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Elogio dell’uomo artigiano

L’importante è capire

New York, 1962. Richard Sennett ricorda il gran freddo, l’incontro con Hanna Arendt, il calore con cui la sua maestra afferma che “le persone che fabbricano cose di solito non capiscono quello che fanno”, si accontentano di scoprire “come” farle, rinunciano a chiedersi “perché” (Sennett, 2008). Era accaduto con la bomba atomica, come confermerà Robert Oppenheimer, leader degli scienziati impegnati a Los Alamos; rischiava di accadere ancora, con la crisi dei missili a Cuba e il mondo alle prese con l’incubo di una nuova guerra.

Non ricordo se l’autunno a Napoli fu particolarmente freddo, conservo invece memoria di quello strano miscuglio fatto di incredulità e angoscia che accompagnava le nostre sere. A Secondigliano, a quel tempo, papà, mamma, io e Antonio, mio fratello, vivevamo in una stanza grande con angolo cucina e bagno sulla destra, di fianco al balcone che affacciava sullo stadio e una domenica si e una no si affollava di sedie e di amici, giusto il tempo della partita, campionato Promozione, al posto del biglietto il caffè, lungo, offerto dalla premiata ditta Moretti.

Ricordo che papà aveva comprato da poco il Telefunken, schermo bombato, bianco e nero e la sera l’intero caseggiato si riuniva per ascoltare, sperare, pregare per la pace nel mondo con Papa Giovanni XXIII, anche se noi non è che fossimo proprio credenti, almeno non nel senso impegnativo della parola.

Il lavoro, la missione, la nazione

Tokyo 2007. L’occasione del nuovo viaggio in Giappone mi viene data dall’indagine sull’organizzazione della scienza al Riken, uno dei più importanti istituti di ricerca del mondo. Sarà Angelo Volpi, al tempo responsabile Scienze e Tecnologie dell’Ambasciata d’Italia a Tokyo, a raccontarmi che in Giappone “non c’è lavoro di cui ci si debba vergognare, lavorare con impegno vuol dire condividere una missione, quella stessa che fa grande la nazione” (Moretti, 2008). Due domeniche dopo, quando scendo per la passeggiata e trovo nel cortile una trentina di volontari di ogni età pronti a pulire prati e strade del Riken non mi sorprendo, così come non mi ero sorpreso il sabato precedente a Odaiba quando salendo le scale che conducono al palazzo della Fuji Tv ero stato rapito dalla cura con cui l’uomo in divisa lucidava i corrimano. Quando io e mio figlio Luca, assistente, interprete, compagno di viaggio, ritorniamo a casa, ci scopriamo vittime di una sorta di jet lag sociale: Napoli è sempre Napoli, Sorrento, Capri e Posillipo visti da casa continuano a sembrarci incantevoli, eppure abbiamo l’impressione di vivere all’incontrario, ci vorrà un po’ per tornare “normali”.

Bella Napoli, bella Tokyo

Napoli 2011. Come sempre più spesso mi accade l’idea di raccontare la città attraverso le storie di persone diverse per età, lavoro, quartiere e però accomunate dall’amore per il loro lavoro è nata per caso, mi ci sono prima abituato e poi entusiasmato, neanche l’uscita del libro basta a fermarmi, continuo a cercare dignità e passione per il lavoro nelle persone che incontro. Nell’ultimo mese ho intervistato Salvatore, dipendente dell’azienda di trasporto locale; Rosa, estetista che ha trovato la sua strada a San Casciano Terme; Lelio, paroliere, musicista, leader dei JFK e La Sua Bella Bionda che il suo spartito lo ha cercato invece tra Londra, Parigi e Napoli; Renato, maestro di chitarra con tanto di laurea al conservatorio, sommelier, lavoratore in scadenza di contratto al museo di arte moderna, laurea magistrale in lingue a un passo, un napoletano che parla inglese, francese, giapponese e russo.

Salvatore dice che solo chi ha fatto la gavetta può capire veramente quanto sia importante il lavoro e perché bisogna rispettarlo, farlo bene, con responsabilità, senza cercare alibi nelle mille cose che non funzionano come dovrebbero. Io non penso sia così, però quando ho scritto su Facebook che un giorno svelerò la differenza tra quelli che sono cresciuti mangiando la zuppa di latte con il pane e quelli che invece la zuppa la fanno con i biscotti un po’ sono stato contento dello scompiglio che si è creato.

Silvio Piersanti mi riporta a Tokyo, racconta su Repubblica di sua moglie Kyoko e di suo figlio Tomoyuki alle prese con il grande terremoto, racconta di Buon’Italia, il negozio dove Kyoko vende olio e miele e altri prodotti italiani, dello psicotsunami che sta sconvolgendo la sua vita, di Kyoko che gli dice “sono sfinita, ma sento la profonda soddisfazione di aver fatto tutto quello che era necessario per me, per la mia famiglia, per il mio lavoro, per il mio Paese. Se ognuno di noi farà la sua piccola parte, riemergeremo anche questa volta”.

Con la testa e con le mani

New York 1962, Tokyo 2007, Napoli 2011, mezzo secolo, tre metropoli e il valore del lavoro. Il lavoro come dignità, come rispetto, come cultura materiale, come voglia di fare le cose per bene perché è così che si fa, come capacità di tenere assieme, nel processo del fare, testa e mani.

Lavoro “in sé” e lavoro “per sé”

Ma esiste ancora questo lavoro di cui parli tu? Maria, 27 anni due giorni prima del prossimo Natale, la questione la prende come avrebbe fatto mio padre, “di faccia”. Il tuo libro è bello – mi dice –, ma ci sono alcune storie, ad esempio quella di Giovanna, la lavoratrice del call center, che si fa fatica a considerare vere. Guarda che io l’ho fatto per un anno e mezzo quel mestiere lì – aggiunge -, e ti garantisco che è un lavoro assurdo, alienante, spersonalizzante, altro che l’apologia del sorriso telefonico. Avrei potuto rispondere che è tutto vero, che basta ascoltare la registrazione per rendersene conto, che di quella storia lì mi è dispiaciuto di non aver registrato il video, che il fatto è che nascere e crescere a via Chiaja è una cosa, al rione Luzzati è un’altra. Sì, avrei potuto farlo, non l’ho fatto. Le ho detto solo che il lavoro di cui racconto io non è il lavoro “in sé”, che da quel punto di vista come darle torto, è il lavoro “per sé”, che insomma quello che cerco io è l’approccio dell’artigiano, quello che ti fa provare soddisfazione nel fare bene una cosa “a prescindere”, qualunque essa sia, pulire una strada, progettare un centro direzionale, scrivere l’enciclopedia del dna, cucinare la pasta e fagioli. Sì, gli ho detto che sono un uomo in cerca di una cultura, di una vocazione, di quella “cosa che fai con gioia, come se avessi il fuoco nel cuore e il diavolo in corpo”, come diceva Josephine Baker.

Si può fare, si fa

Non so se cerco l’impossibile, penso di no, perché altrimenti Kyoko non avrebbe detto “mi rimbocco le maniche e comincio a spingere fuori del negozio la melma [… di vino e miele …] che copre il pavimento. L’indomani mattina Buon’Italia è aperta”; Sennett non avrebbe scritto che “l’artigiano è la figura rappresentativa di una specifica condizione umana: quella del mettere un impegno personale nelle cose che si fanno”; Renato non avrebbe definito il suo lavoro di maestro di chitarra come “l’umiltà con la quale cerchi di trasmettere qualcosa”, come “il calore che riesci a fare quando fai qualcosa”.

Certo che poi ci vuole equilibrio tra contributi, ciò che il lavoratore dà all’organizzazione, e incentivi, ciò che l’organizzazione dà al lavoratore (Barnard, 1970); certo che il dirigismo e la competitività senza qualità indeboliscono la motivazione e rendono tutto più difficile, in fondo militiamo nel sindacato, ci iscriviamo alla Cgil, anche per superare queste difficoltà; certo che aiuterebbe la presenza di uomini come Adriano Olivetti, che pensava che le sue fabbriche, i suoi negozi, le sue macchine da scrivere, dovessero racchiudere tutta la bellezza e la tecnologia possibile, o come Enzo Ferrari, che intorno alle auto da corsa inventò il mito che il mondo ci invidia; certo che la ricerca del meglio si riferisce all’approccio e non ai risultati dato che siamo persone a razionalità limitata (March, 2002). Rimane il dato di fondo, il bisogno di un ribaltamento culturale, l’urgenza di spostare l’ago della bussola dal riconoscimento sociale della ricchezza al riconoscimento sociale del lavoro, dal valore dei soldi al valore della conoscenza, del sapere, del saper fare.

Fare è pensare

In questi tempi un po’ così si fa fatica a vederlo, ma il lavoro è anche un valore, un bisogno in sé, uno strumento importante per organizzare la propria vita in un sistema di relazioni riconosciute, per soddisfare le proprie aspettative di futuro, per contribuire a creare ricchezza a livello non soltanto economico ma anche sociale. Attraverso il lavoro, il sapere, il saper fare possiamo cercare, in una pluralità di ambiti e di circostanze, di vivere vite più degne di essere vissute. Si, secondo me ha ragione Sennett, fare è pensare. In fondo solo se ci pensi puoi amare veramente ciò che fai.

Accadde un autunno

Il ’69, il lavoro, i diritti raccontati ai giovani
Alba Orti e Vincenzo Moretti

Cosa voleva dire studiare e lavorare 40 anni fa, al tempo dell’autunno caldo, delle conquiste operaie e dell’unità sindacale? Cosa vuol dire invece oggi? E ancora: cosa ha significato lo Statuto dei Lavoratori per gli studenti e i lavoratori di allora? E cosa significa per gli studenti e i lavoratori oggi? E infine: cos’è cambiato nella scuola e nel lavoro, sul terreno dei valori, dell’organizzazione, delle opportunità, nel corso di questi anni? E cosa invece no?

Il senso di Accadde un Autunno, iniziativa promossa dalla Fondazione Giuseppe Di Vittorio e dallo SPI CGIL Nazionale, attraverso Progetto Memoria, è in buona sostanza qui, nel tentativo di rintracciare risposte possibili alle domande difficili, di condividere storie, racconti, testimonianze intorno alla condizione della scuola e del lavoro oggi e alla fine degli anni ’60, intorno alle conquiste e alle trasformazioni rese possibili dall’iniziativa e dalle lotte operaie e sindacali fino alla conquista dello Statuto dei Lavoratori di cui ricorre nel maggio del 2010 il 40esimo anniversario.

L’idea, l’auspicio, è che attraverso il racconto sia possibile ancora una volta non solo favorire l’incontro di generazioni diverse intorno a questi temi, ma anche indicare cause, segnalare conseguenze, ripensare senso e significato di quella straordinaria stagione di lotta, di proposta, di cambiamento, che va sotto il nome di autunno caldo e di questa lunga stagione di incertezza che sembra ridurre sempre più le aspettattive di futuro, in primo luogo quelle delle giovani generazioni.

Con Accadde in Autunno contiamo in definitiva di contribuire alla riflessione e alla discussione intorno al rapporto tra scuola, lavoro e società, tra scuola, lavoro e libertà, tra scuola lavoro e partecipazione, tra scuola lavoro e democrazia, tra scuola, lavoro, condizione e protagonismo delle donne. Com’è oggi e com’era 40 anni fa.

Andremo perciò alla ricerca degli elementi di continuità e, più verosimilmente, delle differenze tra le lotte per la conquista di una “scuola per tutti” e le attuali proposte e mobilitazioni per una scuola capace davvero di rispondere prima di tutto alle esigenze di chi ci studia e ci lavora, contro il disegno restauratore del ministro Gelmini; tra le 150 ore definite nel contratto nazionale di lavoro e la raccolta di firme per la legge di iniziativa popolare sull’educazione permanente; tra gli anni del lavoro nella grande fabbrica per tutto l’arco della vita e il lavoro e la sua rappresentanza al tempo della società liquida, incerta, precaria.

Protagonisti dell’iniziativa saranno i ragazzi del 4 e 5 anno delle scuole superiori di diverse città italiane, i loro insegnanti, i loro nonni e zii (i lavoratori e delegati di allora), i giovani lavoratori e delegati che oggi sono impegnati a difendere e ad allargare i diritti di chi lavora.

La raccolta di testimonianze e racconti si concluderà nel marzo 2010, mentre i risultati dell’iniziativa saranno diffusi nel maggio dello stesso anno in concomitanza per l’appunto con il  40esimo anniversario dello Statuto dei Lavoratori.

Quale politica per la transizione italana

Strano ma vero, il racconto di La democrazia dei cittadini si dipana tra parole chiave come amicizia, cittadinanza, Costituzione, democrazia, futuro, giovani, leader, movimenti, partecipazione, PD, Ulivo, o anche Berlinguer, De Gasperi, Moro in maniera lieve e appassionante.

A renderlo tale è innanzitutto la concezione dell’amicizia come valore fondamentale non solo nella sfera personale – il sentimento profondo che lega Scoppola e Ariemma, Autore e Curatore del volume, Presidente e Vice dell’Associazione “I cittadini per l’Ulivo” -, ma anche nello spazio pubblico. Questa dimensione politica dell’amicizia emerge a più riprese, ad esempio quando Scoppola scrive che “I cittadini per l’Ulivo […] devono instaurare tra le varie componenti, oltre che un rispetto reciproco, un clima di amicizia, senza il quale è difficile dare vita ad una volontà politica comune”, o quando individua nell’amicizia la risposta alla solitudine involontaria, o ancora quando pensa all’amicizia come a una leva importante per definire i caratteri di un welfare rinnovato.

Poi ci sono le qualità umane e politiche di Scoppola, il suo tenere sempre alto lo sguardo, la consapevolezza che “con i personalismi i partiti non salvano la loro visibilità e identità, ma vanno semplicemente alla sconfitta”, che c’è un urgente bisogno di “persone di buona volontà, contente di fare il loro mestiere, disposte a lavorare per l’Ulivo, che non cercano candidature”, che la vera ambizione non può che essere quella di “tirar fuori il Paese dalle secche in cui lo ha cacciato una politica ispirata solo agli interessi personali e alle logiche di mercato”.

Scoppola insomma non è solo “un cattolico a modo suo” che vive “la fede come scelta, come rischio di un impegno senza riserve, come scommessa”, ma anche “un politico a modo suo” che concepisce la politica come disegno per il futuro, come terreno di confronto e di iniziativa per persone che intendono contribuire, con la loro testa e le loro mani, al processo di rinnovamento della democrazia italiana.

Sia chiaro. Il libro non concede nulla all’antipartitismo, del tutto estraneo alla cultura, alle convinzioni, al percorso politico di Scoppola e di Ariemma; esso mette piuttosto in evidenza le ragioni per le quali alla crisi della repubblica dei partiti bisogna rispondere con la repubblica dei cittadini, la più idonea a definire progetti e selezionare classi dirigenti all’altezza delle nuove sfide.

Sul nesso tra crisi della democrazia italiana e scarsità di classi dirigenti Scoppola torna più volte, ad esempio quando afferma che “la transizione, a trentanni dall’assassinio di Moro, è ancora incompiuta perchè senza guida, affidata a iniziative molteplici e contradditorie” o quando, nell’ultima intervista a Repubblica, sottolinea che “la transizione italiana è povera di veri leader politici, di grandi disegni, di cultura”.

Scoppola e Ariemma non pensano a leader modello “un uomo solo al comando”, ma piuttosto a gruppi dirigenti rappresentativi, ricchi di personalità di primo piano, in grado nel nuovo contesto di produrre beni identitari, di rappresentare valori e ideali, di proporre programmi e prospettare soluzioni ai problemi del Paese.

La democrazia dei cittadini è un libro che vale anche per questo, perché ricostruisce in maniera mirabile il senso di una storia, dall’Ulivo al Partito Democratico, nella quale a tutti coloro che, si identifichino o meno con un partito, sono interessati alla politica, al valore della Costituzione, all’incontro tra mondo cristiano e sinistra come condizione e fine per costruire un nuovo e più robusto costume morale, civile e politico degli italiani, viene chiesto di mobilitarsi, singolarmente e attraverso le loro associazioni, per alimentare il processo democratico.

Le connessioni, le domande, che tengono assieme soggetti, progetti, contenuti e luoghi della “nuova” politica, hanno origine anche in questa storia. Non solo “Perché nasce il Partito Democratico? Su quali radici può già contare? Quale il suo retroterra sociale e culturale? Quali valori e interessi intende rappresentare? Quale il rapporto con i movimenti?”, ma anche “Noi che ci stiamo a fare? Cosa facciamo per mettere in circolo nuove energie, per sostenere il radicamento sociale e territoriale del nuovo partito, per favorire il confronto di idee e gruppi dirigenti, per cambiare in meglio i partiti, la politica, il Paese?”.

Per Scoppola e Ariemma ripartire dalla base, dalla società civile, dal mondo della cultura, dall’esperienza de “I Cittadini per l’Ulivo” vuol dire prima di tutto questo. Non basta chiedere ai partiti. Per costruire una cultura comune a partire dai temi etici, dalla giustizia sociale, dai giovani occorre che le energie presenti facciano sentire la loro voce, assumano le loro iniziative sul territorio, diano senso all’appartenenza comune, “vadano avanti come l’idea stessa di processo richiede, senza aspettare le decisioni dei vertici”.

La democrazia dei cittadini è in definitiva un libro appassionante perché racconta e suggerisce quella politica che, da Aristotele ad Hanna Arendt, è fatta di partecipazione, di cui non è sufficiente ricercare il fine o lo scopo, a cui occorre dare un senso.

Cercansi cittadini disposti a contribuire con il proprio mattone.

Il soggetto. E l’organizzazione

Confesso che diventa sempre più difficile. Soprattutto per chi, come me, non facendolo di mestiere, si ritrova per varie ragioni a recensire soltanto libri che gli sono piaciuti. Che ha trovato belli. Interessanti. Degni per l’appunto di un articolo che li analizza in modo critico (come da definizione del termine “recensione” del Vocabolario De Mauro Paravia). Si rischia di finire vittima dell’autocensura. Della ricerca a tutti i costi di limiti e difetti da mostrare come garanzia di obiettività. Della categorica necessità di non esagerare con l’entusiasmo, con i commenti positivi.
Per una volta ancora no. Si farebbe un torto troppo grande al libro. E a chi lo ha scritto. Della produttività è infatti non solo un libro colto. Agile. Utile. Mai banale. Ma è anche di quei volumi che hanno la straordinaria qualità di dirti, darti, delle cose e di spingerti allo stesso tempo a saperne di più. Di quelli insomma che mentre li leggi ti fanno venire voglia di leggerne altri. Che ti danno piacere oltre che dati, informazioni, conoscenze.
Lo stile narrativo di Franco Farina, la sua naturale capacità di tenere assieme la dimensione pubblica del discorso e quella privata, gioca sicuramente una parte importante in questa direzione, come appare con particolare evidenza nella bella Postfazione dedicata a Bruno Trentin. Ma c’è di più. C’è la formazione culturale dell’Autore, quel suo essere una sorta di strano ircocervo un po’ sociologo, un po’ filosofo, un po’ sindacalista, come appare dal titolo che ha voluto dare al suo lavoro, dagli incipit scelti, dai primi autori citati, Hans Magnus Enzensberger e Fredrick Taylor, Luciano Gallino e Ludwig Wittgenstein. C’è soprattutto il fatto che Farina parla di cose che conosce a fondo sia dal punto di vista teorico che dal punto di vista pratico, aspetto questo molto meno scontato di quanto di norma non si sia portati a credere.
Questioni di conoscenza, insomma. E di compentenze. Di sapere. E di saper fare. Che per l’appunto permettono all’Autore di condensare in poco più di 100 pagine un percorso, non solo organizzativo, che, come egli stesso esplicita a più riprese, esplora le ragioni per le quali sono le persone, con le loro conoscenze e le loro competenze, il punto di riferimento chiave per comprendere come funzionano le organizzazioni. Per individuare le strategie più adatte, a livello di sistemi territoriali così come a livello di singola unità produttiva, per migliorare la qualità del lavoro e dunque la produttività.
È questo a nostro avviso le trait d’union che attraversa e tiene assieme i quattro capitoli che, ancora una volta con una efficace contaminazione tra elementi di teoria e di analisi, esperienze e proposte,  compongono il volume.
La qualità del lavoro è la bussola che accompagna il lettore nel viaggio dall’uomo impersonale e senza qualità, rotella da sincronizzare nell’ineccepibile ingranaggio dell’industria tipico della One Best Way di Taylor fino alla soggettività del lavoro, all’importanza dei fattori istituzionali e ambientali nell’analisi delle strutture e dei processi organizzativi,  all’idea che l’impresa può essere compresa a partire dalle culture organizzative che in esse si affermano e sono prevalenti e che dunque sono i soggetti molto più delle strutture a determinare il carattere, i processi decisionali, le storie, i successi e i fallimenti delle organizzazioni.
Buona lettura.

La condivisione necessaria

Di comunicazione. Di controllo. Di decisione. Di fiducia. Di partecipazione. Di programmazione. Di rendicontazione. Di responsabilità. Di trasparenza. Di tutto questo e di molto altro ancora si può leggere acquistando “Fiducia e responsabilità nel governo dell’ente pubblico” (un titolo che forse non rende del tutto giustizia alla ricchezza delle idee, della metodologia, dei casi di studio, delle indicazioni che in esso sono presentate).
Come spiegano Cristiana Rogate e Tarcisio Tarquini nell’introduzione, nei cinque capitoli  che compongono il volume sono introdotte le idee guida fondamentali della responsabilità e della rendicontazione sociale, viene approfondito nei suoi diversi aspetti e per le sue molteplici implicazioni (direttiva Funzione Pubblica, riforma degli enti territoriali, ecc.) il tema rendicontazione nell’ambito pubblico, viene indicata ed esplicitata, con l’ausilio di diversi esempi, la metodologia adottata, sono presentate le storie di caso relative a due regioni, una provincia e tre comuni, vengono declinate alcune possibili ulteriori articolazioni della rendicontazione sociale, come ad esempio il bilancio ambientale, di sostenibilità, di genere, partecipativo, Agenda 21.

A fare da filo conduttore c’è l’importanza del “rendersi conto per rendere conto”, come scrive Leonardo Domenici, Presidente ANCI, nella sua presentazione. Con il loro lavoro Rogate e Tarquini parlano infatti al management, a quelli che l’ente pubblico (o l’impresa privata) hanno necessità di conoscerlo per definire strategie, per prendere decisioni, per ridurre il più possibile il divario necessariamente esistente, nei nostri controversi, ambigui mondi a razionalità limitata, tra ciò chi ci si prefigge di fare e ciò che effettivamente si riesce a fare; parlano a quelli che nell’ente pubblico (o nell’impresa privata) lavorano, cercano motivazioni, consapevolezza, senso per assolvere meglio al proprio compito, per coniugare soddisfazione, efficacia, efficienza, per dare valore al proprio lavoro; parlano a quelli che, per variegate ragioni e in contesti differenti (utenti, clienti, partner, finanziatori, in una parola gli stakeholder), con l’ente pubblico (o l’impresa) interagiscono, e che in tale interazione possono tanto più attivare e incontrare percorsi virtuosi quanto più possono condividere dati, informazioni, consapevolezza, conoscenza.

Ma non finisce qui. Perché il lato buono della forza di questo volume, l’ulteriore lato buono, sta a nostro avviso nel suo background connettivista, nell’idea che sono le persone, con la loro capacità di apprendere, di comunicare, di strutturare comunità di interazione, a creare conoscenza, a rendere riconoscibili le organizzazioni che dirigono, nelle quali lavorano, con le quali interagiscono e che dunque le organizzazioni (enti pubblici, associazioni non profit, imprese, etc.) hanno l’interesse a favorire contesti e percorsi di condivisione, di partecipazione, di sviluppo delle conoscenze, delle competenze, della creatività dei singoli per sviluppare idee, per creare valore, per essere coerenti con la propria mission, per rendere trasparenti e verificabili i risultati conseguiti.

Sta qui a nostro avviso un ulteriore importante valore aggiunto del libro. Che per questo non è solo un volume specialistico. Un saggio da leggere o da studiare se si intendono percorrere le vie della rendicontazione sociale. Una guida per tutti quelli che hanno già avuto esperienze in questo ambito e vogliono migliorare il proprio approccio, la propria possibilità-capacità di raggiungere gli obiettivi programmati. E per tutti quelli che di rendicontazione sociale hanno solo sentito parlare e hanno voglia di saperne di più.
“Fiducia e Responsabilità nel governo dell’ente pubblico” è anche, per taluni versi soprattutto, una straordinaria operazione di sensemaking, un tentativo molto ben riuscito di focalizzare questioni e opportunità che le organizzazioni incontrano mentre operano, di conferire senso e significato a un processo, quello della rendicontazione sociale, che non può rimanere nei confini della sperimentazione, della decisione di classi dirigenti e leadership illuminate, ma deve diventare norma, “pratica usuale di un paese normale”. E se è vero che lo spazio di intersezione tra i processi di   creazione di senso e i processi di organizzazione si fanno sempre più ampi, ecco che tale “pratica” può dare un contributo davvero importante all’affermazione di un agire sociale basato sulla responsabilità, sulla partecipazione, sulla costruzione di un contesto condiviso per l’azione.
Chi pensa che l’Italia non ne abbia bisogno scagli pure la prima pietra.
Buona lettura.

Cristiana Rogate, Tarcisio Tarquini
Fiducia e Responsabilità nel governo dell’ente pubblico
Maggioli Editore
Pagg. 382
Euro 38.00

Il prototipo Pirelli

È bene dirlo subito: per quanto sia dura resistere, leggere il libro di Carlo Ghezzi e Marica Guiducci con l’ansia di correre all’ultimo capitolo, laddove si narra delle vicende che hanno portato Sergio Cofferati a Bologna, è un clamoroso errore.

“La strada del lavoro” è infatti molto di più della testimonianza in presa diretta, della pur preziosa ricostruzione di passaggi significativi della storia repubblicana da parte di “una voce di dentro”. È prima di tutto il racconto di un modo di vivere il sindacato e la politica. Il modo di chi sa pensare e decidere con la propria testa. Di chi vive l’utopia come progettualità sociale, come esito di processi nei quali convivono idee e concretezza, passioni e realismo. Di chi anche nelle fasi più difficili sa indicare una prospettiva, non si abbandona al pessimismo e alla sfiducia. Di chi non si riconosce nella politica tutta schiacciata sulla figura del leader, insofferente verso la fatica e le regole della partecipazione, perennemente tesa a semplificare, sostanzialmente antidemocratica. Di chi sa che bisogna tenere assieme le lotte di ogni giorno per migliorare le condizioni di vita e di lavoro e quelle per la difesa della democrazia, contro il terrorismo, le strategie economicamente neoliberiste e antisolidaristiche sul piano sociale.
Riformismo e radicalità: è su queste basi che viene costruito quel “prototipo Pirelli” che non si sarebbe affermato senza gruppi dirigenti autorevoli, con una diffusa capacità di confrontarsi con i lavoratori, di interpretare le loro esigenze, di ricercare soluzioni condivise anche quando sanno che sono dolorose.

Su “La strada del lavoro” si incontrano insomma tante cose.
Il valore del lavoro, senza il quale, non manca di sottolinearlo Paul Ginsborg nella sua bella prefazione, il “ciascuno è indebolito nella sua soggettività e privato dell’appartenenza alla comunità”. I diritti e i doveri della cittadinanza. La giustizia come prima virtù della società. L’idea di un’eguaglianza non solo formale ma anche sostanziale. L’idea di una politica fatta di partecipazione, di cui non è sufficiente ricercare il fine o lo scopo, a cui occorre dare un senso, che per questo non può non costituire la preoccupazione di ogni uomo libero.

Sta qui la forza del libro. Nella sua capacità di trasmettere tutto questo attraverso le storie che racconta. Quando a fare da protagonisti sono Carlo Gerli o Giuseppe Fenzio così come quando sono Bruno Trentin o Luciano Lama. Senza retorica e senza ideologismi. Con una tensione politica che traspare da ogni pagina, da piazza Fontana alle vicende del Corriere della Sera, dagli autoconvocati a tangentopoli, dal terrorismo che ritorna all’elefante CGIL che fa da diga e si ritrova solo.

Un racconto insomma tutto da leggere. Con un’assenza e un sospetto.
L’assenza è quella del Sud d’Italia e in larga parte si spiega con la le radici e storia, privata e pubblica, del protagonista. In larga parte però non vuol dire del tutto e forse sarebbe utile domandarsi perché: i) in quanto questione generale, da tempo quella meridionale è “una questione che non c’è più” anche nel sindacato; ii) il movimento sindacale meridionale incontra crescenti difficoltà a svolgere un ruolo e una funzione nazionale.

Il sospetto, del quale lo stesso Ginsborg si fa interprete, è che l’affetto che lega Ghezzi e Cofferati abbia indotto una sorta di autocensura intorno alle ragioni che hanno portato l’ex leader della CGIL ad “abbandonare il campo”.
Vero? Falso? Possibile. Ma forse per comprendere cosa è successo occorre scegliere un punto di vista meno usuale, guardare sì al Cofferati mosso “più dagli eventi che da un intimo convincimento” come al Cofferati “vero”, ma in un’accezione diversa da quella che sembra suggerire Ginsborg.
Proprio la capacità di cogliere il potenziale insito nella situazione, di rifiutare i modelli, di puntare sui fattori portanti, di comprendere gli eventi, di puntare sul rinnovamento a venire della situazione, è il filo rosso che tiene assieme il percorso sindacale e politico di Cofferati, nei lunghi anni nei quali sembrava condannato a rimanere il numero due del sindacato dei chimici così come nelle straordinarie iniziative per la difesa dell’articolo 18.
In questo senso Cofferati è davvero “cinese”. Per il suo modo di intendere l’efficacia dell’azione sindacale e politica. Per la “naturale” propensione a ritenere che nei momenti di difficoltà, quando gli eventi non sono propizi, ci si debba “ritirare” e, “non agendo”, così facendo, aspettare che ogni cosa sia compiuta. Per la innata convinzione che la scelta di stare in campo ad ogni costo non è mai destinata, “di per sé”, a produrre gli effetti desiderati.
Facciamo un esempio?
L’anno era il 1995, e chi scrive aveva di fronte, nella stanza al quarto piano di Corso d’Italia, proprio Cofferati e Ghezzi. Ricordo che opposi un orgoglioso, coraggioso, coerente “no” alle diverse soluzioni che mi venivano prospettate per risolvere la questione politica che avevo aperto. E che con una collera che mai più avrebbe avuto nei miei confronti Cofferati mi congedò sottolineando che, a prescindere dalle ragioni e dai torti, la mia scelta avrebbe prodotto più danni della peggiore delle proposte che lui e Ghezzi mi avevano fatto.
Mi costa ancora fatica ammetterlo, ma la profezia di Cofferati si è avverata. Naturalmente, le sue scelte del tempo non sono state ininfluenti nel determinare tale esito, così come probabilmente non lo sono state, per tornare al punto, quelle di D’Alema e Bertinotti nel determinare il suo approdo a Bologna. Ma nella strategia cinese ogni movimento contribuisce al divenire complessivo. E forzare gli eventi è sempre la peggiore delle opzioni possibili.

Carlo Ghezzi e Marica Guiducci
La strada del lavoro
Prefazione di Paul Ginsborg
Baldini Castoldi Dalai Editore
Pagg. 300
Euro 17.00


Il vino dei mietitori

Franco Araniti, poeta che scrive nel dialetto dei “quadarari”, gli stagnini di Dipignano, nelle serre cosentine calabresi; Emilio Argiroffi, medico, poeta, pittore, sindaco di Taurianova, Senatore della Repubblica; Giuseppe Coniglio, poeta dialettale, bracciante agricolo, mastro costruttore di muri a secco; e poi ancora Adele Pantuso di Verzino, insegnante, Bruno Pierozzi, pittore, Oreste Lupi, capitano nei mari del mondo, sindaco di San Donato Milanese.

Si chiamano così le donne e gli uomini, le persone, protagoniste delle “Dissestate Rime” di Sandro Taverniti, calabrese, dirigente della CGIL (Federbraccianti, Confederazione, SPI, attualmente segretario regionale dello SPI Molise), da sempre “costretto” a fare i conti con “una strana voglia di scrivere / quasi una pena sottile / scoprendo sotto la coltre / degli anni ormai numerosi / le opposte e uguali paure / di vivere e di morire”.

È una strana voglia che chi ha letto “Quando Maria Cantava”, il volume di racconti pubblicato qualche anno fa, conosce bene. È la strana voglia che siamo certi attraverserà “Nel paese dei due Re”, il volume di prossima uscita che racconta la “sua” Calabria. È una strana voglia che in questa sua raccolta di poesie si presenta con particolare forza e intensità.

In parte contribuisce in questo senso il carattere stesso della poesia, il suo essere, fin dai tempi antichissimi dei canti a batocco dei contadini e dei racconti dei cantastorie, significato, suono, ritmo.

Ma ciò che davvero colpisce è la sensibilità, l’appassionata semplicità, il sapore autentico delle “Dissestate rime / per vecchi brindisi/ d’uomini di fatica/” attraverso le quali Taverniti racconta i suoi stati d’animo, i volti, le storie, i luoghi della sua terra.

Nelle poesie di Taverniti i luoghi hanno un’anima anche quando “tutte le braccia sono ormai ferme / muti i canti delle vendemmie / e i sudati mietitori coi rimbrotti / dalla massaia più non pretendono / l’apro vino dalla verde borraccia”.
Nel giocare con le parole e con le rime egli non esita a scrivere “nel sacchetto del vomito / dell’aereo nella tempesta / così per dissimulare la paura / Parole senza cura”.

Il fatto è che Taverniti è una persona vera. Che scrive di persone vere. Di quelle che sarebbero balzate in piedi per applaudire la grande Anna Magnani che, al truccatore che la stava preparando per una scena, disse “Non mi togliere nemmeno una ruga. Le ho pagate tutte care”. Di quelle senza effetti speciali. Nel cuore, talvolta, soltanto un rimpianto. O una spina.

La critica inconsapevole dei marxisti

Si può ritenere Karl Marx “un autore misconosciuto, vittima di una profonda e reiterata incomprensione”?
A leggere l’introduzione di Marcello Musto, curatore di questo interessante, rigoroso, sorprendente, volume, sì.
A suo avviso Marx è stato tale “nel periodo durante il quale il marxismo era politicamente e culturalmente egemone, tale rimane ancora oggi”, e le cause principali di tale paradosso sono “il tortuoso processo della diffusione degli scritti di Marx e l’assenza di una loro edizione integrale, insieme con la primaria incompiutezza, il lavoro scellerato degli epigoni, le letture tendenziose e le più numerose non letture”.

La questione è di quelle destinate a lasciare il segno. Nella storia e nel futuro del pensiero socialista. Nella conoscenza di questo straordinario filosofo, economista, storico, saggista, editorialista. Nella testa e nel cuore di chi legge il libro.

Non si può negare un certo sconcerto di fronte ad affermazioni, convincimenti, demarcazioni, del giovane e bravissimo curatore, che in maniera tanto netta evidenzia gli abusi e i sorpresi perpetrati ai danni del grande vecchio di Treviri; quando si vede minacciato l’impegno e la passione con il quale ci si è misurati con il suo pensiero; quando ci si ritrova a pensare che tutti quei libri così gelosamente custoditi, salvati dal riflusso, dal reaganismo, dal craxismo, dal berlusconismo, dalla critica roditrice dei figli (che sa essere più feroce di quella dei topi), sono in buona sostanza dei falsi.

Eppure mano a mano che si procede nella lettura, lo sconcerto lascia il posto alla scoperta, alla voglia di ricominciare, alla speranza che quello che anche i più ottimisti hanno ritenuto un pensiero straordinariamente nobile ma altrettanto datato e male applicato, possa tornare a essere attuale, a essere utile per l’oggi e per il domani.

Sta qui a nostro avviso il valore straordinario di questo volume, che si articola in quattro sezioni che raccolgono i saggi presentati nel corso di una conferenza internazionale svoltasi a Napoli nella primavera del 2004.
La prima sezione, per chi scrive quella più appassionante, è dedicata alla nuova edizione storico – critica della Marx Engels Gesamtausgabe (MEGA 2, 114 i volumi previsti, quasi la metà quelli già pronti, diretta dalla Internazionale Marx – Engels – Stiftung, pubblicata dalla Berlin -Brandenburgische Akademie der Wissenschaften), con interventi e saggi, tra gli altri, di Manfred Neuhaus, Gerald Hubmann, Izumi Omura.
La seconda sezione si sviluppa intorno al pensiero del Marx giovane, dalla dissertazione di laurea alla critica della politica, e propone tra gli altri interventi di Giuseppe Cacciatore, Marcello Musto, Stathis Kouvélakis.
La terza sezione analizza quella che molti hanno considerato l’opera più importante di Marx, Il Capitale, con interventi tra gli altri di Roberto Finelli, Geert Reuten, Christopher J. Arthur.
La quarta sezione propone infine le ragioni e i caratteri dell’attualità del pensiero marxiano, e presenta tra gli altri contributi di André Tosel, Domenico Losurdo, Alex Callinicos.

La lettura, per quanto impegnativa, risulta sempre non solo interessante ma anche scorrevole e ricca di sorprese. Sapete ad esempio che attraverso la banca dati elettronica dell’Università Tohoku, è possibile visionare le prime edizioni di alcune delle più importanti opere di Marx con note e dediche scritte a mano dall’autore? O che Marx e Engels sono stati per lungo tempo editorialisti del New York Tribune, al tempo il più importante quotidiano del mondo?

“Sulle tracce di un fantasma” è insomma un libro da non perdere, soprattutto per chi ritiene che la possibilità di “un nuovo accesso post-ideologico all’opera e al pensiero di Marx”, e dunque di una sua nuova modernità e attualità, possa mostrarsi ancora oggi una prospettiva utile, realistica, credibile, concreta nelle quotidiane fatiche per la conquista di un mondo almeno un po’ più eguale e meno ingiusto.

Sulle tracce di un fantasma
L’opera di Karl Marx tra filologia e filosofia
A cura di Marcello Musto
Manifestolibri
Pagg. 392
Euro 30,00

La retorica. E le opportunità

In maniera estremamente lucida e documentata, De Biase racconta in questo suo testo gli anni della follia e della depressione dell’economia digitale. Le speranze e le illusioni che hanno alimentato. Senza rinunciare a indicare i percorsi che possono aiutare a riprendere il filo dell’innovazione e dello sviluppo. Il leit motiv che attraversa il libro è, come si evince fin dal titolo, il rifiuto di ogni forma di fondamentalismo. Compreso quello digitale. Perché i fondamentalismi partono da presupposti sbagliati. Non aiutano a capire. Portano a scelte quasi sempre disastrose.

Non è vero, ci ricorda De Biase, che ogni nuova versione di un prodotto è migliore di quella precedente; ogni nuova tecnologia è una soluzione in cerca di un problema da risolvere; la domanda di nuovi prodotti è così infinita. La faccenda riporta alla mente le stupende pagine nelle quali Isaiah Berlin demolisce il mito platonico secondo il quale tutte le domande autentiche debbono necessariamente avere una sola risposta vera, c’è sempre una via sicura per arrivare alla verità, tutte le risposte vere debbono per forza essere coerenti tra loro (Isaiah Berlin, Il legno storto dell’umanità, Adelphi).

Il libro di De Biase sottrae finalmente la discussione sulle prospettive della società digitale alla furia immaginifica dei profeti “a prescindere” della nuova economia. I protagonisti tornano a essere l’innovazione tecnologica e i mutamenti economici e sociali che essa porta con sé. E l’obiettivo, lo sviluppo di un’economia nuova perché fondata su regole più chiare. Perché orientata a offrire maggiori opportunità ad un numero più vasto di persone. Perché lontana dalle follie delle bolle speculative.

La riflessione che De Biase ci propone con il suo libro è insomma assai interessante da più punti di vista e in particolare perché insiste su un tema che continua a essere assai rilevante: il rapporto tra regole, innovazione, cambiamento sociale, sviluppo.
Vista da Sud, a mio avviso la questione è interessante proprio per questo. Perché su questo asse – regole, innovazione, cambiamento sociale, sviluppo – il Sud può avere un ruolo davvero importante.

L’Università di Catania, con 162 progetti depositati, è il secondo ateneo in Italia, dopo il Politecnico di Torino, per realizzazione di brevetti europei. E tali progetti sono stati realizzati con la St Microelectronics, azienda leader nei semiconduttori, che nel 2002 ha investito a Catania oltre 91 milioni di dollari in ricerca e formazione. E non è certo un caso che la St Microelectronics sia diretta da un uomo del Sud, Pasquale Pistorio. Così come meridionali sono Renato Soru e Pierluigi Crudele, i capi di Tiscali e Finmatica, due delle realtà più importanti della nuova fase. Così come sono del Sud le 12mila donne che hanno risposto al bando sull’imprenditoria femminile promosso dalla Regione Campania.

È insomma innegabile il fatto che il Sud sia cambiato. Stia cambiando. In un modo per molti aspetti significativo. Eppure, com’è noto, tutto questo non elimina le distanze. Gli squilibri. I dualismi. I ritardi. E soprattutto non riesce ad assumere carattere e valore generale. A fare cultura. A determinare svolte. Da un lato c’è un Sud sicuramente cresciuto, nel quale non mancano esperienze e realtà positive. Dall’altro un Sud che nel suo complesso non riesce a innovare comportamenti, strategie e politiche. E che dunque continua a essere artefice, prigioniero e vittima della consistenza e della profondità dei propri problemi storici, continua a rimanere lontano dai livelli di sviluppo e di qualità della vita centro-settentrionali, continua a non valorizzare adeguatamente il proprio capitale umano e sociale.

Come sempre in questi casi, la domanda canonica è: che fare? Per quanto mi riguarda, continuo a pensare che il quadro potrebbe farsi più accettabile, o anche solo meno ingiusto, se sul piano nazionale e locale si adottassero, sulla base di criteri di sussidiarietà e responsabilità, scelte e iniziative mirate a coinvolgere i diversi attori sociali, economici e politici presenti sul territorio, così da definire un’agenda delle priorità, perseguire con sufficiente determinazione gli obiettivi individuati e raggiungerli almeno in parte (quella che di volta in volta sarà consentita dalla quantità e dalla qualità delle risorse umane, organizzative, finanziarie disponibili; dalla capacità, la coerenza e l’impegno di ciascuno; dalla contingenza).

E per quanto sia del tutto evidente che nell’agenda politica ed economica del paese questa esigenza non è, si può dire, all’ordine del giorno, non si può a mio avviso rinunciare, in primo luogo dal Sud, a lavorare per mantenere aperta questa prospettiva. Favorendo a ogni livello percorsi di educazione alla legalità e al rispetto delle regole. Investendo in socialità e formazione. Promuovendo lo sviluppo di reti sociali e tecnologiche. Diffondendo l’esperienza dei distretti. A partire dall’emersione e dalla valorizzazione di quelli esistenti. Riducendo il costo del denaro e attivando nuovi strumenti di sostegno finanziario con l’obiettivo di favorire e accompagnare lo sviluppo di imprese innovative. Per fare il definitivo salto di qualità il Mezzogiorno deve insomma allargare la propria capacità “di pensarsi a livello sociale come parte di una rete dinamica di eventi interconnessi in cui nessuno è fondamentale e ciascuno dipende dalla qualità e dalla coerenza delle relazioni con gli altri. Di pensarsi in un contesto nel quale l’insieme delle connessioni determina la qualità della struttura dell’intera rete”.

In questo senso le nuove tecnologie possono davvero fornire nuove e importanti opportunità. E sarebbe colpevole non coglierle. Prima di tutto dal Sud.

Luca De Biase
Edeologia. Critica del fondamentalismo digitale
Roma-Bari, Laterza, 2003
pp. 160, 12 euro

L’identità e i valori

Ettore Combattente, Luca De Biase, Biagio Giovanni, Vincenzo Moretti, Rosario Strazzullo, Riccardo Terzi

1. Il centro sinistra e la questione italiana
1.1. L’attenzione del mondo politico italiano è da tempo concentrata sulle prossime elezioni. Si discute di regole per assicurare ai contendenti uguali opportunità, di garanzie per coloro che usciranno sconfitti dalle urne, di tempi più e meno utili entro i quali eleggere il nuovo Parlamento.
Le scelte, di breve come di lungo periodo, sembrano in larga parte subordinate a tale obiettivo e la tendenza ad amplificare, e a tratti esasperare, la loro importanza, è ampiamente diffusa.
A nostro avviso, il voto servirà invece essenzialmente a determinare condizioni più o meno favorevoli all’avvio del processo di ricostruzione dello Stato democratico.
Riteniamo perciò necessario un dibattito meno condizionato dalla politica giorno per giorno, dall’angoscia dell’appuntamento decisivo, dalla sindrome dell’ultima spiaggia. Del resto, le stesse vicende della sinistra italiana, tanto ricche di appuntamenti prima decisivi e poi mancati, consigliano maggiore prudenza e lungimiranza.

1.2. La tesi di fondo di fondo che intendiamo sostenere è che il centro sinistra, se vuole credibilmente proporsi come forza capace di rinnovare l’Italia, deve dare voce al bisogno di valori presente nella società e, contemporaneamente, definire la propria identità, ricostruendo le culture e i soggetti politici che lo compongono, valorizzando i pluralismi e le differenze in esso presenti.
Per questa via esso potrà non solo spendere al meglio le proprie ragioni nel corso della competizione elettorale ma anche conquistare nuovi spazi di iniziativa ben oltre il voto ed i suoi stessi esiti.

1.3. La crisi di sistema con la quale si è chiusa la prima fase della repubblica si manifesta sempre di più come crisi di unità e di identità della Nazione e dello Stato. Essa ha travolto culture, soggetti e luoghi della politica e la sua risoluzione passa per la realizzazione di una compiuta democrazia dell’alternanza, fondata su regole condivise,   in cui le differenze si determinano non sui principi ma sulle scelte programmatiche e di governo.
In Italia, contrariamente a quanto avviene negli altri Paesi democratici,  è questa una frontiera ancora tutta da conquistare. I tempi e le caratteristiche con cui tale processo potrà realizzarsi dipendono fortemente dall’impegno, la consapevolezza e la capacità di innovazione che le diverse forze sapranno mettere in campo.

1.4. Non ci si può dunque limitare alla individuazione di un leader. Né appare convincente la rincorsa a  modelli di formazione e di definizione delle scelte tradizionalmente caratteristici delle forze di centro destra.
Esse propugnano l’idea del capitalismo come società naturale ed utilizzano la crisi dei partiti per sostenere e dare una base di massa alla propria cultura plebiscitaria.
Alle forze di centrosinistra spetta dunque il compito di rimotivare la politica, di rinnovarne le forme, di evitare che la costante opera di devalorizzazione dei partiti sia di fatto finalizzata alla costruzione di comitati e macchine elettorali, o, peggio ancora,  di una sorta di Forza Italia di area progressista.
I nuovi ed inediti problemi di partecipazione presenti nella società italiana richiedono necessariamente risposte  complesse, regole democratiche che non lascino margini a tentazioni di tipo plebiscitario, analisi e approfondimenti che sappiano andare al di là della polemica politica quotidiana.

2. Gli elementi di contesto
2.1. Tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli ottanta, con le vittorie di Margaret  Thatcher in Inghilterra e di Ronald Reagan negli Stati Uniti, la destra afferma la propria capacità di presentarsi come forza moderna e innovativa, in grado di dialogare e di rispondere alle aspettative di ceti diversi.
In qualche modo essa comprende in anticipo la crisi del rapporto tra blocchi sociali e scelte politiche e a tale crisi risponde riaggiornando e rilanciando quelle idee e ricette liberiste sulle quali edificherà la sua lunga stagione di governo nei principali paesi occidentali.
Il mercato, la ripresa economica, l’innovazione tecnologica, la riduzione delle tasse oltre che obiettivi puramente economici diventano così modelli culturali attorno ai quali conquistare e consolidare la leadership sociale e politica.

2.2. Gli anni 90 sono segnati invece  dalla crisi del liberismo. Sono gli anni in cui negli Stati Uniti i democratici riconquistano la leadership dell’Unione e nella Germania riunificata viene avviato, con uno sforzo senza precedenti e non ancora concluso, il programma per l’integrazione e lo sviluppo dell’ est. La stessa vittoria di Jacques Chirac in Francia è resa possibile dal recupero di concetti e valori della destra plebiscitaria e popolare e non certo dall’impostazione rigorista che aveva reso famosa la signora di ferro.
In Italia, la vittoria di Silvio Berlusconi nelle elezioni del 27 marzo 1993 presenta invece significativi caratteri di controtendenza. Vendendo sogni prima ancora che benessere, slogan piuttosto che concrete soluzioni ai problemi aperti, egli riesce a presentarsi, utilizzando messaggi generici e semplificati, come l’elemento di novità sulla scena politica italiana.

2.3. Negli stessi anni la sinistra, nonostante la forte spinta al cambiamento avviata a ridosso della caduta del muro di Berlino, appare statica, poco incline o comunque troppo lenta a cogliere le novità che vanno maturando nella società.
La sua capacità di attrazione, fondata sulla difesa degli interessi e dei pezzi di welfare funzionali alla loro tutela, si riduce sempre più mentre la sua iniziativa appare determinata da condizioni di necessità piuttosto che da orientamenti e scelte politiche autonomamente assunte. Contemporaneamente, le stesse opzioni culturali e di valore alla base della sua azione di rappresentanza vanno offuscandosi, determinando una sua sostanziale identificazione con le strutture più burocratiche ed assistenziali della società.
La sovrapposizione tra spesa sociale e spesa assistenziale, lo sfascio del sistema sanitario, l’inefficienza della pubblica amministrazione, sono alcuni degli esempi possibili in questa direzione.
Sta di fatto che  né gli avvenimenti dell’89,  con le spinte liberatorie da essi determinati, né lo scoppio di tangentopoli, con i suoi effetti devastanti sui partiti e le classi di governo, bastano alla sinistra italiana per scrollarsi di dosso la sua immagine statalista e conservatrice.

3. I caratteri della crisi italiana
3.1. La crisi italiana è magmatica, profonda, dagli esiti incerti. Essa si caratterizza contemporaneamente per la grande debolezza dello Stato e della Nazione, per la crescente forza dei poteri oligarchici e delle corporazioni, per il rapporto distorto tra i partiti, la società e lo Stato, per il costante prevalere delle formule e delle parole sui fatti, per la carenza di luoghi e spazi democratici. Siamo in presenza di un tale insieme di fattori da rendere difficile la sua rappresentazione perfino a livello terminologico.
Agli slogan semplificatori del centro destra, il centro sinistra deve rispondere innovando, scegliendo i contenuti, proponendo riforme sul piano sociale, politico, istituzionale.
Alla società del conformismo e della superficialità che si regge su quelli che Norberto Bobbio ha definito i servi contenti, va contrapposta una società che valorizzi la creatività e le differenze.
Una società che ha bisogno della partecipazione autonoma e consapevole delle singole persone, delle associazioni e delle forze sociali, delle amministrazioni e dei governi locali e nazionali.  Una società basata sul rispetto delle regole. Una società nella quale fare bene e fino in fondo il proprio dovere è la condizione per poter rivendicare i propri diritti. Una società che sappia favorire le relazioni tra le persone che la vivono e la popolano e tra esse ed i diversi soggetti sociali, politici ed istituzionali che la governano.

3.2. A modelli gerarchici e centralizzati è necessario contrapporre la cultura della flessibilità, della responsabilità, del decentramento.
Occorre moltiplicare i centri ed i protagonisti della politica ed adoperarsi perché la realtà torni ad essere rappresentata dai contenuti e non dalle forme in cui essa viene espressa.
Occorre che la sinistra ritorni ai Valori, si mostri capace di suscitare attese e fiducia nel futuro potenziando e qualificando allo stesso tempo la propria proposta programmatica.
E’ su questa strada che essa potrà  ricostruire una propria funzione nazionale,  invertire il processo di progressiva marginalizzazione del nostro Paese dall’Europa, contribuire a dare soluzione alla Questione Italiana.

3.3. La fine della prima fase della Repubblica ha lasciato in eredità una democrazia dai molti tratti illiberali, nella quale i partiti, compresi quelli di sinistra, hanno occupato spazi impropri ed hanno stabilito rapporti distorti con lo Stato ed i suoi poteri.
Con la crisi del liberismo e il superamento della contrapposizione tra mercato e stato sociale ritorna la necessità di recuperare quei valori propri del liberalismo che hanno contaminato la parte migliore della cultura liberale e democratica dagli anni 30 ad oggi. La pluralità dei poteri, la loro autonomia e separazione, le funzioni di reciproco controllo rappresentano, in questo quadro, il terreno di ricerca da contrapporre alle spinte ed alle scorciatoie di tipo plebiscitario.

4. Una nuova classe dirigente per ricostruire la democrazia italiana
4.1. La costruzione delle istituzioni della seconda fase della Repubblica  rappresenta il compito prioritario di tutte le forze che intendono candidarsi al governo del Paese.
I temi istituzionali vanno tenuti distinti dalla lotta politica quotidiana; il rapporto tra destra e sinistra ha qui un punto di verifica decisivo.
Piuttosto che ad eventi propri della politica spettacolo o a frettolose abiure della storia, riteniamo perciò che il processo di reciproco riconoscimento e legittimazione vada affidato alla coerenza ed all’impegno con il quale si contribuisce alla ricostruzione dello Stato democratico e alla formazione di una nuova classe dirigente.

4.2. L’Italia ha oggi più che mai bisogno di una classe dirigente che sappia indicare, innovando, le ragioni di una nuova unità della Nazione; che riconosca la non esaustività delle problematiche sociali; che sappia coniugare il bisogno di autonomia e quello di solidarietà; che abbia consapevolezza della rilevanza che, nell’era della competizione globale, rivestono  le economie di sistema, i fattori ambientali, gli ambiti territoriali; che sappia perciò guardare con un approccio federalista al tema dello Stato.
Interpretare i mutamenti avvenuti nell’economia e nella società e corrispondervi ridefinendo e rafforzando i  compiti dei poteri locali e territoriali ci sembra il modo migliore per evitare che la discussione sul federalismo si esaurisca tra parole roboanti e frasi ad effetto molto spesso vuote.

4.3.  La costruzione di una nuova classe dirigente è un processo certamente più laborioso della ricerca di un leader.  Essa ha bisogno, per formarsi, che la cultura e l’esercizio della partecipazione, della responsabilità e del controllo prevalgano sulla delega; che i legittimi interessi che ciascuno rappresenta siano comunque subordinati all’interesse generale; che le regole sostituiscano la discrezionalità e l’arbitrio.
Non è certo un caso se dall’educazione dell’ordine mezzano al quale si dedicava il Genovesi, alla ricerca dei cento uomini di ferro teorizzata da Dorso, alla costruzione della società di mezzo di cui si discute ai giorni nostri, i passi avanti realizzati non sono stati né quelli auspicabili, né quelli necessari.
Eppure, a nostro avviso, proprio da qui potrà venire un contributo importante al compiuto sviluppo della democrazia italiana.

4.4. Per questo non ci convince una concezione della politica tutta incentrata sul rapporto fra leader e riteniamo debba essere combattuta la tendenza ad affrontare temi decisivi con un tatticismo troppo spesso esasperante.
Si tratti di regole o di federalismo, di lavoro o di Mezzogiorno, di giustizia o di aborto, niente sembra sfuggire a tale destino.
Invertire tale tendenza è possibile se si definisce un nuovo protagonismo ed un più deciso apporto dei poteri e della società diffusa, dagli amministratori locali agli imprenditori, dalle associazioni ai sindacati,  ai cittadini.
L’esperienza pure importante che si sta realizzando attorno a Romano Prodi, va dunque potenziata, ampliata, non lasciata isolata. Così come è necessaria una discussione più approfondita e meno conformista sui valori e i  contenuti programmatici che sono alla base dell’alleanza politica di centro sinistra.
A cominciare dal valore del lavoro.

5. Il Nuovo Corso italiano: il valore del lavoro
5.1. La possibilità di un Nuovo Corso italiano, la costruzione di una risposta nazionale alla crisi del Paese,  hanno nell’affermazione del valore del lavoro, il proprio centro, il proprio motore, la propria anima. E se è vero, come noi riteniamo, che i numerosi elementi di rottura che caratterizzano la crisi italiana hanno una ragione fondamentale nell’incapacità e nella non volontà di cogliere appieno la relazione esistente tra mancato sviluppo del Sud e mancata modernizzazione del Paese, è evidente che il Mezzogiorno  torna prepotentemente a rappresentare una frontiera decisiva per il futuro dell’Italia.
Il vero e proprio processo di identificazione tra Questione Lavoro e Questione Meridionale è ormai un dato di fatto. E nel contesto europeo il dualismo italiano, con un mercato meridionale sempre meno indispensabile alla struttura produttiva di un Nord d’Italia sempre più integrato in Europa, è un fattore destinato a moltiplicare le spinte di tipo secessionista.
E’ tempo dunque che una nuova politica per il Sud, che sappia coniugare interessi e solidarietà, che avvii finalmente una fase di sviluppo autopropulsivo, diventi una concreta priorità per l’intero Paese.

5.2. Assumere il lavoro come valore vuol dire realizzare un grande programma di qualificazione e di valorizzazione delle capacità culturali e produttive delle persone, in primo luogo quelle meridionali; potenziare gli strumenti legislativi e contrattuali previsti a sostegno dell’occupazione; decentrare e qualificare, ridefinendone compiti e funzioni, il Ministero del lavoro, le Agenzie per l’impiego, gli Uffici di collocamento; adottare programmi formativi all’interno delle aziende e schemi di orari flessibili e ridotti; combattere il lavoro nero ed illegale e sostenere il lavoro autonomo regolare e la piccola impresa.
In questo quadro, diventa sempre più decisiva la capacità di integrazione e di coordinamento con l’Unione Europea. Con la fine dell’intervento straordinario, infatti, i fondi europei rappresentano le sole risorse aggiuntive effettivamente disponibili e la loro corretta attivazione è essenziale per dare credibilità e sostanza ad una strategia che punti decisamente alla Creazione ed alla Diffusione d’Impresa.

5.3. Il Sud ha bisogno di sviluppo diffuso. Lo sviluppo diffuso, per non restare soltanto uno slogan, ha bisogno che si rafforzino i Poteri Locali, che si investa in legalità, formazione, infrastrutture avanzate, che si promuovano e si valorizzino anche nel sud le esperienze dei distretti industriali.
Per questa strada passa la stessa possibilità di affermare una cultura imprenditoriale meno schiacciata sulla ricerca forsennata del profitto.
Creare  nuova ricchezza, partecipare al processo di rafforzamento della struttura democratica della società, incentivare  l’autonomia, la responsabilità, le relazioni, sono alcuni caratteri possibili di una nuova funzione sociale dell’imprenditore.

6. Il Nuovo Corso italiano: il valore della socialità
6.1. In una società avanzata, al valore del lavoro deve corrispondere il valore della socialità. Le persone non vanno solo protette e risarcite dalle conseguenze di una competizione sempre più spinta, ma vanno sostenuti in tutto l’arco della loro vita con politiche di promozione e di valorizzazione delle loro capacità fisiche ed intellettuali.
La promozione della persona, della sua libertà, della sua autonomia, rappresenta il fondamento di ogni moderna concezione dello Stato Sociale.
In questo quadro, l’azione sociale dello Stato deve riguardare innanzitutto le nuove generazioni.
I giovani rappresentano infatti la principale risorsa per il futuro in una società che sarà sempre più fondata  sulla flessibilità, la velocità, l’innovazione, il cambiamento.

6.2. Le politiche scolastiche e formative rivestono dunque una straordinaria importanza così come, in tale ambito, l’estensione e la tutela dell’obbligo scolastico e la lotta al lavoro nero e minorile.
Le stesse politiche di sostegno alle famiglie numerose e monoreddito vanno sviluppate condizionandole al rispetto dell’obbligo scolastico.
All’idea di un’istruzione sempre più dequalificata va contrapposto un programma finalizzato all’innalzamento del numero di diplomati ed al restringimento della forbice tra iscritti all’università e laureati.
L’istruzione e la formazione dovranno rappresentare l’interfaccia delle politiche per l’occupazione, soprattutto quella giovanile. Si afferma in questo modo una concezione del lavoro come esperienza insostituibile di autorealizzazione e socializzazione, come contributo allo sviluppo dell’economia e della società.

6.3. Una società può definirsi veramente avanzata se è in grado di valorizzare il potenziale di innovazione di ciascuna classe di età, comprese quelle più anziane.
Il recupero di valori come la memoria e l’esperienza, la realizzazione di sistemi flessibili tra formazione e lavoro e tra lavoro e pensione, la domanda di reintegrazione possono e debbono rappresentare, a cinque anni dal 2000, un’occasione e  una risorsa.
I servizi alle persone sono infatti decisivi per impedire che lo sviluppo tecnologico determini fenomeni di disintegrazione sociale, di emarginazione e di vera e propria perdita di identità per fasce sempre più consistenti di cittadini.
Da qui la necessità di istituire un mercato sociale volto alla soddisfazione della domanda di reintegrazione, di assistenza e di cura del cittadino utente.
Crescita dell’occupazione, incrementi della produttività sociale e ruolo di un welfare riformato rappresentano, in questo quadro, gli aspetti diversi e complementari delle politiche di un’Italia  che sarà tanto più moderna quanto più saprà  riconoscere il bisogno di investire in socialità.

7. Pazienza e Lavoro
7.1. Un grande filosofo contemporaneo ritorna spesso sulla necessità di affrontare la vita e le difficoltà piccole e grandi, individuali e collettive che essa ci fa incontrare, con Pazienza e Lavoro.
Ci sembra francamente che nel nostro Paese ci sia, dell’una e dell’altro, estremo  bisogno.
Più che cose nuove, si vedono in giro tante cose vecchie con un nome (qualche volta) nuovo. E poi superficialità e conformismo in dosi massicce e non di rado fastidio per le opinioni diverse.
Forse per questo ci piacerebbe che alle prossime elezioni il centro sinistra si facesse interprete del bisogno di diffondere la democrazia.
Forse, potrebbe essere qualcosa di più di uno slogan.
Potrebbe essere l’alternativa vera a chi sostiene  che, se servono un milione di posti di lavoro, debba scendere in campo Berlusconi; o che la tutela della legalità è un affare che riguarda Di Pietro (ieri) o Caselli (oggi); o anche che per  risolvere i problemi di Napoli  e di Roma basta affidarsi a Bassolino e Rutelli.
Non è un alternativa semplice, neppure per il centrosinistra.
Eppure il segreto potrebbe essere proprio qui. Nella capacità di prospettare un futuro nel quale ci sia spazio per l’impegno e le ragioni di ciascuno.