[…] È tutto il giorno che continuo a pensare a Secondigliano. Non tanto per i 25 anni e passa che ci ho trascorso. È che a Secondigliano ho comprato il mio primo disco, un 33 giri di vecchi successi di Peppino di Capri. E il mio primo libro, Lavoro salariato e capitale di Karl Marx. Da Secondigliano sono partito per occupare la mia prima scuola, l’Istituto Tecnico Industriale Statale Francesco Morano di Caivano. E per andare al mio primo concerto rock, The Incredible String Band alla Mostra d’Oltremare. A Secondigliano sono stato ragazzo. Fidanzato. Tifoso. Studente. Comunista. Ho vissuto la mia vita da mediano. Con mio fratello Antonio; Tonino Parola, figlio di Raffaele, operaio all’Italsider; Salvatore Traino, detto ò beat, figlio di Gennaro, operaio alla Mecfond; Stanislao Nocera, figlio di Cosimo, operaio alla Mangimi Chimici Meridionale; Antonio e Carmine Rubino, figli di Gennaro, pensionato; Umberto e Gennaro Pastore, figli di Antonio, artigiano. Tutti soci fondatori del Gruppo Alternativo Incazzati di Secondigliano. Con regolare sede in via Corso d’Italia. Ampio sottoscala condiviso con una compagnia di prosa napoletana. Da “Non ti pago” di Eduardo De Filippo a “Howl” di Allen Ginsberg. Dalla musica di Charlie “Bird” Parker alle canzoni di Massimo Ranieri. Niente spocchia. Nessuna puzza sotto al naso.
Per me Secondigliano è tutto questo. E molto altro ancora. Oggi deve essere la giornata mondiale del déjà vu. Mi tornano in mente senza un ordine preciso. Ma sono proprio loro. Senza ombra di dubbio.
Giorgio Gagliardi, tecnico della Radaelli, milanese, che mi presenta la donna, napoletana of course, destinata a diventare la più importante della mia vita.
Don Peppe detto Testolina, che nella Torino dell’autunno caldo raccoglie sassi per strada e li vende come pietre del Vesuvio. Uomo capace di giocare e di perdere, in quegli stessi anni, 700 mila lire giocando una partita a scopa. Vince chi fa sette punti. 100mila lire a punto. Una partita sola. Senza rivincita. Una vita da magliaro e un sogno. Vedere Ciro, l’ultimo figlio maschio, diplomato. Almeno per lui vuole un destino diverso. Ed è strenuamente convinto che solo la scuola possa darglielo. Il fatto è che l’erba voglio non cresce nemmeno nel giardino dei re. Figurarsi in quello dei magliari. Sarà la sconfitta più dolorosa della sua vita.
Peppe detto “a lente” a causa della marcata miopia, discreta ala destra, esponente di seconda fascia della band dei magliari, più piccole truffe che fantasia, non ha ancora 30 anni quando supera il traguardo dei 200 comuni che gli hanno consegnato il foglio di via.
Totonno detto “tre palle”, meglio lasciar perdere per quale ragione, che quando Pippone, l’eleganza fatta “paccotto”, gli chiede di affacciarsi dal finestrino per vedere quale stazione si stanno lasciando alle spalle risponde “siamo a Alemagna panettoni”.
Gennarino De Rosa, detto Topolino, forse per i baffetti radi o forse no, operaio in una piccola fabbrica di calzature, un destino segnato dalla colla e dai tacchi.
Pasqualino detto “ò ricciulillo” in omaggio alla folta chioma che fu, che ha in sorte una sorella di nome Margherita e il tormento del nostro sorriso malizioso mentre intoniamo, si fa per dire, “perché Margherita è buona, perché Margherita è bella, perché Margherita è mia”, ogni volta che lo vediamo avvicinarsi.
Tutto vero. Giuro. Com’è vero che Secondigliano mi è rimasta appiccicata addosso anche quando, con il matrimonio, mi sono potuto spostare al Petraio, magica scalinata tra Chiaia e il Vomero, uno degli scorci più incantevoli di Napoli. Forse è per questo che non mi sono mai del tutto rassegnato all’infinito degrado del mio quartiere. Che, non potendo naturalmente impedirlo, ho cercato almeno di esorcizzarlo. Con l’ironia. Con il ricordo. Penso al tormentone interpretato fino allo sfinimento e oltre con Luigi Santoro, mio maestro e compagno alla Cgil. Io che propongo di organizzare un convegno dal titolo “Secondigliano non è solo camorra”, lui che risponde serio che si può fare. A patto di affidare a lui l’intervento centrale. Titolo: “… è pure munnezza”. Luigi è così. Prendere o lasciare. Battuta sempre pronta. Mai banale. L’organizzazione prima di tutto. Se ti può stressare ti stressa. Se può farti venire i sensi di colpa te li fa venire. Però non ti lascia mai solo. Lui c’è. E tu sai che su di lui puoi contare. Sempre. Comunque su Secondigliano ho continuato a pensarla a modo mio, anche se a sentire lui io ho sempre pensato e fatto a modo mio. Adesso che ci penso, qualcosa di vero ci deve essere, perché una volta anche il grande capo, Sergio Cofferati, mi ha detto che ho il difetto di fare sempre di testa mia, che non sto a sentire nessuno. Ma quella volta era molto arrabiato con me per faccende legate al sindacato campano. O forse poi me lo ha detto anche qualche altra volta. Comunque quella è un’altra storia, che forse un giorno racconterò. In questa c’è che nelle diatribe tra le bande giovanili del Vomero e quelle di Secondigliano, quando con l’apertura della linea 1 della metropolitana i “tamarri” di periferia si sono potuti finalmente riversare in massa nei quartieri “alti” della città, non ho avuto dubbi a schierarmi dalla parte giusta. Naturalmente quella di Secondigliano.
In questo diario il mio quartiere non ci sta insomma per una questione di folklore. Né per nascondere le sue vergogne. Non sarebbe giusto. E neanche possibile. La mia è piuttosto una dichiarazione d’amore. Per tutto quello che esso ancora rappresenta per me. Per le tante persone perbene che ci sono vissute. Per tutte quelle che ci vivono ancora. Forse dovrei scrivere che è soprattutto per loro che non bisogna perdere la speranza. La verità è che non ci credo. Almeno oggi non ce la faccio. Domani. Forse.
Sono anni che non ci vivo più ma una parte della mia vita l’ho trascorsa a Secondigliano. Ho frequentato gli ultimi anni delle scuole elementari, le scuole medie ed il primo anno di liceo. Poi i miei genitori hanno scelto di farmi crescere in un posto più tranquillo e ci siamo trasferiti a Vico Equense. Essere trapiantati a sedici anni è terribile, di Secondigliano io ho solo ricordi belli, giornate spensierate, amiche mai perse, primi amori. Di colpo il mondo mi è crollato addosso ed il mare che vedevo dalla camera della mia nuova casa non bastava a colmare il vuoto che sentivo. Mi mancavano tutti i punti di riferimento, non riuscivo ad orientarmi. Mi mancava il Corso, l’oratorio dei Sacri Cuori, la squadra di pallacanestro ma soprattutto mi mancavano gli amici. A volte, con la mia amica del cuore, raggiungevamo il liceo a Piazza dei Martiri a piedi. Ogni tappa raggiunta era un passo in più verso il forno di via Cavallerizza a Chiaia dove mangiavamo enormi brioches ripiene di panna e cioccolato. Prima tappa Piazza Capodichino, poi Piazza Carlo Terzo, Corso Garibaldi, Piazza Municipio, Piazza dei Martiri e poi il meritato premio facendo attenzione a non sporcare la divisa. All’uscita di scuola la classica telefonata a casa per annunciare che sarei rimasta a Napoli, avevo troppo da studiare! Il ritorno a Secondigliano era per me una festa, un tornare alle origini, un ricominciare a crescere nel posto che era mio. Vico Equense era bellissima d’estate quando portavo con me le mie amiche, per il resto dell’anno era troppo tranquilla.
Non mi è mai capitato niente di negativo, di sconveniente o di traumatico per la mia crescita, forse sono stata fortunata o forse no. Ho solo convissuto con la miriade di persone perbene che abitavano e abitano a Secondigliano.
Poesia in azione: grazie!
Leggendoti, mi viene alla mente un’immagine della poeta russa Anna Achmatova.
Siamo a Leningrado negli anni 50, in fila fuori uno dei carceri di Leningrado c’è Anna: sta lì perché ha dentro il figlio. E’ riconosciuta nella fila, qualcuno la riconosce; bisogna immaginare anche che per i popoli slavi i poeti e la poesia sono persone e parole importanti, li conoscono, conoscono la poesia e l’apprezzano, conoscono i poeti. Viene riconosciuta una poeta da una donna che si voltò verso Anna Achmatova e le chiese “voi questo potete descriverlo?”, Anna rispose “posso”.
Le lettere sono una forma di combattimento, di amore, di memoria.
E noi possiamo, dobbiamo.
Se non oggi, domani senz’altro
E’ un gran bel pezzo e non lo dico per adulazione. Riporto quello che scrissi su Enakapata:
Essere di Secondigliano e voler combattere, con la dignità ed il rigore, l’ironia ed il luogo comune. Essere di Secondigliano, però, e non perdere la speranza: uhm..dura. “La verità è che non ci credo. Almeno oggi non ce la faccio. Domani. Forse” dice Vincenzo prima di partire. Quello che scopre del Giappone non lo aiuterà a ricredersi, tutt’altro.
Dopo un mese, al ritorno, Luca conferma l’amarezza iniziale di Vincenzo; “La saggezza popolare recita che partire è un po’ morire. Forse talvolta è vero il contrario”. E’ l’amara conclusione rispetto a quello che potrebbe essere ed che invece non è.