Canzone dei vecchi mestieri

Il mio @mico Gennaro Cibelli, che ringrazio di cuore, mi ha segnalato questo video via Facebook che condivido molto volentieri con voi. Dite che potrebbe essere l’inizio di un nuovo filone relativo alla pubblicazione di foto, video, musiche realtive ai lavori vecchi e nuovi? Rispondo che l’idea mi piace. Come dice il mio amico Daniele Riva, resto in ascolto.

4 pensieri riguardo “Canzone dei vecchi mestieri”

  1. Laboratorio di maglieria (la foto è del marzo 1967): è quello che avevano i miei nonni e che ora, diviso in due parti, è diventato il mio studio. In questi quarant’anni e più molte cose sono cambiate: le macchine per maglieria, che prima sfruttavano il lavoro dell’operaia, ora sono guidate da computer e molto del lavoro artigianale è scomparso. Ricordo quei macchinari che per mezzo di aghi e telai prendevano il filo dalla rocca e lo trasformavano magicamente in teli. Poi interveniva la magliaia a tagliarli e sagomarli, a cucirvi le maniche e il collo – ognuno di questi passaggi utilizzava una macchina diversa. C’erano poi la macchina stiratrice, che utilizzando il vapore, pressava i capi, poi imbustati nel cellofan con il marchio del maglificio.

  2. ‘O Stagnaro :Lo stagnino, noto nel nostro dialetto come ” ‘o stagnaro “, era un artigiano ambulante capace non solo di fare la stagnatura (ovvero quella particolare operazione mediante la quale la superficie interna dei recipienti di rame, veniva rivestiva di stagno), ma anche di vere e proprie riparazioni, quali: rappezzo di buchi, livellamento delle ammaccature e sostituzione o riattacco dei manici rotti ai contenitori. La figura dello stagnaro era presente un po’ in tutte le regioni d’Italia, ma è ormai un po’ di anni che non se ne vedono in giro. Il mestiere veniva esercitato solamente in alcuni momenti dell’anno, tenuto conto che si svolgeva sulla strada, sulle aie, nei portoni, delle vecchie costruzioni, in prossimità delle abitazioni dei committenti, dei proprietari dei recipienti, ma sempre all’aria aperta per allontanare da sé, il più possibile, le esalazioni del carbone, acceso per fornire la temperatura di fusione dello stagno, e le esalazioni dell’acido muriatico che è l’elemento indispensabile nel processo di stagnatura. La cassetta che portavano a spalla conteneva come minimo il martello per battere le superfici o per ridurre lo spessore delle lastre che portava di scorta, la mazzuola per togliere le ammaccature, le forbici per tagliare la lamiera, una lima in ferro con fori di diverso diametro per il dimensionamento dei chiodi che realizzava al momento, una piccola incudine fissata su un asse di legno che doveva servire di appoggio per renderla stabile, il polso, attrezzo di ferro a forma di fungo che serviva per ribattere, le tenaglie con manici lunghi che gli servivano per mettere o togliere dal fuoco l’oggetto da riparare, il mantice per dare aria e ravvivare il fuoco, lo stagno in bacchette, l’acido muriatico ben chiuso in una bottiglia, ovatta in quantità, tanto ottimismo e tanto buon senso per contrattare il giusto compenso con la clientela che nel tempo poteva diventare una fonte sicura di guadagno e di pubblicità anche presso altri soggetti. Oggi, il più delle volte, questi attrezzi li troviamo bell’esposti in piccoli musei di quei paesi di frontiera con la Francia, con la Svizzera, con l’Austria, che hanno fondato il proprio benessere sulle attività stagionali e ambulanti che vi andavano a praticare.

  3. ‘o Pezzaro: Era un raccoglitore di stracci, di pezze ormai inutilizzabili, di cenci di cucina, di ritagli di stoffe ormai consumate. Passava di tanto in tanto per i quartieri della città, senza scadenze precise. Non era un personaggio improvvisato, il più delle volte aveva alle spalle attività di recupero o era affiliato ad una di esse. Quasi sempre accompagnava alla raccolta degli stracci anche quella del ferro e di altri metalli come il piombo, l’ottone, il rame, ed oggetti fuori uso che rischiavi di ritrovare qualche tempo dopo al mercato delle pulci o, una volta rigenerato, rivenduto come oggetto di modernariato. In cambio, ‘o pezzaro, che non era uno stupido anche se il suo aspetto modesto suggeriva questa impressione, offriva ben poco, dava a chi gli dava i propri residuati qualche piatto, un po’ di bicchieri, degli oggetti sicuramente Utili. Giungeva nel quartiere con un richiamo a voce distesa, particolare, spingendo a mano un carretto carico in parte degli stracci già raccolti ed in piccola parte, ma in bella vista, della mercanzia di scambio che era fondato sul niente per il niente. Sebbene ciò fosse una bella lotta tra ‘o pezzaro e i soggetti che si appropinquavano al carretto con le mani piene, tutte donne, che cercavano di liberare la casa dalle cose inutili che l‘appesantivano e allo stesso tempo di procurarsi un surplus di bicchieri, di piatti, di tazzine da caffè che con i figli piccoli finivano facilmente in frantumi. La filosofia di quei tempi era quella di dare un valore a tutto e un significato alle cose. Oggi, è vero, gli stracci, gli abiti vecchi e quanti altro vengono conferiti ai cassoni delle raccolte per beneficenza, ma è un modo diverso di liberarsi del non necessario o del non più recuperabile che non dà né all’anima né alla memoria sensazioni e ricordi e il senso del bene che procura agli altri.

  4. Cravunaro (Gravunaro) Un vecchio mestiere sempre più inconsueto da vedersi è il “Gravunaro”. La vendita di carboni e carbonelle, veniva fatta da un ambulante solito girare per le case con dei grandi sacchi trasportate a spalla. In seguito, alcuni “gravunari” predilessero una dimora fissa, per cui la vendita di questi carboni (un tempo) indispensabili per alimentare il focolare di casa, avveniva molto più facilmente nelle buie botteghe. Ormai supplito dai moderni fornelli da cucina (alimentati a gas), il ritiro dalla scena del vecchio focolare a carbone, di conseguenza, ha causato anche l’annientamento di quasi tutti i “gravunari”.

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