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Liberi nella rete

E se invece di cominciare da un sostantivo, informazione, e da un aggettivo, partecipata, cominciassimo da due verbi, informare e partecipare? Ma sì, ha ragione Weick (K. E. Weick, 1997), con i verbi viene meglio, c’è più soggettività, più senso e significato, più divenire. Anzi, facciamo così, cominciamo da partecipare, il verbo che in variegati contesti continua a rappresentare un aspetto chiave del nostro essere cittadini in questo controverso inizio di terzo millennio, mentre ci ritroviamo a fare i conti con la crisi delle ideologie e delle identità, dell’Europa e delle nazioni, delle economie e dello stato sociale. Sì, partecipare è importante, ma dirlo non basta, soprattutto se il tuo destino, quello della tua famiglia, quello dei tuoi vicini di casa, è nei fatti sempre più nelle mani di uomini soli al comando, se il film che vedi proiettato nella tua vita di tutti i giorni si intitola “il leaderismo che avanza”, che conquista spazio non solo nel dominio delle cose grandi, anche se avere come leader Barak Obama, Angela Merkel o Silvio Berlusconi non è certo la stessa cosa, ma arriva giù giù fino ai tanti “caporali” che ti complicano la vita, agli uomini senza qualità che, come diceva Carmine, delegato di un’azienda chimica napoletana, “si mettono il cappello storto in testa e pensano di essere Napoleone”.

Ebbene sì, se vogliamo parlarne seriamente dei nostri due verbi, informare e partecipare, conviene tenerlo d’occhio il contesto, la necessità di ritrovare ragioni forti intorno alle quali incardinare il nostro bisogno di socialità e di partecipazione, l’urgenza di rompere la spirale che fa sì che il leader carismatico, mediatico, idolatrato, sia la sola risposta alla scarsità di elités e classi dirigenti. Sì, il contesto è importante. Se la politica con la P maiuscola, quella che rappresenta la sfera dell’esistenza autentica di ciascuno di noi (Arendt, 1995), diventa come l’araba fenice è un problema. È un problema l’overdose di individualismo che ci fa essere meno responsabili verso noi stessi, gli altri e il mondo che ci sta intorno. È un problema la perdita del motivo di fondo, della capacità di concatenare tra loro gli eventi e interpretarli sulla base di un denominatore condiviso. È un problema continuare a pensare al sindaco, al presidente della regione o del consiglio, al responsabile della bocciofila o della cooperativa culturale come a Wolf (Tarantino, 1994), l’uomo che risolve i problemi, al quale affidare il nostro futuro mentre pensiamo ad altro. No, così non funziona, la democrazia bisogna conquistarla ogni giorno, bisogna stare sul punto, metterci impegno, tempo, responsabilità, fatica, e tutto questo si interseca da un lato con le forme, le strutture, i luoghi nei quali riconoscersi e attraverso le quali avere la possibilità di far valere la propria opinione nella costruzione del discorso pubblico, e dall’altro con la necessità di ritrovare sollecitazioni, motivazioni, ragioni che spingano ciascuno di noi a partecipare in maniera consapevole. Altrimenti che succede? Niente, anzi no, qualcosa succede: rimangono tutte chiacchiere, anche quelle relative ai nostri due verbi; magari belle chiacchiere, persino chiacchiere esemplari, ma sempre chiacchiere restano e le chiacchiere, come diceva don Carmine ‘o filosofo, stanno a zero.

Detto del contesto, si può ricordare che le nuove tecnologie della comunicazione, con il loro impatto sulle libertà negative (libertà da) e positive (libertà di) di ciascuno di noi (Berlin, 1969), sulle capacità e le abilitazioni di cui ciascuno di noi può disporre (Sen, 2000), rappresentano il terreno d’incontro “par excellence” dei verbi informare e partecipare. Insomma se è vero che le relazioni sociali sono la lente attraverso la quale valutare i condizionamenti e le opportunità per le libertà di ciascuno, che una diseguale dotazione di diritti, di risorse e strumenti necessari a tradurli in libertà determina una forte asimmetria nella realizzazione delle capacità e nelle libertà delle persone, ecco che l’ampliamento delle possibilità di partecipazione a reti sociali, culturali, politiche, ludiche, collegate allo sviluppo delle nuove tecnologie dell’informazione, rappresenta un’occasione oggettiva di ampliamento delle libertà e dunque delle opportunità delle persone. Non a caso il web è diventato uno strumento sempre più importante per dare visibilità a soggetti che nei contesti nei quali vivono non avrebbero altrimenti le stesse possibilità di avere voce. Poter diffondere informazioni sui propri obiettivi, sulle strategie adottate, poter comunicare con minoranze o governi di altri paesi può fare la differenza: è valso anni fa con il movimento delle donne messicane “Mujer a Mujer”, che attraverso Internet acquisirono le informazioni necessarie per poter negoziare le condizioni di lavoro in un’impresa tessile statunitense appena installata sul loro territorio, sta valendo oggi per le “rivoluzioni” nei paesi del Nord Africa.

In questo quadro la nascita del “cittadino reporter”, lo sviluppo dell’inchiesta partecipata, rappresenta una ulteriore straordinaria modalità di sviluppo della partecipazione su un terreno strategico come quello della produzione delle notizie. Gli esempi non a caso cominciano ad essere tanti, a partire da quelli raccontati su queste stesse pagine da Michele Kettmaier e Stefano Iucci. Accennerò qui soltanto ad altri due esempi, che faranno da corollario alla considerazione conclusiva:

la versione italiana di Wikinews (http://it.wikinews.org/wiki/Pagina_principale), che ha più di 6 anni e raccoglie ad oggi oltre 8 mila articoli, che ha il pregio di essere espressione di una comunità aperta a tutti gli effetti (licenza Creative Commons Attribution 2.5) e di sollecitare un approccio “neutrale” alla notizia, e il difetto di essere più un bignami delle notizie pubblicate sui principali quotidiani e settimanali che un vero e proprio produttore moltiplicatore di news;

Business Exchange (http://bx.businessweek.com/), la figlioccia digitale di Business Week, che dà la possibilità al lettore di proporre un argomento che, una volta approvato dalla redazione (a me è accaduto con Decision making process, Riken e Collaborative management), permette agli iscritti di inserire link relativi ad articoli suddivisi per news, blogs, reference, jobs; il vantaggio è che di norma vengono proposte news più selezionate, qualificate, interessanti, lo svantaggio di essere molto poco “open”, a partire dalla lingua, “english only”.

La considerazione conclusiva è che anche senza sottovalutare riflessioni critiche ed equivoci, in fondo alla strada del “citizen journalism” non c’è l’informazione di professione ma l’informazione di qualità. Dite che è una strada difficile, tortuosa? Rispondo che lo sarà tanto di più quanto più profondo sarà il cambiamento. Sì, per me è solo questione di tempo, poi anche questo futuro diventerà inesorabile. Come il passato.

Libreria d’agosto

Sì, sono stato contento quando ho letto il post nel quale il mio amico Tarcisio Tarquini ha scritto che la Feltrinelli libri e musica di Piazza dei Martiri è una delle ragioni per cui viene volentieri a Napoli. Sono stato contento per la mia città e perché quel posto lì l’ho visto nascere, mi ci sono abituato con fatica, accade sovente con le cose nuove, mi ci è voluto tempo prima di poter cliccare su “mi piace”.
Mi piace chiacchierare dell’ultimo libro che mi ha preso il cuore, mi piace scoprire che Dudù, Frank e Ciccillo saranno prossimamente sui nostri schermi, sì, sta per uscire “Operazione San Gennaro” in dvd, mi piace incrociare gli amici per affinità e per caso. Per certi versi la cosa mi ricorda la Secondigliano dei miei quindici anni, quando per giocare a pallone non dovevi affittare il campetto e per incontrare gli amici bastava andare al bar di don Peppe Testolina o raggiungerli sotto casa, ignorare il citofono che tanto gli sms neanche esistevano e partire con la chiamata a cappella modello Lello Sodano, quello che in “Ricomincio da tre” grida Gaetano, Gaetanoooo, Gae-tano, Gae-tà fino a quando Gaetano – Massimo Troisi non scende. E poi vuoi mettere la saggezza del “vigile” Luigi che ti racconta del medico che ha “sclerato” e va in giro col pigiama raccattando cibo tra i rifiuti nonostante il lussuoso appartamento di proprietà e l’ottima pensione solo per dirti che “a cerevella è ‘na sfoglia ‘e cipolle” e che “bisogna non perdere mai la modestia, ché da un momento all’altro può cambiare tutto nella vita”. E l’imbarazzo di essere avvicinati da un distinto, anziano, signore che ti dice: “lei è Vincenzo Moretti, lo scrittore?” e tu gli rispondi: “No!”? “Come no, io l’ho vista in tv parlare del suo libro”. “Sì, quello che ha scritto il libro sono io, ma non sono uno scrittore”. “E perché io che progetto edifici sono architetto e lei che scrive libri non è scrittore?”. Già, perché? L’arrivo del mio amico Enzo, il vicedirettore, mi dà il pretesto per scusarmi, salutare, scappare, ma la domanda la porto con me: scrittore, chi è costui? Quello che vende così tante copie dei suoi libri da poterci vivere? Mah, a vedere le classifiche qualche dubbio ti viene. Quello che vince i premi letterari? Meglio lasciar perdere, terreno scivoloso anche questo. Mentre voi continuate a pensarci io vi dico che quando la sera ho ripreso a leggere “America amore” di Alberto Arbasino, ero a metà delle 800 e più pagine che compongono il volume, mi è bastata mezza pagina per dirmi “Arbasino è uno scrittore”. No, il perché non ve lo dico. Lo avete letto “America amore”? Fatelo. Il resto viene da sé.

Il Blog di Montaigne

“La sua esistenza era un dolce fluttuare sopra un tappeto di benevola ottusità”: diciamo la verità, detto così non è che sembri proprio un complimento, insomma uno di quei pensieri che vorresti tanto che qualcuno un giorno dedicasse a te. Se vogliamo dirla tutta ai tempi della mia Secondigliano artigiana, operaia e magliara persino uno come Pasqualino ‘o Ricciulillo, addetto al confezionamento in un calzaturificio di Casavatore dal lunedì al venerdì e aiuto pizzaiolo il venerdì, il sabato e la domenica sera, se gli dicevi una cosa così un pugno e anche due te li mollava volentieri. E avrebbe avuto torto. Perché avrebbe perso la possibilità, possiamo immaginare irripetibile nella sua onesta, prevedibile, esistenza, di essere accomunato nientepopodimeno che a Michel de Montaigne. Sì, perché quello dell’esistenza che fluttua è proprio lui, o almeno così ci viene raccontato da Sarah Bakewell in un splendido volume. (Montaigne, L’arte di vivere, Collana Campo dei Fiori, Fazi Editore).

Vi state chiedendo perché l’esistenza di un uomo di cotanto senno fluttua in questo modo? Ve lo dico subito: pare che Montaigne avesse scarsissima memoria e la cosa secondo la Backwell ha prodotto alcuni effetti collaterali di non poco conto: il nostro era un uomo propenso alla sincerità (l’arte di dire bugie richiede una memoria di ferro), aveva una mente così “meravigliosamente vuota che nulla poteva ostacolare il suo ragionamento”, “si dimenticava facilmente delle offese ricevute e dunque serbava meno rancori”, era capace di recuperare le sensazioni più profonde delle sue esperienze, quelle che poi ha raccontato nei suo Saggi, proprio perché era preda di quella memoria “involontaria” che tanto fascino avrebbe esercitato su Proust, sì, proprio quella memoria che all’improvviso ti riporta alla mente un volto, un gusto, un odore che pensavi ormai di aver perso per sempre.

Ora voi non provate a domandarvi perché la mancanza di memoria nel mio caso produce come effetti collaterali soltanto ombrelli persi e telefonini lasciati nei posti più improbabili, perché la mia reazione sarebbe pari a quella di Pasqualino ‘o Ricciulillo; chiedetevi piuttosto in che senso e perché Montaigne non è stato soltanto l’ideatore del “saggio”, ma anche il primo blogger della storia. No, il perché non ve lo dico, dovete leggere il libro che tanto poi me ne sarete grati. Piuttosto provate a immaginare in quanti avrebbero cliccato su “mi piace” se Montaigne avesse scritto su Facebook e non su una nota a margine, parlando dell’amico La Boétie sconfitto dalla peste, “se mi si chiede di dire perché l’amavo, sento che questo non si può esprimere che rispondendo: “Perché era lui, perché ero io”.

La sindrome di Stradivari e la regola dell’accesso

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Se vi racconto come li ho messi assieme la faccio troppo lunga, perciò vi dico che all’inizio, questo inizio, ci sono Karl Popper e Richard Sennett, da un lato l’idea che “se non vogliamo ragionare in circolo, dobbiamo assumere un atteggiamento altamente critico verso le nostre teorie, l’atteggiamento consistente nel cercare di confutarle”, dall’altro le ragioni per non finire vittime della sindrome di Stradivari, quella strana malattia che prende il tecnico, l’esperto, che ritiene di avere competenze così irripetibili da non poter essere tramandate, proprio come nel caso del leggendario liutaio di Cremona. E dato che tutto ciò che ha un inizio ha anche una fine, talvolta anche un fine, vi anticipo che tutto questo ci condurrà in vario modo alla voglia di fare bene il proprio lavoro, all’etica nel lavoro, ai pericoli connessi all’accumulazione egoistica delle competenze.

Mi spiego con un esempio, anzi due. Il primo si riferisce al Goodwork Project diretto da Howard Gardner, Università di Harvard, al caso di corruzione a carico di alcuni giornalisti del New York Times. La colpa? Secondo i ricercatori dell’istituzione, nel senso della presunzione di sentirsi “il” Nyt, lo stradivari dell’informazione, un giornale che non ha bisogno di comunicare esplicitamente quali sono i suoi standard e per questa via crea il contesto nel quale giornalisti senza scrupoli possono piegare l’istituzione ai loro scopi. L’antidoto? Secondo Gardner quel particolare tipo di trasparenza basata su criteri che definiscono il lavoro ben fatto in un linguaggio chiaro e comprensibile ai non addetti ai lavori.

Il secondo si riferisce al progetto di citizen journalism che sta portando avanti la Fondazione Ahref che non solo definisce ed esplicita i criteri che ritiene debbano essere rispettati perché l’informazione possa essere definita di qualità, ma tende a fare di questa qualità la cornice cognitiva, il presupposto, a partire dal quale i cittadini diventano reporter che promuovono e realizzano le loro inchieste.

Nel caso di La scuola abbandonata, la prima inchiesta di Fondazione Ahref, abbiamo perciò raccontato passo passo come ci siamo mossi, abbiamo definito una metodologia (Regola dell’A.C.C.E.S.S.O.: A come artigiano, C come cittadino, C come conservare, E come errore, S come storie, S come serendipity, O come organizzare) e l’abbiamo condivisa con l’auspicio che sia di aiuto per i futuri cittadini reporter. È un gioco solo in parte nuovo, però è un gioco che può cambiare le regole del gioco in un settore strategico come quello dell’informazione. Cliccate su “mi piace” e giocate anche voi.

Festival dell’economia, da Trento al Rione Sanità

L’edizione 2011 del Festival dell’economia di Trento (http://2011.festivaleconomia.eu) si presenta con due anteprime che dicono un mondo: la prima, il 26 Maggio a Trento, in collaborazione con la Federazione trentina della cooperazione, avrà come protagonista Amartya Sen, premio Nobel per l’Economia nel 1998, che terrà una lezione sul tema del Festival: “I confini della libertà economica”; la seconda, il 28 maggio a Napoli, in un posto di una bellezza indicibile, incredibile, commovente, Basilica e Catacombe San Gennaro Extra Moenia, al Rione Sanità, ci sarà una giornata ricca ricca di incontri intorno al tema: “Il sommerso e l’economia da svelare” (http://www.ahref.eu/it/events/notizie-dal-sottosuolo), a cura della Fondazione Ahref (http://www.ahref.eu) e in collaborazione con Fondazione per il Sud (http://www.fondazioneperilsud.it).

Se giuro che ho ancora tutte le mani morsicate perché sono stato invitato alla lezione di Sen e non ci posso andare, mi concedete il beneficio dell’obiettività se vi dico che l’evento di Napoli è particolarmente significativo? Lo è, significativo, per la qualità dei temi in discussione e per l’autorevolezza dei partecipanti; e tutti questi link così brutti da vedere nella pagina ve li ho messi apposta, perché ve ne possiate rendere conto senza che io debba propinarvi un elenco interminabile di titoli e di nomi. E naturalmente il valore dell’appuntamento sta anche per il posto che è stato scelto (ma questo ve l’ho già detto). E se ancora non vi basta, aggiungo che è importantissimo che, nell’anniversario dei 150 anni dell’Unità d’Italia, il Festival dell’economia da Trento si estenda fino a Napoli.

Detto tutto questo sottolineo anche che nella scelta del posto ci vedo una questione di significato nel senso letterale del termine. Sì, perché da quelle parti, al Rione Sanità, intorno a padre Antonio Loffredo, che potrete ascoltare la mattina del 28 maggio nel corso dell’incontro coordinato da Luca De Biase, sta crescendo, è cresciuto, un laboratorio di rinascita civile e sociale che ha come parole chiave “giovani e lavoro”. Proprio così: nella pancia di questa Napoli sempre più improbabile e complicata, al Rione Sanità, intorno al lavoro e ai giovani, alla bellezza e alla cultura, alla dignità e al rispetto si sta cercando di azzannare il futuro contando prima di tutto sulle proprie forze. Presto ne leggerete delle belle: ma di questo ne parliamo un’altra volta.

Spettatori, dunque complici

Vi ricordate Per un pugno di dollari? La parte in cui Joe (Clint Eastwood) dice a Silvanito (Enzo Petito) “I Baxter da una parte, i Rojo dall’altra e io nel mezzo?”. E se provassimo a fare lo stesso gioco?
Da una parte Honoré de Balzàc (La Commedia Umana), l’idea che è la società che fa gli uomini diversi “a seconda dell’ambiente dove si svolge la sua attività”. Dall’altra James Hillman (Il codice dell’anima), l’idea che sia invece il daimon, la ghianda, a determinare sin dalla nascita la nostra essenza, il carattere, a indicarci la strada, a determinare le scelte che facciamo. In mezzo noi, che modestamente suggeriamo che contrapporre daimon e struttura, individuo e società, non è necessariamente una buona idea; che una società meno ingiusta, che favorisce l’abilitazione di diversi prospetti e ideali di vita, che sostiene coloro che si trovano senza averne colpa ad essere svantaggiati, è anche una società meno esposta a fenomeni di anomia, di perdita di identità e di ruolo sia delle persone che delle strutture.

L’idea è insomma che il vero antidoto all’impoverimento democratico sia nell’esercizio consapevole della responsabilità da parte di ciascun cittadino
e che oggi è quanto mai decisiva la voglia e capacità di non rinunciare a esercitarla, questa responsabilità.  Sì, non è obbligatorio rassegnarsi. In democrazia esiste per definizione un’ulteriore possibilità. Ad esempio quella che ci consente di mettere in campo con altri, idee, comportamenti, azioni in grado di cambiare le cose. Quella che ci fa ritenere affascinanti le sfide nelle quali ci scopriamo impegnati e ci fa sentire impellente il bisogno di vincerle. In fondo è così che si conquista la democrazia, la si merita, giorno dopo giorno: partecipando, schierandosi, assumendosi l’onere di rendere esplicito, e dunque criticabile, il proprio punto di vista.

Erich Fromm ha scritto che “il problema non è che la gente si occupa troppo del suo interesse, ma che non si occupa abbastanza dell’interesse del suo vero io; il fatto non è che siamo troppo egoisti, è che non amiamo noi stessi” (Etica e psicanalisi).
È accaduto più volte nel corso della nostra storia, troppo spesso abbiamo tentato di perseguire il nostro interesse senza amare noi stessi e, dunque, senza amare le nostre città e la nostra Nazione. Tra un po’ si vota su e giù per l’Italia, chissà se ci ricorderemo di non fare lo stesso errore. Buona partecipazione.

Benvenuta RisorgItalia. Buon compleanno Italia

Il tema è di quelli a cui tengo di più. Il rapporto tra élites, classi dirigenti e cittadini, le culture, i modi di essere e di fare che fanno grande, o piccola, una comunità, un paese, una nazione.
Ne ho scritto ancora di recente ricordando che Seiji Maehara, 48 anni, Ministro degli Esteri giapponese, si è dimesso per una donazione di 440 euro. Che Karl Theodor zu Guttenberg, Ministro della Difesa tedesco, 39 anni, si è dimesso per aver copiato la tesi di dottorato in giurisprudenza. E che Silvio Berlusconi sembra aver deciso invece di fare del suo destino e di quello dell’Italia una cosa sola. Però poi non ci ho messo il punto, eh no, sarebbe stato troppo comodo. Ho ricordato Edgar H. Schein e la sua idea che per comprendere un’organizzazione bisogna comprendere la sua cultura. Ho aggiunto che una nazione è anche un’organizzazione, ha una sua cultura e classi dirigenti che di fatto, ci piaccia o no, la rappresentano. E che forse bisognerebbe approfittare della importante ricorrenza dei 150 anni del nostro Paese per riflettere più a fondo su cosa non va nella nostra cultura e nelle nostre classi dirigenti. Sul “che fare” per avviare un cambiamento profondo. Nostro. E delle nostre classi dirigenti.
Lo stesso giorno il mio @mico Massimo Melica (amico con la chioccioletta perché ci conosciamo solo nel mondo dei social network) mi scrive per chiedermi se voglio aderire al progetto RisorgItalia (www.risorgitalia.it). Clicco sulla pagina, leggo in alto a sinistra Patrioti Digitali e mi piace un sacco, così come “iniziativa non commerciale”. Non mi piace invece la scritta “iniziativa non politica”, immagino stia per “iniziativa non partitica”, perché se non è politica l’idea che “l’Italia non è solo una Nazione: l’Italia siamo Noi”, un progetto culturale “che si propone come primo obiettivo quello di celebrare il centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia”, l’impegno a “riportare alla luce ciò che si è perso negli scorsi decenni: l’orgoglio e la gioia di essere italiani”, la voglia di contribuire a “un nuovo Rinascimento di coscienze, cultura ed ideali”, allora cos’è “politica”?
Decido che RisorgItalia mi piace, perché mi piace “un’idea della politica che da Aristotele a Hanna Arendt è un’idea fatta di partecipazione, di cui non è sufficiente ricercare il fine o lo scopo, ma a cui occorre dare un senso” (D’Orsi, 1995). Sì, mi piace un sacco l’idea di abituare le persone a rafforzare la democrazia, a migliorare le sue qualità, portando ciascuno il proprio mattone. Benvenuta RisorgItalia. Buon compleanno Italia.

Centimetro dopo centimetro

E certo che ci sono andato, e come potevo non andarci con un titolo così, “Se non ora, quando?”, e in momento così, di quelli che come dice Brecht “discorrere di alberi è un reato?”.
Ho incontrato donne, donne, donne, naturalmente. Tantissime. E assieme a loro non solo quelli della serie “siamo tanti siamo sempre qui”, ma anche quelli che non vedevo da una vita, quelli come Ciro, ex delegato oggi in pensione della ex Società Italiana Ossigeno che il nome nuovo me l’ha detto ma in quella bolgia chi se lo ricorda, o come Armando, che ha diretto con me per un po’ di tempo la categoria dei chimici in Campania e adesso vive ad Avellino, o come Michele, che mi ha raccontato che anche se a 35 anni alla fine si è laureato e anche se si sente un pò in colpa ha deciso di raggiungere il fratello in Inghilterra che qui da noi se anche trovasse da lavorare con la laurea da ingegnere meccanico guadagnerebbe di meno del suo salario da operaio.
Il sole, i sorrisi, i saluti, e a un certo punto “Ogni maledetta domenica”, il film diretto da Oliver Stone che mi si accende nella mente. Eccolo lì, Tony D’Amato (Al Pacino) mentre parla alla sua squadra, lo potrei citare a memoria, lo faccio vedere ogni hanno ai ragazzi che seguono il mio corso sul sensemaking.  Eccolo lì, mentre insiste sulla necessità di lottare centimetro dopo centimetro per conquistare la meta, sull’importanza di essere uniti, di sentersi ed essere una squadra. Una squadra, un Paese, mi sono detto, e sì, qui bisogna stare sul punto, conquistare centimetro dopo centimetro, non ci si può tirare indietro.
Certo che lo so che non sarà facile, che non c’è solo una questione di leadership e di governo, che c’è anche una questione di cultura, di modi di fare, di valori da recuperare, di alibi e giustificazioni da rifiutare, di regole da rispettare a prescindere, tutti, sempre. Ma in fondo tutto questo accade quando un Paese individua una concreta possibilità alternativa di vedere soddisfatta la propria utilitas, come avrebbe detto Spinoza, nell’ambito di un sistema fondato sul rispetto delle leggi e delle regole politiche, economiche, istituzionali e perciò non ne fa più solo una questione di sensibilità, di solidarietà, di civiltà, ma anche, soprattutto, una questione di razionalità, di convenienza, di interesse.
L’interesse di chi sa che in un mondo tanto interdipendente sarà sempre meno possibile far finta che l’altro non esiste. L’interesse di chi, come l’Ulisse di Shakespeare, sa che “[…] nessuno è padrone di nessuna cosa, per quanta consistenza sia in lui o per mezzo di lui, finché delle sue doti non faccia partecipi gli altri: né può da sé farsene alcuna idea, finché non le veda riflesse nell’applauso che le propaga”. L’interesse di chi non intende fare a meno dello streben, l’agire e tendere alla meta, che consente a Faust di salvarsi. L’interesse di sa che la meta si conquista tutti assieme. Centimetro dopo centimetro. Ogni maledetta domenica.

Elogio della cicala

Va bene, facciamo finta che non abbiate mai detto a vostro figlio, o anche solo a un amico più giovane, “non fare come la cicala, sii laborioso e previdente come la formica”. La mia domanda è: ma vi siete mai chiesti che lavoro fa la cicala?. Io no, mi ci ha fatto pensare Gennaro Pasquariello quando mi ha chiamato per parlarmi del festival da lui ideato e giunto quest’anno alla quinta edizione: “L’abbiamo chiamato il Festival della Cicala perché in qualche modo ci siamo voluti ribellare al luogo comune, diventato celebre grazie a Jean de la Fontaine, per il quale chi, come la Cicala, canta o suona, va considerato un perditempo. Ma lo sai Vincenzo quanta fatica c’è nella vita di un musicista?”.
Sì, questo la so. Tanta.

È un attimo, e mi ritorna in mente Il resto è rumore, il bellissimo libro di Alex Ross che racconta il secolo breve attraverso la musica, quando dice di Arnold Schoenberg, dei genitori di condizioni modeste che non potevano permettersi un pianoforte, della sua gavetta come componente di una banda militare che suonava nei caffè di Vienna, dello studio delle forme strumentali attraverso un’enciclopedia, dell’attesa dell’uscita del volume “S” prima di poter comporre una sonata.
E poi, ancora, mi torna in mente il maestro Antonio De Santis; lo incontrai che insegnava teoria e solfeggio al conservatorio S. Pietro a Maiella di Napoli, negli anni 70 aveva fondato con Giuseppe Di Giugno il gruppo di elettroacustica presso il dipartimento di fisica sperimentale dell’Università di Napoli. Era un personaggio incredibile, sembrava uscito da un romanzo di Kerouac, ti stordiva, ti affascinava mentre ti spiegava che “le note sono assi cartesiani”, che “Bach è l’anticipazione del computer”, che “quando avremo un computer con un’interfaccia geniale come il manico di una chitarra o di un violino sarà una rivoluzione”, che “Wagner con il suo teatro totale è l’inventore della multimedialità”, che “come ha scritto Prigogine la musica è l’unico paradigma della scienza moderna”.

È un attimo, e mi accorgo che Pasquariello mi guarda, sembra attenda domande, nel frattempo mi dice che il Festival della Cicala è itinerante, porta la musica, i musicisti e il loro lavoro nelle scuole, che bisogna insistere sulla formazione e sulla professionalità perché l’arte non basta, meno che mai a Napoli, che i ragazzi fanno parte anche delle giurie che valutano i brani presentati al concorso nelle due sezioni, Didattica (brano edito) e Artistica (brano inedito).
Mi chiede se serve altro. Gli rispondo che va bene così. Per questa volta viva la cicala.

Viva l’Italia

Rosa, 25 anni, mi scrive da Milano, anche se nell’era della posta elettronica New York o la stanza a fianco per noi pari sono diventate. Mi dice che alla fine un lavoro l’ha trovato, che esce alle 7.30 di mattino e torna alle 8.00 di sera. Che le danno la bellezza di 300 euro al mese. Di mio aggiungo che Rosa si è laureata con 110 e lode, laurea magistrale, in Scienze della Comunicazione e che può vivere questa “esaltante” esperienza perché si “appoggia” alla sorella che è a Milano.

Mario, 19 anni, lo incontro a Napoli un sabato fa. Funicolare centrale, prima corsa, quella delle 6.30. Io che da tempo ho rinunciato a fare a botte con il sonno sono appena uscito dal bar, lui che si reca come ogni mattina al lavoro. Mario non lo conosco, gli sento dire che la sera precedente a scuola prima si è fatto interrogare poi si è addormentato. Gli chiedo che fa, mi spiega che lavora in un bar del Vomero, ore 7.00 – 17.00, 7 giorni su 7, per 100 euro a settimana. Aggiunge che al padre ha detto che ne guadagna 120 e che già così, al padre, sembrano troppo poche, e che lui nel frattempo dopo 3 anni è tornato a scuola, economia aziendale, si è reso conto che è importante, che deve prendere il diploma.

Antonio, 72 anni,
lo conosco da una vita, e da una vita mi racconta di quando nelle fabbriche i vecchi operai “passavano le consegne” ai giovani che avevano varcato per la prima volta i cancelli, di come attraverso la trasmissione delle esperienze, delle conoscenze formali e informali, si creava un ponte tra passato e futuro, tra il “vecchio” e il “nuovo”, che si basava certo sulla preparazione tecnica e professionale, ma che finiva fatalmente per investire i rapporti umani e sociali tra persone di generazioni diverse. I vecchi lasciavano tracce che aiutavano i più giovani a formarsi ed essere autonomi. Vecchi e giovani davano senso al loro lavoro e ciò incrementava il loro capitale di fiducia, conferiva significato non solo alla loro dimensione lavorativa, ma anche a quella esistenziale, familiare, sociale.

Perché vi racconto tutto questo? Perché penso che Rosa, Mario e Antonio dovrebbero essere trattati da questo paese molto meglio di come vengono trattati. Perché penso che prima lo capiamo e meglio è, non solo per Rosa, Mario e Antonio ma anche, soprattutto, per l’Italia. Perché penso che dare valore al lavoro, al rispetto, al futuro sia un buon modo per pensare ai nostri prossimi 150 anni. Lo so che tra un po’ viene Natale, ma purtroppo con queste cose qua Babbo Natale non c’entra. Ci vuole una nuova classe dirigente. Paese avvisato mezzo salvato.

Fare è pensare

Antonio Pezzullo, 24 anni, maestro di chitarra, da Frattamaggiore, provincia di Napoli, la passione per la chitarra scopre di averla a 11 anni, quando il suo insegnante di educazione musicale chiede a lui e ai suoi compagni di scegliere uno strumento tra chitarra, flauto e pianola e di portarlo in classe.
Dalla scoperta alla laurea, al conservatorio Giuseppe Martucci di Salerno, dai primi concerti alle prime recensioni, la strada è stata naturalmente lunga e impegnativa, e ancor di più lo sarà quella che gli resta da fare, eppure non è di questo che intendiamo raccontarvi.

Ebbene sì. Perchè Antonio Pezzullo come musicista pare abbia un gran talento, e sia chiaro che il pare non mette in dubbio il talento ma sottolinea che chi scrive non ha competenze in campo musicale, ma l’opera che lo rende veramente unico è la sua chitarra, ad essere precisi una delle sue chitarre. Volete sapere perché? Perché se l’è costruita da solo, con la sua testa e le sue mani, ottenendo un risultato eccellente.

Antonio ha impiegato 5 mesi per costruire la sua chitarra, lavorandoci almeno un paio di ore al giorno quasi tutti i giorni della settimana e se gli chiedi perché l’ha fatto ti risponde “perchè amo troppo quello che faccio”, “perché volevo vedere se riuscivo a costruire una chitarra che suonava”, e naturalmente quando dice “suonare” intende dire suonare, una chiatarra da utilizzare anche nei suoi concerti, cosa che poi ha fatto.

Adesso qui lo spazio è tiranno e io non posso raccontarvi fase per fase come ha fatto Antonio a costruire la sua chitarra, ma il suo racconto l’ho registrato, e ho anche le foto che documentano ogni singolo passaggio, il progetto dal quale è partito, gli utensili che ha usato, magarì chiederò al direttore di darmi lo spazio per raccontarvi tutto questo in uno dei prossimi numeri, vi assicuro ne varrebbe la pena.

Quello che invece non voglio fare a meno di fare adesso è collegare tutto questo con “L’uomo artigiano” di Sennett (Feltrinelli, 2008), con le sue riflessioni sul rapporto tra l’uomo e gli utensili, sulle connessioni tra la testa e le mani. Ad un certo punto del suo libro Sennett, scrivendo degli utensili specchio, dice che possono essere di due tipi: replicante e robot, i primi imitano le nostre possibilità-capacità, i secondi le potenziano fino a farle arrivare a livelli per noi umani impossibili. Detto che sarebbe un reato raccontarvi come finisce e togliervi il gusto di leggere il libro, si può aggiungere che le persone come Antonio confermano che sono la creatività, il sapere e il saper fare che permettono a ciascuno di noi di vivire vite più degne di essere vissute. Sì, perché fare è pensare. E se non pensiamo che facciamo a fare?

Una moneta per Turing

Alan Turing, fondatore della computer scienza, matematico, filosofo, crittanalista (la crittanalisi è lo studio dei metodi per scoprire il significato di informazioni cifrate), suicida a 42 anni perché distrutto dalla persecuzione omofobica condotta nei suoi confronti. Seppure molto tardivamente, nel 2009 sarà Gordon Brown, a nome del governo britannico, a scusarsi ufficialmente così: «Per quelli fra noi che sono nati dopo il 1945 […] è difficile immaginare che il nostro continente fu un tempo teatro del momento più buio dell’umanità. È difficile credere che in tempi ancora alla portata della memoria di chi è ancora vivo oggi, la gente potesse essere così consumata dall’odio – dall’antisemitismo, dall’omofobia, dalla xenofobia e da altri pregiudizi assassini – da far sì che le camere a gas e i crematori diventassero parte del paesaggio europeo tanto quanto le gallerie d’arte e le università e le sale da concerto che avevano contraddistinto la civiltà europea per secoli. […] Così, per conto del governo britannico, e di tutti coloro che vivono liberi grazie al lavoro di Alan, sono orgoglioso di dire: ci dispiace, avresti meritato di meglio».

Perché vi raccontiamo tutto questo? Perché nel 2012, ricorre il centenario della nascita di Turing. E perché è stata promossa una petizione popolare per chiedere ai paesi europei di coniare per l’occasione una moneta commemorativa.

Promotore della petizione è Adriano Parracciani (www.adrianoparracciani.it), creativo, fisico mancato, ingegnere delle reti informatiche, che spiega così l’iniziativa:

Le monete hanno ospitato e ospitano i volti di migliaia di personaggi, rendendo omaggio al loro genio o alle loro gesta. Perchè dunque non coniare una moneta commemorativa per Alan Turing che ci ha dato così tanto, contribuendo a liberarci dal nazismo, progettando i primi calcolatori della storia, ponendo le basi dell’intelligenza artificiale? Perché i paesi europei non dovrebbero concedergli questo onore di dedicargli una moneta, una memoria metallica circolante di mano in mano, un riconoscimento per un genio che dopo aver dato così tanto all’umanità è stato costretto alla castrazione chimica perchè omosessuale e portato al suicidio? Mi sono detto che valeva la pena di tentare quello che a prima vista potrebbe sembrare impossile: la strada della petizione internazionale. Ed eccomi qui.

Cosa aggiungere ancora?
Che la petizione si può sottoscrivere qui:
www.ipetitions.com/petition/coin4alanturing/. Che sul blog Grammi di Storia (http://grammidistoria.wordpress.com) potete saperne di più. E che tra gli altri ha aderito S. Barry Cooper, Dipartimento di Matematica Pura dell’Università di Leeds, che presiede il Turing Centenary Advisory Committee, il comitato che cura la gestione degli eventi per il centenario di Alan Turing (www.turingcentenary.eu/).

Buona partecipazione.

La fabbrica sostenibile

Ogni fabbricato dovrà produrre almeno una parte dell’energia che consuma, mentre i nuovi immobili dovranno essere a bilancio energetico positivo. Questo permetterà di creare milioni di posti di lavoro. “Dobbiamo ingegnarci: il Rinascimento nacque così”

Lo vogliamo dire? Nell’era di internet, della società della conoscenza, del capitale immateriale, fa un certo effetto constatare che al centro della civiltà dell’empatia Rifkiniana ci siano l’industria, la fabbrica, il cantiere. E fa ancora più effetto sentire perché sarebbe “facile”, anche per il nostro Paese, avviare un processo di crescita sostenibile destinato a creare diverse centinaia di migliaia di nuovi e qualificati posti di lavoro in pochi anni. Questioni di scelte. Di visione nazionale. Di politica industriale. Esattamente quello che è mancato in questa fase nel Belpaese. Ma è meglio non anticipare troppo e cominciare dal principio, da quello che Jeremy Rifkin – presidente di Foundation on Economic Trends (www.foet.org) e autore di numerosi bestseller sull’impatto del cambiamento scientifico e tecnologico sull’economia, il lavoro, la società –, ci ha detto a proposito del disastro causato dalla British Petroleum.

“La catastrofe del Golfo del Messico – spiega – ha ormai raggiunto una proporzione pari a sette o otto volte il disastro provocato dalla Exxon Valdez. Ciò dimostra quanto disperati e dipendenti siamo diventati, al termine dell’era dei carburanti fossili: pur essendo consapevoli dei danni che possono provocare sul lungo termine agli ecosistemi, siamo disposti a lanciarci in rischiosissime imprese di trivellazione off-shore perché dipendiamo da quelle risorse, tant’è che nel luglio 2008 l’intero motore economico della seconda rivoluzione industriale si è fermato. Come ho ripetuto più volte a governi e imprenditori, il vero terremoto è stato quello. Il collasso del mercato finanziario, sessanta giorni dopo, era una scossa di assestamento. E anche se al momento l’economia sta tentando di riprendersi, in misura estremamente contenuta ma pur sempre su scala mondiale, siamo ancora alle prese con le scosse di assestamento, non ne siamo ancora venuti fuori.

Immaginiamo che a suo avviso per venirne fuori davvero ci sia bisogno della terza rivoluzione industriale. Ma al di là dell’indubbio fascino evocativo, a che punto siamo concretamente?

Il concetto di terza rivoluzione industriale è stato assunto dal Parlamento Europeo nel 2007, quando l’allora presidente Pöttering l’ha definita una strategia di lungo termine per l’Unione Europea. Il lavoro fatto finora è proceduto a diverse velocità, tanto all’interno della Commissione quanto nell’ambito dei singoli Stati membri. Nel frattempo, circa un anno e mezzo fa, abbiamo fondato la Third Industrial Revolution Global CEO Business Roundtable, una coalizione globale composta da aziende che operano nel settore delle energie rinnovabili, nel settore edilizio, in quello immobiliare, delle tecnologie delle comunicazioni, dei servizi logistici, dei trasporti, delle forniture energetiche. Obiettivo della coalizione è elaborare una serie di master plan per le varie città e regioni, affinché queste possano iniziare a dotarsi dell’infrastruttura di cui la terza rivoluzione industriale necessita.

Un aspetto importante del nostro lavoro, che credo sia interessante per la vostra fondazione e per il movimento sindacale in generale, è che noi proponiamo un vero e proprio piano di sviluppo economico, non un piano sul clima o sull’energia.

Il nesso tra sviluppo ecosostenibile, crescita economica e occupazione delinea sicuramente, per il movimento sindacale, uno scenario di grande interesse.

Certo. Noi poniamo l’accento sugli investimenti, non sulla spesa pubblica. Ogni regione, ogni città, genera il proprio prodotto interno lordo e ogni anno una determinata percentuale di questo Pil generato localmente viene reinvestita. Strade, ponti, case, reti di distribuzione energetica, infrastrutture logistiche: non importa se le cose vanno bene o vanno male, una parte del Pil viene comunque ridestinata alle opere di miglioria. Prendiamo il caso di Roma, che attualmente reinveste circa 25 miliardi di euro all’anno, sarebbe a dire un quinto del suo Pil. La media di investimenti necessari da noi prevista per i prossimi vent’anni è di circa 500 milioni di euro annui, 10 miliardi in 20 anni. Stando ai nostri calcoli, se Roma si limitasse a dedicare agli interventi da noi previsti l’1,5 per cento degli investimenti infrastrutturali che effettuerebbe in ogni caso, riuscirebbe a raggiungere gli obiettivi prefissati. Quindi complessivamente a Roma, per farcela, basterebbe spendere circa lo 0,3 per cento del proprio Pil. Questo discorso vale naturalmente per tutte le città e le regioni finora prese in esame: basterebbe dedicare al massimo il 3 per cento degli investimenti ai nuovi interventi, continuando a spendere il rimanente 97 per cento per il mantenimento delle vecchie infrastrutture ormai in malora, e ce la potremmo ancora fare. Ribadisco che si tratta di soldi che le amministrazioni dovrebbero comunque spendere dato che è tutto vecchio: fonti energetiche, infrastrutture, edifici, sistemi di stoccaggio, e non possiamo lasciare che cada tutto a pezzi.

Sembra facile. In realtà occorre un cambiamento di cultura e di approccio da parte dei diversi soggetti coinvolti, politica e istituzioni, imprese, sindacati, cooperative e terzo settore, ecc..

Esatto. I soggetti e le aziende presenti sul territorio devono capire che si tratta di un’enorme opportunità, che si tratta di reinventare l’economia esattamente come avvenne durante la prima rivoluzione industriale, quando fu realizzata la rete ferroviaria e di trasporto e si costruirono i grandi centri urbani. Oggi, con la terza rivoluzione industriale, ogni singolo fabbricato, dagli uffici agli impianti industriali alle case, dovrà produrre almeno parte dell’energia che consuma. Mentre gli immobili di nuova costruzione dovranno essere a bilancio energetico positivo. Significa creare milioni di posti di lavoro.

Uno scenario che a sentire lei sembra a portata di mano.

Certamente. In Germania ad esempio, dove ho fornito consulenza al cancelliere Merkel, sono stati già avviati gli interventi per la realizzazione dei quattro pilastri fondamentali. Stanno, infatti: installando impianti per le rinnovabili in tutto il paese, scelta che ha permesso di creare 220.000 posti di lavoro in pochi anni; trasformando il proprio intero patrimonio edilizio in centrali energetiche, affinché ogni stabile possa catturare la propria energia direttamente in loco; realizzando depositi di idrogeno in tutta la Germania; predisponendo una rete di distribuzione intelligente. Potrei citare anche la Spagna, che è il numero due sul fronte delle rinnovabili e sta anch’essa avviando la terza rivoluzione industriale. Perché non l’Italia?

Verrebbe da dire perché l’attuale governo ha scelto ancora una volta la via del nucleare e della centralizzazione, piuttosto che la via dell’ecosostenibile, delle rinnovabili, del decentramento.

A mio avviso il terreno dello scontro rimane politico, ma presenta caratteristiche diverse dalla fase in cui viveva sulla distinzione tra conservatori e riformisti. Io sono convinto che il nuovo terreno di scontro sia di natura generazionale. I giovani non pensano in termini di destra e sinistra, ritengono che lo scontro sia tra il modello patriarcale, centralizzato e piramidale da una parte, e il modello distribuito, dell’open source e delle creative commons dall’altra. È una generazione cresciuta su internet, abituata a Wikipedia, a condividere codici sorgente, codici computazionali e software, a usare Youtube e Facebook, tutti spazi collaborativi dove condividono le informazioni in maniera distribuita.

Su questa storia del superamento delle categorie di “destra” e “sinistra” ci sarebbe molto da discutere, a partire dal modello sociale, dal controllo dei mezzi di produzione e di distribuzione e dal fine ultimo dell’impres: il mero profitto o la crescita distribuita. Difficile invece non convenire sul fatto che si sta diffondendo una sensibilità trasversale intorno a questi temi.

Proprio così. La posta in gioco è la democratizzazione dell’energia, nel senso di power to the people. Si tratta da una parte di un modello di mercato dove ciascuno produce la propria energia, dall’altra di un modello collaborativo basato sulla condivisione tra pari dell’energia prodotta da ciascuna città, paese, continente. Per Roma proponiamo tra l’altro la costituzione di cooperative energetiche sull’intero territorio cittadino. L’idea è quella di lavorare con le imprese locali e nazionali e creare un sistema ibrido che offra a tutti gli attori territoriali la possibilità di fondare cooperative che riducano i margini di rischio per poi stringere accordi collaborativi che prevedano la condivisione dell’energia prodotta, attraverso reti distribuite connesse con il resto d’Europa e con il Mediterraneo. È il modello sociale e di mercato del ventunesimo secolo. Non è un caso che la Lega Coop sia tra i soggetti con un ruolo da protagonista in questo processo.

Torniamo alla questione lavoro, che in Italia presenta sempre più i caratteri dell’emergenza nazionale. Lei prima ha parlato della possibilità, con la terza rivoluzione industriale, di creare milioni di posti di lavoro. Possiamo provare a dare maggiore consistenza alla sua affermazione?

Se provo a pormi dal punto di vista del movimento sindacale le mie domande sono queste: una centrale a carbone, quanti posti di lavoro può creare? E una centrale nucleare? La Germania, che rimane un paese con un’economia trainante, ha dimostrato che le energie rinnovabili possono creare moltissima occupazione. Duecentoventimila posti di lavoro nel giro di pochi anni a fronte di un pugno di posti di lavoro in tutti gli altri settori. Il movimento sindacale dovrebbe anche rendersi conto che la chiave di tutto è l’edilizia: è quello l’elefante nella stanza, l’evidenza che nessuno vuole vedere. Abbiamo l’opportunità di riprogettare ogni singolo fabbricato italiano per trasformarlo in una centrale energetica: dal punto di vista del lavoro, il ritorno sull’investimento è immenso.

E poi c’è il fatto che la creatività che esprimete in Italia non ha pari. E avete anche una validissima comunità di piccole e medie imprese. Ora, da Roma in su l’Italia è una grande centrale, mentre da Roma in giù avete un’enorme quantità di energie rinnovabili. Pensate alle opportunità economiche che si verrebbero a creare stabilendo una forte alleanza tra chi produce le energie della terza rivoluzione industriale e chi produce il manifatturiero. Potreste costruire un’Italia omogenea e superare lo squilibrio tra meridione e settentrione.

Questo del superamento degli squilibri tra Nord e Sud, della definizione di nuovi e più avanzati equilibri è certamente un altro snodo decisivo.

Dal punto di vista dell’energia, da Bari alla Sicilia avete un’Arabia Saudita. C’è tutto: solare, eolico, marino. La sfida è riuscire a incanalare tutta questa energia con tecnologie al passo con la terza rivoluzione industriale, quindi fonti rinnovabili, riconfigurazione degli edifici, predisposizione di reti di distribuzione intelligenti e le altre cose che abbiamo detto, per poi stabilire una nuova relazione economica con l’Italia settentrionale. Posso dire che bisognerebbe guardare di più alle opportunità che tutto questo offre? Che vedo il futuro del movimento sindacale in buona parte qui?

Opportunità, come quelle che servono per lasciarci alle spalle la questione meridionale e ragionare in termini di risposta meridionale. Una risposta fondata sull’industria e sul lavoro ecosostenibile, sulle opportunità di crescita e di futuro.

Sì, opportunità di crescita sostenibile. Lo scontro non può continuare ad avvenire soltanto su quanto ancora toglieranno ai lavoratori e alle lavoratrici, occorre reinvestire nel nome di una giovane generazione di lavoratori. Dobbiamo saperci ingegnare. Il Rinascimento nacque da questo, ed è così che daremo corso al Rinascimento del ventunesimo secolo: sarebbe a dire un rinascimento energetico.

Tecnologie dit un monde

Metti una sera a luglio. Una di quelle che per tutta il giorno hai lavorato con l’umidità al posto della pelle ma sei contento perché il treno ad alta velocità è stato degno del suo nome, del costo del biglietto o dell’abbonamento no, perché per quello ci vorrebbero carrozze e bagni puliti, aria condizionata sempre funzionante e tante altre cose ancora.

Arrivi a casa, spalanchi le finestre che se avessi le forze e un piccone butteresti giù anche le pareti, sul terrazzo di fianco la bellissima Irene – calmi calmi belli, è mia nipote -, e un pò di suoi amici suonano, chiacchierano e cantano, tu fai le cose che devi fare, poi decidi che non ti basta ancora e riavii il Mac della serie “fammi vedere su Facebook che si dice”. Detto che se l’ultima volta che ci sei passato non ti sei ricordato di “nasconderti” non fai neanche in tempo a dire A che c’è qualcuno che ti acchiappa, aggiungo che nell’occasione a vincere il premio è il mio amico Francesco Caruso. Educato e gentile, mi chiede tre volte se può disturbarmi. Certo – gli scrivo -, e lui va. Appena lui arriva alla parola università io gli propongo di spostarci su Skype. Sarà l’età, ma non ce la faccio a discutere di cose serie in chat, tic-tac-tic, tac tic tac. Parlarsi su Skype è un’altra cosa, meglio del telefono, non costa e lo vedo anche sul grande schermo del Mac.

Mentre parliamo, con la coda dell’occhio – a Napoli è obbligatorio imparare a “friggere il pesce tenendo d’occhio la gatta” -, vedo una gentile manina che dal terrazzo si agita in segno di saluto. Non vedo chi è, loro sono in penombra io ho la luce accesa, ma avverto il pericolo. Dico a Francesco di attendere, mi alzo, mi affaccio alla finestra, riconosco Carla Rovai, ricambio il saluto, spiego che il mio livello di impazzimento non è ancora giunto al punto da farmi parlare con il Mac, che dall’altra parte c’è Francesco, che sono ancora una persona normale. Carla, Irene e i loro due amici scoppiano a ridere, mi rassicurano, ritorno a parlare con Francesco che ha sentito tutto e se la sta ridendo con la moglie Viviana.

Finito di ridere direi due cose: 1. le tecnologie riarredono il mondo nel quale viviamo, cambiano le nostre abitudini, ci costringono a dare nuovi nomi alle cose, a ridefinire ciò che per noi vale e ciò che invece no; 2. va bene non farsi prendere dalla sindrome di Proust, crisi di ansia e attacchi di panico ad ogni cambiamento, ma forse qualche riflessione in più anche tra noi comuni mortali su come stanno cambiando le nostre vite, su cosa stiamo perdendo e cosa stiamo conquistando al tempo di internet non farebbe male. O no? Buone vacanze.

Tra lavoro e ricchezza non c’è proporzione

Va bene, lo ammetto, la questione è grande e vecchia quanto il mondo, come testimonia questo passo tratto dal Tao Te Ching, l’antico testo di saggezza cinese: “A corte ci sono troppe sale e scalinate, ma nei campi ci sono troppe erbacce, i granai sono troppo vuoti, ma i nobili indossano abiti eleganti e sete multicolori, portano alla cintura spade affilate, sono sazi di bevande e di cibi e possiedono ricchezza e denaro in misura traboccante. Questa è arroganza di ladri: non è il Dao davvero”. E per evitare che qualcuno pensi che si tratta di un colpo di fortuna, della classica noce che da sola nel sacco non fa rumore, aggiungo che secondo un sondaggio realizzato dalla BBC in occasione delle elezioni del maggio 2005 in Gran Bretagna, il 60 per cento degli elettori considerava il look il requisito principale dei candidati. E che tutto questo, inteso come modello sociale che considera la ricchezza come il fondamentale se non unico simbolo di riuscita sta raggiungendo nel nostro Paese livelli particolarmente insopportabili.

In un Paese in cui chi indovina il numero di fagioli o di lenticchie contenuti in un vasetto, sceglie il pacco giusto e riuscire a difenderlo fino alla fine, chi è ricco, in forma, senza una ruga, è considerato “per questo” una persona di successo più di chi di studia o lavora, come direbbe Eduardo, non c’è proporzione.

Sì, in Italia tra lavoro e ricchezza non c’è proporzione. Basta leggere i principali settimanali e tabloid, guardare alcuni dei format televisivi di maggiore ascolto, ricordare che uno scienzato come Renato Dulbecco è noto più perché ha presentato Sanremo con Fabio Fazio che perché ha vinto il premio Nobel ed ha “allevato” nei suoi laboratori altri 4 premi Nobel.

Dite che è il prezzo inevitabile da pagare alla società dello spettacolo? Rispondo niente affatto. E aggiungo che una società meno ingiusta e più inclusiva non può fare a meno di assegnare al lavoro un punteggio elevato non solo dal versante del salario, della professionalità, dell’orario, ma anche da quello della dignità, del prestigio, della considerazione sociale di cui gode chi lavora, indipendentemente dalle mansioni che svolge e dal modello di automobile che può permettersi. Perché il lavoro non è una sorta di condanna senza valore, della quale, se solo si potesse, si farebbe volentieri a meno. Strano ma vero: il lavoro vale in quanto tale, in quanto tale permette di avere consapevolezza di sé e senso di autorealizzazione, è la vera ricchezza di una nazione. Paesi come gli Stati Uniti, il Giappone, la Cina, la Germania, con le loro mille contraddizioni, lo hanno o lo stanno imparando. E noi?

Rigore è quando arbitro fischia

Si lo so che discutere con le giovani generazioni è sempre una bella esperienza, ma vi assicuro che le iniziative di inizio mese tra Messina e Gioiosa Marea con Guglielmo Sidoti (Consulta Provinciale degli Studenti di Messina) e Teodoro Lamonica (Associazione Un’Altra Storia) sono state particolarmente belle. Vi state chiedendo perché? Presto detto. Per il tema, la legalità come bene pubblico, come rispetto delle regole. Per la partecipazione, numerosa, consapevole, attiva. Per i “pubblici” differenti, ragazze e ragazzi di 15-18 anni a Messina e di 11-13 anni a Gioiosa Marea. Per l’impegno a trovare e usare le parole giuste, quelle che meglio potessero parlare alle loro teste e ai loro cuori.

Io è da un pò di anni che ho imparato che se vuoi parlare veramente con i ragazzi devi partire da loro, da ciò che per loro è importante, da ciò che per loro vale. Per la verità non vale solo con i ragazzi, diciamo che con loro vale di più.  Fatto il primo passo, poi il secondo, quello che porta loro a provare interesse per quello che dici tu, viene molto più facile.

Dite che non si capisce? Allora vi faccio un esempio. In questo periodo all’Università siamo alla prese con Weick e il suo magnifico volume, Senso e significato nell’organizzazione. Ad un certo punto l’Autore fa dire ad uno dei suoi personaggi, l’arbitro, che le regole del gioco “non sono nulla sino a che io non le chiamo”. Mi è venuto in mente Boskov, l’allenatore della Sampdoria di Mancini e Vialli, quella della scudetto, e il suo: “Rigore è quando arbitro fischia”.

Non ci crederete, ma l’idea che le regole esistono solo se qualcuno le chiama ha funzionato alla grande; anche le ragazze e i ragazzi più piccoli hanno capito benissimo che quello che nella partita di calcio fa l’arbitro nella vita di tutti i giorni lo dobbiamo fare noi cittadini.

Proprio così, non basta che a chiamare le regole siano le istituzioni, i magistrati, i poliziotti. Occorre che tutti noi, ogni volta che vediamo una regola infranta, un diritto calpestato, reclamiamo il suo rispetto, insomma la chiamiamo.

Sì, perché come sottolinea Varchetta nella prefazione a Weick, il punto non è la posizione di “potere” dell’arbitro, ma quella di “responsabilità nei confronti di una realtà che ha contribuito a creare e di cui può e deve rispondere. Sono infatti le nostre azioni che fanno la differenza”.

Altro che arbitro.  Funziona ancora meglio nel caso dei cittadini.

Mi chiamo Pisciotta. Giuseppe Pisciotta

Giuseppe Pisciotta l’ho conosciuto un anno e mezzo fa, anche due.
Arriva un mercoledì e mi chiede del programma di sociologia dell’organizzazione. Non faccio in tempo a dirgli autori e titoli dei libri che li dice lui a me. Scusa – gli faccio -, ma se li sai già che me li chiedi a fare? Mi scusi – mi risponde -, in realtà volevo la conferma che non erano cambiati, perché questi ce li ho già, nel senso che ce li ha già mia figlia, che studia sociologia, e che l’esame con lei l’ha fatto già. Ok, allora siamo a posto – dico io-. Per la verità non ancora – mi fa lui-. In che senso, scusa? Nel senso che volevo chiederle se mi poteva dare qualche indicazione su come studiare.
Voi a un tipo così cosa avreste detto? Io gli ho detto di ripassare il mercoledì successivo intorno alle 8.30.
Il mercoledì dopo arriva in fretta, la prima ora se ne va per le indicazioni che mi aveva chiesto, dopo di che mi dice che è dell’ottobre 1954, che è studente di Scienze del Governo e dell’Amministrazione,  che ha lavorato alla Conceria IMPEL di Solofra (AV) come ragioniere responsabile di acquisti, vendite e contabilità per circa 28 anni senza fare mai un giorno di assenza. Prende fiato, poi mi racconta del cuore che non ha retto, del lento recupero, della dieta alimentare, del passaggio da 60 a 0  sigarette al giorno, dell’attività sportiva leggera ma continua. Dal 2004 sono in pensione – conclude-,  nel 2007 mi sono iscritto all’università.
Giuseppe ha fatto il suo esame, ogni tanto un incontro nei corridoi di  Fisciano, fino all’annuncio della prossima laurea triennale con una tesi su Luigi Einaudi e il federalismo in Storia delle dottrine politiche. Il 22 febbraio 2010 la seduta di laurea, con l’emozione che lo avvolge fino a paralizzarlo quando pensa ai genitori che non possono vivere questo momento assieme a lui.
Adesso Giuseppe si è iscritto alla Magistrale, a Scienze politiche, indirizzo storico, ha già fatto due esami. Professò – mi ha detto l’ultima volta che l’ho visto  -, prima correvo, avevo come l’ansia di laurearmi. Adesso invece no, adesso se non mi danno almeno 27 l’esame non me lo prendo. Non devo dimostrare niente, ma studio con piacere, e penso che anche alla nostra età –  se mi posso permettere -, possiamo reggere il confronto con i più giovani.
Posso dire che mi fa piacere pensare che anche in un paese in questo momento così “sgarrubato” come l’Italia ci sono tante persone come Giuseppe Pisciotta che non rinunciano a migliorarsi, a  imparare, a crescere? Io intanto l’ho detto. Spero faccia piacere anche a voi.

Regole, regole, regole

A La legalità come bene pubblico Il Mese ha dedicato la cover story di novembre 2009, in parte anticipando un lavoro più ampio della Fondazione Giuseppe Di Vittorio pubblicato sull’ultimo numero dello stesso anno di Quaderni di Rassegna Sindacale. La forza e la speranza delle donne contro l’illegalità è stato il messaggio con il quale l’Inca Cgil ha voluto caratterizzare l’8 marzo di quest’anno. Iniziative sulla legalità sono state promosse negli ultimi mesi dalla Cgil a Reggio Calabria, a Messina, a Reggio Emilia, solo per fare qualche esempio. Il punto non è che abbiamo visto giusto. Troppo facile. Il punto è che l’emanazione del decreto legge che ha riaperto i termini della presentazione delle liste per le elezioni regionali è un ulteriore tassello di una storia che, tra legittimo impedimento e leggi ad personam, ha come protagonista un ceto dirigente che sta facendo male all’Italia per molte ragioni, in particolare perché, come ha ricordato Marcelle Padovani, sembra ritenere che il potere e la ricchezza assicurino l’impunità.

Regole, regole, regole. Potrebbe essere la versione 2010 del “Resistere, resistere, resistere” di Francesco Saverio Borrelli. Regole per salvare l’Italia. Regole per cambiare i suoi modi di pensare, di essere, di fare.
Di fronte a fatti di questo tipo, l’azione di contrasto non può che essere forte, convinta, duratura, nel Parlamento e nel Paese. Ma siamo sicuri che basti?

È Francois Jullien (Le trasformazioni silenziose) a ricordare che l’azione, anche quando dura, è pur sempre “locale” e che è venuto il tempo di mettere in campo un processo di trasformazione globale, progressivo, in grado di compiersi nella durata.

Tornando al punto, l’idea è che, in particolare quando si parla di regole, il cambamento dura soltanto se si modificano culture, modelli di comportamento e prassi consolidate non solo tra i ceti dirigenti ma anche tra i cittadini. Fa male dirlo, ma nell’Italia di oggi l’intreccio perverso di piccole e grandi illegalità, nei e tra i ceti dirigenti e il popolo, incide in maniera significativa sulla definizione sia di chi è legittimato (il leader eletto dal popolo perciò al di sopra di tutto), sia di cosa è legittimo (le regole come impedimento). Non è solo l’esito di un processo di leaderismo esasperato sempre più difficile da contenere. È anche questione di esercizio della responsabilità a ogni livello che, per affermarsi, ha bisogno di “uomini di ferro”, di tempi lunghi e di trasformazioni profonde.

Storia di Valeria GyR, studentessa che studia

Valeria GyR è una studentessa che studia che ha la testa al proprio posto, cioé sul collo. Ad aprile 2009 consegue la laurea triennale con 110 e lode presso l’Istituto Universitario Orientale di Napoli, discutendo, in francese e in arabo, una tesi su “Creatura di Sabbia” di Tahar Ben Jelloun.
Maggio è il mese delle rose e, per Valeria, dei tentennamenti. Come tanti suoi coetanei, deve decidere se, come, dove continuare gli studi. A casa la lasciano tentennare in pace e a inizio giugno decide di continuere gli studi in Francia. Invia regolare mail di presentazione a l’Université de Provence, Aix Marseille, allega il diploma di liceo linguistico, l’elenco degli esami sostenuti con la votazione conseguita, il curriculum vitae e la lettera con la quale spiega perché intende completare i suoi studi in Francia; infine chiede, con traduzione regolarmente convalidata dal tribunale di Napoli, di essere ammessa alla specialistica.
Passa qualche settimana e l’Université de Provence comunica che, sulla base dei documenti inviati, le saranno convalidati il diploma e 120 dei 180 crediti della laurea triennale. In pratica, deve rifare il terzo anno del corso di laurea triennale.
Ma come – pensa Valeria -, e la mia laurea? Due o tre giorni ancora di riflessione, in famiglia, con le amiche, all’università, poi prenota il volo per Marsiglia.
Valeria l’ho rivista, lei a Aix io a Napoli, un paio di settimane fa. Magia? No, Skype. Un pò di chiacchiere fino alla domanda fatidica: come vanno gli studi?

Bene – la risposta -, però è molto impegnativo; bisogna studiare tanto e frequentare assiduamente, insomma è tosta. Ma non stai rifacendo il terzo anno? – insisto -. Si – conferma -; sai che se mi ammettevano alla specialistica non è detto che ce l’avrei fatta?

A me la storia di Valeria GyR suggerisce tre domande e un possibile epilogo.

Le tre domande: perché una laurea in lingue conseguita in Italia vale 2/3 di una conseguita in Francia?; perché Valeria, nonostante il meritato 110 e lode in una delle Università italiane più prestigiose nella sua disciplina, ha scelto di “ripetere” un anno pur di laurearsi in Francia?; perché le/i laureate/i più brave/i in Italia fanno fatica a tenere il passo in Francia?

Il possibile epilogo: le lauree di sabbia non servono al futuro, né dei giovani, né dell’Italia. E per favore lasciamo perdere le eccellenze. La qualità deve essere la norma, non l’eccezione.

Per un’etica della convenienza

“Un’idea | un concetto | un’idea | finché resta un’idea | è soltanto un’astrazione | se potessi mangiare un’idea | avrei fatto la mia | rivoluzione”. Ricordate? Era Giorgio Gaber che cantava la fatica di usare le parole tenendo assieme il dire con l’agire.

La parola “altro” è da questo punto di vista paradigmatica. Perché se ci si ferma al dire si possono riempire interi volumi, basti pensare alla dichiarazione dell’Unesco sulla diversità culturale come patrimonio dell’umanità o a Ryszard Kapuscinski (“l’incontro con l’altro è la più importante delle esperienze”; L’altro, Feltrinelli) e a James Hillman (“l’altro diventa il nostro prossimo precisamente attraverso il modo in cui la sua faccia ci chiama”; La forza del carattere, Adelphi) nelle pagine in cui ricordano Emmanuel Lévinas. E perché persino sul terreno del “dire” le cose non filano mai lisce come piacerebbe a noi.

Il fatto è che le parole chiamano altre parole; che con le parole formuliamo concetti e categorie di pensiero; e che le categorie di pensiero hanno bisogno di essere ri-formulate e re-interpretate.

È il punto, importante, sul quale concordano Jurgen Habermas e Jacques Derrida (Giovanna Borradori, Filosofia del Terrore, Laterza) riferendosi a concetti come “tolleranza”, “dialogo”, “sovranità”, “cosmopolitismo”, “perdono”, “diritto internazionale”, “globalizzazione”.

Per Derrida la tolleranza è il lato gentile della sovranità, il volto buono del più forte che acconsente ad accoglierti nella sua casa. È attraverso la ridefinizione dei concetti di cittadinanza, tolleranza, cosmopolitismo che si può pensare a una cittadinanza universale che non si associ a un superstato mondiale e a una sovranità nazionale che non si appiattisca su un patriottismo di spirito, di destino e si rispecchi nel rispetto per la costituzione, patrimonio comune dei cittadini. Una tolleranza che non sia paternalista, di matrice cristiana, condizionata e concessa dall’autorità superiore. Da qui l’idea di procedere oltre, verso quel concetto di ospitalità incondizionata che rappresenta a suo dire l’unico modo per avere con “l’altro” un rapporto tra eguali. Da qui la richiesta che la differenza dell’Europa sia “nel non rinchiudersi sulla propria identità e nel farsi avanti esemplarmente verso ciò che essa non è, verso l’altro capo o il capo dell’altro”.

Habermas assegna dal suo canto ai concetti e ai valori democratici propri del mondo occidentale, alla capacità intrinseca della democrazia di dare soluzione a ogni conflitto, la possibilità di risolvere le contraddizioni che caratterizzano la modernità. A suo dire la tolleranza moderna non è unilaterale e monologica come quella introdotta dall’Editto di Nantes ma, posta a base di una democrazia di eguali raccolta attorno alla propria costituzione, diventa dialogica e perfettibile.

Su un piano solo in parte diverso Thomas H. Marshall (Cittadinanza e classe sociale, Laterza) riconduce alla categoria dei diritti di cittadinanza tanto i diritti civili quanto quelli politici e quelli sociali, definendo così un vincolo stretto tra la possibilità delle persone di essere titolari di diritti e la loro appartenenza a una data comunità, mentre Luigi Ferrajoli (I fondamenti dei diritti fondamentali, Franco Angeli) mette in risalto l’antinomia tra il carattere universale dei diritti fondamentali e il loro “confinamento entro gli angusti spazi della cittadinanza statuale”. A suo avviso non possono essere la lotteria biologica e sociale, il paese o la famiglia dove ci ritroviamo a nascere e a crescere a legittimare “il nostro diritto ad avere di più”. Ma è davvero realistica l’idea di una “cittadinanza universale” che superi la dicotomia fra diritti dell’uomo e diritti del cittadino, “riconoscendo a tutti gli uomini e le donne del mondo, in quanto semplicemente persone, i medesimi diritti fondamentali”?

Si potrebbe naturalmente continuare con le parole e i loro significati, ma ci pare invece più utile sottolineare che le tante, diverse, interessanti idee di cui abbiamo detto fin qui hanno come principale comun denominatore il fatto di essere fuori moda, di non avere appeal. Le voci di dentro della società italiana sono chiare: tolleranza, ospitalità, diritti? No grazie! Le parole del consenso sono ronde, sicurezza, repressione, esplusione.

Invertire la tendenza? Difficile. Ma difficile non vuol dire impossibile.

Si potrebbe ad esempio non farne solo una questione di etica. Quando si parla di accoglienza e di ospitalità, così come di regole e di legalità o di élites e di classi dirigenti il cambiamento accade se e quando appare “conveniente”. Le persone cambiano i loro modi di dire e di agire non tanto quando il cambiamento è giusto ma quando il cambiamento conviene. Forse parte da qui Richard Sennett (L’uomo artigiano, Feltrinelli) quando scrive che oggi più che mai è necessario indagare come si può modificare o regolare il comportamento concreto piuttosto che esortare a un cambiamento di cuori. Di certo è utile partire da qui per affrontare la questione relativa alla determinazione delle condizioni, del contesto, atto a favorire tale cambiamento.

Il filosofo Francois Jullien (Pensare l’efficacia, Laterza) sottolinea a questo proposito l’importanza di puntare sui fattori portanti, di trarre profitto dal potenziale della situazione e fa l’esempio del coraggio, che l’umanesimo europeo considera una qualità umana mentre in Cina è per l’appunto pensato, come del resto il suo complementare, la pavidità, un effetto del potenziale della situazione. “Ora, se il coraggio è inteso non come una virtù, concepita da un punto di vista morale, ma come un effetto del potenziale della situazione, il generale dovrà domandarsi non se le sue truppe sono pavide o coraggiose ma come operare per spingere, o costringere, il suo esercito al coraggio”. E perché la cosa non sembri troppo “altro” rispetto al nostro contesto, ricorda Niccolò Machiavelli (Dell’arte della Guerra) che scrive di Cesare che, dopo averli circondati, comprende che per sconfiggere i germani deve offrire loro una via di fuga, poiché nella situazione di accerchiamento perfetto nel quale si trovano essi non possono che combattere con disperata furia e bellicosità.

Si parli di coraggio o si parli di accoglienza a nostro avviso è di estremo interesse il fatto che quanto più dalle virtù individuali ci si sposta sul terreno del creare e cogliere le condizioni per sfruttare il potenziale della situazione, tanto più c’è bisogno di élites e classi dirigenti all’altezza del compito, il che potrebbe suggerire qualcosa di interessante circa la peculiarità della crisi italiana.

Tornando più specificamente al punto, ancora da Sennett viene una ulteriore sollecitazione quando insiste sulla necessità di pensarci come “immigrati spinti dal caso e dal destino su un territorio che non è nostro, come stranieri in un luogo che non possiamo dominare perché non ci appartene”. Il tema di Sennett è il rapporto dell’uomo con l’ambiente, ma ancora una volta questo nesso tra “senso di spaesamento e di straniamento” e messa in moto di “pratiche concrete di cambiamento” appare di grande utilità per i nostri “eroici” tentativi di dare senso e concretezza alla cultura dell’accoglienza.

Sentirsi stranieri, cogliere il potenziale della situazione, sfruttare i fattori portanti per cambiare il nostro approccio con l’Altro. Più che un messagigo nella bottiglia, una traccia utile per future esplorazioni.

Il fabbricante di ombrelli

Per il filosofo Francois Jullien la Cina è la sola possibilità di “prendere le distanze dal pensiero da cui proveniamo, […] di interrogarlo nelle sue evidenze, in ciò che costituisce il suo impensato”. Per il giovane Davide, scuola, volley, diciottanni e un sogno a un palmo di naso, è “una moltitudine di persone – formica con poca voglia di integrazione e tanta capacità di occupare ogni spazio disponibile”. Per Pietro D., il protagonista della nostra storia, padre e marito di giorno, studente di quinta liceo la sera, è un pezzo di memoria, un ricordo della vita da artigiano in quella bottega dove la sola traccia di “modernità” era un trapano verticale, realizzato da un vecchio torniere, che girava tramite la cinghia di un motorino attaccata da un lato al trapano e dall’altro al motore di una lavatrice, il tutto bloccato su un banco in legno che aveva più di 200 anni. Gli attrezzi necessari alla rifinitura? Tutti costruiti a mano e riposti nel cassetto di un banchetto, anch’esso senza età, insieme a balene (le stecche di ombrello), pezzi di legno, cacciaviti, pinze, tronchesi, martelli piccoli e grandi. Lo sgabellino dove ci si sedeva? Un reperto “storico”, sottratto ai tedeschi negli anni dell’occupazione. In tutto erano in tre, compreso il titolare, e realizzavano, rigorosamente a mano, ombrelli costruiti su legni pregiati interi (Ginestra, Malacca, Ciliegio, Corniolo, Olmo, Castagno, Frassino, Nocciolo, Bamboo), con la punta finale in corno di bue, utilizzando insegnamenti, modi, strumenti, tecniche, tramandati da padre in figlio.
I clienti? Tutti quelli che, potendoselo permettere, avevano fatto dell’eleganza il proprio stile di vita. Cinesi compresi. Perché, sottolinea Pietro, anche se i cinesi ricchi sono “pochi”, qualche decina di milioni, sono così tanto ricchi da poter cercare in ogni prodotto qualità e particolarità. Poi racconta senza fatica dell’arrivo in bottega dei clienti cinesi, della scelta accurata dei tessuti e dei legni, delle fotografie a ciascun ombrello,  tessuto, legno, così da poter controllare, all’arrivo in Cina, l’esatta corrispondenza con quanto ordinato. 120 euro più i costi di spedizione il prezzo di ogni ombrello, che ai ricchi cinesi costa tra i 250 e i 300 euro.
La storia di Pietro pare voglia dirci che “poco” e “molto” sono avverbi quanto mai indefiniti quando si riferiscono alla Cina. E che chi ha più idee, prodotti, servizi e sistemi di qualità ha più possibilità di collocarli sui mercati mondiali, Cina compresa. Dite che dobbiamo preoccuparci?

Il Valore della legalità. Conversazione con Marcelle Padovani

Credo di aver avuto intorno ai 14 anni quando ho incrociato per la prima volta l’espressione “anomalia italiana”. Sono passati quarant’anni, sono stati abbattuti il muro di Berlino e le Twin Towers e l’anomalia è ancora tutta lì. Basta dire scudo fiscale, lodo Schifani, lodo Alfano, guardare al modo in cui se ne discute su gran parte della stampa italiana e su quella del resto del mondo per rendersene conto con una evidenza che fa male. Di più. Nell’era Berlusconi l’anomalia è come teorizzata, rivendicata. Si favoriscono gli evasori fiscali, li si premia. Si fanno leggi ad personam, si delegittimano istituzioni e poteri autonomi, si alimenta l’insofferenza verso le regole ad ogni livello. Insomma: perché la partita “cultura della legalità e rispetto delle regole” non è stata ancora vinta dalla democrazia italiana? Quale fase stiamo attraversando?

Di questo e molto altro abbiamo discusso con Marcelle Padovani (Corrispondente permanente di Nouvel Observateur in Italia, autrice di film reportages sulla mafia e di numerosi volumi, tra i quali La Sicilia come metafora, con Leonardo Sciascia, Cose di Cosa Nostra, con Giovanni Falcone, e Mafia, Mafias, uscito in Francia da poche settimane) “Le mie impressioni su questo periodo sono molto contraddittorie – argomenta la giornalista –. Se mi avesse fatto la stessa domanda qualche anno fa è probabile che le avrei risposto con più ottimismo. La cosa che trovo preoccupante è che è diventato legge sparare sulla legge e sulle regole. Quasi come se ci fosse una gara a chi la dice più grossa contro le strutture della convivenza sociale, del rispetto verso l’altro, dell’osservanza, appunto, delle regole. Credo che questo sia uno dei momenti più bui che io abbia vissuto in questo Paese.

Eppure ho vissuto in Italia altri momenti molto duri. Ricordo ad esempio i giorni del rapimento di Aldo Moro. Ricordo tanta angoscia, ma allo stesso tempo una capacità di mobilitazione e di partecipazione che ci portava a incontrarci per strada, nelle piazze, dappertutto, per parlare e confrontarsi. In quel momento lì ho realizzato che il terrorismo in Italia non sarebbe stato sconfitto dalle leggi eccezionali, che per fortuna non ci sono state, o dalla repressione, com’è accaduto ad esempio in Germania, ma dalle persone, dalle piazze, dalle fabbriche, che ebbero in quella fase un ruolo importantissimo.

Ciò che intendo dire è che in quel momento che sembrava così buio c’era una grande consapevolezza di che cos’è uno Stato, e delle ragioni per le quali uno Stato non può venire a patti con dei delinquenti travestiti da rivoluzionari rossi.

Il Mese E oggi?

Padovani Purtroppo nella sensibilità popolare non incontro più questa volontà di rispondere assieme ai grandi problemi, a volte non so nemmeno se ci sia la consapevolezza dei grandi problemi. Mi domando ad esempio se oggi l’italiano medio si interroghi sugli attacchi alla Costituzione, se la famiglia media si lamenti del fatto che l’evasione fiscale cresce, che c’è insofferenza verso tutto ciò che è diverso, che non c’è più voglia di rispettare e neanche più semplicemente di tollerare chi non la pensa come te. Penso di no, e penso che questa mancanza di sentire comune sia preoccupante.

Il Mese: Rispettare le regole è giusto, eppure il fatto che sia giusto non basta a farle rispettare. Perchè la cultura delle regole si diffonda e si traduca in pratiche c’è bisogno che i cittadini siano indotti a ritenere “conveniente” il rispettarle. Da osservatrice, “esterna” ma non troppo, delle faccende italiane, cosa pensa del fatto che il sistema Italia ad ogni livello di fatto non premia i comportamenti rispettosi delle regole?

Padovani: Più volte mi sono ritrovata a fare paragoni con la Francia: un paese dove effettivamente c’è un rispetto diffuso per la legalità, dove quel che è vietato di norma non si fa. E poiché ho avuto ed ho molte ragioni per amare questo paese, mi sono altrettanto spesso chiesta perchè in Francia sì e qui noi.

La prima risposta che mi sono data è che in Francia il cittadino si confronta con un’amministrazione che lo rispetta. Se una persona ha un problema con il fisco può fissare un appuntamento, parlare con il personale preposto, chiedere chiarimenti, definire modalità di pagamento, discutere le scadenze, ecc… Quello che intendo dire è che c’è un modo dell’amministrazione di accogliere i cittadini che favorisce molto l’adozione di comportamenti virtuosi da parte di questi ultimi. In Italia invece l’amministrazione assomiglia troppo spesso a una macchina ideata per romperti le ossa, per complicarti la vita. È un’amministrazione arrogante, rigida nella forma ma non nella sostanza.

Secondo me, dunque, c’è il senso dello Stato proprio perché, mi si passi il “bisticcio” c’è lo Stato che è nato con Carlo Magno nell’800 e che gradualmente si è radicato e ha allargato la sua influenza, anche territoriale. Uno Stato che ha fatto della centralizzazione una risorsa importante per sviluppare tra i cittadini il senso dell’interesse collettivo.

Il Mese: Alla connessione forte tra centralizzazione e senso dell’interesse collettivo che lei suggerisce si potrebbe di primo acchito obiettare che ci sono numerosi esempi che dimostrano il contrario, valga per tutti quello della Germania.

Padovani: Non conosco bene l’esempio tedesco, ma credo si possa dire che ogni Land in Germania amministra come se fosse uno Stato. In ogni caso quello che mi pare davvero controproducente è il fatto che ci siano tante leggi diverse sullo stesso argomento da parte delle Regioni, delle Province, dei Comuni. In Italia accade spesso che Regioni ed enti locali si sovrappongano tra loro e con lo Stato, si muovano nello stesso spazio, cosicché non si capisce mai bene chi è responsabile di una cosa e chi no e tutto questo finisce, da un lato per determinare disordine, scoraggiamento, e dall’altro per rappresentare una spinta oggettiva a risolvere tutto con il contatto personale, con la richiesta del favore, con l’incitamento a corrompere. Tutto questo è avvilente, per la pubblica amministrazione e, ancora di più, per il cittadino.

Il Mese Ha mai pensato che in Italia fosse possibile una strada diversa?

Padovani Sì. Ricordo un episodio che mi colpì molto. Era il 1973, ero da poco arrivata in Italia e diretta a Fiumicino, con l’autobus, da Roma Termini. A un certo punto mi accorsi che stavamo andando al paese e non all’aeroporto. Mi prese l’angoscia, parlavo male l’italiano, chiesi all’autista e questi mi spiegò che avevo sbagliato mezzo. Ma non si fermò qui, perché, cosa da non credere, mi portò all’aeroporto con l’autobus. La grande generosità degli italiani, la loro innata capacità di improvvisare, di trovare delle soluzioni, di mettersi a livello dei problemi delle persone mi aveva fatto immaginare che le regole potessero non essere indispensabili. È una “fantasia” che mi è passata molto presto.

Per tornare allo Stato che non c’è, ancora negli anni 70 una signora mi ha raccontato una storia che per me ha dell’incredibile. Questa signora si era trovata in difficoltà e aveva dovuto portare tutti i suoi gioielli al Monte di pietà della sua città, Palermo. L’anno dopo, quando va a pagare e ritirare i gioielli, arriva con 20 minuti di ritardo rispetto alla scadenza stabilita e l’impiegato le spiega che non può più riscattare i suoi gioielli: in pratica li ha persi. La signora in questione si dispera, torna a casa, piange, si sfoga con che le dice vieni, andiamo da don Carlo. Don Carlo è un mafioso, si fa raccontare i fatti, poi dice alla signora di tornare il giorno dopo. L’indomani lei torna, lui le dà i gioielli e lei paga soltanto quello che avrebbe dovuto pagare all’amministrazione per recuperarli. Ecco, la mia domanda è: è “intelligente” uno Stato che si comporta così con i suoi cittadini?

Il Mese: Proviamo a guardarla anche da un’altro lato. Peter Schneider, nel pieno del ciclone tangentopoli, siamo nei primi anni 90, scrive su Micromega: “Quando un popolo si sceglie per decenni dei capi corrotti, quel popolo non può diventare automaticamente pulito mandando a casa o in galera i suoi capi. I comportamenti assimilati durante il periodo della grande corruzione non si estinguono di colpo. Né possono essere aboliti per decreto. […] Gli italiani non possono ingannare sé stessi e pensare di essere immuni dalla corruzione”.

A quasi 20 anni di distanza alcune cose sono cambiate, molte altre, purtroppo, no. Perché questo deficit di ruolo della classe dirigente?

Padovani: La classe dirigente è attualmente al potere in Italia è totalmente irresponsabile. Quando un presidente del Consiglio dichiara che tra un po’ ci saranno il 50 per cento degli italiani che non pagheranno il canone Rai, legittimamente tale dichiarazione viene letta come un incitamento a non pagare.

Un ceto dirigente che dà questo esempio, che pensa che la ricchezza ti metta al di sopra della legge e delle regole può fare molto male al proprio Paese. Bisogna auspicare che il primo tempo, quello dell’accondiscendenza, persino dell’ammirazione, lasci al più presto il posto al secondo, quello in cui si chiede conto dell’operato delle classi dirigenti, ad ogni livello. Da questo punto di vista ritengo sia indispensabile salvaguardare la capacità della magistratura di essere autonoma, di svolgere il suo compito con imparzialità e garanzia di eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge. Mettere in discussione questa autonomia significa oggi condannare l’Italia a un ritorno al medioevo.

Il Mese: Quando nel 2002 lessi “Dodici anni dopo”, la prefazione alla nuova edizione di Cose di cosa nostra, mi piacque molto quella sua immagine del virus della legalità che si propaga. Ancora oggi resto convinto che l’esercizio consapevole della responsabilità da parte dei cittadini sia la risposta più efficace e credibile alla crisi identitaria, legale, morale che attraversa il Paese. Ma se la convinzione è rimasta, nutro molti più dubbi sulla possibilità di vederla realizzata. Lei oggi scriverebbe ancora che il virus della legalità in Italia si sta diffondendo?

Padovani: Oggi risponderei che il virus della legalità per il momento si è addormentato, ma che prima o poi si risveglierà. Vorrei spiegarmi con due esempi. Il primo si riferisce al 1976, anno in cui ci fu un lungo sciopero dei netturbini romani. Era luglio, faceva un caldo atroce e a quel tempo abitavo al primo piano in un palazzo qui a Trastevere. Sotto le finestre i cumuli di “monnezza”, come si dice a Roma, si facevano sempre più alti e naturalmente, con il caldo, l’odore diventava ogni ora più nauseabondo. Mi chiedevo come fosse possibile tutto questo quando un giorno vidi arrivare dei giovani con dei piccoli carri che cominciarono a raccogliere l’immondizia. Naturalmente scesi e chiesi chi fossero; la risposta fu “Siamo del Partito Comunista Italiano, apparteniamo alla sezione qui dietro”. Segnalai l’episodio in un mio articolo per indicare quella che per me era una vera cultura della legalità, un esempio virtuoso di governo alternativo del territorio.

Il secondo episodio si riferisce ai giorni nostri. Oggi abito in uno stabile popolare dove vivono una trentina di famiglie e dove è stata introdotta la raccolta differenziata. Ebbene è una battaglia continua quella che combatto assieme ad altre due o tre persone affinché si utilizzino nel modo giusto i vari contenitori. In particolare sembra sia un problema comprendere che dove c’è la spazzatura biodegradabile non si deve mettere la plastica. Ogni giorno devo togliere dal contenitore della biodegrabile i sacchetti di plastica, che non lo sono, li devo svuotare dal loro contenuto e mettere nel contenitore che raccoglie plastica, vetro, metallo. Ecco, direi che questa “piccola” grande differenza tra il 1976 e 2009 segnala qualcosa di significativo circa il decadimento dell’attenzione e della passione per la legalità.

Acqaiuolo, l’acqua è fresca? Manco ‘a neve

La rivoluzione non è un pranzo di gala neppure quando è digitale. Si può emergere e stare dalla parte dei vincenti. Ma ci si può anche ritrovare emarginati, esclusi, iscritti a forza nel club sempre affollato degli svantaggiati.

Contano le opportunità. L’esperienza. Il genio. Il caso. L’intuito. Quello che ad esempio anche al tempo dei nuovi media non ti fa perdere di vista l’importanza della selezione e della completezza delle fonti. Non solo perché una società può dirsi a giusta ragione pluralista proprio se e in quanto può disporre di visioni e punti di vista alternativi. O perché oggi più che mai il potere di informare si interseca saldamente con il potere di formare. Ma perché se si sottovaluta questo aspetto si finisce come i troppi investitori che per decidere quali titoli comprare si sono accontentati delle indicazioni delle società di rating che per fare le loro costose analisi vengono pagate dalle emittenti titoli che pagano più volentieri le società di rating che considerano i loro titoli ottimi invece che quelle che li giudicano medio o bassi.

Per sottolineare che una domanda veniva fatta ad un interlocutore interessato e dunque non attendibile a Napoli da ragazzi si usava dire “Acquaiuolo, l’acqua è fresca? Manco ’a neve”. Oggi si potrebbe definirla anche una sorta di antesignana definizione di una malattia sempre più diffusa, il conflitto di interessi.

Dite che è ora di accorgersi che tutto il mondo è paese? Niente affatto. Perché nei paesi normali quando ci si accorge di essere malati non si discetta di né di persecuzioni né di investiture popolari. Semplicemente ci si cura. Scusate se è poco.

Un’agorà nel cuore di Napoli

“Qui non c’è opinione pubblica. E allora poco importa che questo quartiere rimanga imbalsamato. L’essenziale è che rimanga una sacca di voti eccezionale, una volta per l’uno, un’altra volta per l’altro candidato. Qui ci sono i deboli, e nella realtà chiunque sia al potere, di questi deboli non si ricorda più”.

Sono passati 5 anni da quando don Antonio Loffredo, parroco del Rione Sanità, mi ha detto queste parole. In cinque anni sono successe tante cose. Per lui, ma di questo a don Antonio non piace che si parli, e per il quartiere. Ad esempio nell’ottobre 2005 è nata l’associazione Onlus “L’Altra Napoli”, creata da “un gruppo di napoletani dentro, residenti e non, che condivide l’amore per la propria città natale, un forte sentimento di riscossa e la voglia di rimboccarsi le maniche”; perchè “Napoli è una città che sa dare tanto, tutto, e quando chiede aiuto non può essere abbandonata al suo destino”; perché “di questa città sul golfo potremmo lavarcene le mani, ma ci resterebbe sopra il sale”. Due anni fa il progetto “Rione Sanità ieri oggi e domani”. A settembre di quest’anno il tour “Miglio Sacro”, dalla Basilica di San Gennaro extra moenia alla chiesa di Santa Maria alla Sanità, fino alle catacombe di San Gaudioso, un percorso nella cultura per riscoprire tesori e umanità fuori dal comune.

La morale della storia? Occorre dare valore all’agorà greca, arrestare la sua privatizzazione e spoliticizzazione. È importante riprendere il discorso sul bene comune. Non rinunciare a costruire pubbliche opinioni che adottano propri criteri autonomi di giudizio intorno a ciò che è giusto e ciò che vale nell’ambito dello spazio pubblico.

Sembra facile, in particolare nell’era digitale, dove per certi versi è più difficoltoso definire il luogo dove le forze in campo si confrontano, dove avviene lo scontro politico, e dove si fa più fatica ad identificare chi sono i dominanti e chi i dominati, dove sono, in altre parole, i veri centri di gestione del potere.

La presenza delle spine non deve però farci scordare della rosa.

Alla presentazione del Miglio Sacro don Antonio Loffredo ha detto, riferendosi alla Sanità, che “questo quartiere ha fretta, questi ragazzi hanno fretta”. Fretta di liberarsi dai luoghi comuni. Fretta di formare una loro pubblica opinione. Fretta di farla contare. Fretta di comunicarla al mondo. E questo al tempo dei nuovi media è sicuramente molto più facile.

Riparare è giusto

Non so voi, ma io per molti anni ho pensato che l’ideatrice del principio di riparazione fosse mia madre. Come tantissime altre mamme in quei “favolosi” anni 60, per lei il rattoppo, l’aggiusto, la riparazione erano una filosofia prima ancora che una necessità. Più avanti sarebbe venuto il tempo dell’usa e getta ma nel frattempo molti di noi, grazie ai sacrifici dei papà operai che volevano il figlio dottore, avevano conosciuto il grande John Rawls e imparato che le ineguaglianze sono giustificate soltanto se producono benefici compensativi per i componenti meno avvantaggiati della società e sono collegate a cariche e posizioni aperte a tutti (principio di riparazione).  E che per questo sarebbe necessario che i decisori decidano come se non avesser nessuna conoscenza (velo di ignoranza) circa la razza, il genere, il censo, ecc. che ci sono stati assegnati dalla lotteria sociale.

Pura teoria? Niente affatto. In particolare se si usa “teorico” come sinonimo di “astratto”. Nella realtà senza il principio di riparazione la “società dell’accesso”, così tanto richiamata in letteratura, nei documenti ufficiali dei governi nazionali ed europei e così poco perseguita nella concreta attività dei governi, semplicemente non esiste.

Che fare allora? Naturalmente tante cose. Qui c’è lo spazio per una: creare le condizioni affinchè tutti possano imparare. Sempre. Perché è questo il modo più realistico per evitare che chi non per propria colpa si ritrova indietro veda aumentare la distanza che lo separa da chi è integrato. E perché il sapere trasforma il lavoro, i modi di vivere, i modi di essere e di comunicare.

Come farlo? Ad esempio facendo della formazione continua il principale strumento di gestione delle trasformazioni del lavoro (suggerisce qualcosa il fatto che il Rapporto “The universum graduate survey 2007”, questionario a risposta multipla, indica che il 61% dei laureati europei considerano la “formazione e l’aggiornamento gratuiti” il migliore benefit?). Favorendo  la costruzione di legami sociali fondati sugli scambi di conoscenza. Dando valore al merito. Facendo dei processi di apprendimento lungo tutto il corso della vita l’asse strategico attorno al quale ripensare il modello sociale nei paesi cosiddetti avanzati.

Cose da non credere. Migliorando le abilità e le capacitazioni delle persone crescerebbero anche la conoscenza capitalizzata e la competitività, l’economia e le imprese. Provare per credere.

B come Benni. No, come Bugia

Sono trascorsi undici anni, sembra tre vite fa, da quando assieme al mio amico Mimmo abbiamo chiacchierato con Stefano Benni di pescatori, bugie, immaginazione. Quelli che potete leggere di seguito sono alcuni passi scelti. L’edizione integrale la trovate qui.

“I pescatori sono dei bugiardi architettonici, hanno tutta una struttura della bugia. Ho coniato apposta per loro questa famosa legge del coefficiente di retrodilatazione del pesce narrato: quando un racconto comincia il pesce è due metri, ogni minuto che passa il pesce si restringe di qualche centimetro e alla fine si ottiene un pesce di un metro. A questo punto si divide per due e quella è la reale lunghezza del pesce. È una metafora dell’immaginazione.
“Nell’immaginazione ci sono due mostri. Uno è l’Aleph. Ognuno partecipa all’immaginazione di tutti, legge libri che altri hanno scritto, ed è bellissimo poter partecipare a dei sogni che appartengono a tutti. Poi c’è l’unicità, che non è separatezza e che vuole dire che se io ti chiedo qual è il tuo Pinocchio, qual è la tua Alice nel Paese delle meraviglie, qual è il tuo Don Chisciotte, so che questo è diverso dal mio e che in quanto tale va rispettato.
“Non dobbiamo avere tutti, come fa credere la televisione, le stesse tre o quattro figure in testa. L’unicità della propria immaginazione è assolutamente un diritto dovere perché è qualcosa che ha che fare con la personalità, la capacità di scegliere, con l’autonomia come scelta culturale. E questo non coincide, tranne che in casi rari di snobismo, con una separatezza dagli altri. L’immaginazione o è nutrita dall’Aleph di tutti gli altri o si immiserisce.
“Sulla bugia mi piace ricordare un’altra cosa: gli unici che sembra non debbano dire bugie sono i bambini, e ciò la dice lunga sul fatto che la bugia è un fatto di autorità. I bambini non possono dire bugie, devono dire la verità! Poi, quando sei grande, Previti, Clinton [anno 1998, ndr …] più che bugiardo sei [considerato] furbo, astuto. Quando la bugia è “produttiva” in qualche modo è accettata: quello che ci spaventa nella bugia del bambino è l’idea che non ci dica la verità, che non riconosca la nostra autorità”.

Tollerante. Anzi no, ospitale

Ottobre 1912. Relazione dell’Ispettorato per l’immigrazione del Congresso degli Stati Uniti sugli immigrati italiani: “Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Non amano l’acqua, molti di loro puzzano perchè tengono lo stesso vestito per molte settimane. [ … ] I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel nostro paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, attività criminali”.

Marzo 2009. L’azienda dove lavora Emilia continua a crescere e a Brescia la sua esperienza può essere di grande aiuto. Due settimane di lavoro intenso. Tanti stimoli. Saperi e idee con le quali confrontarsi.
Accade una sera. I due giovani colleghi che parlano di “slavi” come di diavoli venuti su dalle più profonde viscere della terra. Emilia sente i muscoli tendersi. Nel suo lessico “slavo” uguale persona di razza inferiore, sporca, che ruba e violenta, semplicemente non esiste. È lì pronta allo scatto quando uno dei ragazzi le dice “a proposito, tu sei di Napoli, ma voi l’acqua ce l’avete?”. Starà scherzando? Farà sul serio? Talvolta è difficile rassegnarsi al peggio. “Non ti sarai mica offesa?, pensavamo fosse come in Sicilia dove spesso l’acqua non c’è” insiste l’altro. Non c’è dubbio. Fanno sul serio. Cetto La Qualunque direbbe “non vi sputo se no vi profumo”. Virgilio “non ti curar di lor ma guarda e passa”. Emilia di norma se li mangerebbe vivi. Questa volta no. L’amarezza è troppa. Non trova le parole. Si ritrova vinta dal silenzio.

Giugno 2009. Il mio amico Antonio Riolo mi invia la mail che racconta della relazione che mi ricorda la storia di Emilia D. Troppe volte ritornano, mi viene tristemente da pensare. Mi soccorre Derrida, la sua idea di chiedere all’Europa di non fermarsi alla tolleranza (il lato gentile della sovranità, il volto buono del più forte che acconsente ad accoglierti nella “sua” casa) e di procedere verso quell’ospitalità incondizionata che rappresenta a suo dire l’unico modo per avere con “l’altro” un rapporto tra eguali. Il suo mi sembra un grido di speranza e di responsabilità. La speranza di un’Europa ancora capace di sognare. La responsabilità di fare ciascuno ogni giorno qualcosa affinché il sogno, centimetro dopo centimetro, diventi realtà.

Partecipare è giusto

Sulle strade della democrazia le scorciatoie davvero non esistono, in particolar modo quando le aspettative di futuro sembrano restringersi piuttosto che ampliarsi. Sta di fatto che mai come in questa fase l’esercizio della cittadinanza richiede responsabilità, impegno, continuità, coerenza, rispetto per le regole. Al tempo della modernità liquida non basta essere cittadini in sé, ma bisogna essere, sentirsi, diventare, cittadini per sé, possedere cioè una concezione e una consapevolezza alta dei diritti e dei doveri della cittadinanza. Proprio così. Se, come sostiene Bauman, “un punto possibile di approdo può essere quello di tornare a dare valore all’agorà greca, arrestando la sua privatizzazione e spoliticizzazione e riprendendo il discorso sul bene comune”, un primo passo nella direzione giusta è quello che, con il sostegno delle nostre parole e delle nostre azioni, ci consente un esercizio di responsabilità. E ciò suggerisce probabilmente qualcosa di importante circa la necessità di rendere ragionevole, percorribile, interessante, motivante, conveniente, la scelta di partecipare.
Fare le cose per bene perché è così che si fa; non tirarsi indietro; rinunciare ad ogni alibi o giustificazione di carattere culturale, economico, sociale; rispettare sempre e comunque, a prescindere, le regole: non è più solo una questione di sensibilità, di solidarietà, di civiltà, è una questione di razionalità, di convenienza, di interesse.
L’interesse del fornaio di Smith, che ci permette di trovare il pane caldo ogni mattina.
L’interesse dell’Ulisse Shakespeariano consapevole che “nessuno è padrone di nessuna cosa, per quanta consistenza sia in lui o per mezzo di lui, finché delle sue doti non faccia partecipi gli altri, né può da sé farsene alcuna idea, finché non le veda riflesse nell’applauso che le propaga”. L’interesse di chi non intende fare a meno dello streben, l’agire e tendere alla meta, che consente a Faust di salvarsi. L’interesse a ripristinare il dialogo, nel senso che abbiamo ereditto da Hans George Gadamer, per il quale “dialogare significa varcare una distanza, riconoscere l’altro nella sua irriducibile alterità per incontrarlo e comprenderlo”. L’interesse a farlo qui, nella ricca fetta di mondo nella quale viviamo. Ora, mentre fuori dalle nostre finestre le cose del mondo ci appaiono sempre più interdipendenti e globali.

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Fine aprile 2009. Sera. Cerco di sapere qualcosa di più su Brolo, il comune dove sono stato chiamato a partecipare, per conto della Fondazione Giuseppe Di Vittorio, all’iniziativa, promossa dal Sindaco Salvo Messina e dal consiglio comunale con la partecipazione attiva del sindacato, “1° Maggio 2009. Una festa tanto attesa”.
In casi come questi Wikipedia si rivela più utile che mai. La pagina dedicata a Brolo comincia così: “Brolo (Brolu in siciliano) è un comune di 5.646 abitanti della provincia di Messina”. Ed è così che il piccolo comune siciliano entra ufficialmente a far parte della mia geografia.
Perché vi racconto tutto questo?
Perchè quello di Brolo è stato un 1° Maggio particolare.  L’occasione da un lato per ricordare e per così dire “riabilitare”, con tanto di “revisione” degli atti processuali e di consegna agli eredi di pergamena, i quindici operai che nel 1921 vennero ingiustamente condannati per la loro partecipazione allo sciopero contro il licenziamento di un giovane operaio, finito tragicamente con l’uccisione di una bambina di 10 anni, Angela Barà; dall’altro per connettere l’importanza del lavoro, il suo valore, in una giornata emblematica come il 1 Maggio, ad un atto di riappropriazione collettiva di un pezzo della propria memoria e della propria storia.
Questione di identità. Di valorizzazione di quella risorsa preziosa che ci permette di sapere chi siamo. Questione di cerchie di condivisione. Di valorizzazione dei contesti nei quali ci riconosciamo con altri e ci sentiamo in buona compagnia.
Identità e condivisione che emergono forte dalla discussione, dalla demo di un possibile film di Italo Zeus, dalla bellissima poesia  in siciliano che il consigliere Enzo Avena ha scritto per ricordare quei fatti.
L’aspetto ancora più interessante è che per Brolo tutto questo non è un episodio ma fa parte di un progetto politico che punta molto sul rapporto tra memoria e futuro.
Nasce così l’idea di istituire una Biblioteca Multimediale, diretta in primo luogo ai più giovani, e di intitolarla a Rita Adria. Nasce da qui il progetto “Io Ci Sono”, che a partire dall’11 maggio intende “fermare” in una grande istantanea tutti le facce e dunque le storie dei brolesi residenti e di pubblicare poi le foto in un libro che il Sindaco Messina ha voluto definire la prima grande novità editoriale del 2010.
Brolo. Dove facebook diventa realtà.

Fermate il tempo, voglio scendere

Ebbene sì. Il tempo inafferrabile, che è la misura di tutte le cose, che tutto toglie e tutto dà, non è stato e non è sempre lo stesso tempo né dal punto di vista scientifico, né da quello filosofico, né, tanto meno, da quello sociale.

Basta pensare ad Albert Einstein e alle sue teorie della relatività ristretta e della relatività generale per rendersene conto. O anche ai 40 anni e poco più trascorsi da quando, era il 1967, nel corso della tredicesima Conferenza Generale dei Pesi e delle Misure, si è convenuto che un secondo è un intervallo di tempo che contiene 9.192.631.770 periodi della radiazione corrispondente alla transizione tra i due livelli iperfini dello stato fondamentale dell’atomo di cesio 133. O ancora al fatto che il tempo dei romani non è lo stesso tempo di Benedetto da Norcia, quello dei contadini medioevali non è lo stesso dei lavoratori dell’industria tessile inglese del diciannovesimo secolo, così come quello scandito dall’alternarsi del giorno e della notte non è lo dell’orologio a molla da taschino e poi da polso.

Perché vi raccontiamo tutto questo? Perché produce effetti sulle nostre vite, in particolar modo in questa fase nella quale i cambiamenti sono più veloci e radicali e il modello sociale fondato sulla stabilità – dei valori, delle istituzioni, dei rapporti sociali e umani – vive una profonda crisi.

Viviamo il tempo dei senza tempo. In cui non basta fare presto. Bisogna essere veloci. A prescindere. Sempre di più. A ogni età.

Hai già 6 anni? La scuola e i compiti, tutti i giorni; sport, teatro o ballo, due o tre volte a settimana; l’appuntamento col dentista per registrare la macchinetta il mercoledì; il cinema o la festa di compleanno di qualche compagno di classe il sabato; la domenica col papà.

Correre, correre, correre ancora. Per andare dove?

In una bellissima storia di Dylan Dog, il fumetto culto delle generazioni post Tex Willer, l’indagatore dell’incubo si trova alle prese con una categoria molto speciale di morti viventi. Diversamente dai loro colleghi dei film dell’orrore, canonicamente assettati di vendetta e di sangue, gli inquilini del cimitero di Lowhill ritornano alla vita semplicemente perché intendono recuperare tempo, quello che non hanno speso bene nel corso della loro vita, impegnati come erano a correre avanti e indietro, giorno dopo giorno, come forsennati.

E se provassimo a scendere alla fermata prima?

Un Presidente chiamato cavallo

Ci vorranno poco più di 4 anni. Quelli necessari affinché gli abitanti di Proxima Centauri, la stella più vicina al Sole, da cui dista per l’appunto 4,2 anni luce, possano leggere, grazie ai lori potentissimi supercannocchiali atermici intelligenti, i commenti seguiti alla consultazione elettorale per l’elezione del Presidente dell’isola culla della civiltà nuragica (da Nuraghes, torri in pietra di forma tronco conica risalenti al II millennio a.C.).

Di certo non rimarranno sorpresi. Loro hanno un altro modo di valutare le cose e di misurare il tempo. E poi di quel curioso Paese a forma di stivale sanno praticamente tutto. A scuola i ragazzi ne studiano la storia e la cultura e i musei sono pieni di opere d’arte che riproducono fedelmente i capolavori di Leonardo, Michelangelo, Raffaello. Che ad un certo punto ci sia stato quel Gaio Giulio Cesare Germanico, come si chiamava, Caligola, sì, lui, il terzo imperatore di Roma, quello che tra le tante stravaganze pare avesse eletto Senatore un cavallo, in fondo cosa importa. Non è stato mica l’unico scellerato comparso sulla Terra. Anche a considerarne solo il pezzetto chiamato Europa che dire di Hitler e Stalin, tipacci che al confronto Caligola è quasi un’educanda.

Eppure c’è chi giura di averli visti corrucciati. A causa di quello strano ometto che imperversa nelle Tv dispensando ottimismo a piene mani anche nelle situazioni più improbabili. Non è particolarmente importante, né lo è il suo paese. Non è neanche particolarmente alto, nonostante una comprovata abilità con tacchi e scalini. Non è particolarmente giovane o bello, nonostante il disperato feeling con il lifting. Eppure piace. Vince. Convince. Dove arriva lui tutto diventa torbido. Indistinto. Si omogeinizza. Si confonde. L’opposizione? Sbiadisce. Si smacchia. Sparisce. Nonostante laser e supercannocchiali.

Facciamo un esempio? Nell’isola dei Nuraghes lo strano ometto è riuscito a far eleggere un Signor N. N come Nessuno. Senza che nessuno si sia scandalizzato. Anzi. In molti l’hanno considerata la prova provata della sua potenza.

A Proxima Centauri ancora non lo sanno. Ma hanno deciso di fare del 2010 l’anno di George Orwell. La Fattoria degli Animali al posto della Divina Commedia. 1984 invece del Don Chisciotte. Non è che ci siano pericoli. Ma è sempre meglio ricordare.

Lo straniero

“Con questa faccia da straniero sono soltanto un uomo vero anche se a voi non sembrerà”. Il verso è di Georges Moustaki. L’anno il 1969.  “Lo straniero” il titolo della canzone, traduzione niente affatto letterale di “Le Meteque”,  primo posto nella Hit parade italiana, oltre 500 mila copie vendute in Francia.

Quello che non tutti sanno è che l’idea della canzone nasce come risposta del cantautore greco naturalizzato francese a una signora che aveva la pessima abitudine di troncare le loro conversazioni, quando le opinioni di Georges non le piacevano, con un antipatico tendente al razzista “tais-toi, tu es un métèque” (taci tu, tu sei un meticcio).

Le ragioni per le quali vi raccontiamo tutto questo sono solo in parte evidenti. Evidente, anche solo a leggere le cronache, è che la banalità del male si annida dappertutto, va contrastata colpo su colpo; che lo straniero non deve avere necessariamente la pelle nera, gialla o rossa; che ci si può sentire stranieri anche vivendo da oltre 20 anni in una civilissima città del Centro Nord, come nel caso di un dirigente della locale Camera del Lavoro che in un bar del centro si è sentito dire, in risposta ad un parere espresso sul tema immigrati e sicurezza, “tu non puoi parlare perché sei del Sud”.

Meno evidente è l’idea che, aldilà dei nostri bisogni di semplificazione quotidiana, di segregazone, di differenziazione, occorrerà immaginarci come “immigrati spinti dal caso o dal destino su un territorio che non è il nostro, come stranieri in un luogo che non possiamo dominare perché non ci appartiene”, come scrive Richard Sennett nel prologo de “L’uomo artigiano” (Feltrinelli 2008), per cambiare l’approccio con le limitate risorse del mondo e migliorare il nostro futuro.

Ma forse si può andare ancora più là. Fino a incrociare Levinas e l’idea che “l’origine dell’esistenza etica è la faccia dell’altro, con la sua richiesta di risposta; l’altro diventa il mio prossimo precisamente attraverso il modo in cui la sua faccia mi chiama”.

Io, tu, lui, noi. Con queste facce da straniero.

Anno nuovo. Elogio del vecchio

Napoli. Non solo Forcella, i Quartieri Spagnoli, Secondigliano. Anche Bagnoli. Antignano al Vomero. I Calmaldoli. Se metti per una volta da parte i problemi, anche solo come augurio per il nuovo anno, e vai in cerca di facce e voci quotidiane, ti potrà capitare di incrociare la signora che si complimenta con la giovane mamma ’e rimpetto (di fronte) dicendole “guarda a stu criaturo, me pare nu viecchio”. Dite che Napoli è una città nel bene e nel male particolare? Vero. Ma nel caso specifico non pertinente. A Milano, a Roma o a Palermo cambierebbe il dialetto ma non la sostanza. E a Londra al mio amico Fabrizio chiedono How old is he quando vogliono sapere l’età del suo Luca. E lui, ormai londinese provetto, risponde He is five years old. Proprio così. È vecchio di cinque anni.

Non ci siamo abituati eppure è vero: non è affatto inevitabile usare il termine vecchio come sinonimo di decrepito, logoro, inutile, in disuso, prossimo alla fine. Vecchio è anche ciò che dura e per questo ha valore, come dimostra il nostro interesse a visitare vecchie città, a custodire vecchi volumi, ad ascoltare vecchi long playing che girano su vecchi giradischi che si pensava sconfitti per sempre dall’avvento dei compact disc. Da vecchi, come racconta Hillman (La forza del carattere, Adelphi), portiamo a compimento il nostro carattere e  realizziamo il nostro destino. Se ancora non basta è utile ricordare che vecchio non è necessariamente il contrario di nuovo e che ciò che è nuovo non è per ciò stesso bello, desiderabile, positivo né una promessa “a prescindere” di   esiti migliori di quelli precedenti. La frequenza con la quale vengono dati nomi nuovi a contenitori, concezioni e modi di fare politica in realtà assolutamente tradizionali suggerisce a questo proposito qualcosa di significativo. Ne aveva scritto Sartori un pò di anni fa mettendo in guardia dall’insorgente novitismo, dalla ricerca ossessiva del nuovo ad ogni costo.

Fermiamo il mondo voglio scendere? Niente affatto. Si tratta piuttosto di dare valore alle cose più che ai loro nomi. Di usare le parole nel modo giusto per dare più senso e significato alle nostre esistenze. Di vivere vite con più radici, più carattere, più relazioni e dunque più futuro.

Che senso che fa

Per chi oggi ha venti anni è difficile persino crederlo. Ma i nostri nonni dovevano fare per forza un nodo al fazzoletto quando avevano qualche incombenza, lavoro, appuntamento da non dimenticare. I post-it sarebbero stati “inventati” solo molti decenni dopo. Cazzuole, zappe,  chiavi semplici e doppie, a becco, ad anello, combinate, a tubo, a bussola, regolabili, snodate, a stella erano d’uso assai più comune delle penne. E coloro che erano soliti scrivere su un pezzo di carta “non dimenticare di comprare il pane” erano decisamente una minoranza. Poi arrivò László József Bíró, che osservando la scia lasciata da un pallone che continuava la sua corsa dopo essere finito in una pozzanghera ebbe l’idea della penna che ha cambiato il rapporto tra scrittura e popolo. Solo nel 1943 László József riuscirà a brevettare la biro (tra i primi a denominarla in questo modo sarà il grande Italo Calvino), ma gli elevati costi di produzione porteranno lui e il fratello György, che si era occupato della giusta viscosità dell’inchiostro (questione poi risolta grazie a Andor Goy), a vendere il brevetto al barone francese Marcel Bich. Sarà lui ad abbattere i costi del 90%, a presentare, siamo ormai nel 1945, la nuova penna, a commercializzarla in tutto il mondo e a diventare ricchissimo.
Come spesso accade a coloro ai quali la storia riserva la parte dei buoni, László morì povero a Buenos Aires il 24 novembre 1985; in compenso ancora oggi il 29 settembre, giorno del suo compleanno, in Argentina si festeggia il giorno degli inventori.
La morale della storia? Con la seconda metà del secolo breve la penna entra stabilmente a far parte degli utensili di casa. Finchè arriva Altair 8800 e comincia  l’era di sua pervasività il computer, dei telefoni portatili, dei dispositivi senza fili.
Un bip per ogni occasione. SMS, chiamata, videochiamata, mail, Facebook, Skype, Twitter. Cambiano i modi di comunicare e con essi cambiano i nostri modi di attribuire senso e significato, le nostre risposte alle domande circa chi siamo, ciò che c’è, ciò che vale. Questioni di senso. Alle quali dedicheremo la nostra attenzione dal prossimo Mese.

Il sogno di Obama. E di Crichton.

5 novembre 2008. Chicago. USA. A cantare Sweet home Chicago non sono mai stati così in tanti. Neanche al tempo dei Fleetwood Mac, di Eric Clapton, dei Blues Brothers. La festa coinvolge milioni di persone in tutto il mondo. Barack Obama è il nuovo presidente degli Stati Uniti. Le attese sono tante. In che misura saranno soddisfatte sarà il tempo a dirlo. Ma per intanto è tornata la storia con la esse maiuscola. Scusate se è poco.

5 novembre 2008. Los Angeles. USA. Muore all’età di 66 anni Michael Crichton. 150 milioni di libri venduti. Noto anche all’amico della porta affianco grazie soprattutto a Jurassic Park.

5 novembre 2008. Kobe. Giappone. Al Riken Center for Developmental Biology Teruhiko Wakayama dirige il Laboratory for Genomic Reprogramming e grazie alla pubblicazione su Pnas (Proceedings of the National Academy of the Usa) dei risultati dell’esperimento da lui diretto riesce nella non facile impresa di conquistare uno spazio sui media di tutto il mondo. Nel giorno di Obama e di Crichton.

Cosa hanno fatto di tanto importante Wakayama e il suo team? Hanno clonato un topo estraendo il dna da una cellula di topi morti e tenuti in un congelatore da 16 anni. Il passo successivo? Provare a preservare specie a rischio. O anche ri-creare specie estinte. Come ad esempio il mammuth. Impresa teoricamente possibile da quando un team di scienziati russi ha ritrovato, l’anno scorso, la carcassa di un mammuth da poco nato conservato per 40 mila anni dai ghiacci della regione artica di Yamalo-Nenetsk.

Naturalmente la strada da percorrere è ancora lunga e difficile. Ma difficile non vuol dire impossibile. Così come non è stato impossibile clonare un essere vivente partendo da cellule surgelate abbattendo il muro dei danni prodotti dal ghiaccio sul Dna.

E se domani gli scenari fantascientifici immaginati da Crichton diventassero realtà? Saranno maggiori i rischi o le opportunità? Saprà la comunità degli uomini gestire una tale rivoluzione? Difficile dirlo. Il mio amico Alessio pensa che un post-it ci salverà. C’è scritta una frase di Stieg Larsson: “Non esistono innocenti. Esistono solo diversi gradi di responsabilità”. Io non ne sono sicuro. Ma per intanto lo faccio girare.

Persone, processi e contesti

Sono le persone, o per meglio dire i processi che esse attivano con le loro idee, il loro talento, il loro lavoro, con la loro capacità di stabilire relazioni e creare network di qualità o è piuttosto la forza e la consistenza delle strutture nelle quali esse vivono, lavorano, studiano, si divertono a determinare il carattere, i successi e i fallimenti delle organizzazioni?
La risposta di Franco Nori, scienziato con oltre 500 pubblicazioni e oltre 5000 citazioni su riviste come Science, Nature, Physical Review Letters, Nature Materials, Nature Physics, che tra tante altre cose dirige il Digital Materials Laboratory (http://dml.riken.jp) al Riken, istituto di ricerca giapponese di fama mondiale, è decisa, per certi versi persino provocatoria.
Per quanto possa essere un genio straordinario, avere una mente eccezionale, per un ricercatore che vive in Zimbawe, Botswana, Namibia sarà difficile ai confini con l’impossibile che riesca a fare scoperte scientifiche che lasciano il segno.
Al contrario anche una persona mediamente intelligente, naturalmente preparata, che lavora in un laboratorio eccezionale, con molti dati, molti esperimenti, ha parecchie possibilità di vedere il dato anomalo, di fare la scoperta importante. Un laboratorio con queste caratteristiche genera un tsunami di dati e i processi di serendipity, le scoperte per genio e per caso, sono decisamente più probabili dove accadono molte cose, ci sono molti dati, si discutono molte idee, si inseguono molte teorie, si esplorano molte possibilità.
Non è un fatto di modestia o di umiltà, insiste. È che l’ambiente, le relazioni con i colleghi, la qualità della struttura, hanno un’incidenza enorme sulla possibilità di conseguire risultati in ambito scientifico.
Naturalmente, concede infine, il segreto sta nella combinazione dei due fattori: genio e impegno delle persone, ambiente – organizzazione fertile che permette al genio e all’impegno di germogliare, di esplorare possibilità, di scoprire vincoli, analogie e legami inediti fra fenomeni precedentemente non collegati fra loro.
E voi, cosa ne pensate?

Ulisse controluce

Chi si ricorda chi è Jerry Donohue scagli pure la prima pietra. A tutti gli altri diciamo noi che si tratta del giovane cristallografo americano che da a Watson e Crick la dritta giusta per arrivare per primi alla struttura a doppia elica del DNA. Sorpassando proprio sulla dirittura d’arrivo l’uomo che aveva condotto la maratona dal primo metro, Linus Pauling, lo scienziato che se la scienza, come la vita, fosse una faccenda lineare avrebbe sicuramente meritato di vincere.
Come potè il giovane Jerry riuscire nell’impresa? Osservando che la struttura della guanina (uno dei 4 componenti del DNA) così come era rappresentata sulla monografia di James N. Davidson utilizzata da Watson presentava un errore. E che invece quella giusta era quella basata sul lavoro di June Broomfield. Pochi giorni ancora e Watson e Crick poterono presentare al mondo il loro famoso modello.
Tutto questo ci da lo spunto per parlarvi dell’importanza dell’osservazione e delle immagini nella scienza. E dunque di Ulisse. Non l’intrepido, affabulatore, polimorfo, astuto, ingegnoso, ingannatore, amatore, vendicativo eroe che siamo soliti attribuire alla fantasia di Omero. Quello magari in una prossima occasione. Ma il portale della SISSA (Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati) (http://ulisse.sissa.it) dedicato all’informazione scientifica, alla ricerca, ai suoi protagonisti, nell’ambito del quale potete per l’appunto trovare Controluce, immagini per guardare, descrivere e pensare la scienza (http://ulisse.sissa.it/controluce/index_html), l’iniziativa curata da Ettore Parizon di Immaginario Scientifico di Trieste.
Di cosa si tratta è spiegato molto bene sul sito: “Controluce è una raccolta di immagini scientifiche provenienti dai laboratori di ricerca, scelte e descritte da Ulisse con un lavoro di confronto e di dialogo con gli scienziati che le hanno prodotte”.
Cosa aggiungere ancora? Che ciascuna sezione è suddivisa in tre aree: guardare vicino, dentro, lontano; descrivere oggetti, posti, cambi; pensare elementi, relazioni, spazi. Che il sito è facile da navigare, accurato, interessante e semplice nelle spiegazioni. Che le immagini sono davvero da non perdere.
Buona navigazione.

Elogio del dubbio. E della contraddizione

“Parleransi li omini di remotissimi paesi li uni a li altri e risponderansi”.
Forse, se se ne fosse accorto, Steve Jobs avrebbe utilizzato questa straordinaria profezia di Leonardo, contenuta nel Codice Atlantico, per lanciare il suo iPhone delle meraviglie. O forse no. Il profeta della Mac generation è persona colta e sa che in realtà Leonardo non parla del telefono ma “dello scriver lettere”. E che è piuttosto nei manoscritti dove, disegnando una catena di “citofoni” per trasmettere velocemente notizie, egli scrive: “In cento miglia cento case, nelle quali stia cento guardie, che faranno per sotterranei condotti sentire una novella in tre quarti d’ora”.
Di certo per genio e per curiosità Leonardo ha potuto e saputo vedere cose che noi umani ancora oggi facciamo fatica a immaginare.
Il segreto? Il dubbio, la contraddizione e anche il caso. Proprio così. La capacità di coltivare il dubbio e di non nascondere la contraddizione sono componenti essenziali del progresso scientifico.
Emblematico il caso del chimico torinese Amedeo Avogadro (1776-1856) che vide riconosciuto solo dopo la sua morte, nel congresso di Karlsruhe del 1860, grazie a Stanislao Cannizzaro (1826-1910), il valore delle sue scoperte circa la formazione delle molecole, osteggiate dal barone Jöns Jacob Berzelius, insigne chimico svedese (1779-1848), che non aveva dubbi sulla giustezza delle proprie teorie, in realtà sbagliate.
E che dire dello stesso Codice Atlantico che, come racconta Alessandro Vezzosi (Leonardo da Vinci, Electa Gallimard, 1996), avrebbero potuto portare un ben altro contributo all’evoluzione del sapere in generale e del rapporto tra arte e metodologia della scienza e arte e metodologia della tecnica,
se fossero stati conosciuti e pubblicati come auspicava Antonio De Beatis che, a margine di un incontro con il da Vinci alla corte del re di Francia, presso Amboise, nel 1517, annotò che Leonardo ha tre quadri bellissimi (uno era La Gioconda) e i suoi codici trattano di infinite cose e saranno utilissimi.
La morale della storia? La suggerisce Cartesio: “Il dubbio è l’inizio della sapienza”. Senza dubbio.

Alla ricerca della Politica | Bobbio | Democrazia

Democrazia= popolo (demos) + potere (crazia).
Potere= capacità di determinare il comportamento altrui. Il potere viene dunque rappresentato come rapporto tra due soggetti, colui che ha il potere e colui che lo subisce. Il significato di potere si comprende meglio se viene messo in relazione con la libertà. Potere e libertà indicano due situazioni in cui una è la negazione dell’altra.
Il rapporto politico si può presentare tanto come rapporto tra potere e non libertà quanto come un rapporto tra libertà e non potere. Tutta la storia politica può essere interpretata come una continua lotta tra coloro che vogliono conquistare il potere o non vogliono perderlo e coloro che vogliono conquistare o non perdere la libertà.
Se nel rapporto tra due soggetti potere e libertà sono uno la negazione dell’altro, nello stesso soggetto potere e libertà, non potere e non libertà, coincidono. Chi acquista libertà acquista anche potere e viceversa. Ogni lotta per la libertà è anche lotta per il potere.
Le tre forme di potere: economico, politico, culturale.
Il potere economico si esercita attraverso il possesso della ricchezza. Il potere politico, in ultima istanza, con la forza. Il potere culturale con le idee, le dottrine, le ideologie. Il potere politico è il potere dei poteri.
Dalla ineguale distribuzione di questi tre poteri nascono tre tipi di diseguaglianza: tra ricchi e poveri, tra forti e deboli, tra sapienti e ignoranti.
Prima definizione di Democrazia: forma di governo che tende a correggere, attenuare le diseguaglianze tra gli uomini. Storicamente essa è la più egualitaria tra le forme di governo. Non a caso nell’antichità essa era definita Isonomia, eguaglianza di diritti ed eguaglianza di fronte alla legge. Cfr. Erodoto e dibattito tra tre principi persiani.
Popolo= avere certi diritti, in particolare quelli politici. Activae civitatis, cittadinanza attiva per distinguerli dai diritti personali e di libertà, iura civitatis.
Popolo è una parola ingannevole. Cfr. Dio e Popolo, Il Popolo d’Italia (quotidiano ufficiale del regime fascista), le due parole chiave del nazismo, Fuhrer (duce) e Volk (popolo).
Non è vero che Popolo comprende tutti. Cfr. Senatus Populusque Romanus, Statuto Albertino del 1848, introduzione in Italia del suffragio universale soltanto dopo la seconda guerra mondiale.
Popolo è un termine anche emotivamente ambiguo. Esso indica inoltre una collettività indifferenziata. La democrazia dei moderni si regge invece sul principio una testa un voto. La volontà popolare è in realtà la volontà dei singoli cittadini.
La democrazia dei contemporanei potrebbe essere ridefinita come potere dei cittadini piuttosto che potere del popolo. La democrazia dei moderni si fonda sulla concezione individualistica della società e dello stato.
Democrazia= potere dei cittadini.
Ma vi sono tanti modi di avere, conquistare, conservare, perdere il potere.
Le  varie forme di governo si distinguono in base alle regole che stabiliscono come si esercita il potere, attraverso quali procedure ed entro quali limiti. Cfr. le Leggi Costituzionali.
Le leggi costituzionali fondano la legittimità del potere e permettono di distinguere tra il potere legittimo, che richiede obbedienza e potere illegittimo contro cui è lecito opporre resistenza. Sempre le leggi permettono di distinguere l’uso legale e quello illegale del potere.
Le regole fondamentali di una costituzione democratica sono quattro:
Il suffragio, che deve tendere ad essere  universale;
Il voto deve essere eguale. Cfr. art. 48 della costituzione. L’eguaglianza di voto è una caratteristica della rappresentanza politica e la differenzia dalla rappresentanza degli interessi. Cfr. Condominio, Consiglio di Amministrazione;
Il voto deve essere libero in un duplice senso. Il singolo votante non deve ricevere imposizioni da chicchessia e deve avere la possibilità di scegliere tra diversi candidati e diversi partiti. Non è democratica la forma di governo in cui tutti hanno egual diritto di voto ma non hanno libertà di scelta. Non è democratico il regime in cui solo pochi hanno libertà di voto e che a buon diritto può chiamarsi liberale ma non democratico;
Le decisioni collettive debbono essere prese almeno a maggioranza. Libertà di discussione. Voto. Legittima la decisione approvata a maggioranza. Mediante questa quarta regola la democrazia, oltre ai valori dell’eguaglianza e della libertà, incorpora il valore della non violenza.
Migliore definizione di democrazia: forma di governo, modo di convivenza retto da regole tali che permettono di risolvere conflitti sociali senza bisogno di ricorrere all’uso della violenza reciproca, cioè all’uso della forza tra le diverse parti contrapposte. Un governo democraticamente eletto, contrariamente ad una dittatura,  non può usare la forza per mantenere il potere.
L’umanità deve tendere verse la non violenza.
Democrazia= potere del popolo; più corretto= potere dei cittadini; potere= capacità che ha un soggetto di determinare l’azione di un altro soggetto.
Su chi i cittadini esercitano il loro potere? Su se stessi.
Distinzione tra autonomia ed eteronomia. Cfr. Kant e distinzione della morale da tutti gli altri sistemi normativi.
Autonomia= un soggetto da legge a sè stesso. Eteronomia= un soggetto riceve una legge da altri (Dio, società, Stato ecc.). Nell’Autonomia chi pone la norma e chi la deve osservare sono la stessa persona; nell’Eteronomia il legislatore e l’esecutore sono due soggetti diversi.
Libertà negativa è quella situazione nella quale non siamo impediti, non siamo costretti, non siamo obbligati a fare o non fare. Questa forma di libertà può chiamarsi anche indipendenza.
La libertà come autonomia può essere definita come il dare leggi a  se stessi. Cfr. Rousseau e Contratto sociale.
Hans Kelsen: Democrazia (autonomia) e Autocrazia (eteronomia).
La Democrazia è quella forma di governo in cui il popolo è insieme legislatore ed esecutore delle leggi. Essa ha come sua caratteristica anche la libertà intesa come autonomia.
Autonomia= ideale-limite. Le decisioni in realtà non sono prese da tutti i cittadini ma dai loro rappresentanti. Si può parlare di autonomia per la maggioranza ma non per la minoranza.
Democrazia= potere regolato. Democrazia e Stato di diritto (qualunque potere è sottoposto a regole che lo delimitano e stabiliscono quello che può e deve fare e quello che  non può e non deve fare).
Democrazia è governo delle leggi contrapposto al governo degli uomini.
Non si può però confondere il populus, o l’insieme dei cittadini, con la moltitude o, come diremmo oggi, la piazza. Cfr. Hobbes. Non si può confondere democrazia con il potere della piazza.
Democrazia e sue regole, piazza senza regole. In democrazia ciascuno è una persona.
Pari dignità sociale. Cfr. art. 3 della Costituzione.
Partendo dalla pari dignità sociale si può dare un senso ai valori della democrazia: eguaglianza, libertà, autonomia, non violenza.
Solo essendo bene informati sui tratti essenziali, necessari e sufficienti, per stabilire che cosa significa Democrazia e quali sono le sue regole principali, saremo in grado di giudicare in quale misura ed entro quali limiti una determinata forma di governo sia una democrazia e trarne eventualmente motivo per migliorarla.

Tutta l’importanza del contesto

L’articolo è del marzo di quest’anno. È stato pubblicato su Materials Research Innovations. A firma di Rustum Roy, M. L. Rao e John Kanzius. E ha inteso in qualche modo mettere la parola fine alle polemiche seguite alla notizia, di qualche mese prima, che il cancerologo irlandese John Kanzius, mentre cercava di desalinizzare l’acqua del mare con l’ausilio di un generatore di frequenze radio a 13.56 MHz di sua invenzione (una sorta di forno a micro onde), ha visto l’acqua bruciare e sviluppare una fiammella con annesse temperature superiori a 3000° Farhenheit.
Come spesso accade sono stati in tanti ad invocare l’ennesimo trionfo della serendipity. E a schierarsi senza esitazione nel partito degli apocalittici. O in quello degli integrati. Da una parte quelli che “l’energia necessaria per attivare la reazione è superiore a quella prodotta dalla fiammella e dunque non c’è nessuna ragione di esaltarsi”. Dall’altra quelli che “la possibilità di usare l’acqua come combustibile ci libererà finalmente dalla tirannia dei signori del petrolio”.
Niente naturalmente di paragonabile alla ferocia che contrappose i Guelfi e i Ghibellini. O alla passione che separò le schiere di Coppi da quelle di Bartali. Ma la discussione c’è. E a tratti è davvero impegnativa.
Difficile dire come finirà. Ciò che è certo è che, differentemente da come viene da più parti presentata, la faccenda ha a che fare con serendipity non per la causalità della scoperta ma per il contesto che l’ha resa possibile.
È proprio Robert K. Merton a spiegarlo. Alla fine del suo libro. Citando l’articolo nel quale John Ziman sottolinea che “il punto chiave è che la serendipity non produce di per sè scoperte: produce opportunità per effettuare scoperte. Gli eventi accidentali non hanno alcun significato scentifico in sè: essi acquistano significato soltanto quando catturano l’attenzione di qualcuno in grado di collocarli in un contesto scientifico [quanto basta per gli esprits préparés di Pasteur]. Anche allora, la percezione di un’anomalia è sterile a meno che non possa essere fatto oggetto di una ricerca”.
Il che riporta alla questione degli ambienti sociocognitivi serendipitosi. All’importanza dei “luoghi” dove si fa ricerca. Al loro rapporto con l’attivazione e lo sviluppo di processi virtuosi “per genio e per caso”.

Questioni di conoscenza

Si chiama Chun Wei Choo. Ed ha scritto un bellissimo libro. Purtroppo non ancora tradotto in italiano. Il titolo è Knowing Organization (Oxford University Press, 2006). In questo modo l’autore definisce l’organizzazione nella quale le persone, singolarmente e in gruppo, usano le informazioni per raggiungere 3 risultati principali: 1. creare identità e contesti condivisi per l’azione e la riflessione; 2. acquisire nuova conoscenza e nuove capacitazioni (secondo Amartya Sen gli insiemi di combinazioni alternative di funzionamenti – stati di essere o di fare cui gli individui attribuiscono valore come ad esempio essere adeguatamente nutriti o non soffrire malattie evitabili – che una persona è in grado di realizzare); 3. prendere decisioni che impegnino risorse e capacità allo scopo di intraprendere azioni efficaci.
Cosa c’entra tutto questo con la serendipity ve lo diciamo subito. Ricordando innanzitutto che il grande Merton aveva insistito non poco, nella definizione della sua teoria, sul fatto che il caso favorisce particolarmente le menti preparate che operano in microambienti che agevolano le interazioni socio cognitive impreviste. Ed evidenziando poi le connessioni forti esistenti tra l’aspetto soggettivo (le menti preparate) e quello intersoggettivo (le interazioni socio cognitive) della faccenda. Questioni di conoscenza, insomma, di sapere e di saper fare. Che, come ci hanno spiegato Michael Authier e Pierre Lévy (Gli alberi di conoscenze: educazione e gestione dinamica delle competenze, Feltrinelli) non sono non solo un bene personale, ma anche un bene sociale che ha la peculiarità di poter essere scambiato senza essere perduto da chi lo dona. Anche per questo occorre investire su una migliore gestione dei saperi, sulla moltiplicazione degli approcci cognitivi, sulla costruzione di legami sociali fondati sugli scambi di conoscenza, sull’ascolto e sulla valorizzazione dei singoli, sulla promozione di una intelligenza collettiva in grado di riscoprire la vitalità dell’invenzione, del pensiero collettivo, della creatività.

Innovazione e sviluppo. Appunti di viaggio

Si chiama Philippe de Taxis du Poët. È a capo del settore ricerca ed innovazione della Delegazione della Commissione Europea in Giappone. E ci racconta tante cose interessanti. Come quelle che potete leggere di seguito.
Il principale gap in Europa è la mancanza di investimenti privati in ricerca rispetto al Giappone o agli USA. Il Giappone investe in scienza e tecnologia più del 3,6 del PIL (in Europa la media è del 2%, in Italia ancora meno). E per l’80% si tratta di finanziamenti privati (il 63% dall’industria).
E poi rispetto a 5 o 10 anni fa oggi è praticamente impossibile, persino per gli USA, essere competitivi a livello globale senza cooperazione internazionale.
Oggi in California, alle giovani start-up che cercano di essere finanziate dai venture capitalist, vengono fatte tre domande: “quale è il tuo business plan?”, “quale è il tuo management plan?”, “quale è il tuo piano in termini di collaborazioni internazionali?”. E anche qui in Giappone la sfida è riuscire ad avere una maggiore cooperazione internazionale, una maggiore flessibilità nel sistema.
Per questo non basta dire, come l’Europa ha fatto troppo spesso nel passato, noi siamo aperti, se c’è qualcuno nel mondo che è interessato venga pure. Sono necessari comportamenti proattivi. Per dire ad esempio al Giappone che possiamo fare le cose insieme ed avere una situazione cooperativa di tipo win win. Ognuno può vincere. Una cooperazione di questo tipo è possibile non solo in Europa ma in tutto il mondo.
Il sistema americano cerca di attrarre lì i cervelli migliori. Ma ciò è positivo per loro ma non per gli altri paesi. Perché c’è un vincitore, gli USA, e ci sono dei perdenti. Questo non è quello che stiamo cercando di fare noi europei. Il nostro è una sorta di “approccio sandwich” che mira a fare in modo, ad esempio, che gli scienziati italiani abbiano esperienze in Francia, in USA, in Giappone. E che quelli di questi paesi vengano anche in Italia. Vogliamo attrarre in Europa più studenti e ricercatori giapponesi. È la circolazione dei cervelli, che è cosa ben diversa dalla fuga o dallo spreco. Perché l’Europa non è solo un grande mercato ma anche una grande potenza scientifica.

Ritratto di Akira Tonomura

Edwin Cartlidge, sul numero di febbraio 2008 di Physics World, ha ricordato che è uno dei 5 fisici (due dei quali Premi Nobel) ad essere stato eletto membro della Japan Academy per i suoi studi sull’olografia degli elettroni e per essere riuscito a dimostrare la veridicità del controverso effetto Aharonov Bohm (quando un fascio o “beam” di particelle con carica elettrica, come gli elettroni, viene diviso in due ed i suoi componenti vengono diretti intorno ad un tubo di flusso magnetico, tali componenti acquisiscono “fasi quantistiche” differenti che possono essere investigate mediante delle interferenze).
Fabio Marchesoni, professore ordinario di Fisica all’Università di Camerino e membro di prestigiose istituzioni scientifiche di tutto il mondo, nella Laudatio per la Laurea magistralis honoris causa in Fisica conferitagli dalla sua Università, ha citato Paolo Coelho per sottolineare la sua capacità visionaria, la sua determinazione, il suo impegno al servizio dello sviluppo scientifico e tecnologico.
Di chi stiamo parlando?
Di Akira Tonomura, una vita alla Hitachi Ltd., Foreign Associate all’Accademia Nazionale delle Scienze negli USA, Direttore del Single Quantum Dynamics Research Group al RIKEN, Giappone, Visiting Professor alla Tokyo Denki University, Membro dello Japan Science Council.
Perché vi raccontiamo tutto questo?
Perché Akira Tonomura non è solo una mente geniale. Ma anche un eccellente team manager. Uomo di scienza. E uomo d’impresa. Con una innata, coltivata, capacità di tenere assieme talento scientifico e capacità di tradurre le teorie in tecnologie, le idee in brevetti, le intuizioni in soluzioni.
Perché ciò suggerisce qualcosa di probabilmente significativo intorno alla possibilità di stabilire relazioni virtuose tra Università e impresa, di impegnare risorse per coltivare il talento e favorire lo sviluppo scientifico e tecnologico.
E perché ci piacerebbe che le storie come quelle di Akira Tonomura fossero raccontate di più nelle università italiane. Magari dagli stessi protagonisti. Che di certo potrebbero insegnare molto. Anche solo raccontando loro stessi.

Non c’è caso che vale se manca il genio

Serendipity è un termine sempre più utilizzato per definire, più o meno a proposito, tante cose diverse. Un esempio divenuto celebre al punto da essere inserito nella top ten delle scoperte serendipitose è quello del ghiacciolo. Si, proprio lui, il gelato con lo stecco per antonomasia, che una gelida mattina del 1905 l’undicenne Frank Epperson si ritrova fuori dalla porta proprio là dove la sera prima aveva lasciato una limonata in un contenitore di plastica con annesso indispensabile stecco. Frank lo chiama Epsicle (contrazione non necessariamente brillante di Epperson e icicle) e si tiene la sua scoperta per sé e i suoi compagni di scuola. 18 anni dopo, siamo ormai nel 1923, il fortunato Frank brevetta Popsicle (nome forse suggerito dai figli), il “gelato ghiacciato con uno stecco” e nel 1925 ne cede i diritti alla Joe Lowe Company di New York.
Detto che ogni anno continuano ad essere venduti più di 3 milioni di Popsicle (che nel frattempo è diventato un marchio Good Humor, a sua volta controllata da Unilever) c’è da aggiungere che nel mondo della ricerca scientifica, quella vera, dove pure gli “accidenti” serendipitosi, dalla mela di Newton alla muffa di Fleming, hanno avuto un ruolo importante, le cose non funzionano esattamente come nel mondo dei gelati, con o senza lo stecco.
La ragione? Presto detta. Nel mondo della ricerca il caso cerca, agisce, favorisce il genio. Detto con parole più appropriate, è la presenza di menti preparate che operano in ambienti socio cognitivi serendipitosi a determinare l’attivazione di processi virtuosi “per genio e per caso”.
C’è bisogno insomma di intelligenza. Creatività. Spirito di iniziativa. Capacità di innovare. Capacità di organizzare. Assieme agli scienziati e alle loro idee sono infatti molto importanti le strutture e i processi organizzativi che essi hanno alle spalle. È fondamentale la “cornice” che fa da sfondo al loro lavoro. Che li sostiene nei loro sforzi tesi ad attivare senso. A intuire scenari. A costruire opportunità. Per genio prima di tutto. E poi anche per caso.

Sognando Riken

About RIKEN »
3.441 scienziati direttamente impegnati nelle diverse attività; 2.456 provenienti da strutture di ricerca di ogni parte del mondo; 1.185 studenti impegnati nelle attività di tirocinio; un budget per il 2007 di circa 90mila milioni di yen; un’attività di sperimentazione e ricerca che attraversa, escluse quelle umane e sociali, ogni campo delle scienze e delle tecnologie; l’impegno a rendere pubblici i risultati delle proprie attività: è il RIKEN oggi. Per saperne di più non perdetevi le due storie che seguono.

Ego in rete »
Piero Carninci già lo conoscete (Nova 24, 12 luglio 2007). Con le sue ricerche ha messo in discussione il dogma dell’immutabilità del DNA. È stato il primo scienziato non giapponese ad essere insignito del Yamazaki-Teiichi Prize. Ribadisce che nella ricerca si confrontano “ego” notevoli, che lo scienziato è per “sua natura” competitivo. E che però per ottenere risultati importanti bisogna fare rete con chi ha competenze complementari. Un modello di collaborazione tutto RIKEN – aggiunge – è il consorzio FANTOM, nato nel 2000 dalla consapevolezza che pur essendo molto forti nel produrre i full-length cDNA, (DNA complementare di mRNA a lunghezza completa), nel fare datasets estesi, eravamo deboli nell’analizzarne la funzione. Dunque occorrevano ricercatori più capaci di focalizzarsi sullo specifico. Sono arrivati così una cinquantina di biologi provenienti da campi diversi e felici di lavorare in laboratori attrezzati per analizzare tutti i geni, o gli RNA, in un colpo solo. Sono stati determinanti per il successo del progetto. FANTOM ha creato un modello che può essere imitato. A patto però di apportare idee e visioni originali. Altrimenti fare come fanno gli altri non funziona. Da noi questa cultura è molto forte. Il “RIKEN Presidential Fund”, presieduto dal presidente Noyori, è ad esempio un premio bandito 2 volte all’anno che assegna finanziamenti biennali alla ricerca che mette assieme due istituti diversi del RIKEN (ad esempio genomica e neurobiologia) intorno a un progetto il più possibile pazzo e rischioso.

Il gene interruttore »
Nel futuro prossimo venturo di Carninci ci sono molte cose. La correlazione tra le sequenze del genoma che regolano l’espressione dei vari RNA cellulari ed il livello di espressione di questi ultimi (per sapere come e perchè differenti geni vengono espressi in condizioni e tessuti differenti). L’analisi degli elementi che regolano l’espressione genica in specifici neuroni come le cellule nervose (si tratta di studi molto complessi che hanno tra gli altri l’obiettivo di capire la funzione della plasticità del cervello, di individuare meccanismi su come riattivarla, di definire e sviluppare metodologie per studiare la neurodegenerazione). L’esplorazione di tipi di RNA prodotti dal genoma (il genoma produce tanti RNA di diversi tipi e dimensioni; la parte più importante ed eccitante è che tra questi ci sono RNA “interruttori” di attività genica: usando RNA si potrà in futuro accendere o spegnere la funzione di vari geni (si potrà ad esempio alterare il decorso di malattie prima incurabili, anche se per ora la ricerca non è ancora rivolta alle malattie ma alla comprensione dei meccanismi).

Una geniale fabbrica di serendipity »
Al Frontier Research System la ricerca è davvero ad alto rischio. Vi lavorano in 179 tra scienziati e ricercatori. Dodici le aree di ricerca attive intorno a tutto quanto fa frontiera, dai robot umani interattivi alle nanoscienze, dai controlli biomimetici ai computer quantici.
Cose da (scienziati) pazzi? Assolutamente no. Perché le scoperte che avvengono per genio e per caso lasciano spesso un segno importante. Perché il risultato, quando c’è, assicura un vantaggio cognitivo – competitivo di grande rilevanza.
Franco Nori è a capo del Digital Materials Laboratory (DML) al Single Quantum Dynamics Research Group. Teoria. Idee. Per vedere, manipolare, sfruttare nuovi fenomeni quantici. Nori è membro della American Physical Society dal 2002 e dell’Institute of Physics del Regno Unito dal 2003; sarà eletto, il prossimo 16 febbraio, membro dell’American Association for the Advancement of Science; ha ricevuto nel 1998 un “Excellence in Research Award” e nel 1997 un “Excellence in Education Award” dall’Università del Michigan; nel suo cv oltre 160 pubblicazioni (e oltre 4600 citazioni) su riviste come Physical Review Letters, Science, Nature, Nature Materials, Nature Physics. È l’uomo che ha maggiori probabilità di vincere la corsa per la realizzazione del computer in grado di risolvere in pochi secondi ciò che i computer attuali non possono risolvere in un anno.
La possibilità di utilizzare le tecnologie dell’informazione quantistica non è più solo un sogno – afferma – anche se sui tempi occorre essere ancora cauti. In fondo gli studi sull’elaborazione di questo tipo di informazione sono partiti da poco. Non si sa ancora quali dispositivi o sistemi (atomi, fotoni, spin ecc.) saranno più adatti. Tante sono le sfide ancora aperte. Ma anche se i tempi non sono ancora prevedibili, è comunque una questione di tempo. Così come è certo che la discussione attiva e continua con scienziati che provengono da altre parti del mondo, il continuo scambio di idee, l’intensa dinamica di gruppo rappresentano il fondamentale punto di forza del DML.

E’ la domanda a guidarci »
Si può parlare di modello RIKEN nella ricerca scientifica così come si è parlato di modello Toyota nell’industria? Da questa domanda è nata un’idea. Dall’idea una scommessa. Che il Dipartimento di Sociologia dell’Università di Salerno ha deciso di cogliere. Con un progetto di ricerca per l’anno 2008. Che si propone di analizzare, sulla base di una ricerca sul campo, a partire da alcuni studi di caso, il modello organizzativo RIKEN; la struttura dei suoi processi decisionali; le dinamiche di collaborazione – competizione, di creazione di senso, di costruzione di ambienti sociocognitivi serendipitosi che caratterizzano la sua attività; la sua elevata capacità di attrarre talenti da ogni parte del mondo.

The winner is »
Gli obiettivi? Verificare se e come il RIKEN può essere un modello vincente. Se e come tale modello può indurre processi di isomorfismo. Se e come tali processi possono delineare, per l’Italia e l’Europa, opportunità inedite di organizzazione e sviluppo della ricerca scientifica. Definire scenari e indicare proposte che frenino la fuga e lo spreco di cervelli. Incoraggiare i giovani a non abbandonare la difficile ma entusiasmante via della ricerca scientifica. Offrire alle comunità di manager e di ricercatori elementi utili alla loro riflessione e al loro agire. Dare una qualche risposta alla domanda di studi innovativi sul pensiero organizzativo.
That’s all folks. Per ora.

Illuminato dal potere della chimica

All’inizio delle scuole medie, mio padre mi portò a una conferenza sul nylon. Fui profondamente impressionato dalle potenzialità della chimica, che può creare cose importanti a partire quasi dal nulla! La conferenza ebbe un enorme impatto su quello studente allora dodicenne, eravamo nel 1951, subito dopo la guerra mondiale. Il Giappone era molto povero. Avevamo davvero fame. In quel momento capii che il mio sogno era quello di diventare un chimico che potesse essere in prima linea nel contribuire al bene della società attraverso l’invenzione di prodotti utili. Si racconta così Ryoji Notori nell’autobiografia pubblicata su http://www.nobelprize.com.
Il presidente del Riken ha oggi 70 anni (Kobe, 1938). Ha conseguito il dottorato all’Università di Kyoto, ha proseguito gli studi all’Università di Harvard, ed è tornato in Giappone come professore all’Università di Nagoya, dove ha ricoperto numerose cariche, compresa quella di direttore del Centro ricerche per le scienze dei materiali.
È autore di oltre 400 pubblicazioni e ha firmato 145 brevetti. I suoi studi e le sue scoperte sulla produzione di catalizzatori chirali, vale a dire di molecole capaci di controllare selettivamente le reazioni di sintesi di determinate molecole chirali, gli sono valsi il Premio Nobel (insieme a William Knowles e K. Barry Sharpless).
Il 20 settembre del 2002 gli è stata conferita dall’Università di Bologna la laurea honoris causa in chimica industriale con la seguente motivazione: «La ricerca sulle sintesi asimmetriche catalitiche, che gli ha valso il Nobel, riguarda processi ecocompatibili, che vengono applicati a livello industriale nella sintesi di numerosi composti per ottenere antibiotici, antibatterici, vitamine. Importante è stato lo studio dell’uso dell’anidride carbonica come mezzo a basso impatto ambientale per ottenere prodotti ad alto valore aggiunto della chimica industriale. La sua ricerca ha consentito progressi in ambito chimico, della scienza dei materiali, biologia e medicina».
Il 30 ottobre 2003 è stato ordinato da Papa Giovanni Paolo II Membro Ordinario della Pontificia Accademia delle Scienze.

Per genio e per plagio

Friedrich August Kekulé von Stradonitz (1829 – 1896) è stato un personaggio singolare da molti punti di vista.
Si iscrive all’Università come aspirante architetto e la lascia come chimico. Passa alla storia per la sua definizione della struttura esagonale del benzene, per la scoperta delle catene e dei cicli di carbonio formati da atomi di carbonio legati tra loro su base quattro. È con lui che la chimica organica diventa insomma quella che oggi, non sempre con il necessario entusiasmo, conosciamo.

Proprio alla struttura del benzene è legato l’aspetto più curioso della storia.
Il geniale chimico non volle infatti mai raccontare come era arrivato alla sua scoperta, che cosa lo aveva indirizzato nella sua ricerca, quale metodo aveva seguito e solo 25 anni dopo si deciderà finalmente a svelare il mistero: addormentatosi accanto al fuoco gli era venuto in sogno Ourobouros, che secondo i trattati alchimistici è il cerchio magico formato dal serpente che, unendo la testa alla coda, preserva i corpi dalla decomposizione ed esalta la circolarità del rapporto tra la vita e la morte; una notte di lavoro servì a colmare lo spazio tra il serpente e la struttura ciclica esagonale del benzene.

La leggenda si è tramandata per quasi 100 anni, fino a quando, nel 1984, i biochimici John Wotiz e Susanna Rudofsky hanno rinvenuto negli archivi di Kekulé una lettera del 1854 nella quale si citava un saggio del chimico francese A. Laurent. Trovato il saggio, scoperto il plagio: a pagina 408 il chimico francese proponeva per il cloruro di benzoile una formula di struttura esagonale.

Cosa aggiungere ancora? Due cose.
La prima. Anche i grandi scenziati, Kekulè certamente lo era, sono esseri umani. Dicono bugie. Non sanno resistere al fascino indiscreto del successo, ma sanno essere prudenti (il chimico tedesco aspettò diversi anni prima di divulgare la sua “scoperta”);
La seconda. Di tutto questo e di molto altro ancora potete leggere in Le bugie della scienza, di Federico Di Trocchio, Mondadori (1993).

La posta è alta: usare in alcuni casi le macchine al posto degli uomini

Si può raccontare di Intelligenza Artificiale in molti modi. Si può cominciare dal cinema. Da film famosi come A.I.. Io Robot. Minority Report. Da film culto come 2001 Odissea nello Spazio. Blade Runner. Matrix. Si può cominciare dalla letteratura. Da Isaac Asimov. Fredric Brown. Philip K. Dick. Dean R. Koontz. Dan Simmons. Si può cominciare dalla leggenda. Dal rabbino Jehuda Löw ben Bezalel. Dalla Praga del XVI secolo. Dal Golem che si anima se gli si scrive emet (verità) sulla fronte. Che si spegne cancellando la e (met in ebraico vuol dire morte).
Si può. Viene persino naturale. Facile il gioco di parole. Emet/Met. On/Off. Zero/Uno. Linguaggio binario. Calcolatore. Intelligenza Artificiale.
E invece no. Decisamente no. E non per malcelato spirito di contraddizione. Né per picca, per ripicca e per puntiglio come la furba Bice di “Uomo e Galantuomo” di Eduardo De Filippo. Ma perché questa è una storia che va raccontata dal principio. E al principio non ci sono il cinema. La letteratura. La leggenda. Ma la voglia dell’uomo di pensare l’inpensabile. Di raggiungere l’irraggiungibile. Fino a farlo diventare realtà. Grazie al genio. Alla tecnologia. All’innovazione. Al lavoro.

Genio. Tecnologia. Innovazione. Lavoro. Parole del futuro. Parole antiche come le montagne. Parole che ci hanno fatto incontrare il fuoco. La ruota. La leva. Il telaio. La locomotiva. L’automobile. Il DNA. Il computer.
È importante non perdere di vista questa Storia. Collocare gli eventi nella giusta cornice. Perché ci aiuta a comprendere, spiegare, attribuire significati. A definire l’approccio, la metodologia, che ci fanno accorgere che quella determinata idea, quel particolare fatto o evento sono destinati a cambiare i nostri modi di vivere, studiare, lavorare, divertirci. A riconoscere l’innovazione. In un mondo che ama troppo la velocità e troppo poco la profondità. Troppo la precarietà e troppo poco la creatività. Troppo il denaro e troppo poco la cultura. Un mondo che vale la pena cercare di migliorare almeno un po’. Con pazienza e lavoro.

Dentro questa Storia ha senso raccontare di intelligenza artificiale, narrare storie che vantano già protagonisti importanti, anche nel nostro Paese.
Le donne e gli uomini che nella campagna veneta fabbricano avatar (termine sanscrito che definisce l’assunzione di un corpo fisico da parte di un dio e che è diventato nel linguaggio di internet sinonimo di rappresentazione virtuale di una persona reale) sono tra questi. Così come Matteo Loddo e Alessandro Ciaralli, che lo scorso 21 novembre si sono laureati alla Facoltà di Architettura dell’Università La Sapienza animando e facendo parlare al loro posto due avatar rigorosamente in 3D (sistema che usa tecniche come la prospettiva e l’ombreggiatura per rappresentare a tre dimensioni immagini che in realtà sono a due dimensioni).
Molte cose sono dunque accadute da quando, nel 1956, a Dartmouth, Marvin Minsky, Nathaniel Rochester, Claude Shannon e John Mc Carthy promossero il seminario che diede alla luce il concetto di Intelligenza Artificiale. L’obiettivo? Lo stesso che un po’ di anni prima era stato dichiarato da Alan Turing: “costruire una macchina che si comporti in modi che sarebbero considerati intelligenti se un essere umano si comportasse in quel modo”.
Gli esiti, come sempre in questi casi, sono stati talvolta incoraggianti (come la volta che Deep Blue, il calcolatore progettato e realizzato dalla IBM, ha vinto la sua sfida con Garry Kasparov, campione mondiale di scacchi), altre volte meno. Ma in ogni caso quella dell’Intelligenza Artificiale rimane una sfida doppia. Che mira da un lato a ingegnerizzare “macchine” sempre più sofisticate e dall’altro a riprodurre caratteristiche e capacità cognitive tipiche dell’uomo.
Gli obiettivi? Organizzare, catalogare, gestire, il linguaggio matematico. Rappresentare le conoscenze nei database in maniera intelligente. Costruire robot sempre più “umani”. Creare interfacce web sempre più intelligenti, in grado, a seconda delle cose che gli vengono chieste, di “farsi un’idea”, di definire un profilo di chi ha di fronte, di fornirgli “soltanto” le informazioni che davvero gli servono.

Facciamo un esempio? Immaginiamo di dover realizzare le pagine web di un sito archeologico come Pompei, e che esso sia stato strutturato con una dote assai ricca di database, informazioni, percorsi, notizie.
Una possibilità è quella di finire vittime del paradosso reso celebre da Jean Braudillard, secondo il quale l’inflazione delle informazioni produce la deflazione del senso (una mole potenzialmente infinita di informazioni disponibili può avere come effetto una sostanziale impossibilità di selezionarle, di gestirle e dunque di utilizzarle). Un’alternativa possibile è quella di realizzare l’ipertesto in questione in maniera tale che esso comprenda, grazie alla intelligenza artificiale di cui è stato dotato, chi è la persona che lo sta interrogando e quali informazioni vuole da lui.
Per rimanere all’esempio in questione il sistema dovrebbe poter capire se colui che ha di fronte è un esperto archeologo, uno studente che deve fare una ricerca, un turista curioso che vuole semplicemente qualche indicazione utile per decidere se fermarsi lì o spostarsi di qualche chilometro e visitare gli scavi di Ercolano. Dato che ciascuna di queste persone avrà degli interessi specifici, il sistema si rivelerà tanto più intelligente quanto più sarà in grado, sulla base delle richieste che gli vengono fatte, di selezionare il profilo di chi lo interroga e rendere disponibili, tra le tantissime informazioni di cui dispone, le risorse più appropriate per ciascuna persona.

Genio. Tecnologia. Innovazione. Lavoro. Mai come questa volta le connessioni tra le quattro venerande parole si presentano ambigue. Mai come questa volta le domande, le perplessità, le riserve appaiono ampie. Profonde. Difficili da sciogliere. Anche perché questa volta la posta in gioco non riguarda la possibilità di usare una macchina al posto di un’altra, ma quella di usare una macchina al posto di un uomo.
Ci saranno meno o più occupati? Il lavoro sarà più o meno “buono”? A guadagnarci saranno solo i soliti noti o davvero questa volta ci saranno maggiori opportunità per un numero più consistente di persone?
Davvero difficile immaginarlo. Non basta pensare, come Miles e Snow, che stiamo entrando nella quarta ondata della storia industriale (la prima è quella relativa all’industrializzazione originaria; la seconda quella fordista; la terza quella postfordista), caratterizzata dal versante delle strutture dalla diffusione delle organizzazioni minimali (sferiche, cellulari), dalla crisi della gerarchia, dall’individuazione e dallo sviluppo delle competenze essenziali (core competence) e delle professioni necessarie, dal governo delle carriere; dal versante delle persone dalla capacità di svolgere più iniziative e ricoprire più ruoli, di migliorare attraverso processi di competizione -collaborazione, di investire su se stessi puntando su conoscenza e responsabilità, di ampliare le proprie capacità professionali, di definire in maniera autonoma la propria carriera, di connettersi in ogni momento con qualunque anello della catena di creazione del valore. Non basta neanche sapersi nani sulle spalle di giganti. O gettare lo sguardo oltre l’orizzonte.
Lo sforzo è encomiabile. L’approccio suggestivo. Ma le risposte rimangono necessariamente troppo vaghe e ambigue per essere considerate risolutive. Davvero troppo alta è la possibilità di finire vittima della “fallacia della centralità”, di sottovalutare e contrastare ciò che accade perché si sovrastima la probabilità che, se esso avesse una reale consistenza, se ne sarebbe certamente a conoscenza.

Che fare, dunque?
Ancora una volta potrebbe essere utile guardare a ciò che abbiamo alle spalle. Ad esempio alle rivoluzioni industriali e alla forza con la quale hanno scompaginato assetti sociali, economici, politici, preesistenti. Alle condizioni della classe operaia inglese della prima metà dell’ottocento. Allo sviluppo del lavoro industriale nell’Italia di inizio novecento. Alla crisi del modello sociale fordista nella seconda metà del secolo breve. Alle metamorfosi di città come Genova, Milano, Napoli, Torino. O come Barcellona, Berlino, Liverpool.
Ogni volta grandi sconvolgimenti. Ogni volta vincenti e perdenti sociali.
Quella dell’innovazione continua insomma ad essere una partita doppia. Al tempo dell’intelligenza artificiale così come al tempo della macchina a vapore.
Gli apocalittici (in ogni caso meno pericolosi dei loro antenati luddisti) e gli integrati continueranno a darsi battaglia a colpi di argomenti, idee, scomuniche. Lavori tradizionali scompariranno. Altri si trasformeranno. Nuovi lavori avranno le luci della ribalta. Conquistare più tempo per le persone e per le loro attività sociali, dare più qualità alla prestazione lavorativa saranno probabilmente tra le sfide più impegnative per il mondo del lavoro e per il sindacato, che quel mondo del lavoro intenderà continuare a rappresentare.
In maniera solo in parte provocatoria si potrebbe dire che anche nell’era dell’intelligenza artificiale non c’è nulla di completamente nuovo, almeno sul fronte occidentale. E che esserne consapevoli può essere un primo passo nella giusta direzione per coloro che intendono gestire, nei casi più fortunati dirigere, i processi di innovazione.
Anche in questo mondo in incessante trasformazione, mentre i 15 minuti di celebrità pronosticatici da Andy Warhol sono già diventati 15 secondi, è insomma importante non perdere di vista ciò che già è accaduto. Leggere la Storia aiuta a leggere il futuro. A trovare le parole, le decisioni, le scelte, le azioni capaci di dare voce ai diritti delle persone, quelle più giovani in primo luogo, e al loro bisogno di rappresentanza, mentre si ritrovano, disorientate, a fare i conti con i mille sentieri che si biforcano del cambiamento sociale.

Ritratto di Robert K. Merton

Sfacciata impudenza, sfrontatezza, faccia tosta. Questi alcuni significati di chutzpah, parola yiddish definita come “quella particolare qualità racchiusa in un uomo che, avendo ucciso sua madre e suo padre, si appella alla clemenza della corte perché è orfano”.
Chutzpah fa parte della classe dei prestiti linguistici, parole che per varie ragioni vengono adottate in diverse lingue. Come il francese Esprit de l’escalier (osservazione arguta che viene in mente troppo tardi per essere utilizzata). O come il tedesco Schadenfreude (gioia maligna originata dalle disgrazie altrui).
È Robert K. Merton a raccontarlo. Proprio lui. Il padre della Serendipity. E di molto altro ancora.
È lui a indicare, con le sue teorie di medio raggio, un possibile punto di equilibrio tra l’astrattezza della teoria che tutto comprende e i limiti dell’empirismo fine a se stesso. A concettualizzare la differenza tra funzione manifesta, conseguenza visibile e attesa di un comportamento sociale, e funzione latente, conseguenza non prevista e non voluta (gli indiani Hopi danzano non solo per invocare la pioggia ma anche per cementare la coesione della tribù). A evidenziare le distorsioni nell’agire sociale determinate dallo scarto esistente tra la propria situazione e quella del contesto al quale si guarda (società, sistema culturale, gruppo, etc.). A dimostrare che in contesti sociali nei quali coloro che non «riescono» si scoprono «segnati» da questa loro supposta incapacità di ottenere successo, il comportamento deviante finisce col rappresentare una modificazione dei mezzi per raggiungere gli stessi fini propagandati dalla società. A definire la relazione tra numero di individui che prevedono un fatto sociale e si comportano di conseguenza e possibilità che quel fatto sociale si realizzi adempiendo alla profezia (profezia che si auto avvera). A rielaborare il concetto di Anomia.
Che dire ancora? Che l’uomo della serendipity è stato anche un signore colto, mite, gentile. Di quelli che non ce ne sarebbero mai abbastanza e che invece ce ne sono sempre meno.

Luci nei misteri bui dell’universo

Koichi Itagaki. Cacciatore di supernove. Ha osservato l’esplosione che, a circa 78 milioni di anni luce dalla terra (un anno luce misura poco meno di diecimila miliardi di chilometri, circa 63241 volte la distanza fra la Terra ed il Sole), ha dato origine alla Supernova SN2006jc (una supernova è un’esplosione stellare che determina la formazione di una nuova stella nella sfera celeste; ha una luminosità un miliardo di volte superiore a quella del Sole e una potenza in grado di carbonizzare qualunque pianeta orbitante nei paraggi; è all’origine della formazione di cobalto, uranio, nichel, piombo, iodio, tungsteno, oro e argento nell’universo; data, grandezza, posizione, tipo di supernove scoperte a partire dal 1885 su http://cfa-www.harvard.edu/iau/lists/Supernovae.html). Come ogni scoperta, anche quella di Koichi Itagaki ha prodotto nuove domande: si è trattato di un caso? Era l’annuncio, ancora non previsto da alcuna teoria astrofisica, della fine del processo evolutivo delle stelle di grande massa? Tra coloro che hanno cercato risposte i “nostri” Andrea Pastorella e Massimo Turatto. Il primo, dopo il dottorato all’Università di Padova, lavora all’Università di Belfast e ha coordinato l’equipe internazionale di scienziati (tra i quali Turatto) che ha verificato che il lampo del 2004 è stato emesso dallo stesso corpo celeste che ha generato SN2006jc: una stella supermassiccia (60-100 volte la massa del Sole) giunta nella fase finale della sua evoluzione con un’atmosfera priva di idrogeno. Il secondo continua fortunatamente a impiegare il suo genio in Italia, all’ Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF). A giugno i risultati della ricerca sono stati pubblicati su Nature. L’idea, come ha dichiarato Turatto, è “che si possa essere di fronte ad una nuova categoria di oggetti celesti in grado di fornirci indicazioni per migliorare le attuali teorie sulle fasi finali dell’evoluzione delle stelle di grande massa”. L’auspicio è che nella corsa alla scoperta dei misteri dell’universo le nostre strutture di ricerca, e non solo i nostri cervelli, possano avere un ruolo sempre più importante.