Va bene, lo ammetto, la questione è grande e vecchia quanto il mondo, come testimonia questo passo tratto dal Tao Te Ching, l’antico testo di saggezza cinese: “A corte ci sono troppe sale e scalinate, ma nei campi ci sono troppe erbacce, i granai sono troppo vuoti, ma i nobili indossano abiti eleganti e sete multicolori, portano alla cintura spade affilate, sono sazi di bevande e di cibi e possiedono ricchezza e denaro in misura traboccante. Questa è arroganza di ladri: non è il Dao davvero”. E per evitare che qualcuno pensi che si tratta di un colpo di fortuna, della classica noce che da sola nel sacco non fa rumore, aggiungo che secondo un sondaggio realizzato dalla BBC in occasione delle elezioni del maggio 2005 in Gran Bretagna, il 60 per cento degli elettori considerava il look il requisito principale dei candidati. E che tutto questo, inteso come modello sociale che considera la ricchezza come il fondamentale se non unico simbolo di riuscita sta raggiungendo nel nostro Paese livelli particolarmente insopportabili.
In un Paese in cui chi indovina il numero di fagioli o di lenticchie contenuti in un vasetto, sceglie il pacco giusto e riuscire a difenderlo fino alla fine, chi è ricco, in forma, senza una ruga, è considerato “per questo” una persona di successo più di chi di studia o lavora, come direbbe Eduardo, non c’è proporzione.
Sì, in Italia tra lavoro e ricchezza non c’è proporzione. Basta leggere i principali settimanali e tabloid, guardare alcuni dei format televisivi di maggiore ascolto, ricordare che uno scienzato come Renato Dulbecco è noto più perché ha presentato Sanremo con Fabio Fazio che perché ha vinto il premio Nobel ed ha “allevato” nei suoi laboratori altri 4 premi Nobel.
Dite che è il prezzo inevitabile da pagare alla società dello spettacolo? Rispondo niente affatto. E aggiungo che una società meno ingiusta e più inclusiva non può fare a meno di assegnare al lavoro un punteggio elevato non solo dal versante del salario, della professionalità, dell’orario, ma anche da quello della dignità, del prestigio, della considerazione sociale di cui gode chi lavora, indipendentemente dalle mansioni che svolge e dal modello di automobile che può permettersi. Perché il lavoro non è una sorta di condanna senza valore, della quale, se solo si potesse, si farebbe volentieri a meno. Strano ma vero: il lavoro vale in quanto tale, in quanto tale permette di avere consapevolezza di sé e senso di autorealizzazione, è la vera ricchezza di una nazione. Paesi come gli Stati Uniti, il Giappone, la Cina, la Germania, con le loro mille contraddizioni, lo hanno o lo stanno imparando. E noi?