;
la seconda è che anche senza citarle tutte, per le ragioni già dette e perché il risultato assomiglierebbe troppo a un elenco telefonico, di tre persone non posso fare a meno di dire, mi sentirei male, e di questi tempi è meglio evitare: la prima è Gennaro Cibelli, un uomo con una disponibilità d’altri tempi, dalle 11.00 am di ieri mattina alle 10 pm di ieri sera non ci ha lasciato un momento soli, ci ha guidato, ci ha portati, ci ha organizzati, ci ha messo in condizione di lavorare al meglio, abbandonando completamente per un giorno il suo negozio, il tutto senza essere mai invadente, semplicemente risolvendo i problemi prima che diventassero tali; la seconda e la terza sono Alessio Strazzullo e Cinzia Massa, che in vario modo mi accompagnano in questo viaggio, che se chiedete a loro vi diranno che sono insopportabile e questa cosa qui vi prometto che la metterò a posto anche perché è vera, ma voglio dire che senza di loro non avrei nessuna possibilità di veder trasformate le mie e le loro idee in fatti;
la terza l’ho già detta ieri sera, ma ieri sera mica c’eravata tutti i 172o e dunque la ripeto qua: mi piacerebbe che tra qualche tempo il viaggiatore che arrivasse a Castel San Giorgio trovasse all’ingresso della cittadina questo cartello: “Benvenuti a Castel San San Giorgio, dove chiunque fa una cosa, qualunque cosa sia, cerca di farla bene”. Sì, come avrebbe detto il grande Hans George Gadamar ci vorrà tanta pazienza e altrettanto lavoro, ma secondo me si può fare, Castel San Giorgio non è una metropoli, le persone si conoscono tutte o quasi, c’è una cultura antica dell’eccellenza anche nei lavori più modesti, c’è una voglia di emergere e di affermarsi molto diffusa. Bisogna dare a tutto questo un senso generale, bisogna farlo a partire dalla cultura, dai diritti, dai ragazzi, dalle scuole, facendo noi adulti un passo verso di loro, dando loro fiducia, incitandoli ad eccellere certo non solo nello studio ma anche nelle cose che piacciono a loro, non in quelle che piacciano a noi, a quelle ci arriveranno più avanti, quando si saranno abituati a fare bene le cose che piace loro fare.
Dite che la faccenda è molto più complicata? Rispondo certamente, ma io qui sto scrivendo un post, non un trattato. Aggiungo però che come diceva Confucio una marcia di 10 mila chilometri comincia con il primo passo, e che se si decide di partire io ci sto. Voi dite che è un sogno? N’ata vota? Ve l’ho detto, da soli è un sogno, se siamo in due è già cominciata la realtà.

Con le note e con le mani

Gennaro Cibelli, straordinario organizzatore dell’evento del 28 ottobre prossimo, nel quale presenteremo Bella Napoli e sentiremo testimonianze di lavoro e di passione, mi ha inviato le due foto che vedete sotto con il suo commento, che come potete immaginare sono felice di pubblicare. Lascio perciò la parola a lui, non prima però di avervi fatto notare che anche il grande Richard Sennett, ne L’uomo artigiano, iniste molto sul rapporto tra la musica e il saper fare e chissà che tutto questo non ci suggerisca qualcosa. Buona lettura.

RICORDI DI RAGAZZINO
di Gennaro Cibelli 

Il fabbro aveva la sua officina in via rescigno gran bravo artigiano.
Fin da bambino osservavo il suo lavoro lavorava il ferro battendolo con martelli sull’ incudine il ferro era reso incandescente sulla forgia che era una fucina sotto questa forgia c’era un mantice che soffiava aria e veniva azionata con una manovella il materiale che prendeva fuoco era il carbon cok io ero solito girare questa manovella.
Il ciclista aveva bottega poco lontano dal fabbro e non si contano le volte che mi aggiustava la bici, bucature maggiormente e noi tutti assistevamo all’aggiustatura i ragazzi eravamo tanti.
L’imbianchino era anche il proprietario della casa dove abitavo nei pressi questo aveva il deposito degli attrezzi e del materiale era uno che con maestria utilizzava i colori primari per realizzare tante tinte di nuance diverse.
Tutto questo avveniva in un raggio ristretto non piu di 100 metri da casa, insomma il “profumo” del lavoro e della passione non potevi proprio fare a meno di respirarlo.

Nelle foto Nasti Mario fabbro, Francesco Corvino ciclista (meccanico bici),  Enrico Spisso imbianchino, il mio insegnante di educazione fisica alle scuole medie Francesco Di Pace.

Le vie del lavoro

Vai all’inchiesta

C’era una volta
C’era una volta l’Italia in cui il lavoro, non solo quello nelle scuole, negli uffici pubblici o negli ospedali, anche quello nei cantieri, nelle fabbriche e nelle botteghe artigiane, durava tutta una vita, cominciavi a lavorare in un posto e ci rimanevi fino a quando non andavi in pensione. Certo, anche allora non mancavano le eccezioni, ma la regola era quella, come del resto in tante altre parti del mondo, e quella regola determinava una connessione forte tra il lavoro e l’identità, delle persone e delle loro famiglie. Ricordo che a Secondigliano, quartiere tra i più complicati di Napoli, ci si riconosceva dal nome di battesimo e dal lavoro del capofamiglia ancora più che dal cognome. Per esempio Tonino era per tutti il figlio di Raffaele, quello che lavorava all’Italsider, Salvatore era il figlio di Gennaro, quello che faceva l’operaio alla Mecfond, Umberto era il figlio di Antonio, l’artigiano. E Raffaele, Gennaro, Antonio condividevano tra loro e con tutti gli altri come loro la fierezza di poter mandare i figli a scuola, l’ansia di conquistare per sé e la propria famiglia un futuro migliore, il rispetto che si deve a chi questo futuro se lo costruisce ogni giorno con lavoro e sacrificio.

Ipse dixit
In quella Italia il lavoro non finiva con la giornata di lavoro, continuava la sera a tavola quando venivi interrogato su quello che era successo a scuola e aggiornato su quello che era successo in fabbrica, era persino il lasciapassare per invitare a casa un nuovo amico o una nuova ragazza. Frequenta le persone migliori di te e rimettici le spese (in napoletano è assai più bello ma altrettanto meno comprensibile) era uno dei modi di dire più gettonati e la domanda “cosa fa suo padre?” prevedeva una risposta vera e una valutazione meditata. Non era necessario che facesse l’avvocato o il medico, anche perché dalle nostre parti non è che ne girassero molti, bastava dire l’operaio, il muratore, il salumiere, il ragioniere, l’importante è che si guadagnassero da vivere con il lavoro, che anche a quei tempi a Secondigliano non è che fosse del tutto automatico. Lo vogliamo dire?, e diciamolo!, il lavoro era così presente nelle vite di noi ragazzi che in certi momenti diventava insopportabile. A casa Moretti galeotto era l’Enel di via Galileo Ferraris e chi ci lavorava come operaio, nostro padre. Sì, perché lui con la sua licenza di quinta elementare niente sapeva di Marco Tullio Cicerone, Pitagora, Aristotele e Averroè, eppure aveva il suo ipse dixit fatto in casa, cioè al lavoro, nel senso che avevi voglia di discutere se una cosa era vera o falsa, giusta o sbagliata, quando profferiva la formula magica, “l’hanno detto all’Enel”, si metteva il punto. Così. Di colpo. Niente più da discutere e tanto meno da interpretare. Era così e basta. Perché lo diceva lui. Perché l’avevano detto all’Enel.

Un mondo in incessante trasformazione
Rimpiangere l’Italia che non c’è più è come lavare i pavimenti mentre la casa brucia, non ha molto senso, come amava ricordare ai suoi impavidi compatrioti Winston Churchill. Siamo parte di un mondo in incessante trasformazione, sempre più persone si spostano sempre più velocemente da una parte all’altra, le tecnologie cambiano con una rapidità senza precedenti e con esse i nostri modi di essere e di fare. Cambia la partizione tra ciò che per noi è certo e ciò che invece non lo è, cambia il paesaggio sociale al quale con fatica ci eravamo abituati e così finiamo col sentirci un po’ come Turner, che a chi gli chiedeva come facesse a dipingere paesaggi così intensi, mari tanto tempestosi, rispondeva “l’arte accade”, perché sì, in fondo anche il cambiamento accade, e un po’ tanto come Proust, contagiati dalla sua stessa sindrome, disorientati, estraniati, messi costantemente alla prova dall’ombra del futuro che si schiaccia sul presente, perché sì, diventa sempre più faticoso orientarsi tra le stanze delle nostre vite quotidiane, soprattutto quando si è giovani.

Vite vulnerabili
Vincenzo, 28 anni, laurea in scienze della comunicazione a Salerno, lavoro a Milano, la voglia di essere curioso che per fortuna non lo abbandona mai, ha raccontato la sua generazione con queste parole: “[…] ci sentiamo fuori dal mondo, stranieri a casa nostra, incapaci di affrontare la vita da soli, spauriti e storditi. Siamo vulnerabili”. Chissà, forse “giovani alle prese con una vita vulnerabile” potrebbe essere un buon titolo per il prossimo film di Almodóvar. Ma nella vita reale?

Man, I am a worker
Vite vulnerabili. Ccome quella di Luciano, 29 anni, un lavoro stabile, che gli piace, a tempo pieno, due turni su 7 giorni, due domeniche al mese di riposo, due di lavoro. Guadagna 950 quando va bene 1000 euro al mese, vive a casa della mamma, a metterne su una propria non ci pensa nemmeno. Tu gli chiedi perché? Lui ti risponde con un sorriso che se lo conosci bene ci leggi “di questi tempi vorrebbe dire lavorare per pagare l’affitto e le bollette, ti sembra una scelta intelligente?”.
Vite come quella di Amelia, che di anni invece ne ha 38, ma lei per fortuna è femmina e le femmine si sa hanno tanta grinta in più. Perché sì, quando il suo lavoro è diventato stabile, 10 anni fa, lei ha scelto l’indipendenza, ha messo su casa e famiglia, ha resistito 6 anni prima di tornare da mamma e papà. Le chiedi come mai?, te lo spiega così: “mi ero stancata di lavorare per pagare l’affitto e le bollette, di non avere i soldi neanche per fare una vacanza decente, me ne sono tornata dai miei, almeno metto qualcosa da parte, prima o poi spero di poter pagare l’anticipo e di poter fare un mutuo per comprarmi una casa”. Da due anni Amelia è mamma di una splendida bambina, cresce felice con la mamma e i nonni, il papà invece lavora a Londra da quando qui in Italia il lavoro che aveva perso non l’ha trovato più.
Vite come quella di Antonia, che agli inizi di agosto mi ha scritto su Skype “professò, non ce la faccio più a superare colloqui per vedermi offrire, dopo una laurea magistrale e due master, lavoretti da 400-500 euro al mese, parto presto per l’Inghilterra o per l’Olanda, provo a far girare la ruota, così davvero non ha senso, sto facendo una vita che non mi merito”. O come quella di Domenico, che qui “dove il dolce sì suona” era disoccupato che più disoccupato non si può e a Madrid fa per Greenpeace quello per cui si è laureato, si occupa di comunicazione. O di Maria Stella, che adesso vive a Milano dalla sorella e lavora per poche centinaia di euro al mese, e li chiamano stage, per un importante quotidiano nazionale. O di Alvirea, che in Italia ha conseguito la laurea triennale e in Francia ha scoperto che valeva ma non troppo, ha dovuto superare di nuovo gli esami del terzo anno, questo settembre ha dato quelli del quarto, un altro anno ancora e comincerà anche lei a percorrere le vie del lavoro. Si spera.

La banalità dell’incertezza
Ebbene sì, funziona in larga parte così, è la condizione umana e sociale di default di chi lavora, peraltro non solo alla voce giovani perché poi anche fare i turni alla Fiat e inciampare a 50 anni nella parola “esubero”, scoprire di essere “obsoleto”, fare i conti col fatto che c’è sempre uno più giovane e più bravo di te che costa pure meno, non è che sia proprio il massimo. Sì, siamo uomini flessibili (Richard Sennett), viviamo in società liquide (Zygmunt Bauman), siamo esposti al dominio dell’incertezza (Salvatore Veca). E se ce ne stessimo convincendo a tal punto da non lo considerarlo più soltanto normale, da averlo fatto diventare scontato, di più, banale? E se invece non fosse così? Davvero siamo condannati ad adottare questa versione del software modernità? Non c’è niente di diverso che si possa fare? Non guardate me per le risposte che naturalmente non ce l’ho. Due idee due invece sì, ma prima di condividerle con voi bisogna che facciamo un salto dal mago dei numeri, che altrimenti dice che lo sottovaluto troppo e si arrabbia con me.

Il mago dei numeri
Cerchiamo di dirlo con chiarezza senza mancare loro di rispetto, che al tempo del data journalism sarebbe stupido anziché no, non è che i numeri da queste parti non siano importanti, è che la nostra inchiesta segue un approccio di tipo qualitativo, la nostra è un’attività di osservazione
partecipante, privilegia la narrazione, è orientata a stabilire un’interazione diretta, ad entrare in empatia con le persone che si incrociano. Perché sì, noi andiamo in cerca di persone, delle loro storie di vita e di lavoro, persone e storie rappresentative certamente della più ampia pluralità di mestieri, di città, di età, di tradizioni ma che comunque non hanno né i numeri né le caratteristiche per avere valore statistico. Fermo restando insomma che i numeri li rispettiamo molto, che la nostra è solo una parte dell’attività di inchiesta che ci auguriamo possa coinvolgere tanti cittadini reporter, diversi punti di vista e approcci, che non è detto che nel corso del cammino non si trovi il modo di arricchire il lavoro ad esempio con un’indagine quantitativa sulla soddisfazione del lavoro degli italiani, resta il fatto che i protagonisti principali di questa inchiesta restano le persone, le donne e gli uomini che con le loro storie, il loro approccio al lavoro, ci porteranno a dare forma al trascorrere del tempo, a indicare cause, a pensare a conseguenze possibili, a prenderci cura di noi stessi.
Detto ciò che andava detto con lingua dritta, come sarebbe piaciuto a Sitting Bull o a Sa Go Ye Wha Ta, qualche numero proviamo a darlo anche qui.
L’Istituto Nazionale di Statistica ha recentemente messo in evidenza come al 2010 il 10,3% degli occupati in Italia lavori in modo non regolare, cioè senza il rispetto della normativa vigente in materia fiscale-contributiva. Si tratta di 2.548.000 lavoratori (2.101.200 dipendenti, l’11,1% del totale, e 446mila indipendenti, il 7,7% del totale). Se vogliamo proprio esagerare possiamo aggiungere che nel 2010 erano occupate, sempre secondo l’ISTAT, tra regolari e irregolari, 24.643.000 persone (-196mila unità rispetto all’anno prima), che il lavoro precario rappresenta circa l’80% delle assunzioni fatte nell’anno, che ci sono in Italia oltre due milioni di disoccupati e 500 mila lavoratori in cassa integrazione, che sta aumentando in maniera significativa il ricorso al part time involontario. Vite vulnerabili, ma questo l’abbiamo già detto.

Lavoro, dunque valgo
Come ho raccontato in Bella Napoli, il lavoro è entrato per la prima volta nella mia vita grazie a mio padre, con la sua “lectio magistralis” intorno alla differenza tra “’a fatica pigliata ‘e faccia” e “’a fatica fatta ‘a meglio ‘a meglio”. Il contesto, tanto per cambiare, era l’Enel di via Galileo Ferraris, i termini del conflitto con il suo collega possono essere invece riassunti così: bisogna fare bene e al più presto il proprio lavoro a prescindere dalla sua gravosità, dall’impegno richiesto, o conviene traccheggiare sperando che il lavoro “sporco” tocchi a qualcun altro?
Crescendo, ho avuto modo di farmi una mia idea in proposito, poi mi sono adoperato per evitare che l’idea restasse soltanto un’astrazione, poi ho capito quanto sia importante il legame tra lavoro e realizzazione di sé da una parte, senso della nazione e sua missione dall’altra, cosicché quando arrivo per la seconda volta a Tokyo, nel 2007, per la mia attività di ricerca sull’organizzazione della scienza al Riken e Angelo Volpi, al tempo responsabile Scienze e Tecnologie dell’Ambasciata d’Italia a Tokyo, mi dice che in Giappone “non c’è lavoro di cui ci si debba vergognare, lavorare con impegno vuol dire condividere una missione, quella stessa che fa grande la nazione”, non mi sorprendo. Non mi sorprendo quando la domenica dopo scendo per una passeggiata e trovo nel cortile una trentina di volontari di ogni età pronti a pulire prati e stradine del Riken e neanche il giorno precedente, a Odaiba, quando salendo le scale che conducono al palazzo della Fuji Tv, sono come rapito dalla cura con cui l’uomo in divisa lucida i corrimano. Sì, credo di sapere di cosa si tratta, per questo non mi sono sorpreso neanche quest’anno, commosso sì, quando ho letto di Kyoko che, dopo aver aperto il suo negozio di prodotti italiani nel centro di Tokyo, 24 ore dopo lo tsunami che ha sconvolto il Giappone, ha detto “sono sfinita, ma sento la profonda soddisfazione di aver fatto tutto quello che era necessario per me, per la mia famiglia, per il mio lavoro, per il mio Paese. Se ognuno di noi farà la sua piccola parte, riemergeremo anche questa volta”.

È lo scopo che ci connette
Come ho accennato all’inizio lo scopo di questa inchiesta, ciò che ci connette, ci guida, ci definisce, ci motiva, è cercare nel lavoro il valore, il valore delle persone, il valore dell’Italia. Sì, sulle vie del lavoro cercheremo, racconteremo, l’Italia che lavora con rigore e passione, con la testa e con le mani, e attraverso il racconto cercheremo di far emergere senso, identità, missione delle persone e della nazione. Invece di Kate Moss che alla fine dello spot pubblicitario per uno dei brand più famosi al mondo pronuncia la fatidica frase “perché io valgo” troverete il barista e la scienziata, l’artigiano e l’impiegata, il musicista e l’operaia, il ferroviere e la manager che con il loro lavoro, con l’intelligenza, l’amore e l’impegno che mettono nelle cose che fanno, possono determinare le condizioni per il ribaltamento culturale di cui il Paese ha bisogno.
Racconteremo l’Italia che pensa che il lavoro non sia solo un modo per procurarsi i beni necessari per vivere ma anche un valore, un bisogno in sé, uno strumento importante per organizzare la propria vita in un sistema di relazioni riconosciute, per soddisfare le proprie aspettative di futuro, per cercare di vivere, in una pluralità di contesti e circostanze, vite più degne di essere vissute. L’Italia degli italiani normali, quelli che pensano “lavoro, dunque valgo”, merito rispetto, considerazione, quelli che lavorano e vivono a partire da questo pensiero persino quando non lo sanno, quelli che con il loro sapere e il loro fare spostano l’ago della bussola dal riconoscimento sociale della ricchezza al riconoscimento sociale del lavoro, dal valore dei soldi al valore del sapere e del saper fare. Quest’Italia non solo esiste, c’è, è fatta di tanta gente, ma rappresenta la chiave, la condizione di possibilità del cambiamento, è il motore che può muovere il Paese, farlo ripartire, sostenerlo nel processo di crescita di cui ha bisogno.

Il calore che fai quando fai qualcosa
Cercheremo l’approccio dell’artigiano, quello che ti fa provare soddisfazione nel fare bene una cosa “a prescindere”, senza cercare alibi nelle mille cose intorno che non funzionano come dovrebbero, qualunque cosa essa sia: pulire una strada, progettare un centro direzionale, scrivere l’enciclopedia del dna, cucinare la pasta e ceci. Sì, siamo cittadini reporter in cerca di una cultura, di una vocazione, di quella “cosa che fai con gioia, come se avessi il fuoco nel cuore e il diavolo in corpo”, come diceva Josephine Baker, in cerca del “calore che riesci a fare quando fai qualcosa”, come dice il giovane Renato quando racconta della sua attività di maestro di chitarra. Ecco, noi cerchiamo questo, e ci piace un sacco l’idea di cercarlo insieme a voi. Buona partecipazione.