Don Antonio e il tressette erano una cosa sola, ma non era per questo che, quando si poteva, la domenica, prima di pranzo, andavamo a trovarlo. Ci andavamo per il ragù di donna Assunta e perché a giocare con lui ti divertivi veramente. Perché ti divertivi?
Innanzitutto perché non giocava mai per soldi, neanche una cifra simbolica, che a lui i soldi, sarà perché ne aveva avuti sempre pochi, facevano schifo. E poi perché se perdeva andava su tutte le furie. La sportività? E che cos’é, una cosa che si mangia? Tu potevi essere pure il campione interplanetario di tressette, se vinceva lui era bravo, se vincevi tu eri fortunato. Nelle cose della vita era un vero galantuomo, di quelli modello “signori si nasce, non si diventa”. A tressette no, era peggio del principe di Macchiavelli.
Naturalmente per lui il tressette era il tressette, quello a due coppie, e le sole varianti ammesse erano il pizzico (due giocatori) e il tressette a chiamare (tre giocatori, quello di mano può chiamare un tre e gioca da solo contro gli altri due o può passare; i due giocatori non di mano possono dichiarare “sola” e giocare contro agli altri due senza chiamare il tre). Il tressette a perdere e il tram (tressette a cinque) per lui semplicemente non esistevano.
Ora voi provate a immaginare il compagno di un soggetto così durante una partita: non era un giocatore, era un martire, perché persino quando vinceva don Antonio ricostruiva a fine partita tutte le giocate sototlinenado gli errori dell’altro e la sua perizia.
Non vi dico che cosa succedeva quando metteva una carta a terra e tu lo guardavi come a chiedergli “che dice questa carta”. Lui a risponderti ti rispondeva – Carta muta -, ma alla fine della partita era meglio scomparire. Perché prima ti diceva che in coppia con te non avrebbe giocato più, poi aggiungeva “si nu ciuccio, senza offesa pò ciuccio”, poi continuava con “‘o tressette è nu juoco serio” e infine ti spiegava che “si io joco ‘o tre, voglia ‘a meglio, pecché o tenga a napulitana, o tengo o 25, o sto cercanno o doje” e continuava così via discorrendo per quanto riguarda il due, l’asso, la figura e la scartina.
Quando finiva? Quando arrivava donna Assunta annunciando il ragù. Il tressette scompariva d’incanto e don Antonio ritornava la pasta d’uomo che conoscevamo. A volte mi chiedo com’è che, con tutte le cose inutili che si vedono in giro, nessuno abbia ancora scritto un libro sul potere taumaturgico della tracchia a ragù. Bisognerà che qualcuno ci pensi.
Buon appetito.
Questa storia mi riporta indietro di molti anni. Mia nonna paterna morì e il nonno lasciò la sua bella casa e venne ad abitare con noi. Eh sì, una volta non si cercavano badanti per assistere i genitori anziani ma si accoglievano nella propria casa e si contornavano di affetto e rispetto, rendendo dolci e meno penosi gli ultimi giorni della loro vita.
Eravamo tre figli, più mia madre, mio padre e il nonno. La casa era grande e ricavammo una stanza per il nonno, anche se mio fratello, più piccolo, andò a dormire in soggiorno. Tutti i pomeriggi il nonno giocava a carte con mio fratello, soprattutto a scopa e lo ingannava dicendo che il sette bello o valeva come carta oro o come scopa e alla fine vinceva sempre lui. La domenica pomeriggio, però, era festa grande. Venivano i fratelli di mia madre, i cognati. Le signore chiacchieravano e si scambiavano confidenze e gli uomini giocavano a tresette. Il nonno era felice e iniziava la partita dicendo ” Si affilino le spade”. Si giocava tutto il pomeriggio alternando i giocatori ma il nonno era fisso. Mia madre preparava spuntini , caffè, dolcetti e si interrompeva per poco. E così fino alle dieci di sera. Qualcuno andava via scontento, qualche altro brontolava, ma tutti erano felici della domenica trascorsa in compagnia e si ci dava appuntamento per la domenica successiva.
Anche a me il tresette riporta all’infanzia, quando giocavo con il mio papà, che in gioventù era stato campione aziendale di madrasso e amava moltissimo giocare a carte. Al contrario di mio marito, che non ne vuole neanche sentirne parlare (gli uomini hanno spesso posizioni elastiche!), per cui sono anni che non disputo una partita.
Tuttavia il tresette mi accompagna per tutta l’estate, in quanto, i miei vicini di capanna sono indefessi giocatori. Per chi non conoscesse il Lido di Venezia, funziona così: si affitta (in un numero n di famiglie, per limitare la spesa assurda!), una capanna (capanno arredato con mobiletto, tavola, sedie, sdraio) per l’intera stagione. Tra una vacanza e l’altra, la capanna diventa il fulcro delle giornate, soprattutto festive, veneziane. Lì si sta l’intera giornata, si mangia, si fa la pennichella, e la maggior parte di persone gioca a carte. Molti anni fa tutti giocavano a tresette o madrasso, ora alcuni, più snob hanno preso lezioni di bridge e giocano ormai solo a questo gioco. Non vi dico le baruffe iniziali tra i difensori del più tradizionale e popolano tresette e i neofiti, parvenu del bridge. Adesso si guardano di cagnesco, ma si sopportano. Certo che la maggior parte di persone s’infervora e si arrabbia tantissimo con le carte, per cui chi ha perso sono gli appassionati della pennichella.
Rientrata da poco dall’ospedale dove mio padre attendeva da 3 settimane di esser ricoverato per una valutazione di intervento all’aorta… fra gli oggetti d’uso si è portato le carte napoletane, come un’appendice e come una speranza di trovar compagni di gioco o forse solo per scaramanzia!
Quel pacchetto trasuda giocate e orgoglio da inguaribile vincitore, parlano di comunanza e di conciliaboli, di occhiate torve e di parole gergali.
Spesso, in queste sere, gli amici si davano il turno per sfidare il “nonno cocco” che si animava come un ragazzino, dimenticando gli acciacchi.
Che scaltrezza ha con ste carte in mano, diventa un venditore.. e che lazzi e che battute colorite! Urla, si accalora, fischia e canta … cerca di imbrogliare pur di stracciare l’avversario.
“paro-paro dispari in mano” e le sfide continuano… a casa giù ha un gruppo di ottantenni stabili, ogni tanto litigano e devo mediare al telefono per farli riappacificare. Che tenerezza!
il due secondo si passa, perché se il tre è dentro lo fai uscire, al contrario prendi la mano. Ribusso, chi ribussa perde l’asso, busso lungo, so piombo a un palo, liscio sta carta, questa la volo, bongioco, napoletana a coppe, tre tre mancante ori, fuori la meglio, voglio il tre, figure e scartine, sto giro famo cappotto.
Tresette: io l’ho messo nel curriculum tra le competenze, e non aggiungo altro
Riguardo al tressette, invece, il mio ricordo è il grosso rammarico di non averlo mai imparato a giocare. Ricordo che invidiavo da morire il tavolo degli uomini da cui provenivano le chaimate delle carte ma nessuno mi ha mai insegnato, nessuno ci ha mai nemmeno pensato, figuriamoci, una femmina con le carte in mano. E poi papà non era capace, a lui le carte non piacevano per niente, lui giocava giusto giusto ma si scocciava, a lui piaceva il tavolo delle femmine quello della tombola, si divertiva di più. Lui si che mi avrebbe insegnato per lui io ero capace in tutto, ma con le carte non era capace lui, ripeto a stento faceva qualche mano e così la tombola è diventata il gioco ufficiale della mia famiglia, si giocava praticamente sempre anche d’estate anzi era il primo bagaglio quando si partiva per le vacanze. E così il silenzio della “controra” da noi era rallegrato dal suono del “panariello”. Che tipi!
Mio padre , anche lui accanito giocatore di tressette, ha sempre sostenuto che questo gioco è la versione “nostrana” del bridge.
Lui , però ci giocava al “circolo”, luogo assolutamente “negato” alle signore…
Questo “circolo” era detto ” di cultura” perchè nella stanzetta dietro , dentro una sgangherata libreria ci stavano una cinquantina di libri, di tante cose si discuteva ma sopratutto la sera si giocava a tressette.
I miei ricordi sono legati a quelle, tante , volte che mio padre tardava, e mia madre mandava me o mio fratello al “circolo” …
Ricordo ancora il posto, gli odori, il fumo delle sigarette…
Mio padre non ha mai fumato “direttamente” ma “indirettamente” si… adesso ha 90 anni, al circolo ci va più raramente, i suoi amici non ci sono più, però i “giovani” , come li chiama lui, gli stanno simpatici perchè si sente trattato con rispetto.
Nei paesi ancora uno stralcio di vita “antica” è rimasto…per fortuna!
Nostalgia. Etimologicamente è il dolore per un ritorno, un dolore dolce, però. E traslando e parafrasando, anche il passato, soprattutto quando è passato da tanto tempo, è un luogo a cui si anela di ritornare, per rivivere quella dolcezza impossibile da gustare adesso. Perché c’è Internet, perché c’è quella stramaledetta televisione, e lo stramaledetto Grande Fratello e la dannatissima Isola dei Famosi. Non si potrà avere nostalgie di tempi così. Invece le partite a carte di una volta, quando il tempo era davvero “libero” e lo si poteva tracannare d’un fiato per tutto un pomeriggio, per una sera intera, quelle sì che sono degne di memoria e di rimpianto. Anche perché molti di quelli con cui si giocava purtroppo non ci sono più. Io ricordo interminabili partite nelle sere d’estate, seduti nella veranda al fresco passabile dell’ombra, con i cugini e il nonno, con lo zio Carletto, con tanti che passavano magari per un saluto e rimanevano fino a mezzanotte a giocare. Non tressette, quello non lo si gioca qua… Scopone scientifico, il classico intramontabile con carte, ori, primiera e settebello e il miraggio di ottenere la “napola” più alta con le carte di quadri. O la briscola chiamata, quando si era in cinque, dove chi ha più fortuna o più coraggio sceglie di giocare contro gli altri tre pescando un compagno che cerca di rimanere segreto il più possibile. O addirittura con un pizzico di follia scegliere di chiamarsi da soli e giocare contro tutti gli altri quattro, diventando un conradiano compagno segreto di se stessi… Sempre litigando un poco, ma rimanendo sempre amici a carte riposte e con un bicchiere di vino davanti. Nostalgia? Sì, provo nostalgia… non ci penso e mi collego a Internet…
Simona Salvatore su fb il 11 marzo
Sempre belle le tue storie!
Cinzia Massa su fb il 10 marzo alle 22 e passa
O ragù, e tracchie… le domeniche nel quartiere, tanti amici, una famiglia. Sei un mito Vincenzo, ci rendi partecipe di stralci di vita che purtroppo oggi non ci sono più. Un pò di nostalgia ma tanta gratitudine!
Questo Viviana lo aveva scritto su Fb
La tracchia miracolosa! bellissimo pezzo (di vita, aggiungerei), Vincenzo. Concordo in pieno con Cinzia. E mi sembra persino che la mia cucina si sia inondata di odore di ragù e che il primo piano dove abito sia diventato di colpo un piano terra, con fuori un tavolino e 4 sedie di legno ad attendere i giocatori… grazie!
Ho già scritto su fb (lo potete leggere sopra :-)) quanto questo piccolo stralcio di vita abbia trasformato in breve la mia cucina e nei miei ricordi di bambina tutto è tornato a quando la domenica si mangiava tutti insieme dai nonni paterni. Non ho mai capito come facesse mia nonna a cucinare per più di 20 persone in meno di un metro quadro (veramente!), con un fornello minuscolo e pentole improbabilissime… e pure era ed è ancora (a quasi 90 anni) una cuoca straordinaria. E mi piaceva sedermi “al tavolo dei bambini”, praticamente in camera da letto, perché nella stanza da pranzo non c’era posto per tutti, ma le due camere erano collegate, per cui diventava un unico tavolo, tra divano e letto… fantastico! Mia nonna faceva due “cucine aspartate”: il ragù (anche nelle varianti: pasta al forno, con le melanzane ecc…) e poi quella per il nonno e me che non mangiavamo niente che avesse il sapore della salsa. Ci faceva gli spaghetti con le vongole… ed eravamo felici. Ed io lo ero di più perché condividevo con mio nonno una cosa che mi sembrava ci legasse in modo speciale, perché ciò che si mangia, per un napoletano, è qualcosa di importantissimo… Era la “nostra” cosa, di noi due e basta. Non importava che poi in realtà mia nonna facesse gli spaghetti per tutti, che finivano col mangiare due primi oltre a tutto il resto… rimaneva il fatto che lei quel piatto lo cucinava per noi due…
belli e suggestivi questi piccoli racconti, siparietti di vita passata, conservati con cura fra la velina, nello scrigno della memoria. eh, il tresette… mio padre, da bravo marinaio, sapeva giocare a tutti i giochi di carte possibili, solitari compresi, ma il tresette era la sua punta di diamante, un amore completo e viscerale che credo sia stato secondo solo a quello provato per mia madre. mente matematica, era un mago con le carte, anche a costruire i castelli piramidali, via via, un piano dopo l’altro fino a svettare su in cima con l’ultima carta che fungeva da pennone. era uno dei giochi domenicali che dedicava a me e mio fratello ancora bimbetti; lo guardavo incantata intanto che, con mano ferma e sapiente innalzava, strato dopo strato, carta dopo carta, questi manieri di carte napoletane – le sue preferite – mentre nell’aria della giornata festiva andavano diffondendosi i profumi della cucina. il tresette però era il suo demone, e come Don Antonio anche lui nn giocava puntando denaro, assolutamente no, solo il gusto di vincere per poi spiegare animatissimo, quasi febbrile, oserei dire trasfigurato, le strategie scelte per la vittoria. pomeriggi interi al mare, sotto la frescura di un’incannucciata sulla spiaggia dove i gestori dello stabilimento organizzavano annualmente tornei di tresette; mio padre era lì al primo posto, come professore in cattedra, forte delle sue capacità mnemoniche, a spiegare a compagni e avversari le varie mosse, i vari calcoli, punti, combinazioni vincenti, a pretendere l’assoluto silenzio durante la fase di gioco. durante gli ultimi due anni della sua malattia, la cosa che gli mancò assai è stato proprio il gioco del tresette. grazie Vincenzo, per aver evocato in me teneri pensieri 🙂
Enzo, e che caspiterina! Io già sto a tre quarti in questi giorni e tu mi parli di tracchie al ragù? Ogni napoletano che si rispetti ha qualche ricordo legato alle tracchie al ragù. E’ tracchiulell co’ rraù erano il must delle mie domeniche fino a poco, pochissimo tempo fa. Zio Salvatore e Zia Assuntina arrivavano la domenica mattina a casa di mamma con la spesa “sfiziosa”, la cucina si animava letteralmente, cucinavano per ore tra sfottò e gare goliardiche, si faceva a chi era più bravo: zio Salvatore con le sue arie da chef di rango per passione mamma e zia Assuntina con il loro orgoglio di essere delle popolane di Porta Capuana, Vico Santa Caterina a Formiello come le apostrofava lo zio per la precisione. Papà tornava dal lavoro intorno alle due e, come ogni santa famiglia napoletana, si cominciava a pranzare sul tardi, si continuava per tre quarti di giornata, poi, mentre noi si digeriva chiacchierando mollemente a tavola, zio Salvatore impastava la pizza per la sera. In pratica si passava la giornata a tavola: pazzesco e fantastico. Nel giro di pochi mesi è rimasto solo zio Salvatore gli altri sono andati e che vuò fà? Accussì è!