Lo strillone dalla voce roca

Giancarlo Ioriodi Giancarlo Iorio

Decidere un giovedì sera del giugno del ‘74, dopo un pomeriggio trascorso sulle sferocitosi ereditarie, di andare al cinema a vedere “Dove osano le aquile”.
Le ragioni del no: l’avevo già visto due o tre anni prima, non era il tipo di film di guerra che mi piaceva, non rispettava la storia e non era realistico, insomma un fumettone con un titolo enfatico, anche se con interpreti eccellenti, inoltre avrei dovuto attraversare piazza S. Maria La Scala alle 20 e avrei potuto trovarmi tra i piedi un alessandrino in avanscoperta.
Le ragioni di Giovanni: I grandi film di guerra si possono vedere anche tre volte, al Tiberio si paga poco, cast stellare, che ti frega del titolo.
Il bonus era poi la proposta della margherita finale.
Finii per cedere alle sue ragioni, anche perché, l’alternativa era pastina al burro e Rischiatutto in bianco e nero.
Il mio collega aveva visto “La grande fuga” 14 volte, conosceva i prezzi di tutti i cinema e di tutti gli spettacoli e al Tiberio riusciva anche a farsi fare lo sconto, corteggiando la cassiera, che aveva avuto lo zio ricoverato nel reparto dove lui era interno.
Quando uscimmo gli alessandrini misuravano il marciapiede di fronte all’ingresso del palazzo. Erano due o forse tre, ma, per fortuna non attraversavano allo scoperto quasi mai a quell’ora.
Sono topi di fogna col muso a forma di piramide tronca gli alessandrini, padroni assoluti della piazza dalle 23 in poi, l’ora in cui saremmo tornati dal cinema.
Assalivano i sacchi dei rifiuti, depositati accanto al portone, e sarebbe stato un problema entrare.
Al Tiberio si arrivava dopo Salita Sanfelice, si girava a sinistra e ancora duecento metri.
Il locale allora aveva un aspetto deprimente: luci al neon, sedute di legno, pubblico di studenti, disoccupati, venditori ambulanti… con qualche eccezione quando il film era di qualità, ma quasi mai esemplari di pubblico da Filangieri o da Metropolitan.
Passava Agostino per le bibite e i pop corn: “Aranciate, Coca, chi beve. Maasticate la gomma!”.
Qualcuno, ispirato dalla pettinatura, dalle movenze e dalla voce lo chiamava Agostina, con fare caramelloso, ma lui non si offendeva, anzi era compiaciuto.
A un certo punto, un altro personaggio sembrava comparire dal nulla: il venditore di giornali.
Capelli neri, che ricoprivano la testa e anche tutta la fronte, fino agli occhi di colore verde chiaro, faccione carnoso con barba di due giorni e figura appesantita, un camice grigiofumo ormai nero lungo ben oltre le ginocchia, respiro asmatico, la voce arrochita dalle nazionali esportazione.
Alcuni locali a Napoli conservavano ancora la vecchia usanza di far vendere i giornali prima dell’inizio dello spettacolo e nell’intervallo.
Lo sentivi arrivare perché pubblicizzava la sua mercanzia annunciando i titoli con fare professionale e in italiano:
“Assassinata minorenne nel bagno di casa, sospetti sul cognatooo…”
Poi allegramente traduceva:
“E’ stat chillu scurnacchiato do cainato… tutti i particolari… Cronaca Vera… Crimèn”.
La traduzione incrementava di molto la vendita.
La prima volta che l’avevamo visto, Giovanni aveva scommesso che si chiamava o Ciro o Gennarino, così quando fu a due file di distanza: “Ciro! Ciro mi dai la Gazzetta?”
Ne era seguito un chiarimento,
“Mio fratello più piccolo si chiama Ciro, io mi chiamo Raffele” disse, mentre porgeva la Gazzetta dello Sport a Giovanni:
“Gesù, tuo fratello si chiama Ciro e tu non ti chiami Gennarino!”.
“Io Gennaro mi dovevo chiamare, ma… quando sono nato io… mio padre aveva litigato co’ nonno e così per dispetto mi chiamò Raffele, che a me questo nome non mi piace, chi è po’ stu Rafele”
Punto sul vivo perché mio padre si chiamava Raffaele, il mio maestro si chiamava Raffaele e mio figlio, quando lo avrei avuto, si sarebbe chiamato Raffaele…
“Un angelo” dissi, £un angelo mandato da Dio. Raffaele significa mandato da Jahvè”.
“N’ angelo?” disse con la voce di cartavetro. Si fermò, guardò a terra come per prendere fiato o per trovare le parole e poi in perfetto italiano: “Sentite, io vi devo essere grato che mi dite così, ma… mi avete visto bene…”.
Poi continuò: “I’ so chiatt, tengo i denti guasti, tengo pure i bronchi asmatici e ‘o fegato… e po’ vedete come sto vestuto, cu stu camice niro che ce dormo pure a notte. Se propio mi doveva mandare, il padreterno mi poteva fare nu poco chiù accunciatiello”.
Fece un’altra pausa: “A Napoli ce stanne i Rafele ma… vulite mettere”.
Non aveva aspettato una replica e aveva ripreso il suo giro con passo da podagra: “Crimèn… Cronaca Nera.. i meglio muort accisi, giornali!”.
Ogni tanto promuoveva anche le testate sportive: “Tutto sul calcio a zona di Viniciooo! Il Napoli vincerà lo scudetto?”.
La versione vernacolare era: ” ‘O aizammo o no sto commò?”
Da quella sera, quando ci vedeva, si fermava e puntualmente chiedeva al mio collega: “Allora Gazzetta o Guerino?”.
Poi rivolto a me:
“Volete un giornale o volete dire qualche altra stronzata”. In genere prendevo una copia di Paese sera e lui se ne andava sorridendo all’aria.
Siccome stavo frequentando le lezioni di psichiatria, mi ero convinto che Raffele era una personalità bipolare e che, di volta in volta, avremmo potuto trovarlo depresso e malinconico o euforico ed espansivo.
Per chiarire ciò che successe quella sera di “Dove osano le aquile”, è necessaria una premessa. Circa venti o trenta giorni prima si era verificato un delitto che aveva fatto molto scalpore.
Una donna dall’apparente età di trenta anni era stata trovata morta in riva a un fiume, trafitta da venti coltellate e decapitata, l’identificazione non era ancora avvenuta e la polizia stava controllando alcune testimonianze.
Circa venti anni prima Nel 1955 a Castelgandolfo c’era stato un delitto analogo ed era stato denominato “La decapitata del lago”.
Era rimasto impunito ed era entrato nella leggenda.
Quella sera Rafele, cominciò a passi misurati per non avere il fiatone, il giro che precedeva lo spettacolo e annunciò in italiano: “Il mistero della donna del fiume! Ancora si cerca la testa della donna! tutti i particolari sul Mattino di oggi!”.
E dopo un respiro: “Ma a capa nun se trovaa, a capa nun se trova!”.
Nelle file centrali pochi istanti prima che si spegnessero le luci erano andati a sedersi quattro spettatori di mezza età, capelli più o meno brizzolati, molto eleganti, vestiti di scuro e con la cravatta.
Date queste premesse nessuno si aspettava quello che stava per succedere.
Appena si accese la luce dell’intervallo si sentì Rafele: “S’è truvata a capa! S’è truvata a capa”. Tutti si girarono a guardarlo.
Uno degli eleganti fece segno che voleva il giornale. Raffele glielo portò con la solita camminata lenta e sofferente.
Quello lo aprì e cominciò a leggere, poi sfogliò di nuovo da cima a fondo le pagine.
Infine chiamò ad alta voce Raffele e chiese sempre ad alta voce:
“Scusi, ma quale capa s’è trovata?”.
Raffele si sentì come il capocomico a cui viene preparato il terreno per la battuta finale, non avrebbe dovuto, forse, ma non seppe trattenersi, anzi gli dovette sembrare che quel signore facendogli la domanda stava ubbidendo al copione e quindi si sentì autorizzato a rispondere:
“S’è truvata a cap’e cazz che s’accattat ‘o giurnale”.
A questo punto si fermò atteggiando il faccione a sorriso, convinto che l’uomo elegante, che non sembrava di Napoli, avrebbe riso anche lui per quella splendida trovata.
Ma non fu così. Quello lo guardò gelido e dopo aggiunse: “Ma questo non è serio, lei, lei è uno scostumato, lei dovrebbe cambiare mestiere! Voglio parlare con il direttore”.
Raffele capì che le cose non erano andate come lui si sarebbe aspettato, si fece cupo e disse:  “Scusate ma a voi chi ve l’ha promessa tutta questa serietà, a noi ci piace stare allegri e non stare seri, se a voi non vi piace… un’altra volta non ci venite!”.
“Questo è troppo io la denuncio!”.
A quel punto Raffele, da serio divenne furibondo e disse con voce chiara, per niente roca:
“A-mi-co! O vuò capì o no che cà amm campà tutti quanti!”.
Nelle sue ultime parole c’era lo stesso furore con cui il cane difende il territorio.
Poi girò le spalle e, lentamente, come si era avvicinato, si allontanò.
Quando si chiuse il sipario nessuno ebbe il coraggio di applaudire.

7 pensieri riguardo “Lo strillone dalla voce roca”

  1. L’ossimoro del titolo è simbolico della debolezza del personaggio che non ha neanche la voce adatta per fare il suo mestiere e che ,secondo me,è costretto a sgomitare per campare, non per arricchirsi.

  2. Per Adriano,
    ti ringrazio per la tua bella e accurata recensione. Il racconto, in calce, recava la scritta che qui non compare:.
    La storiella è di un mio professore d’italiano, salesiano, napoletano, a cui noi studenti del liceo volevamo un gran bene. Lui si limitava alla battuta da avanspettacolo, come però se fosse vera. Il resto l’ho messo io. Gli alessandrini sono autentici.
    Grazie

  3. è un bel racconto molto ben scritto. Non so quanto ci sia di vero e quanto di romanzato (di solito anche nei racconti autobiografici qualche aggiustamento si fa), comunque è uno spaccato tra i tanti di quella Napoli anni ’70.

    Al di là della grande battuta da avanspettacolo, su cui dubito dell’autenticità e propendo per una licenza narrativa di Giancarlo, il punto è questa filosofia racchiusa nel “A-mi-co! O vuò capì o no che cà amm campà tutti quanti!”.

    Campare fottendo gli altri con l’alibi che bisogna campare. E’ un modo di pensare di molti, a prescindere dalle origini geografiche, ma per alcuni è proprio l’essenza stessa del loro “essere di quel luogo”.
    Ognuno campa come vuole e come sa; non credo nel bene e nel male; semplicemente non condivido, o più semplicemente non ne sono capace

    Nota1: Altro esempio della rivoluzione invisibile in atto grazie al web. Gli strilloni sono tornati, siamo tutti noi, strilloni 2.0 che ogni giorno, postiamo, linkiamo e segnaliamo gli articoli sui social network

    Nota2: Alla battuta finale di Raffaele io avrei replicato: “Beh, mica proprio tutti”

    Nota3: Ho visto “La grande fuga” almeno il triplo delle volte che ho visto “Dove osano le aquile”

  4. Era proprio un personaggio fantastico questo strillone!
    Questa storia mi ricorda tanto dei ragazzi napoletani in metropolitana a Milano, lo scorso giugno. Sono saliti a Carioli. Erano allegri, spensierati e la loro voce si sentiva già prima che la carrozza aprisse le porte. Sono saliti e hanno augurato il buongiorno a tutti senza avere nessuna risposta in cambio. I viaggiatori tutti sembravano assorti in chissà quali pensieri, con una faccia seria e per niente propensa a cambiare espressione. Solo io e mia sorella accennammo ad un timido sorriso, per non turbare quell’atmosfera seria. I ragazzi si guardarono e poi esclamarono ” Ma che mortorio! Ma sono tutti tristi i Milanesi! E che c….! Ia scinnnimm e iamm a pere!” Così fecero e nessuno fece caso alla cosa.

  5. Per Felicia
    Guerino era il nome “familiare” del “Guerin sportivo”, il più vecchio giornale di sport.
    Anche Gianni Brera ha scritto sul Guerino.
    Esiste ancora oggi ma mi pare che sia un mensile e si chiama GS.
    Il nome deriva da Guerin Meschino, romanzo cavalleresco di Andrea da Barberino.
    Con questo titolo anche Gesualdo Bufalino ha scritto un romanzo nel 1991.

    1. che testa che ho…. ;)))))))))) e io che credevo che il Guerino in vendita fosse mio padre…..peccato che il rotocalco è nato nel 1912 (mi sono documentata hahaha) e non nel 1955…però potrei pure pensare di rispolverare la mia versione del Guerin sportivo….ci penso e ve lo posto…. ;)))))))))))

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